utensili – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Arnia tradizionale di tronco https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/ https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/#comments Mon, 30 Sep 2019 00:05:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4544 L’arnia costituisce una vera e propria casa per le api domestiche. Da un’apicoltura passata fatta di tronchi cavi e di cumuli di paglia, l’essere umano ha progressivamente ideato nuovi design con i materiali a sua disposizione, ottenendo livelli di sofisticatezza incredibilmente avanzati.

All’interno dell’arnia si sviluppa la quasi totalità della vita di una colonia. Grazie al controllo attento e costante dell’attività dell’alveare, gli antichi apicoltori furono in grado di controllare limitatamente la produzione di miele.

Le arnie a favo fisso (facenti parte di ciò che viene definita “apicoltura non razionale”), spesso ottenute da materiale vegetale, sono tra le più antiche della storia dell’apicoltura. Le arnie ricavate da un tronco d’albero cavo o da un ceppo lavorato furono realizzate almeno dal 3.380 a.C., come testimoniano alcuni resti di arnia trovati in Svizzera.

L’arnia di tronco

Le arnie ricavate da un tronco d’albero (chiamate anche bugno) sono le più antiche e anche le più simili all’ambiente naturale in cui si sviluppa una colonia di api: simulano un processo che avviene spontaneamente all’interno di un ecosistema (la morte di un albero e la formazione di cavità al suo interno) per guidare indirettamente l’attività di un alveare.

L’arnia a ceppo è un metodo di apicoltura distruttivo: per estrarre i favi e raccogliere il miele è necessario asportare dal tronco le strutture di cera, distruggendo la laboriosa opera di costruzione compiuta dalle api e costringendole a ricostruire i favi.

 

Arnia tradizionale di tronco

La semplicità e l’efficacia dell’arnia a ceppo, tuttavia, giustificava in passato (e parzialmente ancora oggi) l’utilizzo di questa tecnica di apicoltura.

L’arnia a ceppo presenta vantaggi e svantaggi rispetto ai metodi di apicoltura moderni:

  • E’ relativamente economica da realizzare;
  • Può essere realizzata sul posto se si è dotati di una discreta manualità;
  • Lascia alle api la possibilità di gestire in autonomia il loro spazio vitale;
  • Producono grandi quantità di cera;
  • L’arnia a ceppo può essere molto pesante e difficile da trasportare;
  • Le api costruiranno i loro favi in ogni direzione, non disponendo di telai in grado di indirizzare la loro opera costruttiva;
  • Può richiedere la distruzione della struttura lignea per estrarre il miele;
  • Le fratture che si formeranno sul tronco contribuiranno ad aerare l’ambiente interno, ma allo stesso tempo favoriranno l’ingresso di parassiti;
  • Essendo generalmente collocata ad una certa altezza rispetto al terreno, non viene attaccata da predatori come topi e tassi.
Selezione e lavorazione del tronco

Per fabbricare un’arnia a ceppo funzionale occorre selezionare un tronco delle dimensioni adeguate: da 60 a 80 centimetri di diametro per una lunghezza di circa 1,4 metri. Il concetto è quello di replicare il tronco cavo di un albero, ambiente che le api selvatiche ritengono ideale per la costituzione di una colonia.

La selezione di un legname morbido, come il legno di pino, faciliterà le fasi di lavorazione del ceppo, specialmente quelle che richiedono una certa manualità e non consentono l’utilizzo di utensili elettrici.

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Sulla costa occidentale dell’Africa gli apicoltori sfruttano le proprietà della palma di Palmira (Borassus flabellifer) e l’attività delle termiti per ottenere arnie a ceppo con il minimo sforzo. La palma di Palmira produce piccole cavità naturali durante l’arco della sua vita; una volta terminata la sua esistenza, gli apicoltori attendono che le termiti si facciano strada nel legname morto dell’albero, allargando le cavità e fornendo materiale già pronto per essere utilizzato come arnia a ceppo.

