cacciatori – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Oroo’, il linguaggio della giungla malese https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/ https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/#respond Mon, 06 Jul 2020 00:10:11 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4910 In Malesia vivono i Penan, indigeni nomadi che mantengono parzialmente uno stile di vita a diretto contatto con la foresta che li circonda. Anche se una parte dei Penan si è ormai convertita all’Islam ed è diventata stanziale, rimangono piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori (circa il 20% della popolazione totale) che seguono il principio del “molong“: vivere grazie dalla foresta e prendere dall’ecosistema solo lo stretto necessario.

Una peculiarità dei Penan è il linguaggio che utilizzano per scambiare messaggi all’interno della foresta. Il linguaggio Oroo’ nacque dalla necessità di comunicare con compagni di caccia e clan limitrofi senza essere fisicamente vicini, una sorta di “sms della giungla” usato da secoli e impiegato ancora oggi dai Penan durante le battute di caccia.

Il linguaggio della natura

In molte regioni del mondo le popolazioni che basano la propria sopravvivenza sulla caccia e sulla raccolta comunicano sfruttando gli elementi naturali: nell’arcipelago di Vanuatu, ad esempio, era comune l’impiego di disegni sulla sabbia per raccontare storie e per lasciare messaggi interpretabili da cacciatori e pescatori di passaggio.

I nativi americani usavano invece i noti segnali di fumo per scambiare informazioni su grandi distanze, evitando di affrontare lunghi e pericolosi viaggi al solo scopo di trasmettere un semplice messaggio. Sull’isola di la Gomera, infine, il linguaggio Silbo Gomero sfrutta fischi di diversa intensità e melodia per imitare il suono di quattro vocali e quattro consonanti, creando un vocabolario di combinazioni sonore composto da oltre 4.000 parole.

Lo scopo di questi “linguaggi alternativi” è molteplice: comunicare su lunghe distanza (il Silbo Gomero può essere udito fino a 4 chilometri di distanza), mantenere una lingua comune tra clan che parlano idiomi differenti, e trasmettere messaggi senza perturbare eccessivamente l’ecosistema, una capacità utile specialmente durante le battute di caccia.

Il linguaggio Oroo’ dei Penan è nato per le stesse ragioni; e proprio a causa del suo legame con uno stile di vita basato su caccia e raccolta, oggi rischia di sparire. I giovani Penan sono sempre meno attivi all’interno della foresta rispetto ai loro genitori e progenitori, e sempre meno interessati ad apprendere una lingua dei segni dall’utilità pratica pressoché nulla nel mondo moderno.

Lingua di foglie e rami

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Il linguaggio Oroo’ si basa principalmente sulla realizzazione di piccoli messaggi visivi sfruttando foglie e rami. Gli adulti Penan, specialmente i più anziani, possono creare oltre 30 messaggi differenti piegando, rompendo e strappando foglie e rametti.

I messaggi trasmessi dalla lingua Oroo’ prevedono comunicazioni che notificano lo stato di una battuta di caccia, informazioni e istruzioni utili da lasciare ad altri individui di passaggio, e annunci di pubblica utilità.

Il segno chiamato Murut, ad esempio, contiene l’identità di chi lo ha composto e viene collocato in spazi pubblici come una sorta di annuncio. Ma altri segnali possono comunicare la direzione e la composizione del gruppo di caccia, la preda inseguita o uccisa, i rapporti di parentela tra lo scrittore e il lettore, la presenza di elementi come trappole pericolose o oggetti naturali tabù, oppure per comunicare cerimonie di nozze o funerarie.

Chi studia i Penan riconosce in loro una straordinaria capacità di navigazione nella giungla e di interpretazione dei segnali presenti nell’ecosistema. Alcuni messaggi lasciati durante le escursioni nella foresta possono raggiungere insospettabili livelli di complessità per un metodo di comunicazione così semplice.

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Una particolare configurazione di foglie e rametti può comunicare il seguente messaggio: “Il primo gruppo ha aspettato a lungo il secondo per parlare di una cosa urgente. Quindi il secondo gruppo dovrà ora viaggiare durante la notte per raggiungere il primo“.

Non esiste una grammatica per questo linguaggio. I ricercatori che si dedicano allo studio di questo idioma hanno tuttavia rilevato una sorta di complesso di regole, attualmente incompleto, che gestisce le variazioni di ogni messaggio.

Ad esempio, il segno di base chiamato “Batang Oroo” indica generalmente la direzione di marcia dell’autore, ma può essere combinato con foglie e altri rametti per assumere molteplici significati e creare un messaggio completo. In combinazione con il segno “Pelun” (un mucchietto di foglie) assume in significato di “attendi il nostro arrivo”; unito ad un bastoncino a “V” chiamato Tebai invita a seguire la direzione del rametto; in combinazione con due rametti incrociati a X significa invece “non andate in questa direzione”.

Il solo Batang Oroo, se inciso lungo il fusto in determinate posizioni, può comunicare la quantità di individui del gruppo di caccia, il loro stato di salute (affamati o assetati) o lo scopo e la durata della loro escursione.

Linguaggio incompleto in via di estinzione

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Anche se il linguaggio Oroo’ prevede messaggi come annunci di morte differenziati addirittura per sesso ed età, non contempla tuttavia annunci di nascita ben codificati. Gli anziani Penan sono comunque in grado di comunicare la nascita di un bambino e il suo sesso combinando segni destinati ad altri scopi.

Pur non esistendo un simbolo ben codificato e unanimamente condiviso per questo tipo di comunicazione, i Penan che conoscono l’Oroo’ sembrano interpretare allo stesso modo i messaggi che osservano deducendone il significato in base alla logica dei segni che lo compongono.
Per comunicare la nascita di una bambina, ad esempio, si può utilizzare il segno “Atip lutan“, solitamente associato alla creazione del fuoco, attività riservata alle donne.

I linguisti hanno distinto quattro principali categorie di segni Oroo’:

  • Segni legati ad attività, come attesa, pesca, caccia, incontro;
  • Segni di stato: affamato, assetato, in buona salute, ferito;
  • Oggetti come case, alberi, punti di riferimento;
  • Creature viventi: persona, scimmia, cinghiale, amici.

Come ogni linguaggio, anche l’Oroo’ sopravvive solo se sostenuto dall’uso costante. Gli anziani Penan hanno più volte espresso la loro preoccupazione riguardo lo scarso interesse dimostrato dai giovani nell’apprendimento della lingua della foresta: in molte parti della giungla è oggi possibile comunicare tramite la tecnologia, dalle radio ai telefoni cellulari, tecnologia che rende di fatto inutile la conoscenza dell’ Oroo’.

