pesca – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 La piscicoltura dei nativi americani Calusa https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/ https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/#respond Mon, 22 Jun 2020 00:10:15 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4886 La maggior parte dei lettori di questo blog avrà ormai una certa familiarità con le culture native del Nord America. Molte di queste popolazioni, considerate in passato come primitive e incapaci di sviluppare società ed economie complesse, si stanno rivelando molto più avanzate di quanto sospettato fino a qualche decade fa.

Osservando ciò che è rimasto di Cahokia, l’impatto dei nativi sulle foreste americane, sui grandi mammiferi come il bisonte, e la loro dieta, ci si rende presto conto che siamo ben lontani dalle molte culture primitive, presenti e passate.

La maggior parte delle popolazioni nordamericane basavano la loro economia su prodotti della terra come mais, zucche e fagioli, prodotti che consentivano loro di avere risorse in sovrannumero da poter scambiare con i popoli limitrofi, o tramite le quali poter crescere numericamente; oppure, avevano preservato uno stile di vita incentrato prevalentemente su caccia e raccolta, una scelta che generalmente costringe a mantenere una bassa densità di popolazione per sfamare ogni individuo del proprio gruppo sociale.

La cultura Calusa, invece di sfruttare il mais o i grandi mammiferi, fondò il proprio successo sul pesce, una risorsa preziosa ma difficile da gestire se lo scopo è quello di creare il surplus alimentare necessario alla crescita di un popolo.

Chi erano i Calusa

Il popolo Calusa si è sviluppato lungo la costa sudoccidentale della Florida. All’arrivo dei primi Europei in Florida, tra il XVI e il XVII secolo, la cultura Caloosahatchee occupava la regione delle Everglades, un intricato labirinto di acquitrini e piante acquatiche abitato da un’incredibile varietà di specie animali.

L’esistenza dei Calusa ci viene testimoniata da Hernando de Escalante Fontaneda, uno spagnolo tenuto prigioniero dai nativi nel XVI secolo, e da Juan Rogel, un missionario gesuita che visitò i Calusa negli anni ’60 del 1500.

Gli antenati dei Calusa vivevano in Florida da migliaia di anni prima dell’arrivo degli Europei. Iniziarono a stabilirsi nelle regioni paludose vicino alla costa circa 7.000 anni fa, costruendo cumuli di terra su cui edificare le proprie abitazioni.

Nel loro periodo arcaico delle popolazioni delle Everglades (circa 500 a.C.) iniziarono ad emergere culture regionali distinte, ma tutte basate su un profondo rapporto con il mare e con le paludi: sia i Calusa che i loro antenati erano “mangiatori di molluschi”, ma progressivamente incorporarono sempre più fauna ittica nella loro dieta, diventando abilissimi pescatori e piscicoltori.

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L’analisi dei sedimenti prelevati nei pressi degli insediamenti Calusa ha mostrato un’ alimentazione composta da animali terrestri piccoli e grandi, molluschi, pesci d’acqua dolce e salata come squali e razze, oltre a grandi quantità di crostacei, uccelli acquatici e tartarughe.

I sedimenti degli insediamenti costieri (come il sito di Wightman) lasciano supporre che il 93% delle proteine animali consumate dai Calusa fosse composto da pesce e molluschi, con il rimanente 7% rappresentato da mammiferi, uccelli e rettili. Negli insediamenti più interni, come Platt Island, il 60% delle proteine animali proveniva invece da mammiferi terrestri, ma il consumo di pesce era comunque elevato (circa il 20% sul totale delle proteine).

Ad oggi non ci sono prove che i Calusa coltivassero il mais; anzi, sappiamo che probabilmente rifiutarono di diventare agricoltori quando gli Spagnoli offrirono loro l’opportunità.

“I soldati, i sacerdoti e gli ufficiali spagnoli” spiega Victor Thompson, direttore del Laboratorio di Archeologia alla University of Georgia, “erano abituati ad avere a che fare con culture agricole, come i popoli incontrati nei Caraibi che producevano surplus di mais. Questo non fu possibile con i Calusa. Infatti, in un tentativo dei francescani nel tardo 1600, ai Calusa furono donate delle zappe, ma non appena le videro i nativi replicarono ‘Perchè non hanno anche portato degli schiavi per arare la terra?'”

Secondo l’antropologo George Murdock, mediamente solo il 20% della dieta Calusa era costituita da piante, come bacche selvatiche, frutti, noci, radici e tuberi: circa 2.000 anni fa, nella regione venivano coltivate anche papaya e “zucche bottiglia“, utilizzate come galleggianti per le reti da pesca, ma l’alimentazione locale era già sostanzialmente basata sul pesce.

Potere fondato sul pesce

I Calusa furono tra le culture più rilevanti in Florida per molti secoli, commerciando lungo rotte che si estendevano per centinaia di chilometri oltre la costa, modificando profondamente il territorio per costruire le loro case e creando vere e proprie isole composte dai gusci dei molluschi che consumavano.

Un “impero” che si fonda sul pesce, tuttavia, è costretto ad affrontare la sfida di come conservare l’alimento base della propria dieta in un clima tropicale che favorisce la decomposizione della materia organica morta. I Calusa conoscevano la salagione e l’affumicatura, ma per sfamare circa 10.000 individui (o forse più, come alcuni archeologi hanno ipotizzato) occorre pescare grandi quantità di pesce e affrontare lunghi processi di pulizia e preparazione, con il rischio che parte del pescato vada a male.

Come facevano i Calusa a gestire le loro risorse ittiche e a generare un surplus in grado di metterli nelle condizioni di creare un’economia fiorente strettamente legata al mare?

Secondo William Marquardt, curatore della sezione South Florida Archaeology and Ethnography del Florida Museum of Natural History, i Calusa utilizzavano enormi strutture simili a quelle della moderna piscicoltura per conservare vivo il pesce. Queste strutture, che Marquardt definire “watercourts“, avevano fondamenta di gusci di molluschi e venivano realizzate sfruttando porzioni degli estuari.

I watercourts servivano come riserva ittica a breve termine: mantenevano il pesce vivo e in salute fino al momento del consumo, della salagione o dell’affumicatura. La più grande di queste strutture misurava quanto 7 campi da basket e aveva una base profonda 1 metro composta da sedimenti e gusci di molluschi.

“Ciò che rende differenti i Calusa è il fatto che le altre società che raggiungono questi livelli di complessità e potere sono principalmente culture agricole” afferma Marquardt. “Per molto tempo le società che si basavano sulla pesca, sulla caccia o sulla raccolta sono state considerate meno avanzate. Ma il nostro lavoro nel corso di oltre 35 anni ha mostrato che i Calusa svilupparono una società politicamente complessa con architettura, religione, esercito, stratificazione sociale e commercio molti sofisticati, il tutto senza essere agricoltori”.

Thompson, Marquardt e i loro colleghi hanno analizzato due watercourts nei pressi di Mound Key, un’isola artificiale su cui si trovava l’immensa abitazione del sovrano dei Calusa, una struttura così grande da poter accogliere fino a 2.000 persone.

Metodo di pesca non chiaro

I watercourts di Mound Key furono costruiti tra il 1300 e il 1400, qualche decade dopo un calo del livello del mare che potrebbe aver ispirato un periodo di innovazioni volte a preservare lo stile uno stile di vita basato su prodotti ittici.

Non sappiamo ancora come i Calusa catturassero il pesce che allevavano e consumavano, ma le ipotesi sono due: pescandolo tradizionalmente con l’utilizzo di reti, oppure indirizzandolo verso i watercourts tramite canali appositamente realizzati.

“Non possiamo sapere esattamente come funzionasse [il loro metodo di pesca], ma la nostra sensazione è che conservassero il pesce in queste strutture per poco tempo, da poche ore a qualche giorno, non interi mesi” sostiene Michael Savarese, ricercatore che ha collaborato con Thompson e Marquardt.