La lavorazione del legname per costruire un’arnia prevede lo svuotamento della parte interna del ceppo utilizzando una di queste tre tecniche:

  • Fuoco: utilizzare un contenitore tubolare per concentrare il calore di un mucchio di braci al centro del tronco. In questo modo, il legno verrà gradualmente ridotto in cenere, formando un canale interno;
  • Divisione: il tronco viene diviso e le due metà scavate per creare una cavità interna, un procedimento simile a quello utilizzato per realizzare le cerbottane tradizionali. Alla fine dell’operazione di rimozione del materiale ligneo, le due parti del ceppo verranno ricongiunte;
  • Scavo: è possibile scavare il centro del ceppo utilizzando uno scalpello per aprire due cavità che si estendono da entrambi i lati, fino ad svuotare completamente il tronco del suo materiale ligneo interno.

Le aperture nelle parti terminali del tronco dovranno poi essere chiuse; i blocchi di chiusura dovranno tuttavia essere rimovibili per consentire l’ispezione dell’alveare e il prelievo dei favi ricchi di miele. L’ingresso delle api all’interno del ceppo sarà reso possibile da uno o due fori praticati vicino ad una delle parti terminali, o su uno dei blocchi di chiusura del ceppo.

Insediamento delle api

Per invitare le api a popolare l’arnia a ceppo occorrerà depositare qualche goccia di propoli al suo interno; ancora meglio, riuscire a catturare una regina garantirà l’arrivo di numerose operaie pronte a costruire favi, accudire larve e accumulare polline e miele. Se il tronco è stato costruito ad arte, le api stesse potrebbero spontaneamente sceglierlo come futura residenza.

Nell’arnia a ceppo è indispensabile garantire alle api un mezzo di sussistenza per l’inverno. I favi venivano tradizionalmente prelevati all’inizio dell’estate per consentire agli insetti di ricostruirli in previsione dell’inverno; si tendeva inoltre a lasciare intatte alcune strutture di cera contenenti miele, fornendo un prezioso supporto alimentare durante la stagione fredda.

L’arnia a ceppo estende il concetto di “spazio d’ape” elaborato da Langstroth, l’inventore dell’arnia moderna. Nel 1851 il reverendo Lorenzo Lorraine Langstroth osservò che le api che avevano attorno uno spazio libero inferiore ai 9 mm e superiore ai 6 millimetri non costruivano strutture di cera e non sigillavano quelle esistenti. L’osservazione di questo spazio vitale, definito “spazio d’ape”, consentì a Langstroth di elaborare un nuovo design di arnia basato su telai verticali rimovibili, la base delle arnie moderne.

Nelle arnie moderne di tipo Langstroth la distanza tra due telai di un’arnia è superiore di almeno due volte lo spazio d’ape, ma comunque limita la mobilità delle api e le costringe a seguire una direzione principale (verso il basso) durante la costruzione del favo.

L’arnia a ceppo, come le arnie a sviluppo orizzontale (ad esempio le Top-Bar) permettono uno sviluppo più naturale della colonia e lascia libere le api di costruire in modo più simile a ciò che realizzano allo stato brado, senza il controllo dell’essere umano.

How to make log hives for healthier bees (Video)
How to Build a Log Hive
HARVESTING HONEY FROM A LOG HIVE
The impact of hive type on the behavior and health of honey bee colonies (Apis mellifera) in Kenya

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Coltello da feci ghiacciate: fantasia o realtà? https://www.vitantica.net/2019/09/17/coltello-da-feci-ghiacciate-fantasia-o-realta/ https://www.vitantica.net/2019/09/17/coltello-da-feci-ghiacciate-fantasia-o-realta/#respond Tue, 17 Sep 2019 00:10:36 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4536 Nel suo libro “Shadows in the Sun” (1998), Wade Davis (autore, tra le altre opere, del libro “The Serpent and the Rainbow“, la fonte d’ispirazione per il film “Il serpente e l’arcobaleno“) descrive uno degli aneddoti etnografici più bizzarri di sempre:

“Esiste un resoconto molto conosciuto che riguarda un anziano inuit che si rifiutò di spostarsi in un nuovo insediamento urbano. Contro le obiezioni della famiglia, decise di rimanere a vivere sul ghiaccio. Per fermarlo, i parenti sottrassero tutti i suoi utensili. Quindi, nel bel mezzo di una tempesta invernale, l’anziano uscì dal suo igloo, defecò e plasmò le sue feci in una lama ghiacciata, che affilò usando la sua saliva. Con quel coltello uccise un cane. Usando la gabbia toracica dell’animale come slitta e la sua pelle per imbrigliare altri cani, sparì nell’oscurità.”

