Animali e domesticazione – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Beargarden, la fossa dell’orso elisabettiana https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/ https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/#respond Mon, 31 Aug 2020 00:10:22 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4963 Durante il regno di Elisabetta I (1558–1603), nella città di Londra venivano celebrati spettacoli cruenti i cui protagonisti erano animali selvatici e domestici. La “Fossa dell’Orso”, o Beargarden, recentemente apparsa in alcune serie televisive d’ispirazione medievale-fantasy, fu una realtà storica per diversi secoli in svariate regioni del mondo, uno spettacolo in grado di attrarre sostenitori e oppositori di ogni tipo, dal comune cittadino alle personalità più note tra nobiltà e menti illustri del tempo.

Bear-baiting

Traducibile come il “tormento dell’orso”, si trattava fondamentalmente di legare un orso ad un palo tormentandolo con cani addestrati, in attesa che l’orso si liberasse e facesse a pezzi i suoi assalitori.

Il bear-baiting era lo show-simbolo del Beargarden. Attività popolare fin dal XII secolo, intorno al XVI secolo molti orsi furono catturati e mantenuti con il specifico scopo di farli combattere nella fossa. In epoca medievale questi orsi viaggiavano di villaggio in villaggio per dare spettacolo, accompagnati da un “bear-leader”, un addestratore di orsi spesso italiano o francese.

Il combattimento nella fossa poteva assumere diverse forme: in alcuni casi l’orso veniva privato della vista, e frustato per alimentare la sua rabbia mentre cani addestrati venivano aizzati contro di lui. Per evitare di perdere l’orso durante lo scontro (mantenere un orso adatto al combattimento era costoso), e per limitare la perdita di preziosi cani addestrati, il combattimento terminava quando l’orso veniva totalmente sottomesso dall’attacco dei cani, o quando un numero sufficiente di cani veniva ucciso dal plantigrado.

Sebbene il bear-baiting fosse stato ufficialmente proibito dai puritani verso la fine del 1600, la pratica continuò per altri due secoli fino a svanire quasi completamente. In altre regioni del mondo, tuttavia, l’ “animal-baiting” continuò ad essere praticato fino a qualche decade fa.

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Verso la fine del XIX secolo, il Maharaja Gaekwad Sayajirao III organizzò un combattimento tra una tigre del Bengala e un leone per stabilire una volta per tutte se il secondo meritasse il titolo di “Re dei Felini”. Il vincitore tra i due contendenti (non sono riuscito a capire chi ne uscì vittorioso) affrontò poco dopo un orso grizzly di oltre 600 kg, perché qualcuno suggerì al Maharaja che, in realtà, in vincitore del primo combattimento non fosse davvero il “Re dei Carnivori”.

Il bear-baiting è rimasta una pratica relativamente comune nelle province pakistane del Punjab e di Sindh fino al 2004. Gli eventi, organizzati dalla criminalità locale, prevedevano di legare un orso ad una corda di 2-5 metri dopo avergli rimosso i canini e aver limato i suoi artigli, per poi scagliare contro il povero animale un branco di cani da combattimento.

In South Carolina il bear-baiting è sopravvissuto fino al 2013, anno in cui è stato proibito ufficialmente questo genere di spettacolo. Fino al XIX secolo si organizzavano combattimenti tra orsi e tori, specialmente in California e Messico, il cui risultato era tutt’altro che scontato e arricchiva le tasche dei bookmakers.

Beargarden

Intorno agli anni 60 del 1500 fecero la loro apparizione a Londra i Beargarden, strutture non molto differenti dai teatri del tempo, nelle quali si conducevano combattimenti tra animali, prevalentemente orsi e tori.

L’esatta posizione di tutti i beargarden londinesi è incerta per svariate ragioni. In primo luogo, i combattimenti tra animali non erano affatto rari in città e venivano condotti in diverse località, alcune solo temporaneamente utilizzate come teatro per scontri tra animali. Secondo il poeta inglese John Taylor, tra il 1620 e il 1621 i combattimenti con tori e orsi si svolgevano in almeno quattro località diverse lungo la riva meridionale del Tamigi, nei dintorni del distretto di Southwark.

Un particolare Beargarden rimase impresso nelle menti delle personalità dell’epoca. La mappa Speculum Britanniae del 1593, e la Civitas Londini del 1600, indicano che questo Beargarden si trovava vicino al teatro The Rose. Lo storico inglese John Stow affermò nel 1583 che questo beargarden veniva comunemente chiamato “Giardino di Parigi”.

Bear baiting a Londra negli anni '20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)
Bear baiting a Londra negli anni ’20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)

Alcuni spettatori degli show del Beargarden definirono lo spettacolo come “un passatempo rude e sgradevole”, come Samuel Pepys nel 1666; altri ancora, come i puritani, si spinsero oltre definendolo uno spettacolo demoniaco, affermando addirittura che il crollo dei Beargarden del 1583 in cui rimasero uccise otto persone fu un atto divino per punire i peccatori che assistevano allo spettacolo.

Il combattimento tra animali aveva tuttavia molti sostenitori, tra i quali la regina Elisabetta I e buona parte della nobiltà di corte. Nel 1573, Elisabetta nominò Ralph Bowes come “Master of Her Majesty’s Game at Paris Garden“, allo scopo di facilitare la realizzazione di spettacoli di suo gradimento; la regina arrivò addirittura a non firmare una decisione parlamentare volta a proibire il bear-baiting durante la domenica.

Considerato il vasto pubblico e la presenza quasi costante di grandi personalità inglesi o straniere dell’epoca, il Giardino di Parigi non era soltanto un luogo in cui assistere a spettacoli cruenti, ma il posto ideale per condurre affari di stato, atti di spionaggio, o accogliere gli ambasciatori provenienti dalle più remote regioni del mondo conosciuto. Nel 1578 William Fleetwood, ufficiale giuridico di alto grado della città di Londra, definì il Beargarden come un posto in cui gli ambasciatori stranieri incontravano le proprie spie sfruttando l’oscurità del “giardino”.

Lo spettacolo

Come accennato in precedenza, nel Beargarden avvenivano spettacoli di ogni tipo: orsi contro cani, tori contro cani, pony con scimmie legate sul dorso contro cani (spettacolo realmente accaduto, come testimonia il Duca di Najera nel 1544).

Immagine dall' Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection
Immagine dall’ Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection

Ma gli orsi erano i veri protagonisti, e probabilmente subivano le torture più crudeli. Gli orsi più resistenti si guadagnavano un nome, come “George Stone”, “Ned Whiting”, “Sackerson” o “Harry Hunks”, un orso cieco, anziano e particolarmente tenace che veniva ripetutamente frustato fino al sanguinamento profuso.

Gli orsi venivano addestrati come gladiatori: venivano incoraggiati a reagire su comando dell’addestratore, a fingersi morti per terminare un match. Le ferite che accumulavano durante gli scontri con i mastini inglesi li rendevano sempre più deboli, ciechi e incapaci di difendersi, ma questo non impediva ai loro proprietari di sfruttarli fino all’ultimo: frustandoli ripetutamente e legandoli ad un palo si tentava in ogni modo di renderli furiosi.

Lo spettacolo mandava la folla in delirio. Il bearbaiting, per quanto violento e insensato per un osservatore moderno, veniva pubblicizzato come una festa: lo show era spesso preceduto e accompagnato da musica e fuochi d’artificio, balli e veri e propri cori da tifoseria.

Nella sua versione moderna, come quella osservata in Pakistan fino a qualche anno fa, lo scontro poteva essere di piccola portata (un solo orso e qualche cane), oppure includere numerosi partecipanti, come 10 orsi e oltre una quarantina di cani.

L’ultimo spettacolo noto del Beargarden londinese si svolse nel 1682 in onore di un ambasciatore marocchino. Un cavallo particolarmente ostile (responsabile, pare, della morte di diversi uomini e cavalli) fu costretto a combattere nella fossa con un branco di cani; dopo averli uccisi tutti, su incitazione della folla l’animale fu giustiziato a colpi di spada dai guardiani del Beargarden.

The Bankside Playhouses and Bear Gardens
The Gruesome Blood Sports of Shakespearean England
Beargarden
Bear-baiting
Elizabethan Bear & Bull Baiting

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La piscicoltura dei nativi americani Calusa https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/ https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/#respond Mon, 22 Jun 2020 00:10:15 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4886 La maggior parte dei lettori di questo blog avrà ormai una certa familiarità con le culture native del Nord America. Molte di queste popolazioni, considerate in passato come primitive e incapaci di sviluppare società ed economie complesse, si stanno rivelando molto più avanzate di quanto sospettato fino a qualche decade fa.

Osservando ciò che è rimasto di Cahokia, l’impatto dei nativi sulle foreste americane, sui grandi mammiferi come il bisonte, e la loro dieta, ci si rende presto conto che siamo ben lontani dalle molte culture primitive, presenti e passate.

La maggior parte delle popolazioni nordamericane basavano la loro economia su prodotti della terra come mais, zucche e fagioli, prodotti che consentivano loro di avere risorse in sovrannumero da poter scambiare con i popoli limitrofi, o tramite le quali poter crescere numericamente; oppure, avevano preservato uno stile di vita incentrato prevalentemente su caccia e raccolta, una scelta che generalmente costringe a mantenere una bassa densità di popolazione per sfamare ogni individuo del proprio gruppo sociale.

La cultura Calusa, invece di sfruttare il mais o i grandi mammiferi, fondò il proprio successo sul pesce, una risorsa preziosa ma difficile da gestire se lo scopo è quello di creare il surplus alimentare necessario alla crescita di un popolo.

Chi erano i Calusa

Il popolo Calusa si è sviluppato lungo la costa sudoccidentale della Florida. All’arrivo dei primi Europei in Florida, tra il XVI e il XVII secolo, la cultura Caloosahatchee occupava la regione delle Everglades, un intricato labirinto di acquitrini e piante acquatiche abitato da un’incredibile varietà di specie animali.

L’esistenza dei Calusa ci viene testimoniata da Hernando de Escalante Fontaneda, uno spagnolo tenuto prigioniero dai nativi nel XVI secolo, e da Juan Rogel, un missionario gesuita che visitò i Calusa negli anni ’60 del 1500.

Gli antenati dei Calusa vivevano in Florida da migliaia di anni prima dell’arrivo degli Europei. Iniziarono a stabilirsi nelle regioni paludose vicino alla costa circa 7.000 anni fa, costruendo cumuli di terra su cui edificare le proprie abitazioni.

Nel loro periodo arcaico delle popolazioni delle Everglades (circa 500 a.C.) iniziarono ad emergere culture regionali distinte, ma tutte basate su un profondo rapporto con il mare e con le paludi: sia i Calusa che i loro antenati erano “mangiatori di molluschi”, ma progressivamente incorporarono sempre più fauna ittica nella loro dieta, diventando abilissimi pescatori e piscicoltori.

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L’analisi dei sedimenti prelevati nei pressi degli insediamenti Calusa ha mostrato un’ alimentazione composta da animali terrestri piccoli e grandi, molluschi, pesci d’acqua dolce e salata come squali e razze, oltre a grandi quantità di crostacei, uccelli acquatici e tartarughe.

