personaggi – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Giulia Tofana, avvelenatrice professionista https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/ https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/#comments Sun, 13 Sep 2020 00:25:56 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4967 Nell’autunno del 1791, Wolfgang Amadeus Mozart iniziò ad ammalarsi seriamente, presentando sintomi che lui stesso attribuiva all’avvelenamento da parte di una delle sostanze tossiche più curiose e subdole della storia recente: l’ acqua tofana.

Anche se le vere cause della morte del celebre compositore sono ancora oggi fonte di dibattito, alcuni ricercatori, come gli esperti di manoscritti antichi Oliver Hahn e Claudia Maurer Zenck, hanno concluso che Mozart fu deliberatamente ucciso utilizzando un particolare veleno ideato da un’avvelenatrice professionista, Giulia Tofana, vissuta oltre un secolo prima.

Veleno leggendario

Le ipotesi sulla morte di Mozart spaziano dalla sifilide alla febbre reumatica; c’è anche chi ha ipotizzato che il musicista fu ucciso da costolette di maiale poco cotte. Ma Hahn e Zencks hanno rilevato tracce di arsenico sui manoscritti del compositore, un elemento utilizzato come ingrediente per la fabbricazione di un veleno incolore, inodore, insapore e che uccideva lentamente, fugando quasi ogni sospetto di avvelenamento da un occhio poco attento.

L’ acqua tofana potrebbe essere il veleno responsabile di centinaia, se non migliaia, delle morti per avvelenamento verificatesi nell’arco degli ultimi quattro secoli. Il suo ingrediente principale era l’arsenico, e solo 4-6 gocce di questo potente veleno era in grado di uccidere un uomo nell’arco di una settimana facendo apparire il decesso come legato ad una malattia difficilmente identificabile.

La ricetta esatta dell’acqua tofana non è nota, anche se conosciamo i suoi ingredienti principali da alcuni scrittori dell’epoca: arsenico, limatura di piombo, limatura di antimonio e probabilmente belladonna. Questo veleno poteva essere facilmente mescolato all’acqua o al vino, essendo totalmente incolore e non alterando i sapori di bevande e pietanze.

Altri autori del XVII-XVIII secolo sostengono invece che il veleno avesse come ingredienti anche la linajola comune (Linaria vulgaris), estratto di “mosca spagnola” (Lytta vesicatoria, un coleottero verde smeraldo), estratto di Antirrhinum majus e arsenico.

L’acqua tofana era un veleno che agiva lentamente e che doveva essere somministrato in più dosi consecutive, alimentando l’idea che a causare la morte della vittima fosse stata una malattia o altre cause naturali. I sintomi di un primo dosaggio erano simili a quelli di un’influenza comune, ma già al secondo dosaggio i sintomi peggioravano sensibilmente: vomito, disidratazione, diarrea e una sensazione di bruciore lungo il tratto digestivo.

La terza o quarta dose generalmente uccidevano la vittima. Si riteneva che i primi dosaggi di acqua tofana potessero essere annullati dalla somministrazione di aceto o succo di limone, ma al quarto dosaggio la quantità di arsenico e piombo accumulata dall’organismo era tale da provocare quasi certamente la morte.

Boccetta di "Manna di San Nicola" ritratta da Pierre Méjanel.
Boccetta di “Manna di San Nicola” ritratta da Pierre Méjanel.
Veleno per mogli

L’acqua tofana fa la sua apparizione nella documentazione storica nel 1632. Commercializzata con il nome “Manna di San Nicola” per nascondere il suo vero utilizzo alle autorità locali, veniva venduta all’interno di fiale come cosmetico o offerta votiva a San Nicola.

A quanto pare l’acqua tofana era considerato il veleno ideale per le mogli che subivano abusi dai mariti ed erano intenzionate a liberarsi definitivamente del consorte. Essendo incolore, inodore e insapore, poteva essere somministrata al marito durante i pasti senza suscitare alcun sospetto.

Anche se l’avvelenamento è certamente un metodo infido e criminale per risolvere un problema coniugale, occorre ricordare che tre secoli fa le donne italiane non erano giuridicamente tutelate dagli abusi, domestici e non, come accade oggi, e il divorzio era un’eventualità nemmeno lontanamente contemplata in molte comunità.

Secondo l’economista campano Ferdinando Gagliani (1728 – 1787), a Napoli non esisteva donna che non fosse provvista di una fiala di acqua tofana disposta accuratamente tra i suoi cosmetici. Solo la proprietaria poteva riconoscere la fiala e distinguerla dalle altre in caso di bisogno.

Una famiglia di avvelenatrici

L’ideatrice dell’acqua tofana fu probabilmente Giulia Tofana, avvelenatrice professionista che prima di essere giustiziata a Roma nel 1659 confessò di essere coinvolta in almeno 600 morti causate a Roma dal suo veleno tra il 1633 e il 1651.

Giulia Tofana nacque nel 1620 a Palermo, probabilmente figlia di Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633 con l’accusa di aver ucciso il marito. Secondo la documentazione dell’epoca, Giulia era una ragazza di bell’aspetto costantemente interessata al lavoro di farmacisti e speziali, spendendo molto tempo nei loro laboratori e apprendendo i segreti delle erbe e dei minerali.

Fu così che Giulia sviluppò la formula dell’acqua tofana. E’ possibile tuttavia che il veleno fosse frutto del lavoro della madre Thofania, e sia stato passato come eredità alla figlia prima della sentenza di morte.

Giulia Tofana iniziò a vendere veleno alle mogli siciliane in difficoltà, aiutata dalla figlia Girolama Spera, nota come “Astrologa della Lungara”. Le voci sull’efficacia dell’acqua tofana uscirono ben presto dalla Sicilia per raggiungere Napoli e Roma, dove madre e figlia riuscirono a creare un mercato di “Manna di San Nicola”.

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Giulia Tofana viene spesso descritta come amica delle donne in difficoltà, spesso intrappolate in matrimoni di convenienza con uomini violenti e pericolosi. Raggiunse una tale popolarità da arrivare ad essere indirettamente protetta dalle autorità locali, ma il suo business tossico fu alla fine scoperto, costringendola alla fuga.

Giulia si rifugiò con la figlia in una chiesa, dove le fu garantito asilo. Ma ben presto l’asilo le venne revocato non appena iniziò a circolare la voce che avesse avvelenato l’acqua di alcuni pozzi di Roma. Le autorità fecero irruzione nella chiesa, catturando Giulia, la figlia Girolama e loro tre aiutanti.

Le affermazioni di Giulia sulle morti provocata dal suo veleno nell’arco di 18 anni, e nella sola città di Roma, sono sconcertanti ma difficili da confermare. Si tratta di dichiarazioni rilasciate sotto tortura, ed è estremamente complesso tenere traccia del suo veleno nel mercato nero romano del XVII secolo; ma considerata l’apparente diffusione dell’acqua tofana riportata da alcuni autori dell’epoca, 600 vittime potrebbe essere un numero più o meno accurato.

L’eredità di Giulia Tofana

Il veleno noto come acqua tofana, e altri veleni sotto il nome di “acquetta” o “liquore arcano d’aceto” circolarono per tutta la penisola italiana per almeno un altro secolo dopo la morte di Giulia.

Una mistura di aceto, vino bianco e arsenico iniziò ad essere venduta a Palermo all’inizio della seconda metà del 1700 da Giovanna Bonanno. Il tipico cliente di Giovanna era una donna che voleva liberarsi del marito per poter stare col proprio amante: la prima dose veniva somministrata al consorte per causare dolori di stomaco, la seconda per mandarlo all’ospedale e la terza per porre fine ai suoi tormenti.

I medici dell’epoca non riuscivano a determinare le cause della morte provocata da questo veleno, ma una lunga serie di decessi registrati a Palermo portarono all’arresto della Bonanno per stregoneria. Alcuni farmacisti che collaboravano con lei furono condotti a testimoniare al suo processo, svoltosi nel 1788, e si giunse alla condanna a morte per impiccagione il 30 luglio 1789.

 

Aqua Tofana: slow-poisoning and husband-killing in 17th century Italy
Aqua Tofana
Giulia Tofana
A Cyclopaedia of Practical Receipts: And Collateral Information in the Arts

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Lo zoo di Montezuma https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/ https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/#respond Mon, 18 May 2020 00:06:44 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4861 Prima dell’istituzione moderna dello zoo, alcuni sovrani o uomini particolarmente ricchi amavano collezionare animali nel loro serraglio privato. Collezionare animali rari o esotici era uno status symbol: dimostrava ricchezza, potere e connessioni commerciali ed economiche molto rilevanti con il resto del mondo.

Carlo Magno aveva ben tre serragli a Aachen, Nijmegen e Ingelheim, serragli che ospitavano scimmie, leoni, orsi, cammelli, falchi, uccelli esotici di ogni tipo e un esemplare di elefante, il primo registrato in Europa dai tempi dell’ Impero Romano.

Il serraglio dell’ imperatore Montezuma, spesso definito un vero e proprio zoo, merita tuttavia una menzione particolare per le sue dimensioni, per le risorse impiegate nel suo mantenimento e per la varietà di animali presenti al suo interno.

Serraglio, l’antenato del giardino zoologico

Il primo serraglio della storia sembra essere stato quello di Ieraconpoli, o Nekhen, una città egizia che si trova lungo la riva occidentale del Nilo e centro di culto del dio Horus (Nekhen significa “Città del Falco”). All’interno del serraglio, in attività circa 5.500 anni fa, si potevano osservare ippopotami, gnu, elefanti, babbuini e felini selvatici africani.

Nel II secolo a.C. l’imperatrice cinese Tanki istituì la “Casa del Cervo”, un serraglio dedicato in particolar modo ai cervidi, ma circa un millennio prima di lei il re Wen di Zhou aveva destinato una fetta di 6 km quadrati dei suoi possedimenti a quello che lui chiamava “Ling-Yu” (“Giardino dell’Intelligenza”, o “Parco Divino”), un serraglio in cui erano custodite alcune delle specie animali più curiose e rare del continente asiatico: antilopi, capre, cervidi, pesci, uccelli dai colori sgargianti e animali considerati sacri.

Sembra che i Greci amassero particolarmente l’istituzione del serraglio: molte città-stato avevano strutture adibite a zoo o voliere, e il serraglio di Alessandria arrivò a contenere una collezione di animali che farebbe impallidire alcuni zoo moderni: elefanti, felini di ogni tipo, giraffe, rinoceronti, diverse specie di antilopi, orsi, e probabilmente un enorme pitone africano.

La passione per il collezionismo di animali nella Roma antica si sviluppò intorno al III secolo a.C. ma pian piano perse di valore: la maggior parte dei serragli si occupavano principalmente di custodire animali destinati alle arene. Con il crollo dell’impero, il serraglio divenne sempre più un inutile e costosissimo show di potere che ben pochi potevano o volevano permettersi.

Intorno al XIII secolo iniziano ad apparire nuovamente serragli in tutta Europa: a Napoli, Firenze, Milano, Lisbona e Nicosia erano presenti serragli invidiati in tutto il Vecchio Continente. A Oriente, invece, Marco Polo visitava la personale collezione di animali di Kublai Khan, un serraglio che conteneva animali provenienti dall’Asia e dall’Africa.

Lo zoo di Montezuma

Nel libro VIII del Codice Fiorentino, ultima versione in spagnolo e lingua nauhatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España” di Bernardino de Sahagun, è presente l’illustrazione di alcuni “guardiani” addetti alla cura degli animali presenti nel serraglio di Montezuma, sovrano azteco con l’evidente passione per le bestie rare.