Penan’s Oroo’ Short Message Signs (PO-SMS): Co-design of a Digital Jungle Sign Language Application

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Yanomami, indigenous in the Amazon jungle https://www.vitantica.net/2019/08/19/yanomami-indigenous-in-the-amazon-jungle/ https://www.vitantica.net/2019/08/19/yanomami-indigenous-in-the-amazon-jungle/#comments Mon, 19 Aug 2019 00:10:15 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4483 Gli Yanomami appartengono ad una tribù indigena (chiamata anche Yanamamo, Yanomam e Sanuma) che vive nella foresta pluviale tropicale del Venezuela meridionale e del Brasile settentrionale. All’interno del gruppo definito Yanomami sono inclusi i Sanema, che vivono nel settore settentrionale, i Ninam, che vivono nel settore sud-orientale, gli Yanomam, che vivono nella parte sud-orientale, e gli Yanomamo, che vivono nella parte sud-occidentale dell’area Yanomami.

Gli Yanomami dipendono completamente dalla foresta pluviale; usano l’orticoltura e lo “slash & burn“, coltivano banane, raccolgono frutta e cacciano animali e pesci. Gli Yanomami non sono sedentari e tendono a spostare spesso il loro accampamento dopo aver sfruttanto intensivamente un’area di foresta pluviale.

Le donne coltivano principalmente piantaggine e manioca negli orti, mentre gli uomini svolgono il pesante lavoro di disboscamento delle aree forestali per far posto alle coture. Un’altra fonte di cibo per gli Yanomami sono le larve: la pratica di abbattere le palme per facilitare la crescita di larve è ciò che più si avvicina al concetto di allevamento per gli Yanomami.

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La dieta tradizionale Yanomami è molto povera di sale; la loro pressione sanguigna è tipicamente tra le più basse di qualunque altro gruppo demografico. Per questo motivo, gli Yanomami sono stati oggetto di studi che cercano di collegare l’ipertensione al consumo di sodio.

Oggi circa il 95% degli Yanomami vive all’interno della foresta amazzonica, rispetto al 5% che vive lungo i principali fiumi.

Rispetto alla “gente della foresta”, la “gente del fiume” è molto più sedentaria e sussiste pescando e commerciando merci con altri villaggi. Le “persone della foresta” sono orticoltori e cacciatori: i loro orti includono patate dolci, banane, canna da zucchero e tabacco.

Tuttavia, come orticoltori, gli Yanomami non ottengono proteine ​​sufficienti dalle loro colture, costringendo gli uomini a dedicarsi ciclicamente a battute di caccia che possono durare fino ad una settimana.

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Video: 10 giorni con gli Hadza https://www.vitantica.net/2019/08/07/video-10-giorni-con-gli-hadza/ https://www.vitantica.net/2019/08/07/video-10-giorni-con-gli-hadza/#respond Wed, 07 Aug 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4471 L’utente YouTube Bush Survival Training ha trascorso 10 giorni in compagnia degli Hadza, un popolo indigeno della Tanzania che conduce uno stile di vita ancora legato alle tradizioni di caccia e raccolta.

Attualmente la popolazione Hadza conta circa 1.300 individui, ma solo 300 conducono ancora un’esistenza da cacciatori-raccoglitori.

Nel video vengono mostrate le attività quotidiane che garantiscono la sopravvivenza degli Hadza: costruzione e posizionamento di trappole per animali, attività di raccolta svolta principalmente dalle donne, battute di caccia, lavorazione delle pelli e creazioni di utensili e armi (come l’arco).

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La capacità di orientamento dei pigmei Mbendjele BaYaka https://www.vitantica.net/2019/07/30/capacita-orientamento-pigmei-mbendjele-bayaka/ https://www.vitantica.net/2019/07/30/capacita-orientamento-pigmei-mbendjele-bayaka/#respond Tue, 30 Jul 2019 13:10:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4452 Come possono i cacciatori-raccoglitori che vivono nelle foreste più dense e impervie trovare la via di casa attraverso una spessa coltre di vegetazione che limita enormemente la visibilità?

Una ricerca condotta al Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig ha mostrato che il popolo Mbendjele BaYaka della Repubblica del Congo è in grado di indicare destinazioni fuori dal loro campo visivo con un livello di precisione straordinario. La capacità d’orientamento inoltre aumenta in base alla visibilità del sole, specialmente tra i bambini.

Orientarsi nella foresta

Il senso dell’orientamento all’interno di una foresta fitta e ricca di pericoli è una’abilità fondamentale per la sopravvivenza di un cacciatore-raccoglitore. I rischi non solo soltanto rappresentati da animali in grado di tendere agguati o presi alla sprovvista: non trovare più il percorso verso il villaggio o l’impossibilità di raggiungere risorse alimentari possono mettere in discussione la sopravvivenza di un’intera comunità.

Ma come è possibile sapere esattamente dove ci si trova all’interno di un ambiente che non offre riferimenti visivo-spaziali certi e in costante mutamento? Per scoprirlo, Haneul Jang e i suoi coleghi del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology hanno studiato il popolo congolese dei Mbendjele BaYaka.

Gli antropologi hanno condotto più di 600 test di orientamento con 54 individui Mbendjele BaYaka, sia uomini che donne, di età compresa tra i 6 e i 76 anni, scoprendo che sono dotati di uno straordinario senso della direzione e sono in grado di indicare la posizione di un obiettivo distante senza alcun riferimento spaziale certo.

I Mbendjele BaYaka

Il popolo Mbendjele BaYaka (chiamato anche Aka o Bayaka) è costituito da pigmei nomadi Mbenga che occupano 11 zone ecologiche del bacino del fiume Congo. Gli Aka sono tradizionalmente cacciatori-raccoglitori e basano la loro dieta su ben 63 piante diverse, 28 specie di selvaggina, 20 specie di insetti e una vasta gamma di noci, frutti, funghi e radici.

Solo di recente i Mbendjele BaYaka hanno iniziato a dedicarsi a piccole attività agricole stagionali. Per tutta la loro esistenza hanno condotto uno stile di vita nomade e basato sullo scambio: dai Ngandu, ad esempio, ottengono cetrioli, zucche, gombo, papaya, mango, ananas e riso in cambio di selvaggina e miele.