“Il fatto che i Calusa ottenessero la maggior parte del loro cibo dagli estuari plasmò quasi ogni aspetto delle loro vite” conclude Thompson. “Anche oggi, i popoli che vivono lungo le coste sono un po’ differenti dagli altri, e le loro vite continuano ad essere influenzate dall’acqua, per quanto riguarda il cibo che consumano o per le tempeste che si scatenano nei pomeriggi estivi della Florida sudoccidentale”.

Ancient engineering of fish capture and storage in southwest Florida
Calusa

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Pesca con aquilone e tela di ragno https://www.vitantica.net/2019/05/15/pesca-aquilone-ragnatela/ https://www.vitantica.net/2019/05/15/pesca-aquilone-ragnatela/#respond Wed, 15 May 2019 00:10:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4146 Alcuni metodi di pesca tradizionale sono stati ampiamente esplorati da antropologi, appassionati di sopravvivenza, programmi tv e questo stessso blog: pesca con il veleno, con il cormorano, o tramite trappole da pesca anche molto elaborate.

Non molti esperti o semplici appassionati, tuttavia, si sono soffermati ad approfondire l’efficacia di un metodo di pesca ben poco ortodosso: la pesca con l’aquilone sfruttando ragnatele come esca.

La pesca con l’aquilone

La pesca con l’aquilone è una tecnica che prevede l’utilizzo di un’esca ancorata ad un oggetto che sfrutta il vento per rimanere sospeso in aria. L’ esca, viaggiando a poca distanza dalla superficie dell’acqua e muovendosi sotto il comando del pescatore, sembra possedere un’attrattiva particolare agli occhi della fauna ittica, specialmente di alcune specie che non temono di lanciarsi fuori dall’acqua per ottenere cibo.

La pesca con l’aquilone, per quanto apprentemente complessa, fornisce due sostanziali vantaggi: a chi non dispone di una barca, consente di pescare in acque troppo profonde per una pesca in solitario; per cui invece possiede un’imbarcazione, apre la strada alla pesca in zone non sicure da navigare, come secche o barriere coralline.

La pesca con l’aquilone è considerata oggi una tecnica prettamente sportiva: in Florida e nei Caraibi viene utilizzata con un’esca viva per attrarre i pesci vela, ma può essere facilmente adattata alla pesca di tonni, mahi-mahi e cernie.

Sull’isola di Tobi, un piccolo atollo nella Repubblica di Palau popolato da circa 30 persone, la pesca con l’aquilone è un’attività tradizionale che consente di portare a casa una sana dose di proteine.

A differenza della pesca sportiva moderna, tuttavia, i pescatori dell’isola usano aquiloni creati con materiali naturali, e un’esca composta da tela di ragno.

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Tela di ragno come esca

Gli aquiloni di Tobi Island vengono realizzati tradizionalmente con foglie larghe dell’albero del pane a cui viene fissato un telaio di fronte di palma da cocco. Sempre grazie alla palma da cocco, gli abitanti dell’isola dispongono anche di ottimo materiale per costruire cordame: la fibra di cocco è perfetta per fabbricare lenze resistenti.

Il pescatore deve costantemente regolare l’altezza dell’aquilone in base all’andamento dei venti. In presenza di venti deboli l’aquilone viene mantenuto ad una quota di circa 20 metri di altezza sul mare, ma venti più forti possono far salire la quota fino a 100 metri di altezza.

Gli abitanti di Tobi Island producono aquiloni diversi in base ai venti che dovranno affrontare e al comportamento desiderato: facendo piccole incisioni sulla foglia che genera portanza, o creando aquiloni asimmetrici, i pescatori possono imporre una direzione predominante alla lenza, o farla volare più in alto o più in basso.

Il pescatore può manovrare l’aquilone sia dalla spiaggia sia a bordo di una canoa. Nel secondo caso, la corda che consente di manovrare l’aquilone verrà trattenuta tra i denti, lasciando libere le mani per governare l’imbarcazione fino al momento della cattura.

Alcuni design di aquiloni utilizzati tradizionalmente dai pescatori del Pacifico.
Alcuni design di aquiloni utilizzati tradizionalmente dai pescatori del Pacifico.

L’obiettivo principale degli abitanti dell’isola sono le aguglie, pesci dell’ordine Beloniformes che possono raggiungere anche i 150 centimetri di lunghezza. Ma per catturare questi pesci è necessaria un’ esca insolita: tela di ragno.

I pescatori prelevano circa 6 ragnatele prodotte da una specie locale di ragno, utilizzando un bastoncino a forma di Y; dopo averla annodata per farle assumere una forma simile a quella di un cappio, il bastoncino viene rimosso e la tela applicata alla lenza.

L’esca di tela di ragno e i movimenti che effettua sulla superficie dell’acqua imitano un pesce che tenta di eludere un predatore. Questo comportamento sembra scatenare la curiosità delle aguglie: non appena il pesce afferra l’esca, i suoi denti rimangono intrappolati dai filamenti di tela di ragno fino a quando il pescatore non recupererà il pescato.

La pesca con l’aquilone viene generalmente condotta in solitario nei pressi della barriera corallina, a patto che il vento sia favorevole. Usando la tela di ragno come esca, in poche ore un pescatore esperto può catturare 10-30 aguglie.

Metodo di pesca comune nel Pacifico

La pesca con l’aquilone non è una prerogativa di Tobi Island. Diverse cultura tradizionali del Pacifico e dell’ Oceano Indiano sono note per utilizzare gli aquiloni per la cattura del pesce: nello stato di Sonsorol, ad esempio, si usano aquiloni equipaggiati con esche di pelle di squalo per la pesca dei pesci volanti.

Sull’isola di Merir viene invece impiegata la stessa tecnica usata su Tobi Island, mentre a Fais Island si usano come esca le “vene di squalo essiccate” per la pesca alle aguglie.

Gli abitanti di Sonsorol hanno tentato di introdurre sulle loro isole i ragni che vivono a Tobi e Merir per poter utilizzare la loro tela, apparentemente l’esca più efficace per la cattura delle aguglie perchè si aggroviglia alla perfezione tra i piccoli denti del pesce.

Pesca con aquilone

Nonostante l’ecosistema sostanzialmente identico, l’introduzione dei ragni da Tobi non ha avuto successo; i pescatori delle isole di Sonsorol usano quindi un materiale di seconda scelta, il tessuto connettivo che si trova appena sotto la pelle degli squali limone.

Nella Penisola di Huon in Nuova Guinea, gli abitanti non solo costruiscono aquiloni per la pesca, ma usano canne di bambù per manovrarli meglio, una variante della pesca con l’aquilone osservata anche sull’isola di Tobi.

In tutta l’Indonesia la pesca con l’aquilone sembra aver riscosso un particolare successo nei secoli passati, tanto da essere sfruttata anche per la caccia. Le caverne di Pangandaran, sull’isola di Java, ospitano un’ enorme popolazione di volpi volanti, pipistrelli frugivori particolarmente grandi; per catturali, gli abitanti locali si servono di aquiloni muniti di ami multipli per catturare i pipistrelli durante la loro uscita quotidiana dalla caverna, al tramonto.

This Ingenious and Singular Apparatus: Fishing Kites of the Indo-Pacific
Kiteline
Flying a kite and catching fish in the Ternate panorama of 1600 (PDF)

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Huaorani: Amazon Tribe https://www.vitantica.net/2018/11/06/huaorani-amazon-tribe/ https://www.vitantica.net/2018/11/06/huaorani-amazon-tribe/#respond Tue, 06 Nov 2018 00:10:53 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2576 Gli Huaorani sono una tribù amazzonica composta da solo 1500 membri che conservano parte del loro stile di vita tradizionale da cacciatori-raccoglitori.

La maggior parte degli Huaorani vive nello Yasuni National Park, una riserva naturale in Ecuador che si estende dalla provincia di Napo a quella di Pastaza per circa 1 milioni di ettari ricoperti interamente da foresta pluviale.