I sedimenti degli insediamenti costieri (come il sito di Wightman) lasciano supporre che il 93% delle proteine animali consumate dai Calusa fosse composto da pesce e molluschi, con il rimanente 7% rappresentato da mammiferi, uccelli e rettili. Negli insediamenti più interni, come Platt Island, il 60% delle proteine animali proveniva invece da mammiferi terrestri, ma il consumo di pesce era comunque elevato (circa il 20% sul totale delle proteine).

Ad oggi non ci sono prove che i Calusa coltivassero il mais; anzi, sappiamo che probabilmente rifiutarono di diventare agricoltori quando gli Spagnoli offrirono loro l’opportunità.

“I soldati, i sacerdoti e gli ufficiali spagnoli” spiega Victor Thompson, direttore del Laboratorio di Archeologia alla University of Georgia, “erano abituati ad avere a che fare con culture agricole, come i popoli incontrati nei Caraibi che producevano surplus di mais. Questo non fu possibile con i Calusa. Infatti, in un tentativo dei francescani nel tardo 1600, ai Calusa furono donate delle zappe, ma non appena le videro i nativi replicarono ‘Perchè non hanno anche portato degli schiavi per arare la terra?'”

Secondo l’antropologo George Murdock, mediamente solo il 20% della dieta Calusa era costituita da piante, come bacche selvatiche, frutti, noci, radici e tuberi: circa 2.000 anni fa, nella regione venivano coltivate anche papaya e “zucche bottiglia“, utilizzate come galleggianti per le reti da pesca, ma l’alimentazione locale era già sostanzialmente basata sul pesce.

Potere fondato sul pesce

I Calusa furono tra le culture più rilevanti in Florida per molti secoli, commerciando lungo rotte che si estendevano per centinaia di chilometri oltre la costa, modificando profondamente il territorio per costruire le loro case e creando vere e proprie isole composte dai gusci dei molluschi che consumavano.

Un “impero” che si fonda sul pesce, tuttavia, è costretto ad affrontare la sfida di come conservare l’alimento base della propria dieta in un clima tropicale che favorisce la decomposizione della materia organica morta. I Calusa conoscevano la salagione e l’affumicatura, ma per sfamare circa 10.000 individui (o forse più, come alcuni archeologi hanno ipotizzato) occorre pescare grandi quantità di pesce e affrontare lunghi processi di pulizia e preparazione, con il rischio che parte del pescato vada a male.

Come facevano i Calusa a gestire le loro risorse ittiche e a generare un surplus in grado di metterli nelle condizioni di creare un’economia fiorente strettamente legata al mare?

Secondo William Marquardt, curatore della sezione South Florida Archaeology and Ethnography del Florida Museum of Natural History, i Calusa utilizzavano enormi strutture simili a quelle della moderna piscicoltura per conservare vivo il pesce. Queste strutture, che Marquardt definire “watercourts“, avevano fondamenta di gusci di molluschi e venivano realizzate sfruttando porzioni degli estuari.

I watercourts servivano come riserva ittica a breve termine: mantenevano il pesce vivo e in salute fino al momento del consumo, della salagione o dell’affumicatura. La più grande di queste strutture misurava quanto 7 campi da basket e aveva una base profonda 1 metro composta da sedimenti e gusci di molluschi.

“Ciò che rende differenti i Calusa è il fatto che le altre società che raggiungono questi livelli di complessità e potere sono principalmente culture agricole” afferma Marquardt. “Per molto tempo le società che si basavano sulla pesca, sulla caccia o sulla raccolta sono state considerate meno avanzate. Ma il nostro lavoro nel corso di oltre 35 anni ha mostrato che i Calusa svilupparono una società politicamente complessa con architettura, religione, esercito, stratificazione sociale e commercio molti sofisticati, il tutto senza essere agricoltori”.

Thompson, Marquardt e i loro colleghi hanno analizzato due watercourts nei pressi di Mound Key, un’isola artificiale su cui si trovava l’immensa abitazione del sovrano dei Calusa, una struttura così grande da poter accogliere fino a 2.000 persone.

Metodo di pesca non chiaro

I watercourts di Mound Key furono costruiti tra il 1300 e il 1400, qualche decade dopo un calo del livello del mare che potrebbe aver ispirato un periodo di innovazioni volte a preservare lo stile uno stile di vita basato su prodotti ittici.

Non sappiamo ancora come i Calusa catturassero il pesce che allevavano e consumavano, ma le ipotesi sono due: pescandolo tradizionalmente con l’utilizzo di reti, oppure indirizzandolo verso i watercourts tramite canali appositamente realizzati.

“Non possiamo sapere esattamente come funzionasse [il loro metodo di pesca], ma la nostra sensazione è che conservassero il pesce in queste strutture per poco tempo, da poche ore a qualche giorno, non interi mesi” sostiene Michael Savarese, ricercatore che ha collaborato con Thompson e Marquardt.

“Il fatto che i Calusa ottenessero la maggior parte del loro cibo dagli estuari plasmò quasi ogni aspetto delle loro vite” conclude Thompson. “Anche oggi, i popoli che vivono lungo le coste sono un po’ differenti dagli altri, e le loro vite continuano ad essere influenzate dall’acqua, per quanto riguarda il cibo che consumano o per le tempeste che si scatenano nei pomeriggi estivi della Florida sudoccidentale”.

Ancient engineering of fish capture and storage in southwest Florida
Calusa

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Lo zoo di Montezuma https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/ https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/#respond Mon, 18 May 2020 00:06:44 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4861 Prima dell’istituzione moderna dello zoo, alcuni sovrani o uomini particolarmente ricchi amavano collezionare animali nel loro serraglio privato. Collezionare animali rari o esotici era uno status symbol: dimostrava ricchezza, potere e connessioni commerciali ed economiche molto rilevanti con il resto del mondo.

Carlo Magno aveva ben tre serragli a Aachen, Nijmegen e Ingelheim, serragli che ospitavano scimmie, leoni, orsi, cammelli, falchi, uccelli esotici di ogni tipo e un esemplare di elefante, il primo registrato in Europa dai tempi dell’ Impero Romano.

Il serraglio dell’ imperatore Montezuma, spesso definito un vero e proprio zoo, merita tuttavia una menzione particolare per le sue dimensioni, per le risorse impiegate nel suo mantenimento e per la varietà di animali presenti al suo interno.

Serraglio, l’antenato del giardino zoologico

Il primo serraglio della storia sembra essere stato quello di Ieraconpoli, o Nekhen, una città egizia che si trova lungo la riva occidentale del Nilo e centro di culto del dio Horus (Nekhen significa “Città del Falco”). All’interno del serraglio, in attività circa 5.500 anni fa, si potevano osservare ippopotami, gnu, elefanti, babbuini e felini selvatici africani.

Nel II secolo a.C. l’imperatrice cinese Tanki istituì la “Casa del Cervo”, un serraglio dedicato in particolar modo ai cervidi, ma circa un millennio prima di lei il re Wen di Zhou aveva destinato una fetta di 6 km quadrati dei suoi possedimenti a quello che lui chiamava “Ling-Yu” (“Giardino dell’Intelligenza”, o “Parco Divino”), un serraglio in cui erano custodite alcune delle specie animali più curiose e rare del continente asiatico: antilopi, capre, cervidi, pesci, uccelli dai colori sgargianti e animali considerati sacri.

Sembra che i Greci amassero particolarmente l’istituzione del serraglio: molte città-stato avevano strutture adibite a zoo o voliere, e il serraglio di Alessandria arrivò a contenere una collezione di animali che farebbe impallidire alcuni zoo moderni: elefanti, felini di ogni tipo, giraffe, rinoceronti, diverse specie di antilopi, orsi, e probabilmente un enorme pitone africano.

La passione per il collezionismo di animali nella Roma antica si sviluppò intorno al III secolo a.C. ma pian piano perse di valore: la maggior parte dei serragli si occupavano principalmente di custodire animali destinati alle arene. Con il crollo dell’impero, il serraglio divenne sempre più un inutile e costosissimo show di potere che ben pochi potevano o volevano permettersi.

Intorno al XIII secolo iniziano ad apparire nuovamente serragli in tutta Europa: a Napoli, Firenze, Milano, Lisbona e Nicosia erano presenti serragli invidiati in tutto il Vecchio Continente. A Oriente, invece, Marco Polo visitava la personale collezione di animali di Kublai Khan, un serraglio che conteneva animali provenienti dall’Asia e dall’Africa.

Lo zoo di Montezuma

Nel libro VIII del Codice Fiorentino, ultima versione in spagnolo e lingua nauhatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España” di Bernardino de Sahagun, è presente l’illustrazione di alcuni “guardiani” addetti alla cura degli animali presenti nel serraglio di Montezuma, sovrano azteco con l’evidente passione per le bestie rare.

Secondo i resoconti in nostro possesso, Montezuma avrebbe posseduto un serraglio/zoo contenente un’infinità di animali: uccelli di ogni tipo e provenienza, leoni di montagna, ocelot e orsi. Il serraglio era così grande da richiedere la cura costante di almeno 300 guardiani.

Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577
Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577

Gli animali dello zoo consumavano quotidianamente la carne di oltre 500 tacchini, in particolar modo i grandi felini e gli uccelli rapaci. Un edificio era interamente dedicato a falchi e aquile, mentre una seconda struttura ospitava uccelli di altre specie; all’interno di queste strutture vivevano i guardiani, il cui unico scopo nella vita era quello di mantenere in salute gli animali sotto la loro custodia.

Secondo S.L. Washburn, del Dipartimento di Antropologia dell’ Università della California, Berkeley, i resti umani ottenuti dai sacrifici rituali venivano utilizzati per alimentare i grandi predatori dello zoo di Montezuma. I predatori di grossa taglia, come i leoni di montagna, ricevevano ogni giorno svariati chilogrammi di carne umana, viscere comprese, ottenendo un apporto di proteine sufficiente alla loro sopravvivenza.

L’area esterna dello zoo conteneva 20 stagni, 10 di acqua salata e i rimanenti pieni d’acqua dolce, che fornivano gli habitat ideali per pesci, anfibi, rettili e uccelli acquatici. Il serraglio ospitava anche grandi predatori come giaguari, puma, coccodrilli, orsi e lupi, e animali di taglia media o piccola, come scimmie, bradipi, armadilli e tartarughe.

Non solo: era presente un piccolo edificio nel quale erano rinchiuse diverse specie di serpenti a sonagli e viperidi, tenuti per cautela all’interno di contenitori di terracotta. Nel giardino, infine, vagava ciò che venne descritto “toro messicano”, considerato dagli Aztechi l’animale più raro e descritto come un animale del tutto simile al bisonte nordamericano.

Ma il diario di Cortez e i resoconti di alcuni dei suoi compagni di conquista citano anche alcune particolari sezioni di questo zoo destinate agli esseri umani.

La “Casa degli Umani”

Le descrizioni contemporanee e di poco posteriori non sono sempre concordi nei dettagli dello zoo di Montezuma, ma il resoconto di Cortez viene considerato uno dei più singolari perché cita una “Casa degli Umani”, un’area dello zoo adibita alla custodia di esseri umani.

Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali
Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali

Nel corso della descrizione di uno dei palazzi in cui Montezuma custodiva i suoi uccelli, Cortez afferma che:

“In questo palazzo c’è una stanza in cui ci sono uomini e donne e bambini, con viso, corpo, capelli, sopracciglia e ciglia tutti bianchi dalla nascita…Aveva un’altro edificio in cui c’erano molti uomini e donne mostruosi, tra i quali nani, persone con arti deformi, gobbi e altri con differenti deformità, e ogni persona aveva una stanza personale, e c’erano persone dedicate a fornire loro assistenza”

Secondo Francisco López de Gómara, storico e cappellano di Cortez che tuttavia mai accompagnò il conquistatore spagnolo nelle Americhe, le persone affette da nanismo o da deformità fisiche avevano un ruolo rilevante nella corte di Montezuma: venivano impiegati come confidenti, spie, servitori o intrattenitori. Alcuni godevano di uno status sociale così elevato da poter mangiare subito dopo il sovrano e i suoi commensali, prima di servitori e guardie.

Cortez tuttavia non cita il ruolo dei disabili fisici all’interno della corte o del sistema politico azteco. Li descrive rinchiusi in un edificio, ben nutriti e serviti ma pur sempre proprietà imperiali, non rispettati come esseri umani ma come possedimenti.

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Zoo History: The Halls of Montezuma
Menagerie
Animals and the Law: A Sourcebook
Were humans included in Moctezuma’s Zoo?
Cartas y relaciones de Hernan Cortés al emperador Carlos V

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Incubatrici per uova in Egitto https://www.vitantica.net/2020/04/20/incubatrici-uova-egitto/ https://www.vitantica.net/2020/04/20/incubatrici-uova-egitto/#comments Mon, 20 Apr 2020 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4852 Gli Egizi avevano una particolare debolezza per i volatili di ogni tipo: struzzi, oche, anatre, altri uccelli acquatici e non, erano tutti parte integrante della dieta di chiunque potesse permettersi la carne di questi animali.

A partire dal IV secolo a.C., polli e galline iniziarono a soppiantare altri tipi di volatili: erano più semplice da allevare, meno delicati e suscettibili a problemi di salute rispetto ad altri animali, si adattavano bene alla cattività, fornivano buona carne magra e singola gallina poteva produrre una media di 1-2 uova ogni 2-3 giorni, meno frequentemente delle galline moderne ma comunque un gran quantitativo di proteine di ottima qualità.

Produrre pulcini per ottenere carne, tuttavia, presenta alcuni aspetti negativi, specialmente se si ha intenzione di produrli in quantità sufficienti da sfamare una discreta fetta della popolazione. In primo luogo, far schiudere un uovo di gallina richiede normalmente 21 giorni, periodo in cui il volatile che ha dato alla luce le uova è costretto a covarle per svariate ore ogni giorno, prendendosi piccole pause per mangiare.

Questo significa che la gallina deve prima di tutto decidere di restare quasi 24 ore al giorno a covare le uova, decisione che potrebbe richiedere qualche giorno. Quando prevale l’istinto della cova, la gallina rimane sostanzialmente inutilizzabile per tre settimane, non depone altre uova e non può essere utilizzata per la produzione di carne.

Antiche incubatrici

Gli Egizi, ottimi osservatori e straordinari innovatori, iniziarono a incubare artificialmente le uova di volatili usando cumuli di letame in grado di mantenere una temperatura costante per i 21 giorni necessari alla schiusa. Ma questo metodo, raccontato da Aristotele, si rivelò non molto efficiente: il letame si secca col tempo e perde la sua capacità di isolante, oltre al fatto che può contenere solo una quantità limitata di uova e non può essere riutilizzato dopo il primo impiego.

Aristotele e, 200 anni più tardi, Diodoro Siculo, descrissero per la prima volta un nuovo tipo di incubatrice per uova ideato dagli Egizi: un sistema di “forni” di argilla o mattoni di fango progettati per replicare le condizioni di cova di una gallina.

Disegno di un'antica incubatrice per uova egiziana
Disegno di un’antica incubatrice per uova egiziana

Mantenendo stabile il calore e l’umidità, e rigirando le uova a intervalli regolari, una piccola struttura contenente 10 incubatrici era in grado di far schiudere fino a 4.500 uova in 2-3 settimane. Non solo poteva ridurre i tempi di schiusa, ma lasciava libere le galline (e i loro allevatori) di produrre e gestire altre uova.

Secondo Salima Ikram, professoressa di Egittologia alla American University del Cairo, l’incubatrice per uova di gallina egizia è un’invenzione relativamente recente. Le galline non sono native dell’Egitto e giunsero in Africa settentrionale probabilmente 10.000 anni fa attraverso la Mesopotamia; fu solo durante la dinastia Tolemaica che polli e galline diventarono una parte stabile della dieta egizia.

Funzionamento inizialmente misterioso

La base delle incubatrici per uova dell’antico Egitto è il forno di mattoni impiegato anche per la cottura del pane. Disposti solitamente in due file da 5 forni all’interno di un edificio grande quanto un’abitazione multifamiliare, queste strutture erano dotate di ciminiere coniche in corrispondenza del tetto per generare un flusso d’aria costante.

La documentazione storica non ci riporta con esattezza il funzionamento di queste incubatrici, anche se oggi possiamo farci un’idea di come potessero operare. Gli Egizi e i popoli che vennero dopo di essi erano molto gelosi delle loro incubatrici, e secondo gli osservatori europei, sempre ricchi di immaginazione, si trattava di strutture dai poteri soprannaturali.

Il frate inglese Simon Fitzsimons, durante il XIV secolo, descrisse in questo modo le incubatrici osservate in Egitto:

“Al Cairo, fuori dalla Porta e quasi immediatamente sulla destra […] c’è una casa lunga e stretta in cui le galline vengono generate col fuoco da uova di chioccia, senza galli, e in numero così grande da non poterle contare”.

Durante il Medioevo la nozione che in Egitto si producessero uova “tramite il fuoco” e senza l’uso di galli divenne sempre più popolare, e fu solo dopo il Rinascimento che furono condotte osservazioni più approfondite delle incubatrici, osservazioni non viziate da leggende e superstizioni.

Nel 1609 Conelis Drebbel inventò l’ “Athenor“, una incubatrice realizzata a partire da un armadietto alimentato a carbone in cui l’aria calda poteva circolare attorno ad un contenitore per le uova. L’invenzione sembrò funzionare, ma non fu mai portata avanti da Drebbel.

Descrizione del funzionamento di un'antica incubatrice per uova egiziana
Descrizione del funzionamento di un’antica incubatrice per uova egiziana

Nel 1750, René Antoine Ferchault de Réaumur ebbe modo di osservare dall’interno una di queste incubatrici, sciogliendo ogni dubbio sul loro presunta legame con la magia e descrivendone il funzionamento nella seconda edizione del suo libro “Art de faire éclorre et d’élever en toute saison des oiseaux domestiques“.

Secondo Réaumur, queste strutture avevano due ali simmetriche separate da un corridoio centrale; ogni ala conteneva fino a 5 camere su due livelli: le uova fertilizzate venivano posizionate in basso e mantenute al caldo da braci ardenti posizionate sul secondo livello e alimentate da sterco secco, un combustibile molto più facile da recuperare in Egitto rispetto al legname.

La sezione superiore e quella inferiore scambiavano aria tramite un’apertura circolare centrale. Lungo i lati della sezione superiore venivano posizionati blocchi di sterco di vacca o dromedario mescolati con paglia e compressi fino ad ottenere dei mattoncini di combustibile. Il fuoco veniva acceso due volte al giorno, al mattino e alla sera, e solo nei primi 8-10 giorni d’incubazione.

Le uova venivano girate ogni giorno e trasferite in zone più fredde o calde della camera d’incubazione in base alla necessità di esporle a più o meno calore. Quando il fuoco non era acceso potevano essere spostate nella sezione superiore per tenerle al caldo.

Gli addetti all’incubazione

Gli operai di queste incubatrici si occupavano di mantenere le braci costantemente accese, di controllare la temperatura e l’umidità delle camere d’incubazione e di girare le uova 3-5 volte al giorno, un’attività fondamentale per evitare che la membrana dell’embrione si attacchi al guscio e generi deformità nel pulcino.

Gli operai dovevano anche capire il momento adatto per terminare il processo di incubazione: prima della schiusa, i pulcini iniziano a generare sufficiente calore interno da non aver più bisogno della cova. La gallina intuisce il momento adatto per smettere di covare tramite l’istinto, saggiando la temperatura delle uova; gli operai delle incubatrici facevano lo stesso tenendo le uova tra le dita e intuendone lo stato di maturazione appoggiandole contro la palpebra.

Incubatrice per uova egiziana basata sull'antico design
Incubatrice per uova egiziana basata sull’antico design

Il rapporto di Réaumur ci dice che la maggior parte degli operai delle incubatrici proveniva da Berma, sul delta del Nilo. Il termine usato per definire questi lavoratori, bermawy, significherebbe proprio “uomo dal villaggio di Berma”. Gli operai delle incubatrici venivano quasi visti come una casta e il lavoro veniva trasmesso da padre in figlio.

Un solo operaio era sufficiente a far funzionare un’incubatrice a 10 camere d’incubazione. Il periodo di lavoro era di circa sei mesi, per un totale di 8 turni di schiusa. Secondo le statistiche di Réaumur, due terzi delle uova si schiudevano con successo.

Differenze con la produzione di uova europea

Usando le incubatrici, in Egitto era possibile produrre pulcini tutto l’anno. Gli allevatori europei, invece, potevano produrre pulcini solo in primavera e in estate, dato che la maggior parte delle galline non è in grado di generare sufficiente calore durante i mesi più freddi.

Réaumur tentò di replicare le incubatrici nordafricane in Francia, ma senza alcun risultato soddisfacente: richiedevano molto più calore e combustibile di quelle egiziane a causa del clima europeo più rigido. Réaumur sperimentò il letame di cavallo come combustibile, ma non si rivelò sufficientemente efficace, costringendolo ad utilizzare lo stesso legname impiegato dai forni parigini.

L’idea di Réaumur fu successivamente migliorata da Abbé Copineau, sfruttando lo stesso design ma impiegando lampade ad alcol per regolare la temperatura interna delle incubatrici. I tentativi di costruire un’incubatrice efficiente ed economica continuarono nei secoli successivi fino al 1897, anno in cui Lyman Byce, allevatore canadese, inventò l’incubatrice a lampada a carbone, che manteneva costante la temperatura tramite un regolatore elettrico.

Nonostante la modernità, l’incubatrice tradizionale è ancora in uso in Egitto e segue le antiche procedure di incubazione, con una sostanziale differenza: a generare calore non sono più braci prodotte dal letame, ma lampade a gas o kerosene. Secondo un report della FAO stilato da Ali Abdelhakim, presidente dell’ Organizzazione Generale dei Servizi Veterinari in Egitto, ancora oggi ci sono in attività circa 200 incubatrici per uova che seguono il sistema tradizionale.

The Egyptian Egg Ovens Considered More Wondrous Than the Pyramids
I MEGAINCUBATOI DELL’EGITTO
L’incubazione naturale delle uova
The oldest hatcheries are still in use
How the Chicken Conquered the World

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Tela di ragno, bendaggio naturale https://www.vitantica.net/2020/01/20/tela-di-ragno-bendaggio-naturale/ https://www.vitantica.net/2020/01/20/tela-di-ragno-bendaggio-naturale/#respond Mon, 20 Jan 2020 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4755 Le proprietà meccaniche della tela di ragno sono ormai note in epoca moderna: un singolo filo di ragnatela può esprimere, a parità di peso, una resistenza alla tensione e una robustezza superiori a quelle dell’acciaio.

