La foresta amazzonica è stata plasmata dall’essere umano?

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Quando i primi esploratori europei giunsero in Sud America, l’impressione che ebbero dell’enorme distesa amazzonica fu quella di un luogo incontaminato dalla presenza umana, un’enorme foresta ancora allo stadio primordiale che ospitava popolazioni tribali incapaci di imprimere una traccia profonda del loro passaggio in una regione così ostile e selvaggia.

Fino ai primi anni ’90 del XX secolo, l’idea di un’Amazzonia incontaminata è rimasta pressoché immutata, ma nelle ultime tre decadi l’opinione di antropologi, archeologi e botanici sta mutando. La foresta amazzonica è davvero un luogo incontaminato, o si tratta soltanto di un mito basato sulla scarsa conoscenza di questo mix di ecosistemi pluviali?

Una foresta modellata dall’uomo

Fornire una risposta esaustiva a questa domanda è molto difficile a causa dei problemi che la stessa foresta presenta ai ricercatori. Si tratta di una delle regioni del pianeta più difficili da sondare, sia a causa della componente climatica sia per l’enorme biodiversità che tende a riappropriarsi velocemente di ogni spazio umano non manutenuto con disciplina e costanza.

Secondo una ricerca pubblicata su Science nel 2017, osservando più attentamente la biodiversità della foresta amazzonica sembrano emergere indizi rilevanti di una profonda impronta umana, indizi che indurrebbero a pensare che la foresta non sia quella forza inarrestabile e indomabile ritenuta da molti.

José Iriarte, ricercatore della University of Exeter, sostiene che la foresta amazzonica abbia subito diversi interventi umani, anche su larga scala, negli ultimi 13.000 anni, specialmente con la domesticazione di alcune piante iniziata 8.000 anni fa.

“Gli studi archeologici più recenti, specialmente quelli svolti nelle ultime due decadi, mostrano che la popolazione indigena del passato era più numerosa, più complessa ed ebbe un impatto sulla più grande e diversa foresta tropicale rispetto a quanto si ritenesse in passato” sostiene Iriarte.

L’analisi delle specie vegetali amazzoniche

Le più recenti stime sostengono che la foresta amazzonica sia popolata da circa 390 miliardi di alberi. Nel 2013, un gruppo di ecologi identificò circa 16.000 specie di piante differenti in oltre un migliaio di siti lontani dai centri abitati, scoprendo qualcosa di strano: oltre la metà degli alberi era costituita 227 specie, equivalente a circa l’1% delle specie vegetali identificate.

Pacay, o guaba (Inga feuillei), è una pianta leguminosa sudamericana coltivata fin dai tempi dell'impero Inca.
Pacay, o guaba (Inga feuillei), è una pianta leguminosa sudamericana coltivata fin dai tempi dell’impero Inca.

Venti di queste piante, definite “iperdominanti”, sono specie domestiche come la noce brasiliana o la Inga feuillei, e sono diffuse in numero cinque volte superiore rispetto a quanto i ricercatori si sarebbero aspettati per specie distribuite in modo casuale.

“Nacque l’ipotesi che forse i popoli locali avessero domesticato queste specie a lungo, contribuendo alla loro abbondanza in Amazzonia” spiega Hans ter Steege, a capo del gruppo di ecologi che condusse la ricerca nel 2013.

Per verificare questa ipotesi, ter Steege ha chiesto aiuto ad alcuni archeologi per indagare più nel dettaglio il numero di piante domesticate in prossimità degli insediamenti precolombiani delle Americhe. “La distanza da questi siti archeologici ha un effetto sull’abbondanza e la ricchezza delle specie domesticate dell’Amazzonia”.

Secondo i rilevamenti, il numero di specie domesticate diminuiva in rapporto alla distanza dai siti archeologici precolombiani, contribuendo a sostenere l’ipotesi che gli antichi popoli americani avessero condotto domesticazioni di portata rilevante su alcune specie vegetali oggi molto diffuse.

Specie lontane dai siti d’origine

La ricerca ha anche evidenziato che queste specie si trovavano a grandi distanze dalle regioni in cui si suppone siano emerse per la prima volta, portando a pensare che gli esseri umani le abbiano trasportate per poterle coltivare in altre località.

Il cacao, ad esempio, fu domesticato per la prima volta nelle regioni settentrionali dell’Amazzonia, regioni in cui oggi è possibile osservare una diversità genetica più vasta rispetto al resto delle Americhe.

Oggi, tuttavia, le specie di cacao sono prevalenti nelle regioni meridionali della foresta pluviale, suggerendo che siano state trasportate lungo l’Amazzonia dal loro luogo d’origine.

“Forse, la biodiversità amazzonica che vogliamo preservare non è solo frutto di migliaia di anni di evoluzione naturale, ma anche dell’impronta umana” sostiene Iriarte. “Più facciamo ricerca, più ci sono prove che sia così”.

Dolores Piperno, archeobotanica dello Smithsonian, è invece scettica, sottolineando che tra l’era precolombiana e questa ricerca sono trascorsi oltre 500 anni e che, nel frattempo, l’Amazzonia ha avuto modo di subire influenze da innumerevoli fattori climatici e biologici.

“Per alcune di queste specie ci sono poche o nessuna prova del loro utilizzo in tempi preistorici” spiega Piperno. “Le interpretazioni di questa ricerca sono principalmente basate sull’utilizzo moderno di queste piante ed è poco chiaro, per alcune specie, come siano utilizzate su larga scala ancora oggi”.

Piperno invita alla cautela citando l’esempio dell’ “albero del pane” Artocarpus camansi, coltivato intensivamente dalla civiltà Maya: attorno agli insediamenti di questo popolo precolombiano è possibile trovare grandi quantità di questi alberi, elemento interpretato in passato come un intervento attivo da parte dei Maya nella diffusione della pianta.

Qualche tempo dopo, tuttavia, si scoprì che i semi dell’albero possono essere diffusi facilmente e in grandi quantità dai pipistrelli, e che trovano terreno favorevole per la crescita in presenza del calcare che compone buona parte delle rovine Maya.

Persistent effects of pre-Columbian plant domestication on Amazonian forest composition


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