Il parco è una delle riserve con più biodiversità al mondo. Il territorio Huaorani è delimitato dal Napo, uno dei più grandi affluenti del Rio delle Amazzoni e, fino a 50 anni fa, uno dei meno esplorati e conosciuti.

Gli Huaorani hanno vissuto per secoli in isolamento, distribuiti nella foresta in piccoli gruppi familiari e clan.

Oggi, la caccia Huaorani prevede l’utilizzo di fucili e altre armi da fuoco, ma fino a non molto tempo fa gli uomini della tribù cacciavano scimmie e altri animali di media taglia con lunghe cerbottane munite di dardi avvelenati.

Gli Huaorani sono profondi conoscitori della foresta pluviale. Sono in grado di seguire tracce di animali individuandole nel sottobosco fitto e intricato, percepire l’odore che lasciano alcune prede e distinguere con precisione i suoni della foresta.

Gli Huaorani prediligono la caccia, ma in caso di necessità si dedicano alla pesca in pozze d’acqua o in anse lente del fiume.

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Il metodo di pesca praticato è la pesca col veleno (leggi questo post per altri dettagli sulla pesca con tossine naturali): avvelenando temporaneamente lo specchio d’acqua, riusciranno a raccogliere molto facilmente i pesci storditi dalle tossine, ottenendo proteine a sufficienza da sostenere l’intero villaggio per una o due giornate.

In questo documentario viene ripresa la vita quotidiana degli Huaorani, dalla caccia tradizionale con lunghe cerbottane fino alla pesca con il veleno.

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Le caratteristiche di una società di cacciatori-raccoglitori https://www.vitantica.net/2018/07/16/caratteristiche-societa-cacciatori-raccoglitori/ https://www.vitantica.net/2018/07/16/caratteristiche-societa-cacciatori-raccoglitori/#comments Mon, 16 Jul 2018 02:00:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1901 Cosa distingue una cultura basata sulla caccia e sulla raccolta da una società agricola o dedita alla pastorizia? Le tribù di cacciatori-raccoglitori sono meno belligeranti di quelle industrializzate o pre-industriali? Gli antropologi si pongono queste domande da diverso tempo; con anni di osservazioni e di duro lavoro sono riusciti a delineare alcune caratteristiche comuni tra le società cacciatrici-raccoglitrici conosciute, antiche e moderne.

Stile di vita nomade o seminomade

Molte società di cacciatori-raccoglitori conducono generalmente uno stile di vita nomade o seminomade (molto più raramente sono stanziali) e sono organizzate in piccole comunità dalla scarsa densità abitativa.

La vita totalmente nomade è più frequente in ambienti in cui le stagioni tendono ad essere più lunghe (e di solito più estreme), ma è abbastanza frequente a tutte le latitudine che la necessità di cibo e risorse costringa intere comunità a spostamenti frequenti tra diversi accampamenti stagionali.

Scarsa gerarchia sociale

Le società di cacciatori-raccoglitori osservabili in epoca moderna non dispongono di ufficiali politici specializzati. Più in generale, non esiste una vera e propria differenziazione in base alla ricchezza posseduta, ma molti beni sono di uso comune, case comprese (sono abitazioni occupate da un intero clan o gruppo familiare).

Esperienza e uguaglianza

Non importa se patriarcali o matriarcali, le società di cacciatori-raccoglitori tendono ad essere parzialmente egualitarie e ad apprezzare più l’esperienza sul campo piuttosto che la proprietà posseduta. Di solito non esiste un vero capo, ma piuttosto una gamma di esperti in vari campi (caccia, pesca, raccolta) che prendono l’iniziativa e che vengono seguiti dagli individui meno esperti.

Durante la caccia tutti devono fare la loro parte, compresi questi ragazzini Awa di ritorno da una battuta di caccia terminata con successo. Foto di Domenico Pugliese
Durante la caccia tutti devono fare la loro parte, compresi questi ragazzini Awa di ritorno da una battuta di caccia terminata con successo. Foto di Domenico Pugliese
Suddivisione dei ruoli

Il lavoro viene generalmente suddiviso solo in base ad età e sesso: le donne e i bambini si occupano solitamente della raccolta di piante spontanee e gli uomini invece si applicano nella pesca e nella caccia. La suddivisione dei ruoli non è rigida e immutabile e in alcune regioni del pianeta ci sono eccezioni degne di nota: nel popolo Aeta delle Filippine oltre l’ 80% delle donne partecipa alle attività di caccia e ottiene un successo maggiore rispetto agli uomini (31% contro 17%). Quando lavorano in combinazione con gli uomini, le probabilità di successo aumentano ulteriormente raggiungendo il 41%.

Tempo libero: meno ore di lavoro

I cacciatori-raccoglitori tendono a lavorare meno ore e a disporre di più tempo libero rispetto ai produttori di cibo: circa 6,5 ore di lavoro contro le 8,8 delle società agricole o industrializzate.

Cooperazione nella caccia e nella raccolta

La sopravvivenza delle comunità di cacciatori-raccoglitori, come anche di quelle agricole, dipende in buona parte dalla cooperazione dell’intero gruppo sociale: molti membri sono quotidianamente impegnati a procacciare cibo tramite la caccia e la raccolta, a mantenere le risorse a disposizione (come bestiame e orti) o a preparare e conservare il cibo per i periodi più duri.

Speranza di vita

Il 57% dei cacciatori-raccoglitori moderni raggiungerà l’età di 15 anni; tra questi, il 64% riuscirà a superare i 45 anni, con un’ aspettativa di vita compresa tra i 21 e i 37 anni. L’ 80% dei decessi è causato da malattie e il 20% da atti violenti o incidenti.

Aspettativa di vita dei cacciatori-raccoglitori moderni da una ricerca del 2007 condotta dalla UC Santa Barbara
Apprendimento:

Se paragonata ad una società che produce attivamente cibo, una cultura di cacciatori-raccoglitori pone meno enfasi sull’obbedienza, sulla responsabilità individuale o sull’insegnamento verbale; ma le culture con una forte impronta cacciatrice sono più portate a presentare traguardi da superare ai loro bambini.

Scorte di cibo e risorse alimentari

I cacciatori-raccoglitori sono tendenzialmente meno suscettibili a carestie e all’imprevidibilità delle risorse alimentari. Il loro stile di vita li ha abituati all’ottenimento di risorse alimentari da qualunque pianta o animale commestibile e la varietà di specie vegetali che consumano impedisce di incappare nei problemi tipici della monocoltura.

Manipolazione del territorio:

Molte società cacciatrici-raccoglitrici manipolano attivamente il territorio utilizzando il fuoco per bruciare le piante infestanti o non commestibili, oppure applicando la tecnica slash-and-burn per creare nuovi territori di caccia.

Belligeranza

Secondo alcune ricerche, la maggior parte delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ingaggia guerre con altri gruppi sociali almeno una volta ogni due anni; secondo altre invece gli scontri violenti si verificherebbero con minore frequenza rispetto alle culture produttrici di cibo. I risultati di queste analisi variano in base al valore che assumono termini come “pace” e “guerra” tra gli indigeni e tra i ricercatori: alcune azioni violente (come il punire severamente chi ha violato un tabù) non vengono considerate atti di guerra ma solo disciplina e rispetto delle tradizioni.

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Caccia o raccolta

Più ci si trova vicino all’equatore e in “località verdi” in cui la disponibilità di piante commestibili è elevata, meno i cacciatori-raccoglitori saranno dediti alla pesca o alla caccia. In queste circostanze, anche gli uomini partecipano attivamente alla raccolta. In climi più freddi, invece, la caccia e la pesca diventano attività predominanti (come tra gli Inuit, in cui l’attività di raccolta è pressoché inesistente a favore di una dieta a base di grasso e proteine animali).

Matriarcale o patriarcale

Più una società di cacciatori-raccoglitori si dedica alla raccolta, più avrà probabilità di avere una struttura matriarcale. Le società patriarcali e matriarcali non mostrano differenze nella frequenza di atti di guerra o violenti: l’elevata densità di popolazione e la complessità della cultura sembrano essere fattori che influiscono sulla belligeranza.