Secondo i resoconti in nostro possesso, Montezuma avrebbe posseduto un serraglio/zoo contenente un’infinità di animali: uccelli di ogni tipo e provenienza, leoni di montagna, ocelot e orsi. Il serraglio era così grande da richiedere la cura costante di almeno 300 guardiani.

Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577
Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577

Gli animali dello zoo consumavano quotidianamente la carne di oltre 500 tacchini, in particolar modo i grandi felini e gli uccelli rapaci. Un edificio era interamente dedicato a falchi e aquile, mentre una seconda struttura ospitava uccelli di altre specie; all’interno di queste strutture vivevano i guardiani, il cui unico scopo nella vita era quello di mantenere in salute gli animali sotto la loro custodia.

Secondo S.L. Washburn, del Dipartimento di Antropologia dell’ Università della California, Berkeley, i resti umani ottenuti dai sacrifici rituali venivano utilizzati per alimentare i grandi predatori dello zoo di Montezuma. I predatori di grossa taglia, come i leoni di montagna, ricevevano ogni giorno svariati chilogrammi di carne umana, viscere comprese, ottenendo un apporto di proteine sufficiente alla loro sopravvivenza.

L’area esterna dello zoo conteneva 20 stagni, 10 di acqua salata e i rimanenti pieni d’acqua dolce, che fornivano gli habitat ideali per pesci, anfibi, rettili e uccelli acquatici. Il serraglio ospitava anche grandi predatori come giaguari, puma, coccodrilli, orsi e lupi, e animali di taglia media o piccola, come scimmie, bradipi, armadilli e tartarughe.

Non solo: era presente un piccolo edificio nel quale erano rinchiuse diverse specie di serpenti a sonagli e viperidi, tenuti per cautela all’interno di contenitori di terracotta. Nel giardino, infine, vagava ciò che venne descritto “toro messicano”, considerato dagli Aztechi l’animale più raro e descritto come un animale del tutto simile al bisonte nordamericano.

Ma il diario di Cortez e i resoconti di alcuni dei suoi compagni di conquista citano anche alcune particolari sezioni di questo zoo destinate agli esseri umani.

La “Casa degli Umani”

Le descrizioni contemporanee e di poco posteriori non sono sempre concordi nei dettagli dello zoo di Montezuma, ma il resoconto di Cortez viene considerato uno dei più singolari perché cita una “Casa degli Umani”, un’area dello zoo adibita alla custodia di esseri umani.

Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali
Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali

Nel corso della descrizione di uno dei palazzi in cui Montezuma custodiva i suoi uccelli, Cortez afferma che:

“In questo palazzo c’è una stanza in cui ci sono uomini e donne e bambini, con viso, corpo, capelli, sopracciglia e ciglia tutti bianchi dalla nascita…Aveva un’altro edificio in cui c’erano molti uomini e donne mostruosi, tra i quali nani, persone con arti deformi, gobbi e altri con differenti deformità, e ogni persona aveva una stanza personale, e c’erano persone dedicate a fornire loro assistenza”

Secondo Francisco López de Gómara, storico e cappellano di Cortez che tuttavia mai accompagnò il conquistatore spagnolo nelle Americhe, le persone affette da nanismo o da deformità fisiche avevano un ruolo rilevante nella corte di Montezuma: venivano impiegati come confidenti, spie, servitori o intrattenitori. Alcuni godevano di uno status sociale così elevato da poter mangiare subito dopo il sovrano e i suoi commensali, prima di servitori e guardie.

Cortez tuttavia non cita il ruolo dei disabili fisici all’interno della corte o del sistema politico azteco. Li descrive rinchiusi in un edificio, ben nutriti e serviti ma pur sempre proprietà imperiali, non rispettati come esseri umani ma come possedimenti.

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Zoo History: The Halls of Montezuma
Menagerie
Animals and the Law: A Sourcebook
Were humans included in Moctezuma’s Zoo?
Cartas y relaciones de Hernan Cortés al emperador Carlos V

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Merit Ptah: personaggio reale o immaginario? https://www.vitantica.net/2019/12/19/merit-ptah-reale-immaginario/ https://www.vitantica.net/2019/12/19/merit-ptah-reale-immaginario/#respond Thu, 19 Dec 2019 00:22:24 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4745 In questo post sulla timeline della medicina dall’antichità ad oggi, viene citata una figura femminile di particolare importanza, una delle prime donne ad aver dedicato la sua vita all’arte curativa e unanimamente considerata la prima ad aver conquistato una posizione di potere grazie alla pratica medica: Merit Ptah.

Il nome di Merit Ptah si trova ovunque, dalle citazioni su libri scritti nell’ultimo secolo ai più moderni videogiochi; il suo nome è stato anche utilizzato per battezzare un cratere sul pianeta Venere.

Si tratta di un personaggio iconico, un simbolo di emancipazione femminile e l’incarnazione stessa della medicina antica; ma tutte le menzioni di questo mondo non possono nascondere il fatto che Merit Ptah, in realtà, è molto probabilmente un personaggio di pura fantasia.

La “storia” di Merit Ptah

Su questa figura femminile dell’antico Egitto sappiamo ben poco (le ragioni saranno più chiare leggendo il resto del post), ma da ciò che si racconta ormai da decadi, fu una delle prime curatrici a raggiungere una posizione di potere nella corte del faraone, e probabilmente la prima donna ad essere menzionata nella storia della medicina.

Il suo nome significa “Amata da Ptah”: Ptah era la divinità protettrice della città di Memphis, esistente ben prima della creazione dell’universo, venuto alla luce per sua volontà. Merit Ptah sarebbe vissuta quasi 5.000 anni fa, al termine del periodo Protodinastico.

Un’apparente prova dell’esistenza di Merit Ptah sarebbe la raffigurazione di una donna nella necropoli di Saqqara e una citazione sulla tomba del figlio, che la definisce “Sommo Medico.

Errore d’identità

Jakub Kwiecinski, storico della medicina della University of Colorado’s School of Medicine, ha deciso di scavare più a fondo nella documentazione storica disponibile agli egittologi per capire se Merit Ptah sia stato un personaggio realmente esistito, o sia solo il frutto di una mescolanza tra realtà e fantasia.

La popolarità di Merit Ptah inizia nel 1938: appare in un libro di Kate Campbell Hurd-Mead in cui vengono delineate alcune figure femminili nella storia della medicina. Nel suo libro, Hurd-Mead identifica Merit Ptah come la prima dottoressa della storia, vissuta intorno al 2730 a.C. e madre di un sacerdote di alto rango sepolto nella Valle dei Re.

All’interno della tomba di questo sacerdote sarebbe stata trovata una tavoletta che citava la madre, chiamata Merit Ptah, come il “Capo Medico” del faraone, un titolo molto prestigioso e generalmente riservato a uomini di alto rango.

La scoperta descritta da Hurd-Mead appare estremamente affascinante, se non fosse per un piccolo dettaglio: la Valle dei Re non esisteva all’epoca in cui sarebbe vissuta la donna (risale a oltre un millennio dopo), e non esiste alcun documento che citi Merit Ptah nelle liste di curatori e curatrici dell’antico Egitto.

Merit Ptah: personaggio reale o immaginario?

Da dove deriva quindi la citazione di Merit Ptah? Probabilmente da un libro in possesso di Hurd-Mead, un volume che cita una curatrice di nome Peseshet, il cui nome appare nella tomba del figlio Akhethetep, vissuto intorno al 2400 a.C..

La tomba di Akhethetep si trova a Giza e include una falsa porta che riporta la raffigurazione del padre e della madre, quest’ultima descritta come la “Sovrintendente delle Donne Curatrici”. Secondo Kwiecinski, Hurd-Mead fece confusione tra Merit Ptah e Peseshet.

“Sfortunatamente, Hurd-Mead nel suo libro mescola accidentalmene il nome dell’antica curatrice, la data in cui visse e la località della tomba” afferma Kwiecinski. “Da allora, da un caso di errata identificazione di un’autentica curatrice dell’antico Egitto, Peseshet, nacque Merit Ptah, ‘la prima dottoressa’”.

Nome reale, personaggio di fantasia

“Merit Ptah, come nome, esisteva nell’antico Egitto (era il nome della moglie di Ramose, governatore di Tebe sotto Akhenaton), ma non appare in alcuna delle liste di curatori, nemmeno come un personaggio leggendario o come ‘caso controverso'”, sostiene Kwiecinski. Il suo nome non è presente negli elenchi delle donne amministratrici, e non ci sono riferimenti alla curatrice all’interno delle tombe conosciute.

Ma la figura di Merit Ptah è ormai largamente diffusa come simbolo di emancipazione, sospinta anche da venti ideologici. “E’ stata associata con il problema, estremamente emozionale, partigiano, ma anche profondamente personale, della parità di genere. Tutto questo ha creato una tempesta perfetta che ha alimentato la storia di Merit Ptah”.

Merit Ptah potrebbe quindi essere un personaggio partorito dall’errore di interpretazione di una scrittrice, ma questo non significa che nell’antico Egitto non esistessero curatrici di particolare importanza.

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Peseshet, vissuta verso il termine della Quarta Dinastia, viene descritta come “Sommo Medico”, o “Sovrintendente delle Donne Curatrici”, proprio come la Merit Ptah citata da Hurd-Mead. Non sappiamo se lei stessa fosse un medico, ma la citazione nella mastaba del figlio Akhethetep la colloca in una posizione sociale molto elevata.

Anche su Peseshet conosciamo ben poco: una falsa porta nella mastaba del figlio la cita per nome e la mostra insieme ad un uomo chiamato Kanefer, probabilmente il marito; sappiamo tuttavia che Peseshet è stato un personaggio realmente esistito, la prima donna della storia della medicina ad essere ricordata ancora oggi.

Celebrated Ancient Egyptian Woman Physician Likely Never Existed, Says Researcher
Peseshet
Merit Ptah, “The First Woman Physician”: Crafting of a Feminist History with an Ancient Egyptian Setting

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Milone di Crotone https://www.vitantica.net/2019/12/02/milone-di-crotone/ https://www.vitantica.net/2019/12/02/milone-di-crotone/#respond Mon, 02 Dec 2019 00:10:55 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4702 Le mirabolanti imprese dei nostri antenati e le loro straordinarie doti fisiche sono spesso frutto di un mix tra eventi reali e informazioni di carattere semi-leggendario. E’ vero che l’uomo del passato cresceva in una società molto più dura di quella moderna, dovendosi adattare ad uno stile di vita ricco di pericoli e di stenti; è altrettanto vero però che l’essere umano è soggetto alle leggi della fisica e ai limiti fisiologici imposti dalla sua specie, come ogni essere vivente conosciuto.

Alcuni personaggi storici hanno contribuito a restituire un’immagine del passato fatta da individui estremamente forti, veloci o resistenti, ben oltre le capacità umane, esemplari della nostra specie che sembrano sfidare ogni logica e superare di gran lunga le prestazioni di un Sapiens moderno. Uno dei questi personaggi fu Milone di Crotone.

Un atleta straordinario

Milone di Crotone fu un lottatore del VI secolo a.C. originario della Magna Grecia che si guadagnò la fama di essere uno dei combattenti più formidabili della storia antica. Durante l’arco della sua carriera riuscì a vincere le Olimpiadi per ben 7 volte, conquistando la sua prima vittoria nella categoria giovanile di lotta nel 540 a.C., all’età di 15 anni.

Tra il 536 e il 520 a.C. Milone ottenne altri sei titoli, ma la sua carriera non si limitò alle sole vittorie olimpiche: salì sul gradino più alto del podio per sette volte ai Giochi di Delfi, uscì vittorioso da ben 10 edizioni dei Giochi Istmici e vinse nove finali di lotta ai Giochi Nemei.