Le caratteristiche della tela di ragno, tuttavia, non passarono inosservate anche nel mondo antico: viene tradizionalmente impiegata come esca nella pesca con l’aquilone praticata da alcune comunità marittime del Pacifico, e fu per secoli apprezzata nella medicina occidentale come bendaggio antisettico.

Tessuto naturale dalle proprietà straordinarie

Le caratteristiche della tela di ragno sono dovute ad una combinazione di proteine cristalline ed elastiche, mescolate ad altri elementi come zuccheri, lipidi e pigmenti che agiscono come aggreganti o protezioni della fibra.

Ogni ragnatela intessuta in natura è costituita da due categorie di seta: la prima categoria è occupata da filamenti rivestiti da un liquido appiccicoso, utilizzati per la cattura delle prede; il secondo tipo di seta, invece, chiamato genericamente “dragline”, è dotato di grandi proprietà elastiche e di resistenza, rese possibili da due proteine specifiche a base di alanina, glicina, glutamina e prolina.

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La tela di ragno viene prodotta a richiesta da un ghiandole filatrici, o seritteri, e può vantare diverse conformazioni in base all’utilizzo finale. I filamenti strutturali, ad esempio, sono molto robusti e possiedono scarse proprietà adesive; quelli intermedi, invece, sono incredibilmente elastici, resistenti e appiccicosi, dato che sono quelli con più probabilità di intrappolare una preda.

Fibre di tipo tubolare sono genericamente utilizzate per creare sacche protettive per le uova, mentre per avviluppare la preda in un bozzolo per poterla consumare comodamente viene creata una seta straordinariamente forte, circa tre volte più robusta di quella strutturale.

Qualunque sia la fibra creata dalla ghiandola, ogni filamento possiede anche proprietà antisettiche che lo proteggono dall’azione di microrganismi che potrebbero danneggiare la ragnatela.

Uso in medicina

Le caratteristiche della seta di ragno furono ben comprese dai nostri antenati, che utilizzarono per millenni questo materiale naturale nel trattamento delle ferite aperte, anche se l’uso in medicina fu spesso limitato a causa della reperibilità stessa del materiale.

Estrarre tela di ragno in quantità sufficiente alla produzione di bendaggi o tessuti richiede una quantità immane di ore-lavoro: nel 2019, per realizzare il tessuto in tela di ragno più grande del mondo (3,4 per 1,2 metri) fu necessario fu necessario il lavoro di 82 persone nell’arco 4 anni per lavorare la seta di ragno estratta da oltre 1 milione di ragni.

Bozzolo di Cheiracanthium punctorium. Foto di Rainer Altenkamp
Bozzolo di Cheiracanthium punctorium. Foto di Rainer Altenkamp

Potrebbero essere necessarie fino a 3 ragnatele complete e in ottimo stato per il trattamento di una ferita lunga qualche centimetro e non troppo profonda, motivo per cui l’impiego della seta di ragno in medicina non ha mai raggiunto la diffusione conosciuta da altri tipi di bendaggio.

Un’altra considerazione necessaria è relativa alla conoscenza dei ragni locali. Alcuni ragni tessitori comuni in Europa possono dimostrarsi particolarmente aggressivi in determinate circostanze, esponendo al rischio di morsi potenzialmente molto dolorosi e pericolosi.

I ragni della specie Segestria florentina, ad esempio, tessono una tipica ragnatela tubolare che può fornire molta seta, ma sono dotati di grossi cheliceri che possono infliggere dolorose perforazioni.
Il ragno dal sacco giallo (Cheiracanthium punctorium), invece, crea piccoli bozzoli di seta per scopi riproduttivi, ma se disturbato può mordere e iniettare un veleno che provoca dolori simili a quelli di una puntura di vespa, con conseguenza più tossiche in caso di reazione allergica.

In ogni caso, la scarsa reperibilità e il pericolo di essere morsi non impedì l’uso della tela di ragno nella medicina tradizionale europea: sui Carpazi, per esempio, la seta di ragno viene ancora oggi usata per medicare ferite aperte non troppo profonde; la medicina popolare ritene che la seta di ragno faciliti la guarigione e la coagulazione del sangue (credenze supportate dalle proprietà blandamente antisettiche e la presenza di vitamina K nei filamenti).

Greci e Romani conoscevano le proprietà medicinali della tela di ragno: inserivano nelle ferite aperte seta non più vecchia di qualche giorno e priva di impurità avvolgendola per ottenere una sorta di tampone che inserivano nel taglio.

Per verificare l’efficacia di questo trattamento, nel 2018 un team di biologi ha monitorato le modalità di guarigione delle ferite inflitte ad alcuni conigli e successivamente medicati con placebo, metodi tradizionali e seta di ragno. I risultati hanno evidenziato l’efficacia della tela di ragno nel velocizzare la guarigione dei tessuti.

Medicare una ferita con la tela di ragno

Il requisito primario per l’uso della seta di ragno per il trattamento delle ferite è utilizzare materiale non contaminato. Le ragnatele prelevate devono essere possibilmente recenti, e necessariamente prive da ogni residuo di pasti effettuati dal proprietario.

Eliminate eventuali fonti di contaminazione, i residui di fogliame e i resti di insetti, la ragnatela deve essere semplicemente modellata in una pallina di seta e inserita nel taglio. Le proprietà coagulanti della vitamina K diminuiranno la fuoriuscita di sangue e favoriranno la guarigione dei tessuti, mentre le caratteristiche antisettiche dei composti presenti nella tela terranno alla larga la maggior parte degli agenti microbici.

Per proteggere ulteriormente la ferita era buona norma utilizzare un bendaggio più tradizionale, come tessuto pulito attorno alla parte lesa. Era necessario mantenere asciutta la ferita per favorire la guarigione.

Una volta rimarginata buona parte della ferita, la ragnatela veniva rimossa a mano ammorbidendola con acqua calda per facilitare l’estrazione.

Non solo ferite

Nel 1817 il medico Robert Jackson pubblicò un trattato dal titolo “Sketch of the History and Cure of Febrile Diseases“, in cui descriveva i sintomi e le cure per diversi disturbi di tipo febbrile.

Diverse pagine del trattato sono dedicate all’impiego della seta di ragno come medicinale ad uso interno:

“La ragnatela, e perfino il corpo abitato in precedenza da un ragno, sono impiegati dai popoli di alcune nazioni come rimedio per la malaria e la febbre; ma, quando menzionato da alcuni scrittori medici, viene solitamente menzionato per essere messo in ridicolo; o si suppone che produca un effetto, cosa che l’esperienza ha dimostrato, per trasmettere disgusto all’idea di ingoiare un ragno, o una ragnatela.”

Il dottor Jackson ritiene che le proprietà medicinali della ragnatela siano state troppo a lunghe ignorate senza alcuna ragione. A supporto della sua idea descrive l’uso di seta di ragno in un ospedale dell’esercito nel 1801, un trattamento a quanto pare utilizzato da tempo nella struttura medica citata.

I dettagli sui suoi esperimenti che coinvolgevano la seta di ragno possono essere letti qui: The spider’s web cure.

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Spider silk
How To Heal Wounds With Spider’s Silk
Evaluation of Wound Dressing Made From Spider Silk Protein Using in a Rabbit Model.
Applications of Spider Silk
The spider’s web cure

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Arnia tradizionale di tronco https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/ https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/#comments Mon, 30 Sep 2019 00:05:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4544 L’arnia costituisce una vera e propria casa per le api domestiche. Da un’apicoltura passata fatta di tronchi cavi e di cumuli di paglia, l’essere umano ha progressivamente ideato nuovi design con i materiali a sua disposizione, ottenendo livelli di sofisticatezza incredibilmente avanzati.

All’interno dell’arnia si sviluppa la quasi totalità della vita di una colonia. Grazie al controllo attento e costante dell’attività dell’alveare, gli antichi apicoltori furono in grado di controllare limitatamente la produzione di miele.

Le arnie a favo fisso (facenti parte di ciò che viene definita “apicoltura non razionale”), spesso ottenute da materiale vegetale, sono tra le più antiche della storia dell’apicoltura. Le arnie ricavate da un tronco d’albero cavo o da un ceppo lavorato furono realizzate almeno dal 3.380 a.C., come testimoniano alcuni resti di arnia trovati in Svizzera.

L’arnia di tronco

Le arnie ricavate da un tronco d’albero (chiamate anche bugno) sono le più antiche e anche le più simili all’ambiente naturale in cui si sviluppa una colonia di api: simulano un processo che avviene spontaneamente all’interno di un ecosistema (la morte di un albero e la formazione di cavità al suo interno) per guidare indirettamente l’attività di un alveare.

L’arnia a ceppo è un metodo di apicoltura distruttivo: per estrarre i favi e raccogliere il miele è necessario asportare dal tronco le strutture di cera, distruggendo la laboriosa opera di costruzione compiuta dalle api e costringendole a ricostruire i favi.

 

Arnia tradizionale di tronco

La semplicità e l’efficacia dell’arnia a ceppo, tuttavia, giustificava in passato (e parzialmente ancora oggi) l’utilizzo di questa tecnica di apicoltura.

L’arnia a ceppo presenta vantaggi e svantaggi rispetto ai metodi di apicoltura moderni:

  • E’ relativamente economica da realizzare;
  • Può essere realizzata sul posto se si è dotati di una discreta manualità;
  • Lascia alle api la possibilità di gestire in autonomia il loro spazio vitale;
  • Producono grandi quantità di cera;
  • L’arnia a ceppo può essere molto pesante e difficile da trasportare;
  • Le api costruiranno i loro favi in ogni direzione, non disponendo di telai in grado di indirizzare la loro opera costruttiva;
  • Può richiedere la distruzione della struttura lignea per estrarre il miele;
  • Le fratture che si formeranno sul tronco contribuiranno ad aerare l’ambiente interno, ma allo stesso tempo favoriranno l’ingresso di parassiti;
  • Essendo generalmente collocata ad una certa altezza rispetto al terreno, non viene attaccata da predatori come topi e tassi.
Selezione e lavorazione del tronco

Per fabbricare un’arnia a ceppo funzionale occorre selezionare un tronco delle dimensioni adeguate: da 60 a 80 centimetri di diametro per una lunghezza di circa 1,4 metri. Il concetto è quello di replicare il tronco cavo di un albero, ambiente che le api selvatiche ritengono ideale per la costituzione di una colonia.

La selezione di un legname morbido, come il legno di pino, faciliterà le fasi di lavorazione del ceppo, specialmente quelle che richiedono una certa manualità e non consentono l’utilizzo di utensili elettrici.

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Sulla costa occidentale dell’Africa gli apicoltori sfruttano le proprietà della palma di Palmira (Borassus flabellifer) e l’attività delle termiti per ottenere arnie a ceppo con il minimo sforzo. La palma di Palmira produce piccole cavità naturali durante l’arco della sua vita; una volta terminata la sua esistenza, gli apicoltori attendono che le termiti si facciano strada nel legname morto dell’albero, allargando le cavità e fornendo materiale già pronto per essere utilizzato come arnia a ceppo.