Gli Aka vivono in una società in cui la distinzione di ruoli tra uomini e donne è quasi nulla: i padri Mbendjele BaYaka spendono più tempo con i loro figli rispetto ai padri di qualunque altra cultura tradizionale conosciuta. Gli uomini aiutano le donne nelle loro attività quotidiane, compresa la cura dei figli, grazie anche allo stretto legame che si forma tra moglie e marito; dal canto loro, le donne partecipano alle attività di caccia senza alcun limite.

Un giovane Mbendjele punta ad  una risorsa alimentare durante il test condotto da Haneul Jang per verificare l'accuratezza del suo senso dell'orientamento nella foresta.
Un giovane Mbendjele punta ad una risorsa alimentare durante il test condotto da Haneul Jang per verificare l’accuratezza del suo senso dell’orientamento nella foresta.

“L’uguaglianza di genere tra i Mbendjele BaYaka può portare ad attività di raccolta su lunga distanza da parte delle donne, come per la caccia e la pesca che praticano gli uomini. Questo può consentrie alle donne e agli uomini di sviluppare abilità d’orientamento simili” spiega Haneul Jang.

Donne e uomini si sono infatti dimostrati capaci in egual misura di orientarsi nella foresta più fitta e di indicare la direzione di oltre 60 obiettivi distanti fuori dal loro campo visivo.

“I nostri risultati sono consistenti con gli studi precedenti che hanno scoperto che non ci sono differenze di sesso nelle capacità d’orientamenti delle società cacciatrici-raccoglitrici in cui entrambi i sessi viaggiano attivamente lontano da casa”.

“In contrasto con gli uomini e le donne della nostra società” aggiunge Karline Janmaat, che ha supervisionato la ricerca, “in cui le donne hanno ancora più probabilità di lavorare a casa o vicino a casa rispetto agli uomini, abbiamo osservato che sia gli uomini che le donne Mbendjele BaYaka viaggiano lontano da casa, e non soprende il fatto che siano ugualmente bravi nelle attività di orientamento”.

Abilità appresa fin da piccoli

Gli antropologi hanno scoperto che i bambini Aka sono in grado di orientarsi nella foresta fin dall’età di 6 anni, e con un’accuratezza del tutto paragonabile a quella degli adulti. Quando il sole era alto e ben visibile tra gli alberi, inoltre, l’accuratezza dei bambini è cresciuta sensibilmente, specialmente nei test condotti in aree distanti o a loro poco familiari.

“Diversamente dagli adulti, che hanno un ottimo senso della direzione in aree distanti anche se non possono vedere la posizione del sole, i bambini compiono errori di orientamento grossolani in aree poco conosciute in cui non possono vedere il sole. Comunque, se riescono a vederlo, la loro precisione aumenta considerevolmente” afferma Jang.

“I Mbendjele BaYaka vivono in una foresta pluviale di pianura, in cui orientarsi è difficile per via della fitta vegetazione e dell’assenza di punti di riferimento distanti, come le vette delle montagne. I popoli che vivono in questo tipo di ambiente potrebbero avere la necessità di imparare fin da piccoli come usare la posizione del sole per stabilire una direzione”.

Quando il sole non è visibile

Le culture cacciatrici-raccoglitrici hanno più volte dimostrato di essere in grado di orientarsi in modo efficace e istintivo, che si tratti di popoli delle savane o delle foreste pluviali. Il sole non è l’unico punto di riferimento: nelle regioni tropicali, durante la stagione delle piogge, la nostra stella risulta spesso non visibile sulla volta celeste, vanificando ogni tentativo di trovare la giusta direzione basandosi sul sole.

I cacciatori-raccoglitori, oltre ad una memoria spaziale a volte più addestrata della nostra e più capace di comporre mappe mentali dell’ecosistema, sono abilissimi nell’individuare e interpretare gli indizi del territorio, dall’aspetto delle piante alle tracce animali, da piccole alterazioni del terreno alle ombre proiettate dalla flora.

Le più recenti ricerche sull’intelligenza spaziale umana (come la teoria di Silverman e Eals del 1992) supportano l’ipotesi che la capacità di navigare un ecosistema sia legata a diversi meccanismi specializzati connessi al significato e alla rilevanza di alcuni elementi dell’ambiente naturale.

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Ad esempio, nella maggior parte dei casi le donne appartenenti a società cacciatrici-raccoglitrici si rivelano particolarmente abili nel localizzare risorse alimentari vegetali in relazione ad altri punti di riferimento: ricordano molto bene la presenza di piante commestibili nell’area che circonda il loro insediamento, un’abilità che si può rivelare molto utile per orientarsi nella foresta.

La navigazione nello spazio avviene secondo due strategie differenti. Nelle strategie egocentriche, si tende a memorizzare la disposizione spaziale dell’ambiente in base alla posizione dell’osservatore, ricordando in seguito la sequenza di punti di riferimenti. Sono tecniche di orientamento spaziale che si basano su punti di riferimento locali (come risorse alimentari) e sulla direzione intrapresa per navigare all’interno di un ambiente familiare. Un esempio di strategia egocentrica è la navigazione che utilizza una sequenza di movimenti come “avanti 10 passi, gira a destra, avanti 5 passi, gira a sinistra”.

La strategia allocentrica, invece, è più adatta alla navigazione in vaste aree o in regioni poco conosciute, pur essendo efficace anche nella navigazione locale: si basa principalmente su una mappa mentale dello spazio creata a partire da punti di riferimento ben visibili e riconoscibili, indipendentemente dal fatto che costituiscano o meno una risorsa utile. Un esempio di navigazione allocentrica è l’utilizzo dei punti cardinali per creare una mappa spaziale in grado di determinare la direzione da seguire per raggiungere la destinazione designata.

Sun, age and test location affect spatial orientation in human foragers in rainforests
Navigation skills develop early on among rainforest hunter-gatherers
Cognitive adaptations for gathering-related navigation in humans
Memory for Body Movements in Namibian Hunter-Gatherer Children

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Cause di morte più comuni tra cacciatori-raccoglitori https://www.vitantica.net/2019/06/05/cause-di-morte-comuni-cacciatori-raccoglitori/ https://www.vitantica.net/2019/06/05/cause-di-morte-comuni-cacciatori-raccoglitori/#comments Wed, 05 Jun 2019 00:03:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4241 Tra i popoli tribali che conducono un’esistenza primitiva o semi-primitiva, uccide di più il leone o la malattia? Causa statisticamente più morti il morso di un serpente o l’attacco di un coccodrillo, oppure a rivelarsi fatali sono più spesso le attività quotidiane necessarie a procurare cibo per la comunità, gli agenti atmosferici o la violenza tra uomini?