Milone ottenne infine per cinque volte il titolo di Periodonikēs, titolo che prevedeva la vittoria in serie di tutti i Giochi Panellenici nello stesso ciclo.

Milone proveniva da Crotone, una città nota per produrre atleti eccellenti che periodicamente si presentavano alle Olimpiadi facendo man bassa di medaglie. Nelle Olimpiadi del 576 a.C., ad esempio, i primi sette atleti classificati allo sprint di 180 metri (stadio) erano tutti originari di Crotone.

Alla sua settima e ultima partecipazione alle Olimpiadi, Milone affrontò nella lotta il giovane Timasiteo, un ammiratore crotonese che considerava il leggendario atleta concittadino come un idolo. Timasiteo, prima di iniziare l’incontro, si inchinò di fronte al Milone in segno di rispetto, divenendo il primo e unico individuo ad essere ricordato nella storia dei Giochi Olimpici antichi per essere arrivato secondo in una competizione.

Chi fu Milone?

Secondo Pausania, Milone era il figlio di Diotimo; alcuni documenti antichi invece lo associano al filosofo Pitagora, che visse per diversi anni nelle vicinanze di Crotone, ma secondo gli storici questa associazione potrebbe essere stata confusa con una possibile parentela con un altro Pitagora, un celebre allenatore di atleti.

Chi sostiene che Milone fosse imparentato con il filosofo afferma che l’atleta salvò la vita a Pitagora durante un banchetto, sostenendo sulle spalle il tetto in fase di collasso a causa di un sisma per consentire ai presenti di mettersi in salvo.

A seguito del gesto che salvò la vita a Pitagora, Milone potrebbe aver sposato Myia, un’adepta della filosofia pitagorica e probabilmente la figlia dello stesso filosofo. Diogene Laerzio afferma inoltre che Pitagora morì in un incendio scatenatosi a casa di Milone, ma Dicearco lo contraddice sostenendo che il filosofo morì nel tempio delle Muse di Metaponto dopo un lungo digiuno.

Erodoto sostiene che Milone accettò una grande somma di denaro per concedere in sposa la propria figlia al medico crotonese Democede. Se le parole di Erodoto hanno un fondo di verità, probabilmente Milone non apparteneva alla nobiltà crotonese, dato che un accordo matrimoniale con un semplice medico non sarebbe stato visto di buon occhio per un nobile greco.

Appetito insaziabile e forza straordinaria

Come accadde per molti atleti olimpici del passato, anche Milone era circondato da leggende riguardanti il suo estenuante allenamento e la sua forza sovrumana. Aristotele inizia la costruzione del mito di Milone associando il suo appetito insaziabile a quello di Eracle; Ateneo continua e rafforza la leggenda esaltando la forza dell’atleta con storie ai limiti del verosimile.

Gli aneddoti su Milone affermano che l’atleta consumasse ogni giorno 9 kg di carne, 9 kg di pane e 10 litri di vino. Sostengono inoltre che la forza dell’atleta fosse tale da consentirgli di trasportare la sua statua bronzea a dimensioni reali fino al piedistallo collocato nello stadio di Olimpia; ma la dimostrazione di forza più celebre è legata alla sua particolare tecnica di allenamento, una sorta di grezzo “progressive overload” (sovraccarico progressivo) della moderna pesistica.

La morte di Milone
La morte di Milone. NICCOLO BOLDRINI

La leggenda su Milone afferma che, fin da ragazzo, l’atleta si fosse abituato a trasportare sulle spalle un vitello ogni singolo giorno allo scopo di coltivare la sua forza fisica. Dopo qualche anno, il vitello divenne un bue adulto, un animale dalla stazza imponente, ma la perseveranza di Milone nel suo allenamento lo aveva ormai reso incredibilmente vigoroso: ogni giorno, senza alcuna apparente difficoltà, il lottatore continuava a trasportare sulle spalle il bovino ormai adulto per mantenere la sua forza.

Un altro toro (o forse lo stesso) fu la vittima di una delle straordinarie espressioni di forza di Milone: dopo essere entrato nello stadio portando sulle spalle un bovino dell’età di 4 anni, Milone riuscì ad eseguire un intero giro di campo tenendo sollevato l’animale, per poi ucciderlo a mani nude con un solo colpo della mano. Il toro fu consegnato alle cucine di Olimpia per essere incluso come ingrediente nelle svariate pietanze che l’atleta crotonese consumò nelle successive 24 ore.

Alcune storie sostengono che Milone fosse in grado di tenere un melograno in mano senza danneggiarlo mentre alcuni sfidanti tentavano invano di allentare la presa delle dita; altri ancora affermano che potesse rompere una fascia stretta attorno alla fronte semplicemente inalando con forza per aumentare la dimensione delle vene della tempia.

La morte di Milone

Come tipicamente accadeva a molte personalità famose, anche la morte di Milone assunse toni leggendari nel corso del tempo. La data del decesso è sconosciuta, ma secondo Strabone e Pausania l’atleta si imbatté, durante una passeggiata nella foresta, in un albero mezzo spaccato da cunei.

L’albero, un ulivo secolare caro alla dea Hera, era attraversato da una profonda fenditura che correva lungo il tronco; per mettere alla prova la sua forza, Milone inserì le mani nella fessura del tronco con l’intenzione di spaccarlo in due.

I cunei tuttavia uscirono dalla loro sede e il tronco si chiuse sulle sue mani, intrappolandolo. Incapace di liberarsi, Milone finì per essere divorato dai lupi. Una seconda versione della leggenda racconta che fu la dea Hera, infuriata con Milone per aver osato tentare di distruggere il suo albero sacro, a togliere ogni forza dal corpo dell’atleta intrappolandolo e lasciandolo esposto all’attacco dei lupi.

Fonti per “Milone di Crotone”:

Milo of Croton
On Herakles as a model for the athlete Milo of Croton
Milone. Il mitico atleta

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La storia di Hugh Glass https://www.vitantica.net/2019/06/24/la-storia-di-hugh-glass/ https://www.vitantica.net/2019/06/24/la-storia-di-hugh-glass/#comments Mon, 24 Jun 2019 00:02:17 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4353 Hugh Glass fu un uomo di frontiera, cacciatore ed esploratore americano rimasto nell’immaginario collettivo per il suo tragico incontro con un grizzly. Il suo devastante incontro con un orso e la sua straordinaria capacità di sopravvivenza, con l’aggiunta di particolari di fantasia o non confermati, sono stati rappresentati nel film “The Revenant“, in cui Leonardo DiCaprio interpretava il cacciatore di pelli di origini irlandesi-scozzesi.

Ma quanto c’è di vero nella pellicola cinematografica? Quanto realmente sappiamo sulla vita e sulle imprese di Hugh Glass, uno degli uomini-simbolo della vita nella natura selvaggia e della lotta feroce per la sopravvivenza?

Hugh Glass, pirati e Pawnee

Si sa ben poco sulla vita di Hugh Glass prima della spedizione di caccia che lo portò all’incontro con un grizzly. Sappiamo che nacque in Pennsylvania, ma la data (1783) e la località (Stanton) di nascita sono tutt’ora difficilmente dimostrabili con la documentazione dell’epoca.

Nelle memorie di George C. Yount, un cacciatore di pelli che nel 1825 attraversò le Montagne Rocciose in compagnia di Hugh Glass, ci viene raccontato che tra il 1817 e il 1820 l’esploratore si trovava probabilmente a bordo di un vascello americano catturato dal celebre pirata francese Jean Lafitte.

Secondo il racconto di Yount, Lafitte offrì a Glass due opzioni: morire sul posto o entrare a far parte della sua ciurma. Glass scelse la seconda e per i successivi due anni visse in una piccola colonia a Galveston Island chiamata Campeachy, una località pericolosa non solo per la presenza di pirati che solcavano il Golfo del Messico ma anche a causa delle tribù native locali che non perdevano occasione per uccidere e cannibalizzare gli Europei.

Giunto il momento opportuno, Glass ed un suo compagno decisero di fuggire dalla nave di Lafitte nuotando per tre chilometri per raggiungere la terraferma e sopravvivendo con la caccia e la raccolta, cercando di rimanere nascosti dai nativi Karankawa mentre tentavano di trovare un insediamento sicuro in cui rifugiarsi.

Ritratto di Hugh Glass
Ritratto di Hugh Glass

Glass e il suo compagno viaggiarono per oltre 1.500 km verso Nord (secondo la versione dei fatti raccontata da Glass a Yount) in pieno territorio indiano, evitando nativi Comanche, Osage e Kiowa ma imbattendosi in un gruppo di Skiri, una tribù Pawnee nota per effettuare sacrifici umani. Hugh fu costretto ad assistere al sacrificio del suo compagno di fuga e fu inizialmente risparmiato in attesa del momento propizio per compiere un altro rituale sacrificale.

Per qualche ragione non ancora chiara, Glass fu risparmiato. La leggenda vuole che, al momento del suo sacrificio, Glass si inchinò di fronte al capo tribù offrendogli una fiala di polvere di cinabro, un minerale rosso a base di mercurio utilizzato come pigmento di guerra dai Pawnee e da altre tribù di nativi. Impressionato dal gesto, il capo clan decise di salvare quel’uomo bianco e renderlo un membro della comunità.

Secondo il racconto trascritto da Yount, fu adottato come figlio dal capo tribù. Nel corso della sua permanenza con i Pawnee, Glass apprese i loro segreti di sopravvivenza, si sposò con una nativa e partecipò ad alcune guerre tra clan rivali, prima di abbandonare la tribù per unirsi alle spedizioni europee di cacciatori di pelli.

Gli storici del West non sono in grado di determinare quanto il racconto di Yount sia vero. Glass era sicuramente in buoni rapporti con i Pawnee, ma è possibile che la sua storia sia stata arricchita di elementi di fantasia.

Non abbiamo alcuna prova certa, e spesso nemmeno uno straccio di indizio, che Glass avesse effettivamente sposato una Pawnee, come non esistono prove della sua partecipazione a guerre tra clan di nativi.

La spedizione di William Ashley del 1821

L’epoca degli “uomini di montagna” (mountain men), cacciatori di pelli coriacei e in grado di sopravvivere tra la natura selvaggia del West, inizia ufficialmente con i “100 giovani intraprendenti”, una spedizione voluta dal generale William Henry Ashley, membro della Rocky Mountain Fur Company, allo scopo di seguire il percorso del fiume Missouri per raggiungere le zone più ricche di castori.

I “100 di Ashley” contavano mountain men celebri, come Jedediah Smith, James Beckwourth, John S. Fitzgerald, David Jackson e William Sublette, ma Glass non fu tra i primi ad arruolarsi e si unì alla spedizione solo l’anno successivo, nel giugno 1823.

Poco dopo il suo arrivo, la spedizione fu attaccata da un gruppo di Arikara, nativi locali dediti all’agricoltura di sussistenza e al commercio di prodotti locali come mais, zucche e tabacco. I coloni europei consideravano gli Arikara troppo imprevedibili e il fatto di averli estromessi dal commercio di pelliccia li rendeva ancora più pericolosi, visti i precedenti di rapine e omicidi nei confronti di commercianti di pelli di passaggio.

Ashley sbarcò nei pressi di uno dei due villaggi Arikara sul fiume Missouri per tentare di trattare con loro ed evitare problemi futuri; i nativi desideravano compensazione per l’uccisione di alcuni loro guerrieri da parte di un’altra compagnia di cacciatori di pelli, ed Ashley non esitò a ripagarli pur di mantenere rapporti pacifici con loro.