La lavorazione del legname per costruire un’arnia prevede lo svuotamento della parte interna del ceppo utilizzando una di queste tre tecniche:

  • Fuoco: utilizzare un contenitore tubolare per concentrare il calore di un mucchio di braci al centro del tronco. In questo modo, il legno verrà gradualmente ridotto in cenere, formando un canale interno;
  • Divisione: il tronco viene diviso e le due metà scavate per creare una cavità interna, un procedimento simile a quello utilizzato per realizzare le cerbottane tradizionali. Alla fine dell’operazione di rimozione del materiale ligneo, le due parti del ceppo verranno ricongiunte;
  • Scavo: è possibile scavare il centro del ceppo utilizzando uno scalpello per aprire due cavità che si estendono da entrambi i lati, fino ad svuotare completamente il tronco del suo materiale ligneo interno.

Le aperture nelle parti terminali del tronco dovranno poi essere chiuse; i blocchi di chiusura dovranno tuttavia essere rimovibili per consentire l’ispezione dell’alveare e il prelievo dei favi ricchi di miele. L’ingresso delle api all’interno del ceppo sarà reso possibile da uno o due fori praticati vicino ad una delle parti terminali, o su uno dei blocchi di chiusura del ceppo.

Insediamento delle api

Per invitare le api a popolare l’arnia a ceppo occorrerà depositare qualche goccia di propoli al suo interno; ancora meglio, riuscire a catturare una regina garantirà l’arrivo di numerose operaie pronte a costruire favi, accudire larve e accumulare polline e miele. Se il tronco è stato costruito ad arte, le api stesse potrebbero spontaneamente sceglierlo come futura residenza.

Nell’arnia a ceppo è indispensabile garantire alle api un mezzo di sussistenza per l’inverno. I favi venivano tradizionalmente prelevati all’inizio dell’estate per consentire agli insetti di ricostruirli in previsione dell’inverno; si tendeva inoltre a lasciare intatte alcune strutture di cera contenenti miele, fornendo un prezioso supporto alimentare durante la stagione fredda.

L’arnia a ceppo estende il concetto di “spazio d’ape” elaborato da Langstroth, l’inventore dell’arnia moderna. Nel 1851 il reverendo Lorenzo Lorraine Langstroth osservò che le api che avevano attorno uno spazio libero inferiore ai 9 mm e superiore ai 6 millimetri non costruivano strutture di cera e non sigillavano quelle esistenti. L’osservazione di questo spazio vitale, definito “spazio d’ape”, consentì a Langstroth di elaborare un nuovo design di arnia basato su telai verticali rimovibili, la base delle arnie moderne.

Nelle arnie moderne di tipo Langstroth la distanza tra due telai di un’arnia è superiore di almeno due volte lo spazio d’ape, ma comunque limita la mobilità delle api e le costringe a seguire una direzione principale (verso il basso) durante la costruzione del favo.

L’arnia a ceppo, come le arnie a sviluppo orizzontale (ad esempio le Top-Bar) permettono uno sviluppo più naturale della colonia e lascia libere le api di costruire in modo più simile a ciò che realizzano allo stato brado, senza il controllo dell’essere umano.

How to make log hives for healthier bees (Video)
How to Build a Log Hive
HARVESTING HONEY FROM A LOG HIVE
The impact of hive type on the behavior and health of honey bee colonies (Apis mellifera) in Kenya

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Maiali da guerra contro elefanti https://www.vitantica.net/2019/07/24/maiali-da-guerra-contro-elefanti/ https://www.vitantica.net/2019/07/24/maiali-da-guerra-contro-elefanti/#respond Wed, 24 Jul 2019 14:00:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4435 Con l’espansione di Greci e Romani verso Oriente, le armate del Mediterraneo iniziarono ad affrontare schieramenti militari talvolta molto differenti da quelli europei. Tra le “macchine da guerra” più temute c’erano gli elefanti, difficili da contrastare seguendo le tattiche belliche tradizionalmente adottate nel Vecchio Continente.

Gli elefanti, inizialmente considerati invincibili, rivelarono ben presto i loro punti deboli sul campo di battaglia; uno di questi era il timore nei confronti di un animale comune e relativamente innocuo come il maiale.

Elefanti da guerra

I primi elefanti da guerra furono addestrati in India almeno dal VI secolo a.C., anche se alcuni indizi lascerebbero supporre un’origine ancora più antica. Intorno al IV-V secolo a.C. gli elefanti già costituivano una parte fondamentale delle armate indiane, composte generalmente da quattro unità distinte: fanteria, cavalleria, carri ed elefanti.

Alcuni sovrani indiani giudicavano gli elefanti da guerra così fondamentali per i loro eserciti da affermare che “un esercito senza elefanti è deplorevole quanto una foresta senza leone, un regno senza un re o il valore senza l’aiuto delle armi“.

Successivamente, l’impiego degli elefanti da guerra raggiunse la Persia. Alessandro il Grande si scontrò con loro per la prima volta nella battaglia di Gaugamela (331 a.C.), e dopo aver ottenuto una delle sue vittorie più celebri decise di incorporare i 15 elefanti nemici all’interno del suo schieramento.

Nella battaglia dell’Idaspe contro il re indiano Poro, Alessandro si trovò ad affrontare da 85 a 100 elefanti da guerra; fu in questa circostanza che i pachidermi iniziarono a mostrare i loro punti deboli. Nonostante gli elefanti di Poro riuscissero a mietere vittime macedoni con relativa semplicità grazie anche agli spuntoni di ferro montati sulle loro zanne, Alessandro cambiò approccio alla battaglia e riuscì a sconfiggere il sovrano indiano.

Considerati i precedenti successi degli elefanti nei conflitti asiatici, anche i regni dell’ Africa settentrionale iniziarono ad acquistare e addestrare elefanti da guerra: la Numidia, i Cartaginesi e il Regno di Kush incorporarono l’elefante nordafricano (Loxodonta africana pharaohensis) nei loro eserciti fino a far estinguere questa specie a causa dell’eccessivo sfruttamento.

Armatura per elefante prodotta in India e custodita alla Oriental Gallery del Royal Armouries National Museum of Arms and Armour di Leeds.
Armatura per elefante prodotta in India e custodita alla Oriental Gallery del Royal Armouries National Museum of Arms and Armour di Leeds.

Diversamente dagli elefanti indiani, quelli nordafricani erano più piccoli, meno propensi all’addestramento e incapaci di attraversare fiumi profondi. Si tentò anche di addestrare gli elefanti africani delle savane (Loxodonta africana oxyotis), ma si dimostrarono ancora più difficili da domare rispetto ai loro cugini nordafricani.

L’introduzione in Europa degli elefanti avvenne principalmente con Pirro, re dell’Epiro tra il 306 e il 300 a.C.. Pirro importò 20 elefanti per attaccare i Romani nella battaglia di Eraclea (280 a.C.). I Romani, impreparati ad affrontare i pachidermi da guerra, furono sconfitti e respinti, ma l’anno successivo si presentarono preparati nella battaglia di Ascoli, armati di carri con punte acuminate e armi incendiarie: per quanto un’ultima carica di elefanti fu in grado di ottenere la vittoria, Pirro subì gravissime perdite.

Colpiti dall’efficacia degli elefanti nel diffondere terrore tra gli schieramenti nemici, e forti dell’esperienza maturata contro di essi durante le Guerre pirriche e quelle con Cartagine, i Romani adottarono in alcune circostanze questi pachidermi.

Nell’invasione della Gran Bretagna, pare che Cesare si servì di un solo elefante, corazzato e predisposti per il trasporto sul dorso di arcieri e frombolieri. La quinta legione di Cesare riuscì inoltre a resistere alla carica di 60 elefanti durante la battaglia di Tapso: i legionari, armati di asce, riuscirono a sconfiggere i pachidermi colpendoli alle gambe e adottando in seguito l’elefante come simbolo della loro unità militare.

Punti di forza e di debolezza degli elefanti da guerra

I punti di forza di un elefante da guerra sono facilmente intuibili: la sua sola massa unita alla velocità di corsa costituisce una forza difficilmente contrastabile dalla fanteria o dalla cavalleria dell’antichità.

La carica di un elefante può raggiungere i 30 km/h ed è pressoché inarrestabile da una linea di lance tradizionalmente impiegata per fermare le cariche di cavalleria. L’impatto con le prime linee non produceva il solo effetto di uccidere o ferire gravemente i soldati nell’avanguardia: il resto dell’esercito, dopo aver osservato gli effetti di una carica di elefanti, spesso si lasciava prendere dal panico e rompeva i ranghi, facilitando il compito di sfondamento.

In alcune regioni del mondo, come nel Sud-Est asiatico, l’elefante risultò così utile in battaglia da rimanere in uso fino alla fine del XIX secolo. Gli elefanti sono in grado di attraversare terreni difficili meglio della cavalleria, anche se sono decisamente più lenti di un uomo a cavallo.

L’utilità degli elefanti non era limitata alla sola forza d’urto: qesti animali venivano sfruttati per trasportare carichi pesanti e provviste. Alcuni regni orientali, come l’impero di Pala o il regno di Akbar il Grande, potevano contare sull’impiego militare o logistico di decine di migliaia di elefanti; il Gran Mogol Jahangir pare avesse a disposizione un totale di 113.000 elefanti, dei quali 12.000 impiegati a scopo militare.

Ma gli elefanti da guerra avevano anche debolezze tali da renderli poco utili o del tutto inutilizzabili in determinate circostanze. Gli elefanti hanno la tendenza a cedere al panico in un campo di battaglia, specialmente dopo aver subito ferite dolorose o in seguito alla morte del loro conducente (mahout).

Maiali contro elefanti. Le Livre et le vraye hystoire du bon roy Alixandre, Francia, 1420.
Maiali contro elefanti. Le Livre et le vraye hystoire du bon roy Alixandre, Francia, 1420.

Un elefante in preda al terrore non ragiona più lucidamente ed è in grado di infliggere pesanti perdite anche al suo stesso schieramento. I Romani compresero molto presto l’indole degli elefanti e la sfruttarono a loro vantaggio: una delle tattiche per contrastarli era quella di recidere la proboscide per terrorizzare l’animale e costringerlo ad una ritirata devastante per il suo stesso esercito.

Gli elefanti sono suscettibili a colpi sui fianchi, altra caratteristica che i Romani impararono a sfruttare impiegando fanti armati di giavellotti, picche e armi incendiarie.

Ma una delle tattiche più efficaci e bizzarre impiegate per contrastare l’avanzata degli elefanti fu l’uso dei “maiali da guerra”.

Il maiale da guerra

Il primo europeo a venire a conoscenza della debolezza degli elefanti per i maiali fu Alessandro Magno: dopo aver sconfitto Poro nella battaglia dell’Idaspe, fu lo stesso sovrano indiano a svelare al condottiero macedone il terrore che i versi di maiale istigavano negli elefanti.

Plinio il Vecchio riporta che “gli elefanti sono spaventati dal più piccolo strillo di maiale”. Secondo Claudio Eliano, che conferma le parole di Plinio, i Romani che affrontarono Pirro nel 275 a.C. utilizzarono maiali e montoni per fermare l’avanzata degli elefanti.