Quanto è realistico fabbricare un coltello dalle proprie feci? E’ possibile ottenere uno strumento funzionale sfruttando materia organica e temperature estreme? Una ricerca pubblicata recentemente sulla rivista Journal of Archaeological Science ha tentato di replicare il “coltello di feci” riportato nel libro di Davis.

L’origine della storia

Secondo Davis, la fonte dell’aneddoto fu un inuit di nome Olayuk Narqitarvik, residente nella British Columbia. Fu proprio il nonno di Olayuk, negli anni ’50 del 1900, a rifiutarsi di stabilirsi in un insediamento urbano. Inizialmente, Davis considerò il racconto come frutto dell’immaginazione locale, ma il resoconto autobiografico di Peter Freuchen, esploratore artico di origine danese, sembrò confermare la possibilità che ci fosse qualcosa di reale nella storia.

Freuchen, dopo essersi ricavato una nicchia nella neve per dormire al riparo dagli agenti atmosferici del circolo polare artico, si svegliò accorgendosi di essere in trappola: non poteva più uscire dal suo rifugio improvvisato a causa della quantità di neve compatta accumulatasi durante la notte.

Ricordandosi di aver osservato le feci dei suoi cani da slitta completamente ghiacciate e dure come la roccia, defecò nella sua mano, modellò le sue deiezioni per ottenere uno scalpello improvvisato e attese che si congelassero. Utilizzando l’utensile di fortuna, riuscì a liberarsi dal ghiaccio che lo intrappolava e fece ritorno alla civiltà.

Sia il racconto di Freuchen che quello riportato da Davis hanno sollevato molteplici dubbi per diverso tempo. Sono i soli testimoni (il primo diretto, il secondo indiretto) di due episodi così curiosi; è per questa ragione che alcuni ricercatori della Kent State University hanno tentato di riprodurre un “coltello di feci” basandosi sui dettagli riportati dall’antropologo canadese.

La prova sul campo
Prova sul campo del coltello di feci (Image: © Eren et al.)
Prova sul campo del coltello di feci (Image: © Eren et al.)

Per poter ottenere il materiale necessario all’esperimento, uno dei ricercatori ha seguito per otto giorni una dieta ricca consistente con l’alimentazione degli Inuit, ricca di proteine e grassi animali. A partire dal quarto giorno sono iniziati i prelievi quotidiani di materiale fecale, in seguito modellato a forma di coltello manualmente o tramite stampi di ceramica e conservato a -20 °C fino al giorno dei test.

Per testare l’efficacia degli utensili, i ricercatori si sono procurati pelle, muscoli e tendini di maiale conservati a -20 °C fino a 2 giorni prima dell’esperimento, lasciandoli quindi scongelare fino a raggiungere la temperatura di 4 °C per simulare il cadavere di un animale ucciso da poco tempo.

Appena prima della prova sul campo, i coltelli sono stati sepolti in uno strato di ghiaccio secco a -50 °C per ottenere la massima durezza possibile in un clima glaciale, per poi essere estratti al momento dell’utilizzo.

L’esperimento è iniziato con i test sulla pelle di maiale. Nessuna delle due tipologie di coltelli (modellati a mano o tramite stampo) sono state in grado di tagliare la pelle animale: il filo della lama si è sciolto a contatto con la superficie del materiale, lasciando strisce di materia fecale e non riuscendo ad incidere il bersaglio.

I tentativi di tagliare il grasso sottocutaneo hanno ottenuto risultati di poco superiori: i ricercatori sono riusciti ad ottenere fettine irregolari e sottili, ma la lama si è velocemente deteriorata diventando presto inservibile.