Jedediah Smith
Jedediah Strong Smith, uno dei più celebri mountain men e membro della spedizione di Ashley. Nel 1823 anche lui sarà vittima dell’attacco di un grizzly, riportando costole rotte, un orecchio staccato  (ricucito sul campo da un suo compagno) e una profonda cicatrice sul viso.

Dopo aver ottenuto qualche decina di cavalli cedendo in cambio di 25 moschetti con munizioni, Ashley ordinò a Jedediah Smith e ai suoi uomini (tra i quali Hugh Glass) di sorvegliare la piccola mandria e guidarla a Fort Henry il giorno successivo.

Durante la notte, si udirono grida provenire da uno dei villaggi: Edward Rose e Aaron Stephens, due cacciatori della compagnia di Ashley, si erano introdotti nell’accampamento dei nativi al tramonto, in cerca di compagnia femminile. Rose arrivò dai suoi compagni correndo, gridando che Stephens era stato ucciso e mettendo in allerta tutta la compagnia di cacciatori. Ashley decise comunque di attendere l’alba prima di abbandonare il posto.

Alle prime luci dell’alba, Ashley e la compagnia si resero conto della situazione: i guerrieri Arikara erano chiaramente visibili lungo la palizzata che delimitava il loro villaggio, intenti a caricare i moschetti scambiati recentemente con gli esploratori in cambio di cavalli.

In poco tempo iniziarono ad esplodere colpi verso Ashley e i suoi uomini, rendendone difficile la fuga. Convinti della loro vittoria, gli Arikara abbandonarono la sicurezza della palizzata per avvicinarsi ai cacciatori. Gli esploratori europei in grado di nuotare si lanciarono nel fiume; i più deboli e i feriti sparirono tra le correnti.

Nel giro di circa 15 minuti dal primo colpo di moschetto, 14 uomini di Ashley avevano perso la vita e 11 erano rimasti feriti, tra i quali anche Hugh Glass. I sopravvissuti riuscirono a fuggire per rifugiarsi a Fort Kiowa, dove Glass ebbe modo di riprendersi dalla ferita ed essere reclutato per una nuova spedizione verso Fort Henry sotto la guida di Andrew Henry e in compagnia di altri 30 uomini.

Il grizzly più famoso della storia (e del cinema)

Hugh Glass e il grizzly

La spedizione di Henry e Glass fu attaccata durante la notte da due tribù Hidatsa, generalmente amichevoli verso gli esploratori bianchi. Questo insolito attacco causò la morte di due uomini e il ferimento di altri due, come raccontò in seguito Moses “Black” Harris, uno dei membri della spedizione.

Dopo essere sfuggiti all’attacco e aver raggiunto la Grand River Valley, Glass si distaccò dal gruppo per le attività di caccia, incontrando una femmina di grizzly in compagnia di due cuccioli. Non appena notò la sua presenza, l’orso attaccò quasi immediatamente il cacciatore colpendolo ripetutamente con le zampe, mordendolo alla testa e saltandogli sul corpo.

Glass tentò inizialmente di difendersi, sparando con il suo fucile contro l’orso in carica, ma il colpo sembrò non avere alcun effetto. Tentò anche di arrampicarsi su un albero dopo aver subito la prima carica, ma il grizzly lo trascinò a terra e gli strappò brandelli di carne dalla schiena. Dopo una piccola pausa per portare i pezzi di carne umana ai suoi piccoli, l’orso riprese ad attaccare Glass, che lo colpì ripetutamente con il suo pugnale.

Non sappiamo se furono il fucile ed il pugnale di Glass ad uccidere l’orso, o i colpi esplosi da altri due cacciatori che accorsero sul posto dopo aver sentito i gemiti disperati dell’uomo. Sappiamo però che il grizzly fu ucciso e scuoiato per la sua pelliccia.

Le condizioni di Glass furono giudicate così gravi da non lasciar sperare nulla di buono: i membri della spedizione erano certi che l’uomo sarebbe morto entro la mattinata successiva. All’alba tuttavia Glass era ancora vivo: Henry, per non mettere a rischio l’intera compagnia, decise di trasportare il ferito su una lettiga improvvisata con rami di pino.

Per due giorni i compagni di Glass lo trasportarono lungo il fiume Yellowstone, un tributario del fiume Missouri, procedendo con lentezza pericolosa: il rischio di attacco da parte dei nativi era troppo alto e costrinse Henry a lasciare due volontari in compagnia di Glass nell’attesa del suo imminente decesso, in modo tale da far procedere la compagnia più velocemente.

I due volontari, che accettarono una ricompensa di 80 dollari (altre fonti dicono 400 $) per rimanere al fianco di Glass, erano John Fitzgerald e un giovane di nome James Bridger (chiamato “Bridges” in uno dei resoconti dell’epoca), ma l’dentità di quest’ultimo non è del tutto certa.

Anche se incapace di muoversi, Glass era ancora vivo cinque giorni dopo la partenza di Henry. Terrorizzati da una possibile aggressione da parte dei nativi, Fitzgerald e Bridger decisero di abbandonare il compagno nei pressi di una sorgente prendendo con loro tutto l’equipaggiamento di Glass, compresa la sua arma da fuoco, il suo coltello, un tomahawk e il kit per il fuoco.

L’epica sopravvivenza di Glass

Solo, ferito e senza equipaggiamento, Glass radunò le poche energie rimaste per strisciare verso il fiume Missouri per poter raggiungere Fort Kiowa, l’unico posto in cui avrebbe potuto curare efficacemente le sue ferite e riottenere l’equipaggiamento perduto.

Il percorso di Hugh Glass fino a Fort Kiowa
Il percorso di Hugh Glass fino a Fort Kiowa

Per rendere l’idea delle condizioni di Glass, secondo i resoconti di Henry e dei mebri della spedizione il cacciatore aveva una frattura scomposta alla gamba, la gola totalmente compromessa (non riuscì più a parlare con la sua voce naturale per il resto della sua vita) e ferite così profonde sulla schiena da lasciare esposte le costole. Glass sistemò l’osso della gamba alla meglio, si avvolse nella pelle d’orso che era stata posata su di lui come sudario e iniziò a muoversi trascinandosi sul terreno con le braccia e la gamba sana.

A causa delle ferite, il viaggio fu inizialmente molto lento e faticoso. Glass fu costretto a nutrirsi di insetti, serpenti e bacche. Dopo una settimana, l’esploratore si trovò ad assistere ad un attacco di lupi nei confronti di un cucciolo di bisonte; attendendo con pazienza il momento propizio, riuscì a sottrarre ai predatori ormai sazi una buona metà della carcassa.

Glass si accampò per qualche giorno, dando modo al corpo di riprendersi grazie alle proteine ottenute dal bisonte. Riuscì a recuperare parzialmente le energie, a curare le ferite più lievi e a prevenire la cancrena di quelle più profonde lasciando che i vermi si cibassero della carne in decomposizione in corrispondenza delle lesioni.

In qualche modo Glass riuscì a raggiungere il fiume Missouri e ad ottenere una canoa di pelli da alcuni indiani Lakota (che gli offirono un pasto a base di carne di cane), raggiungendo così Fort Kiowa nell’ottobre del 1823 dopo aver coperto oltre 300 km.

Dopo aver recuperato le forze, Glass era intenzionato a cercare vendetta nei confronti di chi lo aveva abbandonato sequestrandogli ogni strumento utile a sopravvivere. Essendo venuto a sapere che Fitzgerald e Bridger si trovavano a Fort Henry, si aggregò ad una spedizione diretta verso il forte dopo aver ottenuto a credito un fucile, delle munizioni e alcuni beni di prima necessità.

Anche in questo caso, Glass si salvò per il rotto della cuffia sbarcando un giorno prima che gli Arikara massacrassero l’intera spedizione. Dopo essere stato avvistato dagli Arikara il giorno successivo, fu tratto in salvo da due guerrieri Mandan che lo trasportarono a Tilton’s Post, un punto di scambio della Columbia Fur Company. La notte stessa Glass lasciò il fortino per raggiungere Fort Henry, non sapendo che Andrew Henry era stato costretto ad abbandonarlo a causa degli attacchi dei Piedi Neri.

Dopo 38 giorni di marcia, Glass raggiunse un Fort Henry deserto. Secondo alcuni storici, l’esploratore trovò un biglietto che spiegava le ragioni dell’abbandono e la posizione del nuovo Fort Henry; Hugh fu comunque in grado di determinare la posizione del fortino, collocato a circa 50 km di distanza, e raggiungerlo nel capodanno del 1823.

La rinuncia alla vendetta

Gli uomini di Fort Henry furono inizialmente sgomenti nel vedere Glass vivo e vegeto. Il cacciatore fu inondato di domande su come fosse riuscito a sopravvivere, domande a cui rispose con calma apparente per poi chiedere “Dove sono Fitzgerald e Bridger?”.

L’unico presente a Fort Henry era Bridger. Dopo un breve confronto sulle ragioni del suo abbandono, Glass decise di perdonare il giovane cacciatore, ritenendo che la vera colpa delle sue sventure fosse attribuibile a Fitzgerald. Decise quindi di ripartire, al termine del periodo più duro dell’inverno, per Fort Atkinson, meta dell’uomo che lo aveva abbandonato.

Secondo i racconti dell’epoca, la vendetta di Glass, più che per l’abbandono in balia degli elementi, era incentrata sul recupero del suo amato fucile, un Hawken calibro .54 che lo accompagnava fin dalla sua permanenza con i Pawnee dopo la fuga dal pirata Lafitte.

In compagnia di altri 4 uomini, Glass lasciò Fort Henry il 29 febbraio 1824 con la missione ufficiale di consegnare un dispaccio a Fort Atkinson, ma con il preciso intento di recuperare il suo fucile e farla pagare a Fitzgerald. L’arrivo della primavera aveva riempito i fiumi con l’acqua di disgelo, forzando gli uomini a costruire canoe di pelle di bisonte per percorrere agevolmente il North Platte River.

Dopo qualche giorno il gruppo si imbattè in alcuni indiani lungo la riva del fiume. Pensando che fossero Pawnee, in 4 sbarcarono accettando l’invito del capo tribù ad unirsi a loro. Glass tuttavia riuscì ad accorgersi che alcuni nativi parlavano un dialetto Arikara: alla prima occasione tentò la fuga con i compagni, ma finì per restare ancora una volta isolato nella natura selvaggia, senza fucili (rimasti sulle imbarcazioni) e a centinaia di chilometri di distanza dalla civiltà.

Per evitare l’incontro con altri Arikara, Glass lasciò le rive del fiume e iniziò a dirigersi verso Fort Kiowa. Fortunatamente per lui, la primavera gli offrì numerosi cuccioli di bisonte da uccidere per sostenersi durante il viaggio, riuscendo a raggiungere il forte senza problemi o incontri con nativi ostili.

Tornato a Fort Kiowa, Glass ripartì quasi immediatamente per Fort Atkinson, raggiungendo il fortino nel giugno del 1824 e chiedendo al suo arrivo un faccia a faccia con Fitzgerald. Quest’ultimo, arruolatosi nell’esercito, era ormai considerato tecnicamente “proprietà del governo”: dopo aver ascoltato il racconto di Glass, il capitano della compagnia restituì all’esploratore il fucile sottratto da Fitgerand un anno prima e lo obbligò a dimenticare l’accaduto per non incorrere nelle gravi punizioni previste per l’assalto ad un soldato.

Glass dimenticò Fitzgerald anche grazie al rimborso di 300 dollari ricevuto dal capitato di compagnia di Fort Atkinson come compensazione per le peripezie vissute a causa di Fitzgerald.