E’ difficile determinare con precisione le cause di morte più comuni tre le comunità tribali moderne, ancora più difficile è determinarle per gli antichi cacciatori-raccoglitori.

Sappiamo, ad esempio, che i primi contatti tra una cultura primitiva o semi-primitiva e il mondo industrializzato, o più genericamente con una popolazione “aliena”, provoca quasi sempre la diffusione di malattie che tendono a decimare chi ha vissuto in isolamento per secoli o millenni.

Ciò che si è verificato nelle Americhe e nel Pacifico, nel presente e nel passato, è una palese dimostrazione dei rischi a cui va incontro un popolo tribale quando viene avvicinato per la prima volta dalla civiltà moderna.

Escludendo dalle cause di morte le malattie contratte dai primi contatti con il mondo industrializzato, quali sono le “normali” fonti di mortalità di un popolo tribale che segue uno stile di vita tradizionale?

Non esiste una statistica capillare sui popoli tribali primitivi o semi-primitivi moderni, ma solo dati relativi ad un ristrettissimo numero di comunità, informazioni raccolte grazie alla fatica di alcuni antropologi che hanno dedicato anni del loro lavoro allo studio approfondito dello stile di vita di queste culture.

Le statistiche più corpose riguardano principalmente quattro popoli: gli Aché del Paraguay, i !Kung del Kalahari, i Fayu di Papua e i Kaulong della Nuova Britannia. Per fare un confronto con i dati relativi alle cause di morte del mondo industrializzato, porterò come pietra di paragone ciò che sappiamo sulla mortalità negli Stati Uniti secondo il Center for Disease Control.

Cause di morte più comuni negli Stati Uniti (dati del CDC Report 2017)
  • Problemi cardiovascolari (23%)
  • Cancro (21%)
  • Incidenti (5,9%), che comprendono cadute accidentali, incidenti stradali e avvelenamenti accidentali
  • Problemi respiratori cronici (5,6%)
  • Infarto (5,18%)
  • Alzheimer (4,23%)
  • Diabete (2,9%)
  • Influenza e polmonite (1,88%)
  • Malattie renali (1,8%)
  • Suicidio (1,64%)
  • Setticemia (1,42%)
Aché del Paraguay

Aché del Paraguay

Tra gli Aché del Paraguay un’importante causa di morte è il morso di serpenti velenosi: rettili dal morso avvelenato causano circa il 14% delle morti legate ad incidenti tra uomini adulti, contro l’8% delle morti provocate dall’attacco di un giaguaro.

Il Paraguay ospita decine di specie di serpenti velenosi, tra le quali c’è il serpente corallo e svariate specie di crotalidi come il “testa di lancia”.

Un’altra importante causa di morte da incidente sono proprio i giaguari, insieme ai fulmini e alla perdita dell’orientamento nella foresta, condizioni che portano nella maggior parte dei casi all’ipotermia. Per quanto siano abili nella sopravvivenza all’interno del loro territorio tradizionale, anche per gli Aché è difficile accendere un fuoco in un ambiente umido come la foresta tropicale.

Altri elementi da non sottovalutare sono il crollo di alberi morti (motivo per cui gli Aché esaminano sempre gli alberi circostanti prima di accamparsi), cadute da alberi da frutto e infezioni causate da graffi e punture di insetti.

Le ferite d’ascia costituiscono un’altra importante causa di morte: gli scontri tribali non sono rari e l’arma principale d’offesa è l’ascia. Secondo le statistiche di Hill e Hurtado del 1996, prima del XX secolo il 55% delle morti tra gli Aché erano causate da omicidi.

Anche quando le armi non causavano direttamente il decesso, potevano provocare ferite in grado di infettarsi facilmente nel clima tropicale, o traumi interni difficilmente trattabili lontano da un ospedale.

!Kung del Kalahari

!Kung del Kalahari

Una delle maggiori cause di morte violenta tra !Kung sudafricani sono le frecce avvelenate scagliate da tribù rivali a seguito di sconfinamenti in territori di caccia limitrofi, una delle ragioni principali delle dispute territoriali.

Spesso tuttavia le frecce avvelenate sono le principali responsabili di morte per chi le fabbrica: il veleno utilizzato dai !Kung non ammette errori e una piccola ferita aperta a contatto con la tossina può causare il decesso in brevissimo tempo.

Una posizione rilevante tra le morti causate da incidenti è ricoperta da incendi, cadute dagli alberi e infezioni causate dal morso di grandi e piccoli animali. I !Kung non devono soltanto difendersi da grossi predatori come leoni, leopardi e iene (che, di fatto, causano “solo” 5 morti su mille), ma anche da grandi erbivori come elefanti, bufali e animali da preda più piccoli, per non contare gli insetti.

Come per altri popoli di cacciatori-raccoglitori, anche la perdita dell’orientamento, i fulmini e l’assideramento costituiscono rischi sempre in agguato. Per quanto sopravvivano in un territorio caldo (durante l’estate nel Kalahari si toccano facilmente i 40°C), il rischio di ipotermia è sempre dietro l’angolo anche nei luoghi che registrano le temperature diurne più elevate.

Fayu di Papua

Fayu di Papua

I Fayu vivono nelle pianure della provincia indonesiana di Papua e annoverano tra le principali cause di morte incendi e annegamento. L’isola di Nuova Guinea è percorsa da torrenti che, durante le abbondanti piogge stagionali, possono trasformarsi in pochissimo tempo in fiumi in piena dalla violenza straordinaria.

Vivendo nella foresta, anche i Fayu temono la caduta di alberi morti, un pericolo mai da sottovalutare in zone densamente boschive. Anche tra di loro, come in altre culture del mondo, insetti e parassiti causano numerosi decessi, senza contare serpenti, ragni e scorpioni.

I Fayu temono anche i coccodrilli, particolarmente aggressivi in Nuova Guinea, sia d’acqua dolce che marini, e l’attacco dei maiali selvatici, temibili se messi alle strette durante le battute di caccia (il maiale è una sorta di moneta per molto popoli guineani).

Le morti violente causate da scontri tribali ricoprono un ruolo importante: tra il 10% e il 20% dei decessi violenti è legato a faide e guerre tra clan.