Territorio

Una società cacciatrice-raccoglitrice ha bisogno di un vasto territorio per poter sopravvivere; la sedentarietà è possibile solo in aree con una particolare abbondanza di risorse facilmente reperibili e un terreno adatto a supportare grandi quantità di monocoltura.

No, hunter gatherers were not peaceful paragons of gender equality
Carol R. Ember. 2014. “Hunter-Gatherers” in C. R. Ember, ed. Explaining Human Culture. Human Relations Area Files
Hunter-gatherer

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L’adattamento all’apnea dei “Nomadi del mare” https://www.vitantica.net/2018/06/28/apnea-nomadi-del-mare-sama-bajau/ https://www.vitantica.net/2018/06/28/apnea-nomadi-del-mare-sama-bajau/#comments Thu, 28 Jun 2018 02:00:47 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1844 I Sama-Bajau appartengono ad un’etnia austronesiana che si è adattata incredibilmente bene alla vita sul mare. Da generazioni occupano l’arcipelago indonesiano di Sulu e con i secoli si sono guadagnati il titolo di “nomadi del mare” per via del loro stile di vita interamente basato sull’oceano: mangiano, dormono e conducono ogni attività quotidiana su palafitte o piccole barche di legno.

Anche se oggi ben pochi Sama-Bajau seguono lo stile di vita tradizionale, le famiglie che continuano a condurre un’esistenza interamente sull’oceano vivono su piccole barche e minuscoli isolotti utilizzati come punti d’attracco temporaneo o per svolgere cerimonie e festival tradizionali.

I Sama-Bajau hanno dovuto imparare a costruire imbarcazioni resistenti e agili e ad edificare case sospese sul mare sufficientemente robuste da resistere ai capricci delle maree e alla furia del mare; ma l’abilità per cui sono noti è la loro capacità di immergersi a profondità di 50-70 metri per procurarsi cibo e materie prime, rimanendo in apnea per periodi di tempo apparentemente innaturali.

Sama-Bajau e apnea

Adattamento all’apnea

Una persona normale e non allenata all’apnea può immergersi in acqua e trattenere il respiro per qualche decina di secondi, a patto di non dover consumare troppe energie e ossigeno per nuotare. Il corpo umano, benché ormai adattato alla vita sulla terraferma, reagisce istintivamente all’apnea subacquea: il battito cardiaco rallenta, i vasi sanguigni si restringono e la milza subisce una contrazione, reazioni che consentono di conservare energia in una condizione in cui la riserva di ossigeno è limitata.

I Sama-Bajau, come il resto delle persone che vivono in zone continentali o su isole di qualunque dimensione, sono soggetti alle stesse reazioni, ma il loro adattamento alla vita marina supera di molto qualunque altro essere umano del pianeta.

La selezione naturale ha influito sulle loro capacità di immersione donando a queste etnia (per lo meno ai pescatori che ogni giorno solcano il mare) la capacità di trattenere il respiro fino a 13 minuti ed immergersi a profondità superiori ai 60 metri.

Nessuno è in grado di dire con certezza quali adattamenti abbiano reso possibile questa loro capacità quasi sovrumana, ma uno dei fattori determinanti potrebbe essere una milza super-performante.

Questo è La udeli, un pescatore Bajau che generalmente si immerge fino a 30 metri nel suo territorio di pesca
Questo è La Udeli, un pescatore Bajau che generalmente si immerge fino a 30 metri nel suo territorio di pesca
Milza e apnea

La milza è un organo spesso sottovalutato: si può vivere senza di esso, ma vivere con la milza comporta innegabili vantaggi. Svolge diverse funzioni utili per l’organismo, come combattere le infezioni ematiche, immagazzinare sangue o aiutare nell’opera di pulizia del sistema circolatorio.

Questo organo sembra inoltre essere connesso alla capacità di trattenere il respiro che possiedono molti mammiferi marini: leoni di mare, foche e alcuni cetacei hanno milze di dimensioni colossali in proporzione alla massa corporea. Melissa Llardo, ricercatrice del Center for Geogenetics dell’Università di Copenhage, ha studiato la milza dei Sama-Bajau facendo emergere la possibilità di una relazione diretta tra le dimensioni dell’organo e la loro abilità nell’apnea subacquea.

“Volevo per prima cosa incontrare la comunità” spiega Llardo, “e non fare la mia apparizione con l’equipaggiamento scientifico e ripartire subito dopo. Nella seconda visita [ai Nomadi del Mare], ho portato con me una macchina agli ultrasuoni portatile e kit per raccogliere la saliva. Abbiamo visitato diverse case e raccolto immagini delle milze”.

Palaffitte Bajau nei pressi di una sorgente d'acqua dolce che affiora di qualche metro dalla superficie del mare
Palaffitte Bajau nei pressi di una sorgente d’acqua dolce che affiora di qualche metro dalla superficie del mare

Llardo e il suo team hanno anche raccolto dati dai Saluan, una popolazione indonesiana dalle abitudini “non marine”, per ottenere un confronto tra etnie molto simili. L’analisi dei dati accumulati in Indonesia ha mostrato che i Sama-Bajau dediti alla vita sul mare possedevano milze più grandi del 50% rispetto ai Saluan.

I ricercatori hanno anche scoperto nei Bajau un gene chiamato PDE10A, che nei topi sembra determinare le dimensioni della milza regolando la produzione ormonale della tiroide.

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Pressione ambientale e allenamento

Secondo Llardo, nel corso del tempo i Bajau sono stati sottoposti alla pressione ambientale finendo “vittime” della selezione naturale, sviluppando questo vantaggio genetico e adattandosi alla vita marina molto meglio di qualunque altro essere umano.

La sola milza non è tuttavia sufficiente a spiegare l’adattamento all’apnea dei Bajau. Le immersioni a profondità elevata comportano un accumulo di pressione nei vasi sanguigni, pressione che può essere mitigata dall’allenamento.

I Sama-Bajau che praticano ancora lo stile di vita tradizionale iniziano a pescare in apnea fin da giovanissimi e con il tempo arrivano a spendere almeno 5 ore al giorno in immersione, nuotando e cacciando con fiocine improvvisate per quasi un quarto d’ora per poi risalire, riprendere velocemente fiato e immergersi nuovamente a decine di metri di profondità. Alcuni Bajau perforano volontariamente i timpani in età adolescenziale per evitare problemi durante le immersioni a grandi profondità.

La costante e quotidiana pressione esercitata dal mare nel corso dei secoli potrebbe aver fatto emergere gli individui più adatti all’attività subacquea, selezionando l’etnia Bajau per le caratteristiche più idonee all’apnea come una milza di grandi dimensioni o la flessibilità della cavità toracica e addominale, sottoposte a forti compressioni man mano che si scende a profondità sempre più elevate.

The last of the sea nomads
‘Sea Nomads’ Are First Known Humans Genetically Adapted to Diving

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I Sentinelesi, uno degli ultimi popoli incontattati https://www.vitantica.net/2017/12/23/sentinelesi-popoli-incontattati/ https://www.vitantica.net/2017/12/23/sentinelesi-popoli-incontattati/#respond Sat, 23 Dec 2017 14:00:40 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1129 Sul nostro pianeta esistono ancora oggi oltre 100 comunità tribali che non hanno avuto alcun contatto con la civiltà moderna: si tratta di tribù che vivono allo stato semi-primitivo in ambienti ostili (per lo stile di vita delle civiltà industrializzate) ed estremamente difficili da esplorare anche con i mezzi offerti la tecnologia del XXI secolo.

Tra queste comunità, molte hanno avuto qualche contatto indiretto con il mondo moderno, ma alcune tribù continuano a condurre una vita in isolamento totale lontana da qualunque strada, insediamento urbano o linea di comunicazione.