Glass continuò a dedicarsi al trapping e al mercato dela pelliccia per gli anni successivi fino al 1833, anno in cui fu attaccato dai nativi Arikara lungo il fiume Yellowstone e ucciso, scalpato e derubato insieme ai suoi due compagni di caccia.

Le differenze rispetto al film “The Revenant”
  • Non c’è alcuna prova che Glass si sia mai sposato con una Pawnee;
  • Il figlio mezzosangue della pellicola, membro della spedizione in cui Glass fu attaccato dall’orso, non è mai esistito;
  • Fitzgerald non tentò di soffocare Glass, come si vede nel film, e nemmeno di uccidere il figlio sanguemisto;
  • Glass non saltò da una rupe e non si rifugiò nella carcassa del suo cavallo morto;
  • Non fu aiutato da un nativo nell’episodio del bufalo attaccato dai lupi;
  • Glass non si vendicò contro Fitzgerald, che godeva della protezione dell’esercito.

The Real Story of ‘The Revenant’ Is Far Weirder (and Bloodier) Than the Movie
The Real Story of Hugh Glass

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Ahmad ibn Fadlan e l’incontro con i Variaghi https://www.vitantica.net/2019/06/12/ahmad-ibn-fadlan-incontro-variaghi/ https://www.vitantica.net/2019/06/12/ahmad-ibn-fadlan-incontro-variaghi/#respond Wed, 12 Jun 2019 00:10:30 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4293 La conoscenza moderna che abbiamo sui Vichinghi non si basa esclusivamente sui resoconti delle loro scorrerie redatti dagli antichi abitanti d’Europa invasi dai popoli scandinavi, ma anche su testi nati dall’incontro tra la cultura musulmana e quella norrena.

Ibn Fadlan (Aḥmad ibn Faḍlān ibn al-ʿAbbās ibn Rāšid ibn Ḥammād), celebre viaggiatore del X secolo, fu uno dei primi a trascrivere con dovizia di particolari una descrizione dei Variaghi, gente di origine norrena che intratteneva rapporti commerciali tra il Mar Baltico e il Mar Nero.

Chi era Ahmad ibn Fadlan

Si hanno ben poche informazioni certe sull’origine di Ahmad ibn Fadlan, sulla sua etnicità e sulla sua educazione; non abbiamo nemmeno informazioni sulla sua data di nascita o di morte.

Sappiamo che Ahmad ibn Fadlan era un esperto di giurisprudenza islamica (faqih) alla corte del califfo abbaside al-Muqtadir e che, nell’anno 921, si imbarcò verso la Russia per incontrare Almis, primo regnante musulmano della regione.

Ibn Fadlan fu probabilmente un personaggio minore nella società araba del tempo: non ci sono poemi che celebrino il suo viaggio e non esistono citazioni del suo nome nella documentazione del tempo. Il fatto che sia stato inviato verso Nord a trattare con un alleato minore fa pensare che non ricoprisse un ruolo rilevante nella corte abbaside.

Per molto tempo il resoconto di viaggio di Ibn Fadlan fu citato solo parzialmente nel dizionario geografico di Yaqut al-Hamawi, geografo arabo del XII-XIII secolo. Nel 1923 fu scoperto in Iran un manoscritto, risalente al XIII secolo, che contiene una versione più completa del resoconto di viaggio di Ibn Fadlan; alcuni passi non presenti nel documento sono invece citati nell’opera “Sette Climi” (Haft Iqlim, XVI secolo) del geografo persiano Amin Razi.

Il viaggio verso Nord

A seguito della spedizione dell’eunuco e diplomatico Susan al-Rassi, Ahmad ibn Fadlan lasciò Baghdad il 21 giugno 921 con l’obiettivo di illustrare la legge islamica ai Bulgari che vivevano sulla riva orientale del fiume Volga, recentemente convertiti all’Islam.

I Bulgari sotto il regno di Almis, chiamati Bulgari del Volga, erano una popolazione distinta da quella che fondò lo stato conosciuto in tempi moderni come Bulgaria: intorno al VI secolo i discendenti dei bulgari moderni si spostarono verso ovest, convertendosi successivamente al Cristianesimo.

L’ambasceria fu una risposta alle richieste di Almis al califfato abbaside, richieste volte a trovare sostegno nella sua campagna contro i Cazari, una confederazione di tribù in perenne lotta contro i Bulgari del Volga per il predominio nella regione.

Pagina del diario di Ibn Fadlan
Pagina del diario di Ibn Fadlan

Per raggiungere i Bulgari del Volga la spedizione si servì di alcune rotte commerciali verso Bukhara (nell’attuale Uzbekistan), per poi cambiare direzione prima di raggiungere la città proseguendo verso nord, in Iran, il territorio dei Cazari e dei Turchi Oghuz.

Dopo circa 4.000 chilometri di viaggio, Ibn Fadlan raggiunse la capitale dei Bulgari del Volga, Bolghar, il 12 maggio 922, presentando doni al regnante locale e consegnando una lettera da parte del califfato.

Almis non prese molto bene il fatto che l’ambasceria non aveva portato il denaro richiesto al califfato per la costruzione di una fortezza difensiva per arrestare l’avanzata dei Cazari; di fatto, l’alleanza tra il califfato e i Bulgari del Volga non venne mai stipulata a causa dei finanziamenti non pervenuti.

I Bulgari del Volga

Durante il suo viaggio, Ibn Fadlan ebbe modo di osservare a lungo i popoli che incontrò, annotando critiche, aspetti per lui straordinari e descrizioni accurate del loro stile di vita.

Nel suo diario di viaggio Ibn Fadlan appare particolarmente critico nei confronti della dottrina religiosa praticata dai Bulgari del Volga. Sembra provare disgusto e rabbia nella loro errata interpretazione dell’Islam e tende a giudicare gli incontri con i locali in base alla loro pratica della religione.

Secondo Ibn Fadlan, molte delle culture islamiche incontrate lungo il Volga sono “come somari smarriti. Non hanno alcun legame religioso con Dio, e nemmeno fanno ricorso alla ragione”. I Bulgari non avrebbero accettato l’Islam per fede, come mostrerebbero alcuni retaggi della loro precedente religione pagana, ma solo come mezzo per ottenere sostegno dal califfato.

Uno degli aspetti più sorprendenti per l’ambasciatore arabo (perché sovvertiva completamente il rituale islamico) fu il pianto degli uomini durante i funerali pagani di una personalità importante tra i Bulgari: “Stanno di fronte alla porta della tenda e piangono, emettendo suoni orrendi e selvaggi. Così si fa tra gli uomini liberi”.

I Rus / Variaghi

I Variaghi intrattenevano nella regione attività commerciali e belliche (sia come pirati, sia come mercenari) e crearono diverse stazioni commerciali o fortificate che andarono a comporre il primo Stato slavo orientale, il Rus’ di Kiev. I Variaghi erano di fatto partner commerciali dei Bulgari del Volga.

L’esistenza dei Variaghi (che Ibn Fadlan chiamava Rusiyyah) non rappresentava una grossa novità per il mondo islamico, contrariamente allo sconvolgente primo impatto tra i popoli norreni e le culture cristiane nordeuropee. Ibn Fadlan fu tuttavia uno dei primi a mettere per iscritto le usanze dei popoli Rus, dipingendoli come mercanti ed esploratori armati la cui attività principale era quella del commercio.

Il mondo arabo forniva ai Variaghi l’argento che tanto desideravano in cambio di pelli, cera d’api, miele, falconi, noci, corteccia di betulla, armi e ambra, un materiale pagato a caro prezzo nei mercati musulmani. La vendita di prigionieri slavi costituiva una buona fetta della ricchezza commerciale dei Rus, che commerciavano schiavi dall’Egitto alla Spagna.

Sepoltura Rus di un capo riprodotta da Henryk Siemiradzki nel 1883 secondo la descrizione di Ibn Fadlan
Sepoltura Rus di un capo riprodotta da Henryk Siemiradzki nel 1883 secondo la descrizione di Ibn Fadlan
Il vestiario dei Rus

Ibn Fadlan approfondisce la conoscenza dei Variaghi incontrandoli a Wisu, rimanendone affascinato e dedicando a loro circa 1/5 del suo resoconto di viaggio. Li descrive alti quanto palme da dattero, biondi e rubicondi, ricoperti di tatuaggi blu e verdi dal collo ai piedi e armati di ascia, spada e un lungo pugnale.

Le donne Rus indossano gioielli come collane d’oro, d’argento, di rame o di ferro, monili che rappresentavano la ricchezza del loro marito. Tra i gioielli più gettonati ci sarebbero state anche delle perle di vetro verde, spille, chiavi e pettini, e ciò che Ibn Fadlan descrive come “dischi da portare sul petto”.

“Ho visto i Rusiyyah quando arrivarono dai loro viaggi commerciali e si accamparono lungo il fiume Atil [il Volga]. Non ho mai visto esemplari così fisicamente perfetti, alti come palme da dattero, biondi e rubicondi; non indossano tuniche o caffetani, ma gli uomini indossano una veste che copre un lato del corpo e lascia una mano libera.
Ogni uomo possiede un’ascia, una spada e un coltello, e li tiene con sé in ogni momento. Ogni donna indossa sul petto un disco di ferro, argento, rame o oro; il valore del disco indica la ricchezza o lo status del marito. Ogni disco ha un anello da cui pende un coltello. Le donne indossano collane d’oro e d’argento. Il loro ornamento più pregiato sono perle di vetro verde.”.

Fisicamente perfetti ma sporchi

Secondo Ibn Fadlan, i Rus sono esemplari umani “perfetti” in quanto a condizione fisica, ma le loro abitudine igieniche sono disgustose anche se, ogni giorno, trascorrono diverso tempo a pettinarsi. Sono volgari, poco sofisticati e sporchi.

“Sono i più sporchi di tutte le creature di Allah: non si puliscono dopo aver defecato o urinato e non si lavano quando sono in uno stato di impurità rituale e nemmeno si lavano le mani dopo aver consumato del cibo […] Non possono evitare di lavarsi faccia e testa ogni giorno, cosa che fanno con l’acqua più sporca e torbida immaginabile”.

Ibn Fadlan non lesina critiche verso i Rus che hanno deciso di convertirsi all’Islam, facendo notare che continuano a consumare carne di maiale e sostenendo che “molti di quelli che hanno intrapreso la via dell’Islam hanno perso la giusta direzione”.

Secondo Ibn Fadlan i Rus sono dipendenti dall’alcol e bevono giorno e notte. Capita anche che “uno di loro muoia con la coppa nelle mani”.

Religione, legge e funerali

Ibn Fadlan dedica parte della sua descrizione dei Variaghi ai loro usi e costumi, come i sacrifici rituali alle loro divinità pagane, il trattamento riservato ai malati e il funerale di un capo tribù, dato alle fiamme a bordo della sua nave riempita dei suoi possedimenti più preziosi, cani, cavalli, buoi e il corpo di una schiava che si offrì volontaria per accompagnare il suo padrone nell’aldilà.

“Quando qualcuno si ammala, erigono una tenda lontano dall’accampamento e lo portano dentro, dandogli pane e acqua. Non si avvicinano a lui e nemmeno gli parlano, non hanno alcun contatto con lui per tutta la durata della malattia, specialmente se è socialmente inferiore o uno schiavo. Se si riprende ed è in grado di rialzarsi, si unirà ai suoi compagni. Se muove, lo seppelliscono, ma se è uno schiavo lo lasciano sul posto come cibo per i cani e per gli uccelli”.