Kaulong della Nuova Britannia

Kaulong della Nuova Britannia

Un’importante causa di morte per i Kaulong è la caduta di alberi morti, giusto a sottolineare quanto questo rischio venga spesso sottovalutato da noi occidentali ma costituisca un pericolo reale per chiunque viva nella foresta.

Cadute da alberi da frutto e annegamento sono letali quanto le ferite da ascia e coltello causate da scontri frequenti con tribù locali legati da dispute per il territorio o faide che possono durare intere generazioni.

Tra i Kaulong troviamo come rilevante causa di morte anche il cedimento di caverne sotterranee. Il sottosuolo della Nuova Britannia è percorso da innumerevoli gallerie e caverne laviche che possono cedere facilmente sotto il peso di un solo uomo, provocando cadute fatali o ferite debilitanti che hanno ripercussioni serie sulla vita futura del malcapitato.

Causes of Death: Hunter Gatherer versus Agrarian Societies
Dati relativi ai 4 popoli tribali citati: Il mondo fino a ieri, di Jared Diamond
CDC: Leading Causes of Death 2017

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Cacciatori-raccoglitori, agricoltura e tempo libero https://www.vitantica.net/2019/06/03/cacciatori-raccoglitori-agricoltura-tempo-libero/ https://www.vitantica.net/2019/06/03/cacciatori-raccoglitori-agricoltura-tempo-libero/#comments Mon, 03 Jun 2019 00:10:55 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4284 Una popolazione delle Filippine, gli Agta, si trova in una fase di transizione tra lo stile di vita da cacciatori-raccoglitori e uno prevalentemente incentrato sull’agricoltura. L’analisi delle loro attività quotidiane e della suddivisione del tempo nell’arco della giornata sembra dimostrare che uno stile di vita basato sulla caccia e sulla raccolta consenta di avere più tempo libero rispetto ad uno basato sulle attività agricole.

Gli Agta

Gli antropologi dell’ Università di Cambridge hanno trascorso due anni immersi nella cultura Agta (o Aeta), una popolazione filippina originariamente cacciatrice-raccoglitrice che sta lentamente modificando il suo stile di vita includendo attività agricole, come la coltivazione del riso.

Gli Agta vivono sulle regioni montuose di Luzon e la loro origine è ancora un mistero per gli antropologi: una delle ipotesi prevalenti suggerisce che rappresentino gli abitanti originali delle Filippine, giunti sulle isole attraverso corridoi di terre emerse che le collegavano alla terraferma asiatica.

Gli Aeta sono tradizionalmente nomadi e costruiscono rifugi temporanei di bambù e foglie di banano; quelli che hanno effettuato una parziale transizione verso uno stile di vita più moderno continuano a vivere in case di legno e bambù, ma hanno rinunciato al nomadismo.

Chi invece ha mantenuto lo stile di vita tradizionale è oggi costretto a spostarsi più di frequente rispetto al passato, a causa della scarsa protezione governativa e dell’attività mineraria e agricola che causano deforestazione e contaminazione delle acque.

Circa l’85% delle donne Aeta si dedica alla caccia, un’attività spesso condotta in gruppo e con l’utilizzo di cani. Le donne cacciatrici sembrano avere una percentuale di successo quasi doppia rispetto agli uomini, 31% contro 17%; le probabilità di successo aumentano ulteriormente quando combinano le forze con i maschi adulti della loro comunità (41%).

Tempo libero e lavoro
Terrazzamenti Agta
Terrazzamenti Agta

Un gruppo di antropologi britannici ha analizzato la suddivisione del tempo di 359 individui Agta, includendo nel gruppo sia quelli che vivono seguendo lo stile di vita tradizionale sia coloro che praticano la coltivazione del riso.

Il risultato dell’analisi sembra mettere in evidenza che gli Agta coinvolti nelle attività agricole lavorino più a lungo dei cacciatori-raccoglitori, e dispongano di meno tempo libero.

In media, gli Agta agricoltori lavorano nei campi circa 30 ore ogni settimana, mentre i cacciatori-raccoglitori dedicano poco più di 20 ore a caccia, pesca e raccolta. Questa differenza è principalmente legata all’attività delle donne, che spendono sempre più tempo nei campi a discapito delle attività domestiche.

“Per molto tempo la transizione dalla raccolta all’agricoltura ha rappresentato il progresso perché consentiva di fuggire da uno stile di vita duro e precario” sostiene Mark Dyble, uno degli autori della ricerca pubblicata su Nature Human Behaviour.

“Ma non appena gli antropologi hanno iniziato a lavorare con i cacciatori-raccoglitori, hanno iniziato a mettere in discussione questa versione, scoprendo che i raccoglitori godono di molto tempo libero. I nostri dati forniscono un sostegno chiarissimo a questa idea”.

La suddivisione del tempo negli Agta raccoglitori è differente in base ad età e sesso: gli adulti intorno ai 30 anni dispongono di meno tempo libero, e le donne tendono a trascorrere meno tempo fuori dall’accampamento, impiegando la maggior parte della giornata in attività domestiche e nella cura dei bambini.

“Schiave” dell’agricoltura

L’attività agricola sembra avere ripercussioni più rilevanti sulla vita quotidiana delle donne rispetto a quella degli uomini: le donne che vivono nelle comunità di agricoltori trascorrono più tempo all’esterno dell’accampamento per svolgere lavori nei campi e dispongono di meno tempo libero (circa la metà di quello disponibile in uno stile di vita basato su caccia e raccolta).

“Dobbiamo essere molto cauti nell’estrapolare dati dai cacciatori-raccoglitori contemporanei applicandoli alle società preistoriche” spiega Abigail Page, antropologa della London School of Hygiene and Tropical Medicine e co-autrice della ricerca. “Ma se davvero i primi agricoltori lavoravano più duramente dei raccoglitori, questo solleva una questione importante: perché gli esseri umani hanno adottato l’agricoltura?”.

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Studi precedenti a questo, incluso uno incentrato sugli Agta, hanno messo in relazione l’adozione dell’agricoltura con un aumento della fertilità, con la crescita della popolazione e con un incremento della produttività e della stratificazione sociale.

“La quantità di tempo libero di cui godono gli Agta è un testamento all’efficacia dello stile di vita da cacciatore-raccoglitore” sostiene Page. “Il tempo libero aiuta anche a spiegare come queste comunità riescano a condividere così tante abilità e conoscenze nel corso della loro vita e alle generazioni future”.