North Sentinel e i Sentinelesi

L’isola di North Sentinel ospita un esempio più unico che raro di tribù semi-primitiva vissuta in quasi totale isolamento dal resto del mondo per secoli interi. L’isola di North Sentinel si trova nella Golfo del Bengala ed è completamente ricoperta da foresta pluviale tropicale. Ha una superficie di quasi 60 km quadrati ed è protetta da una fitta e pericolosa barriera corallina larga circa 500 metri che si snoda lungo il perimetro dell’isola ad un chilometro di distanza dalla costa.

Isola di North Sentinel
Posizione dell’ Isola di North Sentinel

Il terremoto del 2004 che innescò un terrificante tsunami nell’ Oceano Indiano contribuì ad innalzare North Sentinel di 1-2 metri rispetto al livello del mare. Alcune aree di costa precedentemente sommerse si trasformarono nell’arco di una giornata in ampie lagune o terreno fertile per le mangrovie, estendendo di qualche chilometro quadrato la superficie emersa.

L’isola di North Sentinel è abitata dai Sentinelesi, un popolo la cui provenienza e cultura sono ancora un mistero per via degli scarsi contatti (non sempre felici) tra gli esploratori del XX secolo e i pescatori delle Isole Andamane che regolarmente solcano l’Oceano Indiano.

North Sentinel è totalmente ricoperta da foresta pluviale
North Sentinel è quasi totalmente ricoperta da foresta pluviale. (Image: AP; Fair Use)
L’origine dei Sentinelesi

Come i Sentinelesi siano giunti sull’isola circa migliaia di anni fa senza possedere la tecnologia adatta a realizzare remi o vele rimane ancora un interrogativo senza risposta. E’ possibile che i primi Sentinelesi siano arrivati sull’isola tramite una sottile lingua di terra che collegava North Sentinel alle Isole Andamane, per poi rimanere completamente isolati dal resto del mondo fino ad oggi quando il corridoio percorso per raggiungere North Sentinel fu sommerso dall’innalzamento del livello del mare.

Il mistero sull’origine dei Sentinelesi è di difficile risoluzione: i primi contatti del mondo occidentale con gli abitanti di North Sentinel si verificarono soltanto nella seconda metà del XVIII° secolo e le informazioni sulla loro storia precedente al 1700 sono del tutto inesistenti.

Tutto ciò che conosciamo sulla loro cultura e storia è frutto di contatti indiretti, informazioni a volte poco attendibili e deduzioni formulate dagli antropologi sulla base dell’ecologia dell’isola.

Sentinelesi sulla spiaggia
Sentinelesi sulla spiaggia. Flickr/Christian Caron
Lo stile di vita dei Sentinelesi

I Sentinelesi sembrano essere il tipico esempio di società di cacciatori-raccoglitori semi-primitiva: sopravvivono grazie alla caccia, alla pesca e alla raccolta di frutta spontanea e sono probabilmente organizzati in nuclei familiari che condividono grandi capanne capaci di ospitare anche 30-40 persone, caratteristica spesso comune nelle comunità tribali composte da clan.

La caccia viene condotta utilizzando archi piatti efficaci fino a circa 10-15 metri, oppure piccoli giavellotti utilizzati anche per la pesca in combinazione ad arpioni lunghi circa 2,5 metri. I Sentinelesi utilizzano anche “frecce d’avvertimento” prive di punta, spesso scagliate verso le barche di pescatori o curiosi che si avvicinano troppo alla costa dell’isola.

Sentinelesi cercano di colpire una barca

I Sentinelesi non conoscono la lavorazione dei metalli (materiali del tutto estranei all’isola) e gli unici oggetti di metallo in loro possesso sono stati ottenuti da frammenti di materiale spiaggiatosi. Utilizzano principalmente utensili di pietra, selce, legno o bambù e sono in grado di costruire piccole canoe per pescare nelle acque poco profonde delimitate dalla barriera corallina che circonda l’isola.

Le informazioni sulla cultura dei Sentinelesi sono scarse e imprecise perché gli abitanti dell’isola rifiutano ogni forma di contatto con il resto del mondo, atteggiamento che rende impossibile anche solo stimare con precisione il numero di individui sull’isola.

Secondo le stime delle autorità governative indiane, la popolazione sembra oscillare tra le 50 e le 250 unità; un censimento condotto nel 2011 ha ridotto il numero di Sentinelesi a circa 40 individui ma ad oggi non si hanno altre informazioni sulla composizione della popolazione dell’isola.

Sentinelesi tentano di colpire l'elicottero della Guardia Costiera Indiana dopo lo tsunami del 2004
Sentinelesi tentano di colpire con arco e frecce l’elicottero della Guardia Costiera Indiana dopo lo tsunami del 2004
Incontri ravvicinati pericolosi

Tentare un contatto con gli abitanti di North Sentinel può rivelarsi un’esperienza pericolosa e violenta (il breve documentario qui sotto è una testimonianza di quanto possano essere bellicosi i Sentinelesi). I casi di accoglienza ostile da parte dei Sentinelesi non sono affatto rari nell’arco del 1900: nel 1974, un team del National Geographic intento a girare un documentario visitò l’isola e fu subito accolto da una pioggia di frecce.

Dopo essere riusciti a sbarcare su una spiaggia per depositare alcuni doni in segno di amicizia, la troupe rimase in attesa di una reazione da parte dei locali: la risposta al gesto amichevole fu quella di scagliare un’altra nuvola di dardi, uno dei quali ferì il regista alla coscia sinistra mettendo la parola fine alla spedizione su North Sentinel.

Uno dei casi più recenti è invece quello di Sunder Raj e Pandit Tiwari, due pescatori di granchi che operavano illegalmente nelle acque di North Sentinel uccisi dai locali in una notte del 2006: l’ancora si sganciò dal fondale e la barca fu trasportata dalla corrente fino ad una secca, permettendo ai Sentinelesi di salire a bordo e di uccidere i due pescatori.

Qualche giorno dopo, l’elicottero della guardia costiera indiana incaricato di recuperare i corpi fu incapace di atterrare per via delle frecce scagliate di continuo dai locali asserragliati attorno al relitto.

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Sentinelese

NORTH SENTINEL ISLAND: A TIMELINE OF THE WORLD’S MOST ISOLATED TRIBE

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Trappole da pesca https://www.vitantica.net/2017/11/22/trappole-da-pesca/ https://www.vitantica.net/2017/11/22/trappole-da-pesca/#comments Wed, 22 Nov 2017 16:00:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=628 Le trappole da pesca sono stati probabilmente i primi strumenti utilizzati nell’antichità per la cattura di specie acquatiche. Ogni cultura del mondo ha sviluppato e perfezionato le sue versioni di trappole per pesci nel corso dei millenni passati, finendo per ottenere design molto simili tra loro e utilizzando materiali dalle  proprietà meccaniche molto simili (roccia per costruire dighe, vimini e rami per flessibilità e resistenza a torsione) disponibili in quasi tutte le regioni del mondo.

Le prime trappole da pesca furono probabilmente di tipo permanente, piccole dighe composte da pietre e costruite lungo coste di mari o laghi, oppure in piccole insenature di letti fluviali. Ideate per rimanere sotto la superficie dell’acqua durante l’alta marea, queste trappole confinavano il pesce all’interno del recinto di roccia non appena la marea raggiungeva il suo punto più basso.

Successivamente fecero la loro comparsa design più elaborati e materiali più comodi da lavorare e trasportare rispetto alla pietra, come legno e vimini. Ogni trappola richiedeva l’adozione di una particolare strategia di pesca, talvolta molto elaborata, per riuscire ad ingannare anche il pesce più intelligente.

 

Trappola a diga
Trappole di pietra di Brewarrina costruite dagli aborigeni australiani
Trappole di pietra di Brewarrina costruite dagli aborigeni australiani

La storia delle trappole che sfruttano le fasi della marea risale addirittura all’ Homo pre-sapiens, ma la più antica testimonianza archeologica di una diga per pesci costruita dall’uomo moderno risale a circa 8.000 anni fa ed è stata scoperta in Irlanda.