Non appena sbarcati dopo un viaggio, i Rus si recavano immediatamente nei pressi di idoli di legno per offrire ai loro dei parte delle mercanzie e ingraziarsi il favore divino nelle trattative per il prezzo della merce. Una volta ottenuto un prezzo di favore al termine delle trattative, i Rus sacrificavano una pecora o un bue di fronte agli idoli, lasciando un’offerta di carne come ringraziamento alle divinità.

Nel caso in cui qualcuno fosse stato sorpreso a sottrarre parte del carico o a rubare da una delle tende dell’accampamento dei Variaghi, la pena era estremamente severa:

“Se catturano un ladro o un bandito, lo portano ad un grande albero e gli legano una corda attorno al collo. Legano la corda all’albero e lo lasciano appeso fino a quando la corda non si rompe per l’esposizione alla pioggia o al vento”.

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Anche se la morte di un uomo di basso rango aveva ben poco peso nella comunità, il decesso di un capo tribù era un evento che prevedeva uno specifico rituale composto dalla preparazione del corpo e del corredo funebre, il sacrificio di animali e schiavi e l’abbondante consumo di alcol. Alcuni elementi riportati da Ibn Fadlan nella sua dettagliata descrizione del funerale vichingo di un comandante non trovano riscontro nella tradizione norrena e non possono essere considerati attendibili al 100%.

“Quando muore un uomo povero costruiscono una piccola barca, collocano il corpo al suo interno e le danno fuoco. Nel caso di un uomo ricco, radunano i suoi averi e li dividono in tre, un terzo alla famiglia, un terzo come corredo funerario e un terzo per comprare alcol da bere nel giorno in cui la sua schiava si suiciderà venendo bruciata insieme al padrone”.

Il rituale sembra essere guidato da una figura chiamata “Angelo della Morte”, una donna anziana probabilmente associata al culto di Freyr, divinità della fertilità spesso associata al culto della morte. Per la descrizione completa della cerimonia, consiglio la lettura di questo documento.

Among the Norse Tribes: The Remarkable Account of Ibn Fadlan
IBN FADLAN AND THE R£USIYYAH
Black banner and white nights: The world of Ibn Fadlan
IBN FADLAN’S ACCOUNT OF A RUS FUNERAL: TO WHAT DEGREE DOES IT REFLECT NORSE MYTH?

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Documentario: 76 giorni in mare https://www.vitantica.net/2019/04/27/documentario-76-giorni-in-mare/ https://www.vitantica.net/2019/04/27/documentario-76-giorni-in-mare/#respond Sat, 27 Apr 2019 10:27:15 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4139 Dopo una feroce tempesta, un uomo si ritrova alla deriva nell’Oceano Atlantico senza apparentemente alcuna speranza di salvezza.

Per 76 giorni Steven Callahan giorni è costretto ad adattarsi alla vita in mare affrontando la ferocia del clima, imprevisti di ogni tipo e animali marini troppo invadenti, trovando espedienti per combattere la disidratazione, la fame e la follia.

Partito da Rhode Island a bordo dell’imbarcazione chiamata Napoleon Solo, dopo un viaggio in solitario a Bermuda, Callahan salpò verso l’Inghilterra in compagnia del suo amico Chris Latchem.

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Dopo essere stata danneggiata durante una tempesta, la Napoleon Solo inizia ad affondare diversi giorni dopo aver raggiunto le Canarie. Callahan si vede costretto a rifugiarsi a bordo di un gommone di salvataggio per sei persone, iniziando un duro percorso per la sopravvivenza nel bel mezzo dell’Atlantico.

Durante i suoi 76 giorni Callahan si ciba di pesci che riesce a pescare con una lancia improvvisata, dei pesci volanti che cadono accidentalmente nel gommone e di uccelli acquatici. I suoi resti contribuirono a generare un mini-ecosistema di creature acquatiche e uccelli che seguì il gommone per circa 3.300 km.

Callahan otteneva acqua grazie a due distillatori solari d’acqua marina e alcuni dissalatori improvvisati, producendo ogni giorno un totale di circa mezzo litro d’acqua.

Dopo oltre 2 mesi di deriva nell’Atlantico, alcuni pescatori dell’isola di Maria Galante, a sud-est da Guadalupe, si accorsero della sua presenza grazie agli uccelli marini che seguivano il gommone, recuperando Callahan e portandolo sulla terraferma: aveva perso un terzo del suo peso ed era ricoperto da escoriazioni causate dall’acqua salata e dal sole.

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9 cose poco note su Thor, il dio del tuono https://www.vitantica.net/2019/04/24/9-cose-poco-note-thor/ https://www.vitantica.net/2019/04/24/9-cose-poco-note-thor/#comments Wed, 24 Apr 2019 20:00:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4149 Scrivo questo post in attesa di Avengers:Endgame, un film che ho atteso a lungo e che spero caldamente non riesca a deludermi. Vi prego di evitare ogni forma di spoiler almeno fino al 26 aprile.

Spero che la pellicola abbia un enorme successo: davvero, me lo auguro, sia per la quantità di ore che ho “investito” nel guardare ben 21 film prima di questo, epico finale, sia per il fatto che si tratta dell’unica saga cinematografica che veda come protagonista uno tra i miei supereroi preferiti di sempre: Thor, una delle divinità più celebri della mitologia norrena.

Sappiamo tutti che Thor è il dio del tuono, del fulmine, delle tempeste, della forza e di un’altra manciata di elementi naturali. Il figlio di Odino è anche il protettore dell’umanità intera e impugna un martello magico, Mjölnir, un’arma capace di radere al suolo intere montagne.

Thor era, come tutte le divinità di ogni religione del pianeta, il tentativo di dare un senso all’esistenza umana e a quella di tutta la materia che ci circonda, vivente e non.

E come ogni divinità norrena che si rispetti, la storia di Thor, come la sua origine e il suo destino, sono ricchi di retroscena e informazioni curiose.

I molti nomi di Thor

Thor è una divinità documentata fin dall’antica Roma: Tacito, nella sua opera Germania, associa Thor a Mercurio nel descrivere la religione degli Suebi (o Svevi), un popolo germanico proveniente dal Baltico.

Essendo una divinità comune in molte culture nordiche, Thor era conosciuto con almeno 15 nomi differenti. Giusto per citarne alcuni: in antico norreno era Þórr (ᚦᚢᚱ), ðunor in antico inglese, Donar in Germania, thunar tra i Sassoni.

L’origine di “Thursday” si deve proprio alla divinità nordica: “Thor’s day” (in proto-germanico Þonares dagaz) fu accostato al giovedì quando i popoli del Centro-Nord Europa iniziarono ad adottare il calendario settimanale romano.

Il nome di Thor divenne così comune in epoca vichinga da essere un prefisso (Thórr) abbastanza diffuso nei nomi di persona e di villaggi.

Mjölnir, un martello multiuso
A sinistra, Thor e Mjölnir sulla pietra di Altuna, in Svezia. A destra, una pietra runica con la raffigurazione del martello di Thor.
A sinistra, Thor e Mjölnir sulla pietra di Altuna, in Svezia. A destra, una pietra runica con la raffigurazione del martello di Thor.

Oltre ad alcuni aspetti tipici di una divinità, come un’immortalità di base, una forza sovrumana e la capacità di evocare fulmini e scatenare tempeste, una delle caratteristiche più note di Thor è la sua capacità di impugnare Mjölnir, un martello da guerra unico e straordinariamente potente.

Intorno al culto di Thor sorsero numerosi rituali magici incentrati su Mjölnir. Repliche più o meno stilizzate del martello divino venivano utilizzate in cerimonie religiose, matrimoni, nascite e funerali.

Piccoli Mjölnir erano comuni per benedire l’unione tra due persone, per propiziare una nascita senza complicazioni, per dare addio ai cari estinti o per favorire un raccolto abbondante.

Il martello simboleggiava la sconfitta dei giganti (incarnazione del male) da parte di Thor (il campione delle forze del bene) e rappresentava un amuleto multiuso largamente diffuso.

Non solo martelli magici

Thor non impugnava soltanto un martello. In una delle differenti versioni della divinità nordica, il figlio di Odino, chiamato Thunor, era in grado di scagliare saette contro le forze del male usando un’ ascia da battaglia.

Thor inoltre indossava altri oggetti dotati di proprietà magiche, tra i quali una cintura che raddoppiava la forza (Megingjarðar) e un paio di guanti magici che gli permettevano di recuperare Mjölnir dopo un lancio.

Come mezzo di locomozione, Thor non volava in modo spettacolare come il personaggio del Marvel Cinematic Universe: sfruttava un carro trainato da due capre, Tanngnjóstr e Tanngrisnir, di cui Thor si cibava durante i suoi viaggi perché avevano la straordinaria capacità di poter rinascere il giorno dopo, a patto di mantenere ossa e pelle intatte.

Un destino legato al Ragnarök

Nel poema Völuspá, una veggente (völva) narra la storia dell’universo a Odino. In questa storia, viene citata la morte di Thor: il figlio di Odino dovrà combattere contro il serpente Jörmungandr, una creatura marina di proporzioni colossali che verrà rilasciata durante il Ragnarök, una serie di eventi che segna la distruzione e la rinascita della Terra (Midgard).

Il serpente di Midgard ha fatto di recente la sua apparizione videoludica nel gioco God of War
Il serpente di Midgard ha fatto di recente la sua apparizione nel gioco God of War.

Thor riuscirà a sconfiggere il serpente di Midgard, ma avrà solo il tempo di nove passi prima di soccombere al veleno della bestia.

A quel punto, secondo la veggente il cielo diventerà nero, il fuoco avvolgerà la Terra, spariranno le stelle, si solleverà un gran vapore e il mondo verrà ricoperto d’acqua, per poi rinascere dalle sue ceneri, verde e fertile.

Divinità d’importazione?

La figura di Thor sembra somigliare ad alcune divinità centro-nordeuropee, come il celtico Taranis, ma anche ad alcuni personaggi mitologici orientali, come Indra, divinità induista dai capelli rossi che lanciava fulmini con la sua arma.

Indra era anche il creatore di tempeste, il portatore di pioggia, il regolatore del livello dei fiumi e il dio della guerra, celebrato per i suoi poteri e la sua capacità di abbattere il male.

I punti in comune con Indra del pantheon indiano non finiscono qui: anche questa divinità, come Thor, è destinata a combattere e sconfiggere un serpente/drago gigante, Vritra. Anche l’arma di Indra, come Mjölnir, è in grado di tornare tra le mani del suo proprietario.

L’arte del travestimento
A sinistra, disegno di Thor islandese risalente al XVIII secolo; a destra, statua di Thor a Stoccolma
A sinistra, disegno di Thor islandese risalente al XVIII secolo; a destra, statua di Thor a Stoccolma.

Thor è stato protagonista di innumerevoli leggende, alcune davvero bizzarre. Una delle più particolari vede il dio del tuono impegnato in un curioso tentativo di recuperare Mjölnir.

Il martello magico, sottratto dai giganti, era stato seppellito a oltre 10 km di profondità; sarebbe stato restituito solo nel caso Freya avesse accettato il matrimonio con Thrym, il re dei giganti.

Heimdall, il dio che vigila il ponte arcobaleno Bifrost che porta ad Asgard, suggerisce quindi questo piano d’azione: Thor, travestito da Freya, sarebbe entrato nella fortezza dei giganti in compagnia di Loki, travestito da servitrice.

Thrym accolse Thor e Loki con gentilezza, offrendo un ricco banchetto per celebrare le nozze che avrebbero celebrato il giorno seguente, ma Thor si tradì velocemente divorando un intero bue, otto salmoni e ogni altro cibo presente sulla tavola, bevendo interi barili di idromele.