Engagement in agricultural work is associated with reduced leisure time among Agta hunter-gatherers
Aeta people

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Il paradosso alimentare degli Inuit https://www.vitantica.net/2019/05/24/paradosso-alimentare-inuit/ https://www.vitantica.net/2019/05/24/paradosso-alimentare-inuit/#respond Fri, 24 May 2019 06:39:57 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4190 L’alimentazione tradizionale dei popoli eschimesi potrebbe sembrare, secondo gli standard moderni, del tutto sbilanciata: si basa principalmente su carne e grassi animali, con l’aggiunta sporadica di bacche, alghe e dei pochi tuberi in grado di crescere nella tundra durante la stagione più calda.

Circa il 50% delle calorie ingerite dagli Inuit proviene da grassi, il 30-35% da proteine di origine animale e il restante 15-20% da carboidrati; nonostante questo forte disequilibrio di nutrienti fondamentali, gli Inuit sono stati considerati in passato uno dei popoli più in salute del pianeta.

E’ possibile vivere senza conseguenze seguendo una dieta di questo tipo? E’ vero che gli Inuit mantengono una salute di ferro seguendo uno stile alimentare del tutto sconsigliato in tempi moderni, ciò che viene definito “il paradosso alimentare Inuit”?

La dieta degli Yup’ik

Il popolo Yup’ik, insieme agli Inupiat (o Inuit), costituisce uno dei due principali gruppi etnici eschimesi. Il loro stile alimentare, sostanzialmente identico a quello Inuit, è uno dei più antichi al mondo e ha radici che affondano nei primi spostamenti degli eschimesi dalla Siberia al Nord America, avvenuti tra 50.000 e 15.000 anni fa.

La cucina Yup’ik si basa principalmente su proteine e grassi animali. In base alla stagione, gli Inuit e gli Yup’ik cacciano principalmente foche, trichechi, mammiferi marini, orsi bruni, alci e renne, arricchendo la loro dieta con grandi quantità di pesce, crostacei, molluschi e uccelli marini.

Gli Yup’ik pescano almeno 6 specie di salmone, un pesce alla base della loro dieta, e cacciano cinque specie differenti di foche, che forniscono non solo cibo ma anche materiale per utensili, pelle per i vestiti tradizionali e olio. Ogni animale terrestre è considerato una potenziale fonte di cibo o di pelle, compresi i porcospini nordamericani, gli scoiattoli, le marmotte e le lontre.

I vegetali, in rapporto a proteine e grassi animali, costituiscono una piccola parte dell’alimentazione eschimese. La tundra non consente la crescita di piante da frutto, costringendo i popoli locali a nutrirsi di radici, bacche o licheni come il Cladonia rangiferina, di cui le renne vanno particolarmente ghiotte.

Inuit durante la caccia alla foca in Alaska (1903-1915). Photographer: Lomen Brothers, Nome, Alaska
Inuit durante la caccia alla foca in Alaska (1903-1915). Photographer: Lomen Brothers, Nome, Alaska

Un alimento molto pregiato per gli Yup’ik è quello che viene definito “anlleq” (“cibo dei topi”), una collezione di radici immagazzinate dalle arvicole prima dell’inverno nei loro rifugi sotterranei.

Gli anziani Inuit e Yup’ik insegnano ai loro giovani come raccogliere queste radici, lasciando sempre sul posto metà del deposito a disposizione del roditore per garantire la sua sopravvivenza.

Nutrienti essenziali, non cibi essenziali

Per comprendere meglio come possano gli eschimesi mantenere questo regime alimentare fortemente sbilanciato a favore di grassi e proteine, e apparentemente privo di carboidrati, vitamine e fibre, occorre analizzare con attenzione il cibo che introducono quotidianamente nel loro organismo.

Occorre innanzitutto effettuare una distinzione tra “cibi essenziali” e “nutrienti essenziali”. Siamo stati abituati a pensare che cereali, verdura e frutta debbano costituire la base di una dieta equilibrata e sana, ma la realtà è più complessa di questa banale generalizzazione.

Non è la natura del cibo (animale o vegetale) che fa la differenza, ma il suo contenuto di nutrienti essenziali. La vitamina C, ad esempio, indispensabile per evitare lo scorbuto, non è prerogativa di frutta acida come limoni e arance, ma è presente anche negli organi interni di alcuni animali, e in quantità sorprendenti.

La quantità di carboidrati presente nella dieta Inuit, invece, è solo in parte ottenuta da alghe, bacche e tuberi: una buona porzione di questi carboidrati si genera durante la fermentazione di proteine animali, o si può ottenere dalla carne cruda dei mammiferi marini.

Il problema della vitamina C

La vitamina C (acido ascorbico) è essenziale per evitare lo scorbuto, una malattia citata fin dal 1.500 a.C. e che causa la compromissione di tessuto connettivo e osseo.

L’essere umano, contrariamente ad altri animali che sintetizzano l’acido ascorbico attraverso il fegato, dipende da sorgenti esterne per rifornirsi di vitamina C: limoni, arance e verdura contribuiscono a mantenere livelli ottimali di vitamine nel nostro organismo.

Per combattere lo scorbuto a bordo delle navi, fin dal XVI secolo si iniziò a trasportare alimenti contenenti vitamina C, come il tè al cedro; ma questa vitamina tende ad ossidarsi col passare del tempo e a degradarsi totalmente con la cottura, aspetti che resero difficile contrastare lo scorbuto fino a tempi relativamente recenti.

Ma come è possibile ottenere questa vitamina in un clima rigido come quello in cui vivono gli Inuit, senza disponibilità di frutta acida e di verdura? Per evitare lo scorbuto occorre una dose giornaliera di circa 30 milligrammi di vitamina C, e la dieta eschimese fornisce una quantità più che sufficiente di vitamina.

Gli organi interni di foche e altri mammiferi marini o terrestri, se consumati crudi, hanno un elevato contenuto di vitamina C: il fegato di renna contiene circa 24 milligrammi di acido ascorbico ogni 100 grammi, mentre il cervello di foca quasi 15 milligrammi.

Muktuk
Muktuk

Il muktuk, un alimento tradizionale costituito da pelle e grasso di balena consumato tradizionalmente crudo, contiene fino a 38 milligrammi di vitamina C ogni 100 grammi, un contenuto quasi equivalente a quello di un’ arancia.

Pochi carboidrati, molti grassi e proteine

La dieta tradizionale Inuit e Yup’ik prevede pochi carboidrati e una quantità enorme di grassi e proteine; apparentemente, questo squilibrio sembra non scatenare particolari effetti nocivi sull’organismo umano.