Le dighe di Mnjikaning, in Canada, appartengono invece ad uno dei sistemi di sbarramento più complessi mai visti nell’antichità: furono costruite oltre 5.000 anni fa dai nativi Uroni e Mohawk per catturare svariate specie di pesci d’acqua dolce e rimasero in uso fino ai primi anni del 1700.

Il popolo Yaghan, che vive nella Isla Grande de Tierra del Fuego, sono abili costruttori di dighe di roccia adibite alla cattura di pesce d’acqua dolce. Nell’arco degli ultimi 10.000 anni hanno realizzato complessi sistemi di sbarramento, alcuni visibili ancora oggi nel sito archeologico Bahia Wulaia Dome Middens.

Trappola per pesci realizzata con rami
Trappola per pesci realizzata con rami

Su scala più ridotta, piccole dighe di pietra o legno erano un mezzo molto comune per intrappolare la cena. La trappola più semplice consisteva nell’utilizzare rametti infilati verticalmente nella sabbia per creare una gabbia dotata di un’apertura ad imbuto che facilita l’entrata di pesci e crostacei ma rende difficoltosa l’uscita. Queste trappole non costringono all’attesa del cambiamento di marea per funzionare e sono facilmente realizzabili con pochissimo dispendio di energie.

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Trappola per polpi

Comune in molte regioni del mondo, dal Giappone all’Antica Grecia, veniva generalmente realizzata utilizzando un vaso di terracotta o di pietra dall’imboccatura stretta che veniva depositato sul fondale per qualche giorno: il polpo entrava nella trappola per utilizzarla come rifugio durante i momenti di inattività, rendendo quindi inutile l’utilizzo di un’ esca ma sfruttando la trappola stessa come esca. Quando la trappola veniva sollevata dal fondale, il polpo generalmente non tentava la fuga, ritenendosi al sicuro da qualunque attacco.

 

Nassa

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In Nuova Zelanda, i Maori usavano le hinaki (“vasi per anguille”) per catturare l’anguilla, una delle loro prede tradizionali. Gli hinaki disponevano di una sola entrata e venivano posizionati con l’apertura che puntava a valle: le anguille, dopo aver fiutato l’esca all’interno della trappola, nuotavano controcorrente infilandosi nella stretta apertura ad imbuto rimanendo intrappolate nel canestro.

La trappola era realizzata usando i rami forti ed elastici della pianta Lygodium articulatum, sufficientemente flessibili da essere piegati senza rompersi; l’ingresso a imbuto, studiato per facilitare l’entrata ma impedire l’uscita, era composto da punte di legno ripiegate verso l’interno.

Nassa in vimini
Nassa in vimini

Questo design è estremamente comune in tutto il mondo ed è stato modificato e migliorato nel corso dei millenni per arrivare alla nassa moderna. Svariate versioni della nassa da pesca sono state impiegate fino a tempi molto recenti da quasi ogni popolazione del pianeta perché si basa su un concetto molto semplice e ben collaudato, quello dell’imbuto: è facile entrare dall’imboccatura larga, ma difficile uscire dal becco stretto.

Nassa
Altra nassa da pesca

Le nasse erano anche facilmente trasportabili e semplici da riparare: molti dei materiali impiegati per la loro realizzazione erano abbastanza flessibili da poter mantenere la forma originale anche dopo essere stati piegati e legati allo scopo di trasportarli più agevolmente.

La nassa da pesca era sostanzialmente una versione primitiva e meno versatile delle future reti da pesca, la cui comparsa fu legata alla lavorazione di fibre resistenti, sottili e molto più flessibili di vimine e strisce di corteccia.

 

Reti da posta o da lancio

I più antichi resti di una rete da pesca risalgono a circa 10.300 anni fa e sono stati scoperti ad Antrea, Finlandia, nell’autunno del 1913. In origine, la rete era lunga dai 27 ai 30 metri e larga 1,5 metri, con maglie di circa 6 centimetri. La rete fu realizzata utilizzando il vimine, materiale abbondante proveniente dai salici che spesso crescono in prossimità di corsi e specchi d’acqua.

Rete da pesca risalente al 1850-1750 a.C.
Rete da pesca risalente al 1850-1750 a.C.

Le reti da posta sono state probabilmente il primo tipo di rete impiegato in antichità per intrappolare pesci d’acqua dolce o salata senza richiedere un intervento umano costante: è sufficiente posizionarle in punti strategici e armarsi di una buona dose di pazienza.

Rispetto alla nassa, la rete da posta impiega di solito fibre più flessibili e sottili ed è ancorata sul fondo tramite l’utilizzo di pietre o piccoli pesi di metallo, mentre la parte superiore sfrutta il galleggiamento di materiale poco denso (come legno tenero) per mantenere la rete sospesa fino alla superficie dell’acqua.

La rete da posta poteva essere distesa tra i margini di un fiume, o spostata in base alla necessità se ancorata tra due barche. Per fabbricare i galleggianti che tenevano la rete sospesa in verticale la scelta ricadde su qualunque materiale dotato di un peso specifico molto basso come sughero, corteccia di betulla, sfere di vetro o legno di balsa.

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La rete da lancio fu invece una rete ideata per ripetuti lanci e recuperi della trappola: non appena il pescatore individuava pesce da catturare, lanciava la rete per circondare la preda, chiudendola non appena raggiungeva la profondità desiderata utilizzando la fune che ne permetteva il recupero. Queste reti funzionavano meglio in acque prive di ostruzioni e non più profonde del raggio della rete stessa.

 

Cheena vala, o reti cinesi
Cheena vala
Cheena vala

In India, i Cheena vala sono reti da pesca manovrate tramite una struttura fissa di legno che sorregge una grossa canna da pesca. Le strutture, alte anche più di 10 metri e dotate di una rete larga circa 20 metri, erano manovrate da un gruppo di 3-6 persone: una era addetta ad abbassare la rete sfruttando il bilanciamento del proprio corpo e ad indicare al resto del gruppo il momento adatto per sollevarla.

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Pesca con tossine naturali https://www.vitantica.net/2017/11/08/pesca-con-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2017/11/08/pesca-con-tossine-naturali/#respond Wed, 08 Nov 2017 02:00:36 +0000 https://www.vitantica.net/?p=653 La pesca con il veleno, metodo utilizzato per millenni in svariate regioni del mondo, prevede l’impiego delle sostanze tossiche contenute in alcune piante allo scopo di semplificare la cattura del pesce, spesso solo tramortendolo per il tempo necessario a catturarlo con più facilità.

Brevissima storia sulla pesca col veleno

L’utilizzo di piante velenose per la cattura del pesce ha probabilmente origine nel Neolitico ed è un metodo di pesca sopravvissuto fino ad oggi in molte culture cacciatrici-raccoglitrici ancora esistenti.

L’impiego di tossine naturali per la pesca rappresentò per molto tempo il modo più efficiente per catturare il pesce: era meno faticoso rispetto all’uso di una rete da lancio, otteneva risultati più velocemente di una rete da posta fissa e non richiedeva abilità manuali specifiche o difficili da apprendere.

La pesca con il veleno, sebbene sia oggi praticata principalmente da culture semi-primitive o tribali, era un metodo di pesca relativamente comune in Europa nei secoli passati. Nel 1212, Federico II proibì l’uso di alcune tossine da pesca per porre rimedio ai danni ambientali causati dal vasto utilizzo di queste sostanze; nel XV secolo furono istituite regole molto simili in altre regioni d’Europa, proibendo di fatto l’utilizzo di veleni da immergere in pozze d’acqua o anse fluviali.

Come funziona la pesca col veleno
La pesca col veleno è un'attività che spesso coinvolge un intero villaggio. Nella foto, un gruppo di uomini Kombai intenti nella pesca col veleno ottenuto dalla corteccia di un albero.
La pesca col veleno è un’attività che spesso coinvolge un intero villaggio. Nella foto, un gruppo di uomini Kombai intenti nella pesca col veleno ottenuto dalla corteccia di un albero.