I sospetti di Thrym vengono fugati dalla parlantina di Loki. Si giunge quindi al momento del matrimonio: quando Mjölnir viene offerto a Thor per benedire l’unione, il dio del tuono lo afferra e inizia a uccidere ogni singolo invitato, terminando velocemente la faccenda e liberandosi finalmente degli abiti femminili che indossava.

Sangue di gigante

Asgardiani e Giganti non sono mai andati molto d’accordo; strano, considerando che Thor è nipote di giganti. Odino infatti è mezzo-gigante: sua madre Jord (“Terra”) era una gigante purosangue.

Le entità di sangue misto non sono rare nella mitologia nordica: giganti ed Æsir (una delle due tribù di divinità, assieme ai Vanir, del pantheon nordico) intrattengono rapporti non solo come nemici, ma anche come amanti o semplici popoli differenti per cultura e scopi.

Quasi imbattibile

Thor non era imbattibile. Le leggende che lo riguardano lo vedono spesso vittima di tranelli tesi dai suoi nemici; la scarsità di astuzia veniva spesso colmata dalla sagacia di Loki.

Giant Skrymir and Thor, di Louis Huard (1813-1874)
Giant Skrymir and Thor, di Louis Huard (1813-1874)

Il dio del fulmine non era imbattibile nemmeno dal punto di vista fisico, anche se ben pochi potevano competere con lui. Lo Snorra Edda di Snorri Sturluson cita la leggenda di Thor e Utgarda-Loki (noto anche come Skrimir), uno jötnar (gigante) che sfida Thor ad una gara di forza e ad una competizione alcolica.

La prova di forza non va a buon fine, e nemmeno quella di bevute (leggi questo post per qualche dettaglio in più sulla storia). Thor, sconfitto e infuriato, dichiara che avrebbe battuto chiunque nella lotta (glima); Utgarda-Loki accetta la sfida offrendo come avversario Elli, la sua nutrice, che lo sconfigge più e più volte.

Sposato con Sif

Thor non era un guerriero divino solitario, ma aveva una compagna; contrariamente a quanto rappresentato nel Marvel Cinematic Universe, non si invaghì di una terrestre, ma faceva coppia con Sif, la dea della fertilità.

Thor e Sif vivevano insieme nel Thrudheim, un’enorme residenza di 540 stanze oltre ad essere la casa più grande di Asgard. I figli del dio del tuono, Trud e Modi, vivevano insieme al figlio adottivo di Thor, Ullr, e ad un figlio illegittimo di nome Magni, nato dall’unione del dio con la jötunn Jarnsaxa.

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Donner Party: impreparati alla sopravvivenza https://www.vitantica.net/2019/03/29/donner-party-impreparati-alla-sopravvivenza/ https://www.vitantica.net/2019/03/29/donner-party-impreparati-alla-sopravvivenza/#respond Fri, 29 Mar 2019 00:10:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3822 Cosa accade quando ci si trova in un ambiente ostile totalmente impreparati? Durante l’inverno del 1846, nella Sierra Nevada californiana si verificò uno degli episodi più tragici mai accaduti sulla Pista dell’Oregon, un perfetto esempio di cosa può accadere quando si sottovaluta un ecosistema sconosciuto e imprevedibile.

Quella che venne definita “Donner Party” era una carovana di emigranti partita per un viaggio di circa 4-6 mesi, ma gli 87 membri del gruppo rimasero intrappolati tra le montagne durante un inverno particolarmente rigido, con poche provviste e quasi nessuna esperienza nella sopravvivenza in ambienti selvaggi.

Solo in 48 riuscirono a sopravvivere, tra atti di cannibalismo, animali domestici per cena e prove di resistenza continue sotto l’implacabile clima invernale della Sierra Nevada.

A distanza di oltre 160 anni, una ricerca di Kelly Dixon, professore del Dipartimento di Antropologia dell’Università del Montana, è riuscita a mostrarci di cosa si nutrirono i membri del Donner Party per sopravvivere all’inverno e all’assenza di cibo.

Impreparati alla Pista dell’Oregon

Il Donner Party era un gruppo di pionieri (come molti altri ce ne furono in quel periodo) diretto ad Ovest su quella che veniva definita “Pista dell’Oregon”, un percorso che partiva da Independence in Missouri per finire in California. Il tragitto richiedeva generalmente da 4 a 6 mesi per essere completato procedendo ad un ritmo di circa 24 km al giorno, la distanza media percorribile da un carro in circa 24 ore.

La parte più difficile del viaggio era rappresentata dagli ultimi 160 km: oltre 500 picchi alti fino a 3.700 metri dovevano essere superati per poter raggiungere la meta, e il tempismo era d’obbligo: durante l’inverno, infatti, la Sierra Nevada risultava del tutto impraticabile da un carro carico di beni di prima necessità, utensili e persone.

Rotta seguita dal Donner Party
Rotta seguita dal Donner Party.

I membri della carovana era quasi tutti impreparati alla natura selvaggia: per quanto tecnicamente definibili “pionieri”, molti erano membri di famiglie benestanti, privi di ogni nozione di sopravvivenza e incapaci di gestire i pericoli del territorio, al contrario di alcune tribù particolarmente bellicose di nativi americani che dimoravano lungo la Pista dell’Oregon.

A capo della carovana c’era George Donner, ricco agricoltore di 62 anni che assieme al fratello Jacob e alle loro famiglie decise di spostarsi verso Ovest e raggiungere la California. Uno degli altri membri della carovana, James Frazier Reed, viaggiava a bordo di un carro talmente decorato e imponente da richiedere otto buoi per essere trainato.

Una rotta pericolosa

Su consiglio Lansford W. Hastings, esperto delle vie percorribili californiane, il Donner Party imboccò una rotta apparentemente migliore rispetto a quella seguita fino ad allora dagli emigranti. Una rotta che non solo avrebbe fatto risparmiare tempo prezioso prima dell’inverno, ma che avrebbe anche evitato spiacevoli incontri con nativi e messicani.

La scorciatoia di Hastings, tuttavia, si rivelò più ostica del previsto: i 60-80 carri che costituivano la carovana procedevano troppo lentamente al ritmo di circa 2 km al giorno, e gli uomini più forti costretti di continuo ad abbattere alberi e a ripulire la pista dalle rocce che ostacolavano l’avanzata del gruppo.

Dopo qualche settimana di viaggio, i viveri iniziarono a scarseggiare. Era ormai settembre e il Donner Party era in ritardo di oltre un mese sulla tabella di marcia; ma il peggio doveva ancora venire. Superate le Wasatch Mountains, i pionieri si trovarono nel Great Salt Lake Desert, uno dei luoghi più inospitali del pianeta.

Il Great Salt Lake Desert è una distesa salata di 10.000 km quadrati che riceve solo 20 centimetri di pioggia all’anno. E’ facile quindi immaginare quale fu il destino dei membri del Donner Party: miraggi, rottura dei carri, disidratazione e animali da soma morti di stenti furono solo alcune delle fatiche sperimentate dai viaggiatori durante i sei giorni di attraversamento del deserto.

Era chiaro a tutti che la scorciatoia di Hastings non era altro che una condanna a morte. Ma ormai non c’era altra scelta: a fine settembre e con l’inverno che si avvicinava pericolosamente, il percorso di Hastings era l’unica opzione rimasta.

Bloccati sulla Sierra Nevada senza viveri
Fiume Truckee durante l'inverno
Fiume Truckee durante l’inverno

Il Donner Party finì per ritrovarsi in ottobre inoltrato nel bel mezzo delle montagne gelide della Sierra Nevada. Fino alla metà di novembre non ci sarebbe stata possibilità di valicare l’unico passo percorribile, e i pionieri furono costretti ad accamparsi nei pressi di Truckee Lake, luogo in cui si consumò la tragedia che rese tristemente celebre il Donner Party.

All’arrivo a Truckee Lake erano già morte almeno cinque persone principalmente a causa del freddo, della malnutrizione, dell’affaticamento eccessivo e di alcuni incidenti, come lo sparo di un fucile durante il suo caricamento o liti scatenate da futili motivi.

Tra il dicembre del 1846 e l’aprile del 1847 morirono altri 25 uomini e 9 donne, e per placare la fame i sopravvissuti iniziarono a valutare l’ipotesi di cibarsi dei cadaveri dei compagni, l’unica fonte di proteine facilmente accessibile a pionieri esausti e affamati, al limite dell’immobilità.

Per resistere al gelo invernale, i membri della carovana costruirono delle piccole baracche di tronchi di pino, senza preoccuparsi di realizzare pavimentazioni o di coprire i numerosi buchi dei tetti. Le baracche non avevano porte o finestre, ma solo aperture grezze per entrare o uscire coperte da teli di pelle.

Questi tronchi furono tagliati dal Donner Party per costruire le baracche e per riscaldarsi. L'altezza del taglio indica il livello della neve al tempo del taglio
Questi tronchi furono tagliati dal Donner Party per costruire le baracche e per riscaldarsi. L’altezza del taglio indica il livello della neve al tempo del taglio

Al termine della costruzione del campo invernale il cibo era quasi totalmente esaurito. Il bestiame iniziò a morire a causa dell’assenza di erba e le loro carcasse furono fatte congelare e accatastate per un utilizzo futuro.

I pochi cacciatori della carovana riuscirono ad uccidere qualche animale, come cervi, lepri e un orso, ma le poche proteine ottenute da selvaggina e bestiame furono consumate avidamente e velocemente dai pionieri.

Secondo i resoconti di alcuni dei sopravvissuti, e grazie ai diari redatti ai soccorritori, sappiamo che i membri del Donner Party, trovatisi in assenza di cibo, iniziarono a nutrirsi dei loro animali domestici, inclusi i cani di famiglia e i topi che soggiornavano tra le riserve di grano ormai esaurite.

Uno dei cani, Cash, apparteneva a Virginia Reed Murphy, che affermò nella sua testimonianza:

“Mangiammo la testa e le zampe, anche la pelle, mangiammo tutto di quel cane”.

Un altro animale, il cane di Patrick Breen, pare abbia fatto la stessa fine dopo essere stato accusato di aver mangiato la scarpa di un bambino.

“Quando la carne finì, gli emigranti si precipitarono sulle pelli degli animali uccisi. Se lavorate, tagliate a strisce e bollite, formano una colla molto densa” spiega Kristin Johnson, che ha studiato la vicenda del Donner Party per due decadi. “Scoprirono anche che le ossa, se bollite abbastanza a lungo o arrostite, potevano essere mangiate”.

Prima di arrivare agli animali domestici, tuttavia, i membri del Donner Party provarono a nutrirsi di ogni cosa a loro disposizione: pigne, resina e rami di pino, una veste di pelle di bufalo, animali selvatici, e qualunque altra pianta riuscisse a sopravvivere al gelo dell’inverno.

Cannibalismo

La situazione era destinata a degenerare velocemente dopo aver ucciso e consumato i migliori amici dell’uomo. Reed, che tentò di organizzare diverse spedizioni di salvataggio dopo il suo esilio dal gruppo nel precedente settembre, una volta arrivato a Truckee Lake con i soccorsi raccontò di essersi trovato di fronte a capelli, ossa, crani e pezzi di arti semi-consumati, ammucchiati di fronte al fuoco.

Pagina 28 del diario di Patrick Breen, in cui si legge: "La signora Murphy ieri ha detto che avrebbe iniziato con il mangiare Milt, non credo che l'abbia ancora fatto"
Pagina 28 del diario di Patrick Breen, in cui si legge: “La signora Murphy ieri ha detto che avrebbe iniziato con il mangiare Milt, non credo che l’abbia ancora fatto”

Dal corpo di George Donner erano stati rimossi cuore e fegato, mentre braccia e gambe erano state amputate brutalmente. I bambini della carovana avevano i volti ricoperti di sangue rappreso e tentavano disperatamente di addentare la carne dei cadaveri.