Il grande quantitativo di grassi è giustificabile da due ragioni: i grassi sono nutrienti altamente energetici e contribuiscono a fornire preziose kilocalorie per lavorare e sopravvivere in un ambiente ostile come la tundra e l’Artico; in secondo luogo, i grassi servono ad evitare di incorrere nella “malattia del caribù” (spiegata in questo post) in una dieta povera di carboidrati e ricca di proteine.

La differenza sostanziale con alcune diete moderne a base di grassi e proteine risiede tuttavia nella qualità dei nutrienti assunti: non tutti i grassi sono uguali, in particolar modo quelli provenienti da animali d’allevamento e quelli estratti da animali selvatici.

I depositi adiposi degli animali d’allevamento generalmente sono ricchi di grassi saturi, notoriamente non proprio salutari. Gli animali che vivono allo stato brado, invece, hanno meno grassi saturi e quantità superiori di grassi monoinsaturi; in aggiunta, pesci e mammiferi marini contengono grassi acidi omega-3, che contribuiscono a mantenere sano il sistema cardiovascolare.

Il muktuk, ad esempio, oltre a vitamina C e D ha una parte grassa composta al 30% da omega-3, costituendo uno degli alimenti grassi di origine animale meno dannosi dell’intero regno animale.

Gli omega-3, oltre ad apportare qualche piccolo beneficio al sistema cardiovascolare (benefici messi in discussione da ricerche recenti), fungono anche da “aspirina naturale” alleviando alcuni processi infiammatori; non sono tuttavia salutari se assunti in dosi massicce, come ogni altro nutriente.

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Regime alimentare miracoloso?

Anche se è vero che gli eschimesi sono in grado di contrastare lo scorbuto, l’inedia da coniglio e alcuni disturbi (come il diabete) tipici delle civiltà industrializzate attraverso la loro dieta, non è tutto oro quello che luccica.

Negli ultimi 30 anni sono state effettuate ricerche che hanno messo in evidenza come la dieta degli Inuit e degli Yup’ik non sia particolarmente sana, e che il loro stile di vita alimentare non abbia nulla di miracoloso.

Il mito del “paradosso Inuit” ebbe inizio negli anni ’70 del 1900 con il viaggio in Groenlandia di due medici danesi, Hans Olaf Bang e Jorn Dyerberg. Analizzando il numero di ricoveri in ospedale e la mortalità registrata nelle strutture sanitarie groenlandesi, dedussero (erroneamente) che gli eschimesi fossero in ottima salute pur mantenendo una dieta a base di grassi e proteine.

Gli Inuit e gli Yup’ik, contrariamente a quanto sostenuto in passato, soffrono di arteriosclerosi quanto le popolazioni non eschimesi. Fanno registrare inoltre una mortalità superiore per infarto e un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore rispetto ai nordamericani non eschimesi.

L’assenza di fonti di calcio nella dieta tende a causare, negli individui di età superiore ai 40 anni, una demineralizzazione delle ossa: si parla di una densità ossea per nulla trascurabile, inferiore del 10-15% rispetto a individui non eschimesi.

Il consumo di carne cruda è invece la ragione alla base di una diffusa parassitosi da Trichinella spiralis, un parassita rilevato nell’intestino del 12% degli anziani Inuit e presente nella carne cruda di foca, tricheco e orso.

Il consumo di enormi quantità di proteine animali, infine, ha un peso sulle funzioni di fegato e reni, organi che devono lavorare in continuazione per espellere le scorie. Inuit e Yup’ik hanno generalmente un fegato più voluminoso di individui non eschimesi per poter processare una quantità in eccesso di proteine animali.

Extreme Nutrition: The Diet of Eskimos*
“The Eskimo Myth”
New Study Explodes the ‘Eskimo Myth
The Inuit Paradox

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Amazzonia abitata durante l’Olocene https://www.vitantica.net/2019/05/03/amazzonia-abitata-durante-olocene/ https://www.vitantica.net/2019/05/03/amazzonia-abitata-durante-olocene/#respond Fri, 03 May 2019 00:10:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4172 L’immagine dell’Amazzonia come luogo incontaminato sta pian piano lasciando il posto all’idea che l’essere umano abbia radicalmente modificato l’ecosistema pluviale sudamericano per millenni (leggi questo post per saperne di più).

In una recente ricerca della Penn State University, si ipotizza che i primi insediamenti a Llanos de Moxos, nel bel mezzo dell’ Amazzonia boliviana, non risalgano a 2.500 anni fa, ma siano databili ad un periodo compreso tra 10.000 e 4.000 anni fa.

Popoli amazzonici dell’ Olocene

“Da molto tempo sapevamo che le società complesse di Llanos de Moxos nell’Amazzonia sud-occidentale, in Bolivia, emersero circa 2.500 anni fa, ma nuove prove suggeriscono che l’essere umano si sia insediato nella regione 10.000 anni fa, durante il primo periodo dell’Olocene” sostiene Jose Capriles, assistente professore di antropologia.

“Questi gruppi” continua Capriles, “erano cacciatori-raccoglitori; tuttavia, i nostri dati mostrano che iniziarono ad esaurire le loro risorse locale e a stabilire comportamenti territoriali, che forse li condussero a domesticare alcune piante come le patate dolci, la cassava, le arachidi e i peperoncini, come metodo per ottenere cibo”.

Il team di Capriles ha condotto scavi archeologici e analisi dei reperti su tre “isole stagionali”: Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo. Queste isole si trovano nella savana di Llanos de Moxos, un territorio che periodicamente, seguendo il ritmo stagionale, viene invaso dalle acque.

Llanos de Moxos, conosciuta anche come “savana di Beni”, è un’area di 126.000 chilometri quadrati che si estende principalmente sul territorio boliviano, sconfinando in Brasile e Perù.

La regione occupa l’angolo sud-occidentale del bacino del Rio delle Amazzoni ed è attraversata da numerosi corsi fluviali che, ogni anno, inondano la pianura sommergendone circa la metà.

Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo
Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo

“Queste isole si ergono sopra la savana che le circonda, per cui non vengono sommerse durante la stagione delle piogge. Crediamo che i popoli locali utilizzassero questi siti di continuo come accampamenti stagionali, in particolare durante le lunghe stagioni umide, quando la maggior parte di Llanos de Moxos viene inondata”.

Transizione da nomadismo a sedentarietà?