La pesca con il veleno viene di solito praticata in acque stagnanti o a scorrimento lento per favorire la diffusione e l’assorbimento della tossina, ma si presta anche per l’impiego sulla costa o in mare.

I semi della Barringtonia asiatica, ad esempio, sono utilizzati su alcune isole del Pacifico per avvelenare le piccole pozze d’acqua salata che si formano durante la bassa marea: grattugiando i semi sulle rocce laviche degli scogli, la tossina si disperde nell’acqua salmastra avvelenando o uccidendo in breve tempo piccoli pesci, crostacei e molluschi.

La pesca con il veleno è un’attività collettiva che coinvolge l’intera comunità, bambini inclusi: generalmente, la raccolta e la lavorazione delle piante tossiche è affidata alle donne, mentre gli uomini si occupano di costruire dighe di sbarramento con legna, pietra e foglie per evitare che il pesce possa sfuggire all’avvelenamento.

Dopo aver saturato l’acqua di tossine, adulti e bambini iniziano la raccolta del pesce che affiora in superficie utilizzando mani, canestri e piccole reti.

I composti presenti nelle piante tossiche tradizionalmente utilizzate per la pesca sono principalmente due:

Saponine

Di norma, queste sostanze devono subire il processo di digestione per essere assimilate dall’organismo, ma nel caso dei pesci le saponine penetrano direttamente nel flusso sanguigno attraverso le branchie. Queste sostanze bloccano l’apparato respiratorio dei pesci senza compromettere l’ edibilità dell’animale: il loro effetto non è fatale nella maggior parte dei casi, ma stordisce il pesce per un tempo sufficiente a facilitarne il recupero non appena emerge in superficie.

Rotenone

Il rotenone è una tossina incolore e inodore utilizzata fin dall’antichità come insetticida e pesticida. Anche il rotenone penetra nei pesci attraverso le branchie, ma agisce danneggiando i mitocondri e impedendo l’utilizzo dell’ossigeno cellulare. Questa sostanza è presente in qualche decina di piante e liane di Centro e Sud America appartenenti ai generi Lonchocarpus e Derris.

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Le tossine più comuni per la pesca

Le piante utilizzate per questo metodo di pesca nell’arco della storia antica sono molte (la sola Africa ospita almeno 300 specie diverse di piante utili per la pesca col veleno), qui sotto ne elenco alcune:

Aesculus californica

Pianta nativa della California e dell’Oregon. I nativi Pomo e Yokut usavano le noci, la corteccia e le foglie di questa pianta per rendere più facile la pesca. La noce veniva schiacciata e immersa in acqua calda per qualche ora prima di versare il mix nello stagno o nell’insenatura in cui si intendeva pescare.

Pianta del sapone nordamericana

Le pianta del sapone del Nord America è in realtà una definizione generica delle 5 specie del genere Chlorogalum. Queste piante perenni contengono saponine, sostanze che a contatto con l’acqua producono schiuma: dopo aver polverizzato le radici, queste vengono immerse nell’acqua all’interno di cesti a maglie strette e agitate per liberare le saponine. Il pesce, a contatto con la mistura, perde il controllo dei movimenti e della sua capacità natatoria, salendo in superficie privo di sensi.

Madhuca longifolia

Albero indiano che produce semi dai quali si può estrarre olio commestibile. Dopo la spremitura dei semi, il residuo solido viene pressato per creare una “torta” nota come gara-dhep. La torta viene quindi fatta bollire in acqua e quindi riversata nella zona di pesca. Mezzo chilo di noci spremute è sufficiente per avvelenare uno specchio d’acqua di 10 mq (ogni albero produce da 20 a 200 kg di semi).

Groviglio di radici di barbasco
Groviglio di radici di barbasco; 6 di questi sono sufficienti ad avvelenare un piccolo torrente a scorrimento lento
Barbasco

Il termine generico “barbasco” definisce un insieme di piante sudamericane (di solito queste tre: Lonchocarpus urucu, Deguelia utilis o Jacquinia barbasco) che da millenni vengono impiegate per la pesca dalle popolazioni indigene locali per via del loro contenuto di rotenone, una sostanza che causa ipossia cellulare nei pesci. Le radici di piante di oltre 4 anni d’età sono ideali per la pesca: dopo averle battute fino a sfibrarle, vengono immerse nell’acqua per rilasciare la loro azione tossica.

Barringtonia asiatica

Chiamata anche “pianta del veleno per pesci”, vive nelle foreste di mangrovie delle isole polinesiane, in Malesia e nelle Filippine. Ogni parte della pianta contiene grandi dosi di saponine e i suoi frutti ne hanno in quantità tale da essere utilizzabili come veleno per stordire o uccidere i pesci.

Anamirta cocculus

Pianta rampicante asiatica. Il suo frutto, il Cocculus indicus, è ricco di picrotossina, un alcaloide estremamente tossico per pesci ed esseri umani (la dose letale è di 0,357 mg/kg);

Naturally Occurring Fish Poisons from Plants

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Nave romana con vasca per pesci https://www.vitantica.net/2017/10/27/nave-romana-con-vasca-per-pesci/ https://www.vitantica.net/2017/10/27/nave-romana-con-vasca-per-pesci/#comments Fri, 27 Oct 2017 02:00:54 +0000 https://www.vitantica.net/?p=707 Un’ ipotesi molto interessante è stata formulata nel 2011 dagli archeologi dell’ Università Ca’ Foscari di Venezia e pubblicata sulla rivista on-line International Journal of Nautical Archaeology: un tubo di piombo ritrovato nel relitto di un’ antica nave romana apparterrebbe ad un sistema di pompaggio utilizzato sulle navi di 2.000 anni fa per mantenere il pesce fresco e vivo fino al porto più vicino.

Si è sempre ritenuto che il consumo di pesce nell’antichità dovesse avvenire a poca distanza dai porti per ovvie ragioni logistiche: è difficile trasportare il pesce su lunghe distanze (e con carri trainati da buoi) mantenendolo fresco: senza alcun refrigeratore, il pesce ha poche ore di vita prima di iniziare a marcire. Nel corso della storia umana sono nati molti metodi per preservare il cibo, come la salatura, ma niente può sostituire il sapore del pesce fresco di giornata.

Ma la teoria elaborata dall’ archeologo marino Carlo Beltrame sostiene che i Romani potessero servirsi di vasche d’ acqua salata a bordo della navi da pesca per conservare vivo il pesce durante il trasporto lungo il Mediterraneo.

Il relitto in cui è stato scoperto il tubo di piombo appartiene ad una nave romana affondata attorno al II secolo d.C. a 10 chilometri dalla costa di Grado, nel Golfo di Trieste. E’ stata scoperta nel 1986, recuperata tra il 1999 e il 2000 ed è ora custodita al Museo di Archeologia Subacquea di Grado. Le nave è lunga 16,5 metri e trasportava contenitori simili a vasi pieni di pesce sotto sale, come sardine e sgombri sotto sale.

Al momento della scoperta del tubo, che penetrava all’interno dello scafo per una lunghezza di circa 1,3 metri e con un diametro di 7-10 centimetri, gli archeologi sono rimasti spiazzati dal trovare un oggetto così insolito a bordo di una nave. A cosa serviva un tubo di piombo a bordo di un peschereccio?

Tubo di piombo ritrovato nel relitto
Tubo di piombo ritrovato nel relitto

Il team di Beltrame sostiene che il tubo fosse collegato ad una pompa a pistone azionata da una leva, anche se la pompa non è ancora stata rinvenuta nei pressi del relitto. I Romani avevano accesso a questo genere di tecnologia, ma non risulta che questo particolare tipo di pompe venisse montato anche sulle navi da pesca del tempo.

Il passo successivo è stato quello di formulare ipotesi sulla possibile funzione di questa pompa: serviva per liberarsi dell’acqua di sentina sul fondo della nave, o per altri scopi?