Eliano non solo menziona maiali urlanti nel suo “Sulla natura degli animali“, ma anche l’uso di maiali dati alle fiamme: durante l’assedio di Megara (266 a.C.) gli assediati utilizzarono suini ricoperti di resina di pino e petrolio come “arieti incendiari”, lanciandoli contro lo schieramento di elefanti.

I pachidermi, alla vista dei maiali urlanti e in fiamme che si dirigevano verso di loro, si fecero prendere dal panico e iniziarono a fuggire in modo disordinato calpestando i soldati del loro schieramento.

Il retore e stratega militare macedone Polieno racconta nel suo Stratagemmi che “i maiali grugnirono e strillarono sotto la tortura del fuoco e si lanciarono in avanti verso gli elefanti, che ruppero i loro ranghi in preda alla confusione e alla paura e fuggirono in diverse direzioni”.

L’uso dei maiali da guerra per contrastare l’avanzata degli elefanti e vanificarne l’efficacia in battaglia costrinse gli addestratori ad abituare i pachidermi, fin dalla tenera età, alla presenza di suini.

In tempi recenti Adrienne Mayor, ricercatrice della Stanford University e autrice del libro “Greek Fire, Poison Arrows & Scorpion Bombs: Biological and Chemical Warfare in the Ancient World“, ha suggerito che i maiali incendiari siano stati una prima forma rudimentale di arma chimico-biologica.

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Could a war pig really defeat a war elephant? – Amazing history
Pigs: Ancient Weapons of Biological Warfare?

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Il mito dell’equilibrio della natura https://www.vitantica.net/2019/07/03/mito-equilibrio-natura/ https://www.vitantica.net/2019/07/03/mito-equilibrio-natura/#respond Wed, 03 Jul 2019 14:10:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4319 Esiste un’idea molto diffusa sul funzionamento del mondo naturale: gli ecosistemi sono in grado di regolarsi in autonomia perché il loro stato naturale sarebbe quello di equilibrio tra le specie viventi.

Ciò che viene definito “equilibrio della Natura” prevede che ogni alterazione di un ecosistema sia destinata ad essere soppressa perchè la natura stessa, in quanto portatrice di equilibrio, provvederà a riportare la situazione alla normalità.

Questa idea, oltre che non supportata dai dati che gli ecologi hanno raccolto nel corso delle ultime decadi, si basa su presupposti errati, presupposti che talvolta possono rappresentare un ostacolo per la tutela delle risorse ambientali del nostro pianeta. La natura non mai in equilibrio, ma in costante mutamento.

Da dove nasce l’idea di un equilibrio naturale?

Un’idea molto popolare e condivisa sostiene che la natura andrebbe lasciata in pace perché capace di autoregolarsi, e che l’intervento umano sia del tutto inaccettabile e inopportuno in un ecosistema sano. Gli unici a non concordare con l’ipotesi della natura in equilibrio sono gli ecologi.

A partire da Erodoto, il concetto di “equilibrio della natura” ha preso sempre più piede nell’ideale collettivo del mondo naturale e nella gestione delle risorse ambientali.

Erodoto fu probabilmente il primo a descrivere il rapporto tra predatori e prede come un bilanciamento perfetto, sostenendo che i predatori non uccidano mai in eccesso seguendo un equilibrio naturale, cosa che oggi sappiamo non essere vera: donnole, tassi, lupi, orche, volpi, leoni, ragni, gatti e ovviamente esseri umani sono solo alcuni animali che spesso e volentieri uccidono prede in numero superiore alle loro reali esigenze alimentari.

A partire dall’inizio del 1900 iniziarono ad emergere dati e osservazioni in contrasto con l’idea di un equilibrio naturale. Il rapporto tra predatori e prede, ad esempio, viene descritto al meglio da un sistema caotico che si sviluppa all’interno di certi parametri, e non da una sorta di “entità naturale” che cerca di mantenere l’equilibrio a tutti i costi.

Una ricerca pubblicata su Nature nel 2012 ha analizzato la catena alimentare di un ecosistema isolato nel Mar Baltico, scoprendo che “le tecniche matematiche avanzate provano la presenza incontrovertibile del caos in questa catena alimentare…le previsioni a breve termine sono possibili, ma quelle a lungo termine non lo sono”.

La maggior parte degli ecologi del XX secolo non ha mai sottoscritto l’idea di un “equilibrio della natura”. Già nel 1927 Charles Elton, ecologo di Oxford, scriveva nel suo libro Animal Ecology che “l’equilibrio della natura non esiste, e forse non è mai esistito”.

Ma altri ecologi, come Eugene Odum, uno dei padri fondatori dell’ecologia moderna, sostenevano l’idea che ogni ecosistema sarebbe stato in grado di riprendersi, di ritornare ad uno stato di “omeostasi” anche dopo l’introduzione di gravi elementi di squilibrio.

Negli anni ’80 tuttavia Daniel Simberloff pubblicò “A Succession of Paradigms in Ecology: Essentialism to Materialism and Probabilism“, una critica feroce alla visione ecologica di Odum, critica supportata da dati che smembravano l’idea dell’omeostasi naturale. I dati raccolti da Simberloff e da molti altri ricercatori facevano emergere una visione dell’ecologia del tutto opposta a quella di Odum: il mondo naturale è instabile, caotico, in continuo mutamento, con o senza l’intervento umano.

Equilibrio e immutabilità
Evoluzione di Doggerland durante i millenni

Escludiamo per un istante la presenza umana dallo scenario di un pianeta in cui ogni ecosistema è sostanzialmente vergine. Se davvero la natura costituisse un unico, grande sistema in equilibrio, si tratterebbe di un sistema sostanzialmente immutabile una volta raggiunto il suo apice ecologico; ma ogni dato a nostra disposizione ci dice esattamente il contrario.

Il regno naturale è in costante mutamento e ogni ecosistema è perennemente esposto al rischio di squilibrio. Glaciazioni si alternano a intervalli più o meno irregolari, con una durata non predeterminata; deserti prendono il posto delle foreste e delle praterie; ecosistemi marini e terrestri vengono continuamente distrutti o generati dall’innalzamento o l’abbassamento dei mari del pianeta.

Un tempo, l’Antartide era quasi interamente ricoperta da foreste pluviali, ma nell’arco di milioni di anni si è trasformata in un deserto di ghiaccio. Nel Mare del Nord esisteva, oltre 14.000 anni fa, una massa di terra emersa chiamata Doggerland che progressivamente fu inghiottita dal mare e che non ha lasciato traccia evidente della sua esistenza se non sul fondale marino.

Passando ad esempi su scala temporale più breve, i mutamenti della fauna e della flora degli ecosistemi conosciuti, presenti e passati, avvengono con velocità e sotto la spinta di squilibri di risorse, climatici, biologici e di eventi cosmici quasi del tutto imprevedibili.

I dati relativi al Pleistocene raccolti fino ad ora mostrano una rapida estinzione di buona parte della megafauna esistente al tempo, un evento che si verificò in ogni continente ad eccezione dell’Antartide. Anche se alcune di queste estinzioni potrebbero essere attribuibili all’essere umano, altre invece furono certamente causate da un mutamento delle risorse alimentari disponibili, da malattie imprevedibili, da rami evolutivi perdenti e dal clima, elementi che aumentarono le probabilità di sopravvivenza di alcune specie limitando allo stesso tempo quelle di altre.

Dallo squilibrio naturale, quindi, nasce un mutamento, che non può essere considerato assolutamente positivo o negativo, ma deve essere contestualizzato usando ecologia e biologia locali come parametri principali.

Se davvero la natura avesse un equilibrio, o fosse in grado di ripristinare l’equilibrio dopo uno squilibrio, la megafauna non si sarebbe mai estinta ma avrebbe continuato a vivere facendo registrare numeri pressoché costanti per milioni di anni; nulla si sarebbe mai evoluto, nessun disastro naturale si sarebbe mai verificato e la Terra sarebbe diventata una sorta di “palla di vetro cosmica” in cui nulla cambia.

L’ipotesi “Gaia”

Quella che viene definita come “ipotesi di Gaia”, o “principio di Gaia”, è un concetto che prevede che ogni essere vivente interagisca con il resto del pianeta formando un complesso sistema sinergico in grado di auto-regolarsi, in modo tale da preservare la vita sul pianeta Terra.

Il concetto di Gaia (nome derivato dalla personificazione greca della Terra) fu proposto per la prima volta da James Lovelock e Lynn Margulis negli anni ’70 del 1900. Non si tratta di un’idea balzana, nel suo principio: il biota terrestre influenza anche alcuni aspetti del mondo abiotico; animali e piante sono in grado di modificare il clima e l’atmosfera, la disponibilità delle risorse alimentari e avere profonde conseguenze sugli ecosistemi grazie ai loro comportamenti.

Il mito dell'equilibrio della natura

Ciò che diventa più difficile da accettare, in mancanza di prove e, anzi, con dati che supporterebbero un’ipotesi contraria a questa, è che questo sistema raggiunga una fase di omeostasi e riesca a mantenere attivamente un equilibrio costante, riprendendosi dai traumi come un essere senziente.

La microbiologa Lynn Margulis, che si unì a Lovelock nel tentativo di “ripulire” l’ipotesi di Gaia lasciando soltanto concetti scientificamente dimostrati, fu la prima a sostenere che Gaia non era una sorta di super-organismo che tende all’equilibrio, ma una serie di caratteristiche che emergevano dall’interazione degli organismi viventi, definendola una “serie di ecosistemi che interagiscono e che compongono un singolo, enorme ecosistema sulla superficie della Terra”.

Non, quindi, un sistema in costante equilibrio, ma un super-ecosistema caratterizzato dalla continua interazione di ecosistemi locali, in costante mutamento e in perenne fase di squilibrio. Oggi sappiamo inoltre che l’ipotesi di Gaia è incompleta: non è solo la vita che interagisce e cambia il nostro pianeta, ma anche la chimica inorganica.

L’ipotesi di Gaia suscita ancora un certo scetticismo in molti ambienti scientifici: ci sono esempi a supporto dell’idea che alcune forme di vita (discorso a parte merita l’essere umano) contribuiscano allo squilibrio e al deterioramento dell’ecosistema in cui vivono e non agiscano per regolarlo, ma solo per sfruttarlo a discapito di tutte le altre forme di vita che lo circondano.

L’ “ipotesi Medea”, contrapposta a quella di Gaia, si basa proprio su questi organismi dannosi: la vita multicellulare è sostanzialmente un superorganismo suicida, regolato esclusivamente dall’attività monocellulare nel tentativo di riportare il pianeta nel suo stato naturale: un corpo celeste dominato da vita microscopica.

Che si parli di Gaia, di Medea o di teorie scientificamente dimostrabili con più accuratezza e con abbondanza di dati, il nostro pianeta si trova in costante squilibrio e mutamento. Non esiste un “equilibrio della natura”, ma una serie infinita di cambiamenti, estinzioni e rinascite.

Il concetto di “equilibrio della natura” è controproducente per la conservazione?

I moderni sforzi di conservazione degli ecosistemi si basano spesso sull’assunto che la natura, lasciata a se stessa e lontano dalle mani umane, sarebbe in grado di riportare l’armonia, cancellando ogni situazione di squilibrio causata dall’uomo o generata da episodi distruttivi naturali.