Coltello di feci poco funzionale

Il risultato degli esperimenti è che un coltello di feci ghiacciate risulta ben poco utile nel gelo dell’ Artico. In condizioni di laboratorio, queste lame hanno ottenuto risultati scarsi o del tutto insoddisfacenti, diventando inefficaci pochi secondi dopo il contatto con il “corpo” relativamente caldo dell’animale.

Occorre osservare inoltre che l’esperimento è stato condotto su parti di maiale preparate per ottenere un taglio ottimale. In condizioni reali, la carcassa di un animale ucciso da pochi minuti si presenterebbe più calda e ricoperta di pelo, elementi che limiterebbero ulteriormente l’utilità di un coltello di feci ghiacciate.

L’aneddoto di Davis viene spesso utilizzato per dimostrare quanto i cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo si dimostrino pieni di inventiva in situazioni di necessità; ma non esiste alcuna documentazione attendibile sulla praticità di un coltello ottenuto dalle feci, solo resoconti di dubbia autenticità e attendibilità smentiti in modo definitivo dalla ricerca della Kent State University.

Fonti per “Coltello da feci ghiacciate: fantasia o realtà?”

Experimental replication shows knives manufactured from frozen human feces do not work

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Puukko, il coltello tradizionale finlandese https://www.vitantica.net/2019/09/11/puukko-il-coltello-tradizionale-finlandese/ https://www.vitantica.net/2019/09/11/puukko-il-coltello-tradizionale-finlandese/#respond Wed, 11 Sep 2019 00:10:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4508 Avere a disposizione un ottimo strumento da taglio, sia esso un coltello, un machete o un’ascia, è un prerequisito fondamentale per la sopravvivenza in ambienti selvaggi. Oltre che per ovvi scopi offensivi e difensivi, una buona lama si rivela utile in miriadi di circostanze, dalla lavorazione del legno alla preparazione della selvaggina che rappresenta la principale fonte di proteine in un’esistenza da cacciatore-raccoglitore.

Nelle regioni più settentrionali d’Europa i coltelli hanno progressivamente assunto una serie di caratteristiche che li hanno resi uno strumento d’utilità quotidiana e carico di significato, indossato da uomini e donne e impiegato in innumerevoli circostanze da chi ancora conduce una vita tradizionale o si trova immerso nella vasta e feroce natura scandinava.

Il puukko

Il puukko è un coltello tradizionale finlandese a filo singolo e curvo e dotato di una lama lunga da 50 a 130 millimetri. Lo spessore della lama, generalmente tra i 2 e i 6 millimetri, e il dorso piatto, lo rendono un coltello ideale per l’intaglio e la caccia.

Il termine puukko ha come radice il verbo puukottaa, che significa “accoltellare”, derivato probabilmente dal sassone “pook“. Durante il I secolo a.C., i finlandesi entrarono in contatto con alcune popolazioni germaniche, condividendo tratti della loro cultura e assorbendo elementi dei popoli sassoni.

Il puukko è per gli scandinavi un coltello d’uso quotidiano, impiegato per la caccia, la pesca, il lavoro di giardinaggio, la lavorazione di legno e pelle e la preparazione del cibo. Il dorso piatto consente di far leva col pollice o con la mano libera per effettuare tagli di precisione o di potenza.

Fonte
Variety of traditonal Finnish puukko-knives

Il coltello indossato dalle donne non è per nulla differente da quello utilizzato dagli uomini se non per la decorazione del fodero: l’unica, reale differenza sta nelle dimensioni del manico, che devono essere adatte alle mani del possessore.

Il base al suo utilizzo principale, la lama di un puukko può assumere forme diverse. I coltelli da caccia hanno generalmente un dorso incurvato verso il basso in corrispondenza della punta, per facilitare le operazioni di preparazione di una carcassa; i puukko da pesca invece hanno invece una leggera curvatura verso l’alto, utile per la raschiatura dei pesci.

La costruzione di un puukko

Il video qui sotto mostra la realizzazione di un puukko, dalla costruzione della lama fino al fodero.