Beltrame sostiene che le pompe di sentina erano più sicure e comuni del tipo di pompa che si ipotizza possa essere stato utilizzato a bordo della nave. “Nessun marinaio avrebbe bucato la chiglia creando un’altra strada di accesso allo scafo per l’acqua di mare” dice Beltrame.

La seconda alternativa è che questa pompa, invece, servisse a portare acqua sulla nave per combattere incendi e per la pulizia dei ponti, un sistema relativamente comune sulle imbarcazioni che hanno solcato il Mediterraneo. Ma per Beltrame le dimensioni ipotetiche della pompa non erano tali da servire allo scopo.

Quello che rimane, quindi, è una terza possibile funzione: immettere acqua in vasche per i pesci. I ricercatori hanno calcolato che per una nave delle dimensioni del relitto di Grado la cisterna per i pesci avrebbe potuto contenere circa 4 metri cubi d’acqua, sufficienti a mantenere in vita 200 chilogrammi di pesce.

Schema che mostra il possibile funzionamento della pompa
Schema che mostra il possibile funzionamento della pompa

Per rifornire il pesce di ossigeno, l’acqua della vasca doveva subire un ricambio completo ogni 30 minuti. La pompa avrebbe fornito un flusso quasi costante di 252 litri al minuto, rimpiazzando l’intero contenuto di liquido nella vasca in soli 16 minuti.

Per quanto affascinante come idea, siamo sempre nel campo delle ipotesi. Ad oggi non c’è nessuna traccia dell’esistenza di una pompa simile collegata ad una vasca per pesci, come sottolinea Tracey Ruhll, storica della Swansea University. Anche se, a suo parere, i ricercatori hanno scartato l’ipotesi della pompa-idrante troppo frettolosamente, il tubo potrebbe essere effettivamente servito per mantenere vivo del pesce. “Prove letterarie e archeologiche suggeriscono che il pesce venisse effettivamente trasportato vivo e fresco sia dai Greci che dai Romani, su una scala ridotta ma significativa” dice Rihll.

Se l’ ipotesi della vasca per pesci a bordo della nave di Grado fosse vera, questo cambierebbe il modo in cui abbiamo dipinto le abitudini alimentari e commerciali degli antichi. Una vasca di questo tipo presupporrebbe l’esistenza di un commercio di pesce fresco e vivo sul Mediterraneo. “Cambierebbe completamente la nostra idea del mercato del pesce dell’antichità” dice Beltrame. “Pensavamo che il pesce dovesse essere mangiato vicino ai porti in cui approdavano le navi. Con questo sistema, potevano trasportare pesce fresco quasi ovunque”.

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Pesca ukai con il cormorano https://www.vitantica.net/2017/09/06/pesca-con-il-cormorano/ https://www.vitantica.net/2017/09/06/pesca-con-il-cormorano/#comments Wed, 06 Sep 2017 12:11:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=127 In alcune regioni del mondo, la pesca non prevede la fabbricazione di particolari strumenti come canne, ami e lenze, ma una sorta di simbiosi con un particolare predatore pennuto: il cormorano. Tutto ciò che serve è una barca, una corda di canapa, un cormorano e un paio di anni di tempo per addestrarlo.

Breve storia della pesca con il cormorano

La pesca con il cormorano ha radici antichissime: la prima descrizione di questo metodo di pesca risale all’antica opera giapponese “Il Libro di Sui“, completata nel 636 d.C.. La pesca con il cormorano fu praticata in molte regioni del mondo (Cina, Corea, Giappone, Grecia e, per circa un secolo, anche in Francia e in Inghilterra) come metodo relativamente produttivo per ottenere pesce di fiume in quantità tali da soddisfare le necessità di un nucleo familiare e generare un piccolo surplus alimentare.

La pesca con il cormorano è una tradizione con radici antichissime in Grecia e in Macedonia, specialmente sul lago Dorian che delimita il confine tra i due paesi. Tra il XVI e il XVII secolo fu praticata anche in Inghilterra e in Francia seguendo un metodo molto simile a quello impiegato in Cina e in Giappone, ma con origini indipendenti dalle tecniche orientali e apparentemente connesse alla falconeria.

In Giappone, la pesca con il cormorano viene chiamata ukai. Oggi come in passato, la pesca con il cormorano è praticata in 13 città tra le quali c’è Gifu, comunità-simbolo della pesca con il cormorano sul fiume Nagara . La pesca ukai era molto popolare durante il periodi Heian e Edo e veniva patrocinata dai governatori locali per catturare il pesce da donare alla famiglia imperiale.

La pesca ukai ha raggiunto in Giappone un livello decisamente raffinato, soprattutto per la sua tradizione storica di oltre 1300 anni.

Pesca con il cormorano

Come addestrare un cormorano

Nella pesca con il cormorano praticata in Asia sono impiegate quattro specie differenti di cormorano marino (in particolare il Phalacrocorax capillatus in Giappone e il Phalacrocorax carbo in Cina), più grosse dei loro parenti di fiume e in grado di trasportare maggiori quantità di pesce. Le specie di cormorano impiegate nella pesca sono inoltre dotate di una resistenza superiore, di un’indole più docile, tendono a non competere tra loro per il cibo e sono facilmente catturabili.

Controllare un cormorano non è un’impresa semplice: i pescatori legano una sottile corda (o un anello metallico) attorno alla gola dell’animale per evitare che possa ingoiare il pesce più grosso ma riesca ad inghiottire quello più piccolo; in questo modo si mantiene sazio il volatile e si evita che il pescato più consistente venga ingerito dall’animale.

Dopo che il cormorano ha ingurgitato una quantità sufficiente di pesce, il pescatore lo riporta alla barca servendosi di una corda e costringe il volatile a rilasciare il pescato.

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I cormorani in corso di addestramento vengono spesso tenuti fuori dalla gabbia e accuditi amorevolmente dai proprietari, per fare in modo che si abituino alla presenza umana. Ogni mattino, i pescatori li portano al fiume a fare il bagno, tenendoli a bada con una corda di canapa legata attorno al collo.

Occorrono quasi tre anni per addestrare un cormorano marino selvatico, periodo durante il quale viene nutrito con pesce d’acqua dolce mai pescato da lui. Inizierà la sua attività di pescatore solo quando avrà imparato da altri cormorani più esperti le operazioni da eseguire per catturare il pesce.

Pesca ukai

Tecnica di pesca con il cormorano

A Gifu, Giappone, la pesca con il cormorano è un’attività quotidiana per circa cinque mesi all’anno. Un gruppo di pescatori seleziona ogni giorno una dozzina uccelli in salute e li lega a corde di canapa in base alla sequenza con cui verranno impiegati per la pesca.

La pesca col cormorano giapponese si svolge durante la notte. L’attività inizia intorno alle 19.30:  3-6 pescatori, accompagnati dai cormorani selezionati, escono in barca illuminando il fiume con torce di legno di pino. Il gruppo di pesca è composto da un mastro pescatore, dal suo aiutante (nakanori, o “rematore al centro”), da un pilota (tomonori, “rematore di prua”) e da uno o più assistenti.

Pesca con il cormorano

Ad un comando dei pescatori, i cormorani si lanciano in acqua e iniziano a nuotare spingendosi con le zampe. Un cormorano può raggiungere diverse decine di metri di profondità, anche se la pesca ukai si svolge generalmente in acque dolci poco profonde.

Ogni cormorano si nutre di circa 750 grammi di pesce al giorno e può tornare dai pescatori con 5-6 pesci dopo ogni tuffo. Le corde a cui sono assicurati i cormorani sono resistenti, ma non al punto da essere indistruttibili: se una corda si dovesse impigliare sul fondale, il pescatore deve essere in grado di tagliarla per evitare l’annegamento dell’uccello.

Oggi, la pesca con il cormorano giapponese è rigidamente regolamentata e solo poche persone sono autorizzate a praticarla. Solo i membri delle famiglie di pescatori possono ereditare l’autorizzazione, che viene passata da padre in figlio.

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