Ma come abbiamo visto non è affatto così. L’ipotesi dell’equilibrio della natura prevede che un ecosistema raggiunga l’apice del suo sviluppo ecologico per poi cambiare poco o nulla se lasciato indisturbato; ma sia un ecosistema sano che uno compromesso non sono mai statici, tendono sempre allo squilibrio e al mutamento.

Anche senza l’intervento umano, singoli organismi e intere specie vengono semplicemente spazzati via dalla natura se non sono in grado di sopravvivere nel loro contesto ecologico. La loro scomparsa può costituire un’opportunità per altre specie, oppure può lasciare un vuoto incolmabile che provocherà uno squilibrio più o meno profondo nell’ambiente.

L’approccio moderno alla conservazione sembra essere orientato alla creazione di una sorta di “bolla isolata” in cui consentire la sopravvivenza di alcune specie animali e vegetali. Se questo approccio ha permesso di salvare molte specie, non è detto che in un futuro più o meno remoto avrà risultati positivi.

Immaginate un bosco che, lentamente e lontano dall’intervento umano, si ripopola di piante dopo la devastazione causata da un fenomeno naturale. Le varie nicchie ecologiche disponibili verranno occupate dalle piante più opportuniste, adattabili o aggressive, e non è affatto detto che si tratti di specie autoctone o che porteranno benefici alla foresta.

Un esempio concreto di pianta opportunista dannosa per molti ecosistemi è la panace gigante di Mantegazza (Heracleum mantegazzianum), una pianta giunta in Europa nel XIX secolo e che si sta diffondendo rapidamente nei luoghi incolti. Questa pianta produce decine di migliaia di semi che colonizzano molto velocemente prati e rive di fiumi, sostituendo alcune specie vegetali locali o riducendo il loro spazio vitale.

La panace gigante inoltre mette a serio rischio la biodiversità faunistica: la sua linfa è estremamente tossica se tocca la pelle o gli occhi di un animale (uomo compreso) e causa ustioni dolorosissime e debilitanti. E’ per questo che in Europa e in Nord America sono iniziate da tempo campagne di segnalazione e rimozione di questa pianta per salvaguardare le specie locali.

L’esempio della panace gigante serve a far comprendere che natura ed essere umano possono convivere, anzi, in alcuni casi devono convivere e “guardarsi le spalle” a vicenda. Ma nulla è immutabile in natura, nulla rimane in equilibrio: ci possono essere situazioni di equilibrio temporanee, ma nel lungo periodo sono destinata a cambiare, avvantaggiando alcune specie e sfavorendone altre.

Una visione molto diffusa tra gli ecologi moderni è il “resilience thinking“: ogni ecosistema prevede squilibri e mutamenti, ma alcuni ecosistemi sono più resistenti al cambiamento distruttivo rispetto ad altri. Quando un ambiente naturale ha un elevato grado di biodiversità, risulta generalmente più resistente a squilibri distruttivi.

Il resilience thinking non si limita a dire che “la natura riporterà l’equilibrio”, ma prevede una conoscenza estesa e accurata delle forze ecologiche che agiscono su un ecosistema e cerca di regolarle per favorire la ripresa, il mantenimento o la scomparsa delle specie che vivono in un determinato ambiente.

L’equilibrio della natura non esiste (e non è mai esistito!)
BELIEF IN ‘BALANCE OF NATURE’ HARD TO SHAKE
The myth of a constant and stable environment
Out of kilter
Earth Day Anniversary and the Balance of Nature Myth
The Balance of Nature: Ecology’s Enduring Myth

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Umani e scimpanzé: sarebbe un mondo migliore se fossimo come loro? https://www.vitantica.net/2019/06/26/umani-scimpanze/ https://www.vitantica.net/2019/06/26/umani-scimpanze/#comments Wed, 26 Jun 2019 00:10:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4312 Una delle frasi più comuni sulla Rete quando si discute di animali ed esseri umani è una versione tra le tante di questo concetto: se gli umani fossero come un qualunque altro esponente del regno animale sarebbe un mondo più pacifico e più giusto.

Sotto alcuni aspetti, l’idea non è affatto sbagliata: apparentemente, gli animali non umani hanno un rapporto con il regno naturale molto più vicino e genuino di quello dell’essere umano moderno, una creatura che si rende perfettamente conto dei danni che sta causando agli ecosistemi che gli consentono di sopravvivere (contrariamente alla maggior parte gli altri animali, non dotati di questo grado di consapevolezza) ma che decide coscientemente di ignorare il problema.

Se si considerano tuttavia altre caratteristiche della vita quotidiana di animali terrestri e marini, la faccenda diventa più complicata e difficile da coniugare con un pianeta pacifico e giusto.

La violenza, immotivata o giustificata da ragioni di dominanza, la stratificazione sociale e lo spreco non sono affatto una prerogativa umana: alcuni esseri viventi molto simili a noi (come le grandi scimmie antropomorfe) e altri estremamente differenti condividono con l’essere umano caratteristiche insospettabili, caratteristiche che potrebbero e dovrebbero far riconsiderare completamente il concetto di pace e giustizia del regno naturale.

In questo post analizzerò superficialmente alcuni aspetti della vita quotidiana degli scimpanzé, animali da un lato estremamente simili all’essere umano, dall’altro del tutto differenti dal punto di vista morfologico e intellettivo.

Mi limiterò esclusivamente a descrivere caratteristiche osservate in scimpanzé che vivono liberi nel loro ecosistema naturale, non animali da laboratorio soggetti a stress e che spesso dimostrano comportamenti tipici della cattività.

Omicidi seriali
Passion, la scimpanzé serial killer
Passion, la scimpanzé serial killer

Nel 1975 Jane Goodall, la celebre primatologa, fu così fortunata da assistere alla nascita di uno scimpanzé che in futuro avrebbe contribuito a modificare radicalmente l’idea comune che questa specie di primati sia composta da creature amorevoli e pacifiche.

Battezzata Passion, nel giro di poco tempo questo scimpanzé iniziò a dimostrarsi una scimmia particolarmente violenta, tanto da dare l’impressione di provare gusto nell’omicidio.

Nel giro di poco tempo Passion fece la sua prima vittima: si trattava del cucciolo di una scimpanzé chiamata Gilka. Dopo aver aggredito la madre colpendola fino a farla fuggire, Passion afferrò il cucciolo, lo uccise sbattendolo ripetutamente contro il terreno e iniziò a cibarsi del suo corpicino, condividendolo con i suoi figli.

I figli di Passion iniziarono ad attaccare in massa gli altri scimpanzé, compreso il secondo figlio di Gilka, ucciso dalla figlia di Passion, Pom. Anche se Jane Goodall fu in grado di osservare di persona solo tre attacchi, in circa due anni nella popolazione locale di scimpanzé solo un cucciolo era stato capace di sopravvivere oltre il mese di vita.

Passion e i suoi figli furono messi sotto stretta sorveglianza da un team della Goodall, addetto a spaventare gli scimpanzé killer ogni volta fosse nato il sospetto di un attacco imminente.

Anche se può apparire un incidente isolato, nel 2007 sono stati osservati altri scimpanzé, del tutto estranei alla popolazione della Tanzania osservata da Goodall, che compivano aggressioni letali e atti di cannibalismo verso i cuccioli della loro comunità.

Violenza sessuale

I maschi di scimpanzé non sono capaci di accettare un “no” come risposta: se una potenziale partner non sembra voler acconsentire ad avere un rapporto sessuale, il maschio potrebbe reagire molto violentemente.

Non sono affatto rari i casi in cui un maschio adulto aggredisca una femmina, picchiandola fino a farle perdere i sensi, strappandole i peli, saltando sul suo corpo e calciandola per farle perdere ogni volontà di resistere.

A quel punto si consumerà un atto sessuale violento, un vero e proprio stupro, seguito talvolta dall’uccisione di eventuali cuccioli della vittima per costringerla di fatto a volersi accoppiare nuovamente per generare prole.

Gli scimpanzé non solo attaccano le femmine della loro comunità per ottenere sesso, ma anche le madri, colpendole e violentandole come farebbero con un qualunque altro scimpanzé.

La violenza è particolarmente comune quando vede coinvolti scimpanzé di basso rango sociale: gli individui che vengono respinti tendono a colpire più spesso le femmine per ottenere più probabilità di riprodursi rispetto ai maschi dominanti. Se una delle femmine venisse scoperta da un maschio dominante mentre viene violentata da un individuo di basso rango, sarà violentemente percossa per scoraggiare ogni episodio simile in futuro.

Ubriachezza
Scimpanzé intenti a bere succo di palma fermentato usando foglie masticate
Scimpanzé intenti a bere succo di palma fermentato usando foglie masticate

Gli scimpanzé che vivono nelle foreste vicino a Bossou, Guinea, sono stati osservati nel 2015 mentre ingerivano succo di palma fermentato, prodotto naturalmente dai naturali processi di decomposizione, con il preciso scopo di ubriacarsi.

Nell’arco di 17 anni questi scimpanzé hanno dimostrato più volte di gradire particolarmente questo intossicante naturale, con un contenuto di alcol pari a circa il 3%. Dal 1995 al 2012, i ricercatori hanno assistito a 51 bevute di 13 diversi scimpanzé.

Le “bevute” si verificano anche a distanza di mesi l’una dall’altra, e generalmente di giorno,anche se non si può escludere un comportamento notturno simile; gli scimpanzé assumono fino a 80 ml di liquido alcolico (un cucchiaio da tavola contiene circa 11 ml).

Secondo i primatologi, i dati supportano l’idea che questi primati non abbiano appreso questo comportamento dall’essere umano, ma sia una sorta di “tradizione” nata spontaneamente nella loro comunità.

La scalata verso il comando
Frodo
Frodo

Frodo, uno scimpanzé della Tanzania, fu il primo ad essere osservato durante una “scalata sociale”. Tra gli scimpanzé è quasi sempre necessario usare la violenza per ottenere un rango superiore, e Frodo iniziò fin da piccolo a dimostrarsi violento e competitivo.

Frodo era così aggressivo da arrabbiarsi ogni volta che un altro membro maschio della comunità toccava una roccia: ne afferrava una più grossa e la scagliava contro il suo potenziale contendente al posto di comando, per dimostrare che era in grado di essere più violento e dominante di chiunque altro.

Poco tempo dopo, Frodo attaccò suo fratello per salire di rango, picchiandolo con estrema violenza. L’aggressione era il penultimo gradino da scalare per dominare il branco; l’ultimo, secondo Frodo, era Jane Goodall.

Frodo attaccò la Goodall gettandola a terra, saltandole ripetutamente sul corpo e trascinandola per l’accampamento. Ogni volta che la Goodall cercava di rialzarsi, Frodo la colpiva per impedirle ogni possibilità di fuga.

Lo scimpanzé non aveva ancora finito di dare una lezione agli esseri umani. Dopo l’episodio dell’aggressione alla Goodall, Frodo rapì un bambino umano dalle braccia della madre, trascinandolo nella foresta per poi nutrirsene e abbandonare i resti su un albero.

Caccia al colobo
Scimpanzé che consuma un colobo dopo una caccia di successo
Scimpanzé che consuma un colobo dopo una caccia di successo

Gli scimpanzé sono particolarmente ghiotti di colobi rossi occidentali (Piliocolobus badius), scimmie arboricole di 5-10 kg di peso vhe formano gruppi mediamente composti da 50 individui.