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In Finlandia, la costruzione di un puukko è considerata una vera e propria arte. Non è solo necessario saper lavorare l’acciaio con destrezza e precisione, ma occorre avere competenze di intaglio e di lavorazione della pelle, un set di abilità non propriamente facile da padroneggiare.

Il puukko come status symbol

Donare un coltello in Scandinavia non è un gesto insolito. Anche se oggi la tradizione sta lentamente svanendo, il dono di un puukko è stato considerato per secoli un gesto dai forti connotati simbolici.

Era consuetudine regalare un puukko al proprio figlio al raggiungimento dell’età adulta, rivolgendo il manico verso il ragazzo in segno di rispetto e fiducia. Ancora oggi i bambini di 6-7 che vivono nelle regioni più remote della Finlandia iniziano ad apprendere i segreti dell’intaglio non appena ricevono il loro primo puukko.

Il pukko è considerato un oggetto molto personale e viene costruito tenendo a mente le esigenze del futuro proprietario. L’esercito finlandese consente ai suoi soldati di indossare il loro personale puukko anche in servizio, l’unico oggetto civile ammesso nella dotazione da combattimento.

Fonti per “Puukko, il coltello tradizionale finlandese”

Puukko
Nordiska Knivar – Traditional Nordic Knives

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Ascia di pietra, bronzo e acciaio a confronto https://www.vitantica.net/2019/05/10/ascia-pietra-bronzo-acciaio-confronto/ https://www.vitantica.net/2019/05/10/ascia-pietra-bronzo-acciaio-confronto/#comments Fri, 10 May 2019 00:10:40 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4116 E’ difficile riuscire a trovare informazioni corrette e accurate sull’efficacia degli utensili utilizzati in epoca preistorica. Non molti ricercatori si dedicano alla ricostruzione pratica delle antiche tecnologie, ancora meno rivolgono la loro attenzione alla realizzazione di utensili d’uso quotidiano.

L’ archeologia sperimentale e gli “esperimenti imitativi”, con tutti i loro limiti che qualcuno più competente di me potrebbe elencare, forniscono tuttavia alcuni preziosi indizi sull’ingegno dei nostri antenati e sulle risorse da loro utilizzate per semplificarsi la vita.

Con l’inizio della lavorazione della pietra, l’ascia iniziò a costituire un utensile e un’arma estremamente versatile: poteva essere ovviamente impiegata per recuperare legname, ma trovava impiego in moltissimi altri ambiti in un contesto di vita a stretto contatto con la natura.

Dipendentemente dalla sua tecnologia costruttiva e dai materiali impiegati, l’ascia rappresentò anche uno strumento multiuso per lavori di precisione, per la caccia, per la guerra, o un semplice “spaccaossa” per la lavorazione delle carcasse animali.

Quanto è realmente efficace un’ascia di pietra?

Quali sono le reali prestazioni di un’ascia di pietra in confronto a bronzo e acciaio? Ogni ascia è dotata di una testa, una lama spessa, resistente e talvolta molto affilata. E’ facilmente intuibile che la testa di un’ascia costituisca un elemento importante per l’efficacia dell’utensile; anche il manico è rilevante, ma una testa degna di tale nome può essere all’occorrenza facilmente adattata ad una nuova impugnatura, più performante, resistente o leggera.

Una comparazione sul campo tra asce di pietra, bronzo e acciaio è stata fatta nel 2010 da James R. Mathieu e Daniel A. Meyer della Boston University e pubblicata sulla rivista Journal of Field Archaeology. Il metodo adottato nella ricerca prevede l’abbattimento di alcune specie di alberi tipiche dell’emisfero settentrionale utilizzando asce realizzate con diversi materiali.

Asce di bronzo (a sinistra) e asce di pietra (a destra) impiegate nell'esperimento
Asce di bronzo (a sinistra) e asce di pietra (a destra) impiegate nell’esperimento

Ciò che hanno fatto i ricercatori aveva un obiettivo fondamentale: mettere a confronto pietra, bronzo e acciaio in termini di efficienza per comprendere nel miglior modo possibile la praticità di questi utensili.