L’analisi di oltre 16.000 frammenti di ossa trovati a Truckee Lake indicherebbe che i membri del Donner Party si nutrirono di topi, cani, cervi, conigli, cavalli e bestiame, ma nessuno scheletro umano è stato ritrovato intatto.

“Se le famiglie del Donner Party avessero davvero consumato solo carne e organi interni, come ci si aspetterebbe dal confronto con altri casi di cannibalismo di sopravvivenza, solo i tessuti molli sarebbero stati cotti sul fuoco o bolliti in una pentola” spiega Dixon.

“Stiamo ponendo enfasi sul fatto che le fonti storiche e archeologiche presentano una storia complicata che parla di esseri umani che hanno fatto quanto possibile, incluso mangiare pelle e corde, oltre a consumare i loro cani, prima di prendere la decisione disperata di cannibalizzare i cadaveri. Quindi, i resti ossei presenti nel sito indicano la volontà di evitare il cannibalismo…ma non necessariamente l’assenza di questa pratica”.

Accampamento del Donner Party al momento delle missioni di soccorso
Accampamento del Donner Party al momento delle missioni di soccorso

In tutto furono organizzate tre spedizioni di soccorso, che portarono scorte alimentari ai pionieri intrappolati e riuscirono a evacuare alcuni dei sopravvissuti. I casi di cannibalismo non cessarono dopo la prima spedizione, ma continuarono a causa del veloce esaurimento delle scorte portate dai soccorsi.

Uno degli evacuati, William Hook, una volta giunto in salvo nella Bear Valley si precipitò in un emporio in preda alla fame e ingurgitò una tale quantità di cibo da risultargli fatale. L’ultimo ad essere salvato durante la terza spedizione di soccorso, Lewis Keseberg, fu trovato a poca distanza dall’accampamento con una pentola piena di carne umana, gioielli e 250 dollari in oro.

Delle 87 persone entrate nelle Wasatch Mountains, soltanto 48 furono condotte in salvo. Solo le famiglie Reed e Breen rimasero intatte e solo tre muli, tra tutto il bestiame della carovana, riuscirono a raggiungere la California.

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William Adams, il primo samurai europeo https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/ https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/#respond Fri, 22 Mar 2019 00:10:50 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3819 Molti di voi avranno visto il film “L’ultimo samurai”, che dipinge le gesta di un americano dall’indomito spirito guerriero divenuto samurai dopo essere caduto preda del fascino dei famigerati guerrieri giapponesi.

Se istintivamente avete scartato l’ipotesi che uno straniero potesse diventare samurai in un Giappone conservatore e legato indissolubilmente alle antiche tradizioni, la realtà è che nel corso dei secoli passati i samurai di origine non nipponica furono diversi, primo tra tutti William Adams.

Adams non fu il primo samurai straniero della storia del Giappone: fu probabilmente preceduto da un africano, Yasuke, che servì sotto Oda Nobunaga 20 anni prima dell’arrivo dell’inglese. E’ anche accertato che alcuni coreani e cinesi ottennero il titolo di samurai durante il periodo Sengoku, ma Adams fu certamente il primo samurai europeo della storia.

Una vita da marinaio

William Adams era originario di Gillingham, Inghilterra. Nato nel settembre del 1564, rimase orfano di padre all’età di 12 anni e venne preso come apprendista dal costruttore di navi Nicholas Diggins. Adams trascorse i successivi 12 anni imparando il mestiere del marinaio, e molte altre nozioni utili alla vita sul mare come l’astronomia, la navigazione e le tecniche costruttive dei vascelli inglesi.

Dopo essersi arruolato, Adams servì la Marina Reale sotto nientemeno che Sir Francis Drake, il famoso corsaro e navigatore inglese. Partecipò anche alle manovre di contrasto dell’ Invincibile Armata spagnola nel 1588 a bordo del vascello di supporto Richarde Dyffylde.

Terminata la guerra, Adams fu assunto come navigatore della Barbary Company, una compagnia commerciale creata dalla regina Elisabetta I nel 1585 che per circa 12 anni potè godere di un trattato commerciale esclusivo con il Marocco.

Secondo le fonti gesuite, Adams partecipò anche ad una spedizione diretta verso Oriente durata circa due anni, alla ricerca del Passaggio a nord-est lungo la costa della Siberia; in una sua lettera autobiografica, tuttavia, Adams non cita mai la sua partecipazione all’impresa.

La flotta su cui era imbarcato Adams: la "Blijde Bootschap", la "Trouwe", la "T Gelooue", la "Liefde" e la "Hoope"
La flotta su cui era imbarcato Adams: la “Blijde Bootschap”, la “Trouwe”, la “T Gelooue”, la “Liefde” e la “Hoope”

All’età di 34 anni, Adams prese parte nel ruolo di pilota ad una spedizione mercantile olandese verso il Sud America, nella speranza di vendere il carico della flotta in cambio di argento.

La piccola flotta di cinque navi salpò da Rotterdam nel 1598; come piano di riserva in caso di fallimento della spedizione era previsto di far rotta verso il Giappone per ottenere argento da utilizzare per acquistare spezie nelle Molucche prima di tornare in Europa.

La spedizione fu un fallimento: in corrispondenza del’isola di Annobòn la flotta fu attaccata e costretta a dirigersi verso lo Stretto di Magellano; flagellata dal tempo e dai capricci dell’Atlantico, solo tre navi riuscirono a superare lo stretto.

Ben presto la flotta si ridusse ad una sola nave dopo che l’equipaggio della Hoope fu sterminato da un tifone in prossimità delle Hawaii nel febbraio del 1600 e la Trouw fu attaccata in Indonesia da navi portoghesi nel 1601.

L’arrivo in Giappone

Quasi due anni dopo aver girovagato per il Pacifico, Adams, a bordo dell’ultima nave della spedizione, la Liefde, si ritrovarò a sbarcare sull’isola di Kyushu in Giappone in compagnia di un equipaggio di soli 20 uomini malati e stanchi.

Il carico della nave consisteva in tessuti, perle di vetro, specchi, utensili di metallo, chiodi, 19 cannoni di bronzo, 5.000 palle di cannone, 500 moschetti e tre bauli pieni di cotte di maglia.

William Adams incontra Tokugawa Ieyasu
William Adams incontra Tokugawa Ieyasu in una mappa del Giappone del 1707 di Pieter van der Aa

Dopo essersi ripreso dal viaggio, l’equipaggio della Liefde si spostò a Bungo (nell’attuale prefettura di Oita). Qualche giorno dopo lo sbarco, Adams e l’equipaggio furono imprigionati nel castello di Osaka per ordine diretto di Tokugawa Ieyasu: alcuni gesuiti portoghesi suggerirono che i nuovi arrivati fossero pirati e consigliarono al daimyo di Edo di giustiziare l’intero equipaggio.

Ma fu proprio l’incontro con Ieyasu che cambiò in meglio la sorte di Adams: considerata la vasta esperienza dell’inglese nella costruzione di navi e nella navigazione, il futuro shogun decise di liberare l’equipaggio dopo aver attentamente valutato le conversazioni avute con il marinaio inglese durante i tre interrogatori che precedettero la sua liberazione.

Il rapporto tra Adams e Ieyasu

Nel 1604, Tokugawa chiese ad Adams di costruire una nave in stile occidentale per Mukai Shogen, comandante in capo della flotta di Uraga. I lavori, condotti nel porto di Ito, portarono alla costruzione di un vascello di otto tonnellate, al quale fece seguito una nave di 120 tonnellate, simile alla Liefde, rinominata successivamente “San Buena ventura“.

La costruzione di queste due navi fece entrare Adams nelle grazie di Tokugawa. Ma mentre la maggior parte dell’equipaggio ottenne il permesso di lasciare il Giappone nel 1605, ad Adams non fu concesso di lasciare il Paese fino al 1613, anche se l’inglese decise di non fare più ritorno in Europa per il resto della sua vita.

Ritratto di Adams dal "Black Ship Scroll"
Ritratto di Adams dal “Black Ship Scroll”

Durante la sua permanenza alla corte di Tokugawa, Adams assunse presto il ruolo di diplomatico, diventando consigliere personale dello shogun per le questioni commerciali e ogni attività connessa ai contatti con il mondo occidentale. Dopo pochi anni Adams sostituì il gesuita João Rodrigues nel ruolo di interprete ufficiale dello shogun.

Adams ottenne infine il titolo di samurai. Lo shogun decretò che il pilota William Adams era defunto e che era nato un nuovo samurai: Miura Anjin.

La carica rendeva di fatto Adams un servitore ufficiale dello shogunato e annullava ogni legame con la sua patria d’origine: Adams inviò regolarmente somme di denaro alla moglie e ai figli rimasti in Inghilterra sfruttando i contatti commerciali con le compagnie olandesi e inglesi, ma non riuscì mai più a ricongiungersi con la sua famiglia.

Adams ricevette anche la carica di “hatamoto“, un titolo estremamente prestigioso che consentiva al vassallo di conferire direttamente con lo shogun.

Una nuova vita in Giappone

Ad Adams fu assegnato un feudo a Hemi (in corrispondenza dell’odierna città di Yokosuka), con un seguito di schiavi e servitori composto da 80-90 persone. Le sue proprietà furono valutate a circa 250 koku: un koku corrispondeva alla quantità di riso necessaria a sfamare una persona per un anno.

Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613
Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613

Dato che il suo nuovo rango recideva ogni legame con la sua vita in Inghilterra, Adams sposò Oyuki, la nipote adottiva dell’ufficiale governativo Magome Kageyu, avendo da lei Joseph e Susanna.

Considerata la presenza di cattolici nel Giappone del XVII secolo e il fatto che Adams fosse protestante, l’inglese fu bersaglio di numerose campagne di discredito ordite dai gesuiti: inizialmente si tentò di convertirlo, in seguito gli si offrì segretamente un modo per fuggire dal Giappone a bordo di una nave portoghese, offerta che Adams non accettò mai anche dopo la caduta del divieto di lasciare il Sol Levante imposto per anni da Ieyasu.

La vita di Adams divenne quella di un vero e proprio giapponese: ottenne il rispetto dell’intero Giappone e imparò ad apprezzare un popolo così differente dai costumi occidentali. Parlava correntemente giapponese e vestiva secondo la moda giapponese, tanto da essere stato definito da commercianti inglesi come “un giapponese naturalizzato”.

Nel corso della sua vita partecipò a diverse spedizioni in Asia nel ruolo di ambasciatore, specialmente in Siam e Vietnam, e creò un punto di scambio commerciale in Giappone per conto della Compagnia delle Indie orientali britannica.

Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki
Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki

Adams morì nel 1620 a Hirado, a nord di Nagasaki, all’età di 55 anni. La sua tomba è visibile ancora oggi, al fianco della tomba di Francis Xavier, missionario cattolico spagnolo. Nel suo testamento lasciò scritto di distribuire i suoi possedimenti e il suo patrimonio tra la famiglia lasciata in Inghilterra e la famiglia che aveva costruito in Giappone.

Ogni anno, il 15 giugno, viene celebrata la sua figura storica ad Anjin-cho, oggi chiamata Nihonbashi. Nella città di Ito, invece, ogni anno viene celebrato il Miura Anjin Festival il 10 agosto; in quello che fu un tempo il suo feudo, un villaggio e una stazione ferroviaria portano un nome che evoca il passaggio di Adams: Anjinzuka.

William Adams (sailor, born 1564)
Will Adams, The First Englishman in Japan
William Adams, the First Englishman in Japan

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