E’ ormai assodato che Llanos de Moxos era abitata da popolazioni stanziali almeno 2 millenni prima dell’arrivo degli Europei: i canali, i tumuli e le vie di comunicazione che sono state scoperte fino ad oggi risalgono ad un periodo compreso tra il 1100 a.C. e il 1450 d.C..

Ma nonostante i sospetti sulla presenza di insediamenti ancora più antichi, fino ad ora non esisteva alcuna prova della presenza umana nella regione oltre i 2.000 anni prima di Cristo.

Durante i recenti scavi, gli archeologi hanno scoperto resti umani sepolti intenzionalmente secondo una procedura differente da quella dei cacciatori-raccoglitori ma più simile a quella delle società complesse e stanziali, caratterizzate da una gerarchia politica e dalla produzione di cibo.

“Se si tratta di cacciatori-raccoglitori che si spostavano di frequente, è insolito che seppellissero i loro morti in località specifiche; di solito lasciano le salme vicino al luogo del decesso”. Secondo Capriles, è raro trovare nella regione esseri umani o resti archeologici risalenti a periodi che precedono la lavorazione della terracotta.

“Il terreno tende ad essere molto acido, cosa che spesso rende difficile la conservazione di resti organici. Inoltre, la materia organica si deteriora velocemente in ambienti tropicali e questa regione manca totalmente di ogni tipo di roccia utile a realizzare strumenti di pietra, quindi non abbiamo utensili litici disponibili per le analisi”.

Le modifiche all'ambiente apportate dai primi abitanti di Llanos de Moxos
Le modifiche all’ambiente apportate dai primi abitanti di Llanos de Moxos

Caprile sottolinea il fatto che le ossa umane presenti su queste isole si sono conservate, nonostante le condizioni avverse, grazie alla presenza sul posto di latrine e rifiuti umani contenenti abbondanti frammenti di conchiglie, gusci di lumache, ossa animali e altra materia organica. “Nel corso del tempo, l’acqua ha dissolto il carbonato di calcio delle conchiglie, e i carbonati sono precipitati sulle ossa, fossilizzandole”.

I primi dominatori del fuoco

Non è stato possibile utilizzare la datazione al  carbonio-14 per stimare l’età dei resti umani perché le ossa erano fossilizzate, tecnicamente trasformate in pietra; la datazione al radiocarbonio è stata invece effettuata sui resti di carbone e sui gusci di lumaca, ottenendo una stima sull’arco temporale in cui questi siti furono occupati da esseri umani.

“I resti abbondanti di terra e legno bruciati suggeriscono che questi popoli usassero il fuoco, probabilmente per ripulire il terreno, cucinare e tenersi al caldo durante i giorni di pioggia” sostiene Capriles.

Umberto Lombardo, ricercatore dell’ Università di Berna e uno tra i primi archeologi ad analizzare i siti di Llanos de Moxos, spiega che quando i ricercatori scoprirono questi siti archeologici nel 2013 furono in grado di trarre conclusioni basandosi soltanto su prove indirette, specialmente le analisi geochimiche.

“Data l’assenza di prove dirette, molti archeologi erano scettici nell’accettare le nostre scoperte” spiega Lombardo. “Non erano del tutto convinti che queste isole fossero siti archeologici dell’ Olocene. Questo studio fornisce prove valide e definitive dell’origine antropogenica di questi siti, perché gli scavi hanno rivelato sepolture umane del primo Olocene”.

Rimane tuttavia un buco temporale tra i popoli scoperti dal team di Capriles, vissuti tra i 10.000 e i 4.000 anni fa, e l’emergere di società complesse nella regione boliviana circa 2.500 anni fa. “I popoli che abbiamo trovato sono diretti predecessori delle società complesse che si svilupparono successivamente? Ci sono ancora domande che hanno bisogno di risposte e speriamo di poterle fornire attraverso la ricerca futura”.

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Documentario: Guaraní people https://www.vitantica.net/2018/12/08/documentario-guarani-people/ https://www.vitantica.net/2018/12/08/documentario-guarani-people/#respond Sat, 08 Dec 2018 00:10:38 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3053 I villaggi Guaraní erano composti da case lunghe condivise da 10-15 famiglie; prima dell’incontro con gli esploratori europei, il gruppo etnico Guaraní contava circa 400.000 persone dislocate tra Paraguay, Uruguay, Argentina e Brasile.

Nei periodi precedenti all’incontro con gli Europei i Guaraní erano sedentari e sopravvivevano grazie alla coltivazione di mais o manioca e grazie alla caccia e alla raccolta di miele selvatico. Guerra e schiavitù li spinsero verso il nomadismo e lontano dai loro territori tradizionali.

Ancora oggi alcune comunità Guaraní conducono uno stile di vita tradizionale, evitando quando possibile l’uso del denaro e ottenendo dalla foresta quasi tutti i beni di prima necessità o scambiando i frutti della caccia e della raccolta per ottenere utensili in metallo, pentole e vestiti.

L’intera comunità partecipa all’abbattimento di una porzione di foresta pluviale utilizzando fuochi controllati. Quando il suolo esaurisce i nutrienti necessari a far crescere mais e cassava, la comunità si sposta e libera altro terreno fertile. L’alimentazione dei Guaraní è basata su mais, manioca, patate dolci, fagioli, zucche e frutta tropicale come la banana e la papaya. Le arachidi forniscono proteine fondamentali che vanno a supplire all’assenza di proteine animali.

I Guaraní, oltre allo spagnolo, usano tradizionalmente tre forme di linguaggio: una “secolare”, una “sacra” e una “segreta”. Il linguaggio secolare è conosciuto da qualunque individuo, mentre il linguaggio sacro viene utilizzato soltando dagli anziani. Il linguaggio segreto è invece impiegato soltanto dai leader religiosi e viene definito “Ñe’e pará” (“parole dei nostri padri”).

Quando un bambino entra nella fase adolescenziale deve superare un rito di passaggio per diventare un giovane adulto. Il rituale viene eseguito dallo sciamano della comunità e prevede la perforazione del labbro inferiore con un pezzo di legno, seguita da una dieta stretta a base di mais della durata di qualche giorno.

Durante il rito di iniziazione, il ragazzino viene istruito su quale sia il comportamento più adeguato per un adulto: lavoro duro, non fare del male agli altri, essere moderato nelle sue abitudini, non bere eccessivamente e mai picchiare la sua futura moglie. Dopo il rito di passaggio, al giovane sarà consentito di utilizzare parole e atteggiamenti generalmente riservati agli adulti.

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