Calcolare con esattezza i tempi di abbattimento di un albero pare non sia così semplice: fin dal 1960 sono state effettuate diverse comparazioni nelle tempistiche di abbattimento utilizzando diversi tipi di acciaio; talvolta si è anche tentato di paragonare le asce moderne a quelle di pietra, ma il confronto di efficienza non si basa soltanto sul tempo necessario ad abbattere un tronco.

L’efficienza nell’abbattimento di un albero si calcola tenendo in considerazione anche il rapporto di kilocalorie consumate per ogni centimetro di taglio (pollice, in questo caso). Negli anni ’70 del 1900, ad esempio, Stephen Sarayadar e Izumi Shimada hanno calcolato che l’acciaio fosse quasi 4 volte più efficiente della pietra in quanto a tempistiche e circa 3 volte più efficiente in termini di calorie consumate.

Asce di pietra, bronzo e acciaio alla prova sul campo

Le asce di bronzo utilizzate nell’esperimento erano repliche di utensili risalenti al 1400-900 a.C., realizzate con una lega di bronzo al 90% da rame e al 10% di stagno e modellate sulla base di alcuni reperti custoditi allo University Museum of Archaeology and Anthropology.

Differenza di prestazioni tra asce di bronzo e asce di acciaio
Differenza di prestazioni tra asce di bronzo e asce di acciaio

Anche le asce di pietra sono state realizzate partendo da esemplari di teste d’ascia di pietra custoditi nello stesso museo e rinvenuti nei pressi del lago di Costanza, in Svizzera. Due teste d’ascia erano in selce, altre due invece di pietra afanitica, un tipo di roccia ignea criptocristallina composta da cristalli dal diametro inferiore agli 0,5 millimetri (come il basalto o l’andesite).

I test sono stati condotti con 4 teste d’ascia in acciaio (dal peso compreso tra i 600 grammi e i 2,3 kg), 4 teste di bronzo tra 1 kg e 1,9 kg e 8 teste di pietra (con peso compreso tra i 2 kg e i 2,7 kg). Sono state impiegate lame di larghezza differente e manici di lunghezza compresa tra i 30 e i 91 cm.

Gli alberi selezionati per l’abbattimento avevano un diametro da 8 centimetri a quasi 34 centimetri; sono stati utilizzati pioppi, pini, aceri, olmi, querce e betulle, esemplari rappresentativi della flora europea e nordamericana del Neolitico.

Come era facilmente prevedibile, l’ascia d’acciaio ha prestazioni differenti da quella di bronzo, ma la differenza di efficienza tra i due utensili non è così evidente: la lega di rame e stagno riesce comunque ad abbattere un tronco del diametro di 30 centimetri in meno di 15 minuti, una velocità poco differente a quella raggiunta con l’acciaio.

Il bronzo in realtà può ottenere un’affilatura efficace con l’indurimento, ma la sua morbidezza rispetto all’acciaio non gli consente di mantenere a lungo una filo tagliente. Questa scarsa durezza non sembra tuttavia aver pregiudicato l’abbattimento di alberi di diametro medio-piccolo in tempi competitivi a quelli di un’ascia di acciaio.

L’efficienza dell’ascia di pietra

Con la pietra il discorso è un po’ differente, ma il materiale litico può avere sorprendenti doti di durezza e resistenza. Nei confronti di tronchi di 30 centimetri, l’ascia di pietra può richiedere ben 30-50 minuti per completare un abbattimento; ma nel caso di alberelli di 10-20 centimetri, l’abbattimento risulta relativamente semplice in 5-15 minuti, tempistiche che variano in relazione alla specie di albero selezionata.

Differenza di prestazioni tra asce di pietra e asce di metallo
Differenza di prestazioni tra asce di pietra e asce di metallo

Una differenza sostanziale è stata osservata nel tipo di taglio. L’ascia di acciaio effettua tagli ben definiti e stacca brandelli di legno dai profili spigolosi e netti; quella di bronzo crea frammenti più piccoli e sottili, e con l’usura tende a ad avere meno efficacia.