La caccia al colobo rosso è ben organizzata e ragionata: gli scimpanzé scelgono sempre di attaccare quando il territorio di caccia è ricoperto a chiazze dalla foresta, per fornire meno vie di fuga ai colobi.

Gli scimpanzé si dividono i ruoli: alcuni cercheranno di dare una direzione alla preda senza tentare di catturarla, altri invece staranno sul terreno per impedire ai colobi di scendere dagli alberi. Un terzo gruppo, gli inseguitori, si dedicherà all’inseguimento delle prede tentando di afferrarne una, mentre l’ultimo manipolo di scimmie tenderà agguati in posizioni strategiche.

Gli scimpanzé cacciano sia adulti che cuccioli e non è raro che i maschi di colobo tentino una disperata difesa fino ad essere uccisi o costretti a fuggire. Dopo una caccia di successo, gli scimpanzé fanno a pezzi le prede e le distribuiscono ai membri del gruppo, spesso anche se non hanno partecipato attivamente alla battuta.

Guerra delle scimmie

Guerra degli scimpanzé di Gombe

Nel 1974 Jane Goodall e i suoi colleghi osservarono per la prima volta un fenomeno nuovo: una guerra tra scimpanzé. Negli anni ’70 del 1900 la maggior parte dei primatologi li riteneva creature fondamentalmente pacifiche e incapaci di far guerra o di compiere atti particolarmente violenti e cannibalistici.

All’inizio della “Guerra di Gombe”, durata ben 4 anni, un gruppo di scimpanzé (i Kasakela) iniziò a invadere sistematicamente il territorio di un altro gruppo locale (i Kahama), tendendo agguati a scimpanzé solitari fino a distruggere completamente la popolazione rivale.

Un gruppo di kasakela composto da circa 6 individui si infiltrava silenziosamente nei pressi dell’accampamento rivale, attendendo con pazienza che un elemento si distaccasse dal gruppo per aggredirlo e ucciderlo.

Non solo: in un’occasione, dopo aver ucciso uno scimpanzé Kahama, un guerriero Kasakela, battezzato Satan dalla Goodall, unì le mani a coppa per prelevare il sangue che sgorgava dal naso della vittima e berlo.

Al termine della guerra, tutti e sei i maschi Kahama erano morti, una femmina fu uccisa, di altre due si perse ogni traccia e le tre rimanenti, le più giovani, furono picchiate e rapite dai Kasakela.

Quando gli scimpanzé vincono uno scontro letale, che si tratti di una guerra o di episodio isolato, una delle conseguenze più osservate è il cannibalismo: i cuccioli vengono strappati dalle braccia delle loro madri per essere mangiati come “snack”, mentre gli adulti vengono colpiti a morte per poi essere fatti a pezzi e mangiati.

Inizialmente nacque il sospetto che la guerra di Gombe fosse un comportamento appreso osservando i ripetuti scontri armati umani che si verificano localmente, ma una ricerca del 2014 ha smentito questa ipotesi: gli scimpanzé si fanno la guerra per le stesse ragioni per cui la fa l’essere umano, risorse e dominanza.

Female Chimps Kill Infants
Violent Chimps
Do chimpanzee wars prove that violence is innate?
Nature of war: Chimps inherently violent; Study disproves theory that ‘chimpanzee wars’ are sparked by human influence
Chimpanzees found routinely drinking alcohol in wild

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Quanto sono forti le grandi scimmie antropomorfe? https://www.vitantica.net/2019/05/31/quanto-sono-forti-grandi-scimmie-antropomorfe/ https://www.vitantica.net/2019/05/31/quanto-sono-forti-grandi-scimmie-antropomorfe/#respond Fri, 31 May 2019 00:02:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4277 “L’alba del pianeta delle scimmie”, il remake de “Il pianeta delle scimmie” del 1968, ha riportato nuovamente la ribalta le grandi scimmie antropomorfe, rendendole protagoniste di una battaglia per l’emancipazione dal controllo umano.

Parlare a fondo della trama sarebbe tempo sprecato, dato che pressoché chiunque conosce, anche solo vagamente, il tema  della saga: scimmie super-intelligenti sovvertono il mondo che conosciamo, prendendo il controllo e sottomettendo la razza umana grazie alla loro superiorità fisica e intellettiva.

Uno degli aspetti che scimpanzé, gorilla e orangutan de “Il pianeta delle scimmie” sfruttano a loro vantaggio è una forza decisamente superiore a quella dell’essere umano: scagliano uomini a metri di distanza, frantumano crani e ossa a mani nude, compiono salti che sembrano avere ben poco a che fare con le leggi della fisica conosciuta (specialmente nel remake del 2001 di Tim Burton).

Nel film “L’alba del pianeta delle scimmie” la forza dei primati viene drasticamente ridotta rispetto alle pellicoleprecedenti e i balzi sono stati ridimensionati per potersi avvicinare quanto più possibile alle scimmie della realtà, pur mantenendo un certo grado di spettacolarità.

Le reale forza delle scimmie antropomorfe: gli scimpanzé

Quanto sono forti le grandi scimmie antropomorfe?

Guardando la pellicola, la domanda che sorge è questa: quanto è effettivamente superiore la forza fisica delle grandi scimmie antropomorfe se paragonata a quella umana? Dare una risposta corretta è difficile. Studi scientifici dettagliati sulla reale forza fisica dei primati non ce ne sono molti, e ciò che sappiamo si basa per la maggior parte su aneddoti e testimonianze indirette.

Iniziamo con gli scimpanzé. Nel 1924, gli addetti agli scimpanzé dello Zoo del Bronx misurarono la forza di trazione di un esemplare di 74 kg di peso, di nome Boma, tramite un dinamometro, scoprendo che riusciva ad esercitare una forza di 384 kg con la sola mano destra. Un essere umano dello stesso peso riuscirebbe a eseguire una trazione con una sola mano di circa 95 kg.

Un altro scimpanzé dello stesso zoo, di nome Suzette, che pesava circa 61 kg, ha fatto registrare una forza di 571 kg. Nel sollevamento di pesi all’altezza della vita, invece, è ormai noto che gli scimpanzé siano in grado di sollevare almeno 250 kg senza troppi sforzi.

C’è, però, un problema. L’ approssimazione delle misurazioni relative alla forza degli scimpanzé, approssimazione che li vede 5-6 volte più forti dell’essere umano, è stata smentita circa 20 anni dopo le misurazioni su Boma e Suzette. Uno scimpanzè adulto resta comunque più forte di un essere umano, ma di circa due volte se si correggono alcuni errori nelle misurazioni del 1924 e si fa il giusto rapporto con la massa corporea dell’animale.

Una forza sufficiente a causare gravi danni, se non addirittura uccidere un essere umano adulto senza troppe difficoltà, ma non tale da scagliare un essere umano dall’altra parte della stanza con un solo manrovescio. Come si è potuto originare un errore così grossolano?

Sembra che non sia stata colpa di nessuno, o quasi. Di certo le misurazioni di John Bauman, il biologo che eseguì la ricerca, non erano le più attendibili di questo mondo, e fu lo stesso ricercatore a sottolineare che l’agitazione degli animali e l’adrenalina che scorreva nei loro corpi potrebbe aver giocato un ruolo chiave in una prestazione così eccezionale.

La forza dei gorilla

Quanto sono forti le grandi scimmie antropomorfe?

Se passiamo ai gorilla, la faccenda si fa interessante e tremendamente seria, anche se i numeri conosciuti dal grande pubblico sono da ridimensionare.

Teniamo sempre a mente che un maschio di gorilla di montagna pesa oltre 200 kg per circa 1,7 metri di lunghezza, e ha una struttura muscolare molto più potente e performante di quella di un essere umano; ma esperimenti sui gorilla, simili a quello eseguito nello Zoo del Bronx, non ne sono mai stati fatti e la valutazione della loro forza è basata sui dati ottenuti dalle testimonianze di gorilla in cattività e in natura.

I gorilla hanno più muscoli nella parte superiore del corpo che in quella inferiore, contrariamente all’essere umano, principalmente per il fatto che utilizzano le braccia per muoversi, per manipolare oggetti pesanti e per la difesa del branco.

Il loro braccio, inoltre, è di circa 30 cm più lungo di quello umano. Questo si traduce in leve più lunghe e biomeccanicamente più efficaci per quanto riguarda l’espressione della forza bruta, e in una quantità maggiore di massa muscolare negli arti superiori. Per approssimazione, possiamo dire che la forza delle braccia di un gorilla è almeno 3-5 volte più elevata di quella di un uomo adulto di pari peso.

Il salto delle grandi scimmie
Quanto sono forti le grandi scimmie antropomorfe?
Nessun gorilla potrà mai effettuare un salto simile…

“Il pianeta delle scimmie” non è solo forza letale, ma anche spettacolari salti e capriole aeree. Può una scimmia ottenere quelle prestazioni ed eseguire balzi lunghi una decina di metri?

Anche in questo caso non abbiamo a disposizione molti dati, ma c’è una ricerca relativamente recente che potrebbe fornire qualche dato utile per farsi un’opinione.

Nel 2006, un team di ricercatori olandesi ha misurato la capacità di salto verticale dei bonobo, uno dei primati più simili agli scimpanzé anche se più piccolo e relativamente meno potente dal punto di vista muscolare.

Tutti i bonobo hanno superato l’altezza di 70 centimetri, ben oltre la performance umana che si attesta a 30-40 centimetri.

Nonostante la differenza in dimensioni e peso (per i calcoli si è utilizzato un bonobo di 34 kg e un essere umano di 61 kg), durante il salto i bonobo hanno sprigionato una forza del tutto simile a quella espressa dall’essere umano.

Applicare queste misurazioni su altre grandi scimmie è complicato, e non sono di certo la persona adatta ad un compito così elaborato. Ma possiamo escludere che uno scimpanzé possa raggiungere i tre metri di altezza con un balzo da fermo.

Se le grandi scimmie possedessero le caratteristiche fisiche dei gibboni, potrebbero di certo ottenere prestazioni superiori: i gibboni possono saltare fino ad oltre 3 metri in altezza, e superare distanze di 10 metri tra un albero e l’altro, ma possono ottenere questi risultati solo grazie alla loro particolare struttura scheletrica e muscolare, oltre ad una massa corporea inferiore a quella di scimpanzé, gorilla e orangutan.

Che le scimmie possano spaccare un cranio a mani nude o saltare a 10 metri di distanza, comunque, poco importa a noi comuni mortali. Lasciamo che i biologi rispondano (con i loro tempi) alle nostre domande, e alleviamo l’attesa con il cinema.

La versione originale de “pianeta delle scimmie” rimane un classico, il suo remake del 2001 un decente blockbuster, e “L’alba del pianeta delle scimmie” è stato un successo. Dimenticatevi di ogni pretesa di fedeltà alla fisica del mondo reale e godetevi lo spettacolo.

How Strong Is a Chimpanzee?
The strength of apes compared to humans
Vertical jumping performance of bonobo (Pan paniscus) suggests superior muscle properties
Can a 90-lb. chimp clobber a full-grown man?
Chimps are not as superhumanly strong as we thought they were

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