L’ascia di pietra è in grado di effettuare tagli relativamente precisi, dipendentemente dal materiale della testa e dalla sua lavorazione. Ma i frammenti che stacca tendono ad essere sfibrati, senza spigoli ben delineati, risultando quasi “masticati”.

E’ sicuramente possibile realizzare pietre taglienti come rasoi utilizzando materiali come l’ossidiana o la selce, ma non si potrà ottenere un utensile utilizzabile per il lavoro pesante a causa della fragilità del materiale litico.

Le conclusioni che i ricercatori hanno tratto sono le seguenti: in primo luogo, asce di bronzo e acciaio possono essere considerate come appartenenti alla stessa categoria di “teste d’ascia di metallo” per via delle loro prestazioni simili.

Anche il manico ha giocato un ruolo rilevante nell’efficienza di un’ascia: un’impugnatura più lunga non consente di mantenere un ritmo veloce, ma compensa la sua lentezza con un’ efficienza energetica maggiore e tempi ridotti per l’abbattimento.

I tronchi di 10-15 centimetri di diametro possono essere velocemente abbattuti da un’ascia di pietra, con tempistiche molto simili a quelle di un’ascia metallica. Con alberi dal diametro di 20 centimetri o superiore, i punti di forza delle asce metalliche emergono sull’efficacia di un utensile di pietra, specialmente sotto l’aspetto di calorie consumate per albero e nella definizione dei tagli effettuati.

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Comparing Axe Heads of Stone, Bronze, and Steel: Studies in Experimental Archaeology

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Lo zaino Roycroft https://www.vitantica.net/2019/04/09/zaino-roycroft-sopravvivenza/ https://www.vitantica.net/2019/04/09/zaino-roycroft-sopravvivenza/#respond Tue, 09 Apr 2019 00:07:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4033 Lo zaino è spesso considerato come un pilastro fondamentale dell’autosufficienza in natura. E’ fondamentale per il trasporto di oggetti d’utilità e può essere riutilizzato per altri scopi, ma ha limiti che risultano evidenti in alcune circostanze.

Provate, ad esempio, a trasportare legna verso il vostro accampamento utilizzando uno zaino da campeggiatore: potrebbe risultare un’esperienza per nulla piacevole e ben poco pratica, oltre a costringervi a svuotare lo zaino del suo prezioso contenuto per far spazio a pochi ceppi di legna.

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In queste circostanze è utile sapere come costruire uno zaino rudimentale ma estremamente efficace se si considera la sua capacità di trasporto, la versatilità e i tempi di realizzazione: lo zaino Roycroft, o Roycroft pack.

Lo zaino Roycroft prende il nome da Tom Roycroft, un istruttore di sopravvivenza nell’esercito canadese durante gli anni ’60 del secolo passato.

Tom Roycroft istruiva i piloti militari su come usare tre bastoncini e cordame per realizzare un telaio in grado di fungere da zaino secondo uno schema noto da millenni e rivelatosi efficace in numerosissime occasioni.

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Come affilare una lama usando una cote https://www.vitantica.net/2019/03/01/come-affilare-lama-cote/ https://www.vitantica.net/2019/03/01/come-affilare-lama-cote/#respond Fri, 01 Mar 2019 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3706 Ogni strumento da taglio che si rispetti deve essere dotato di un filo tagliente adatto allo scopo. Usare una lama non affilata non solo è poco efficiente, ma anche molto pericoloso: la mancanza di un filo tagliente costringe ad applicare una pressione eccessiva sul materiale da lavorare, diminuendo la precisione e aumentando le possibilità di ferirsi.

Il filo di una lama può danneggiarsi per varie ragioni, ma il danneggiamento più frequente è causato dall’eccessiva pressione esercitata su un oggetto duro. In queste circostanze, il filo tende a piegarsi su se stesso, rendendo sempre meno efficace il taglio. Le coti vengono utilizzate per ripristinare la corretta geometria della lama tramite un processo di abrasione.

I tipi di cote: whetstone, waterstone e oilstone

Fino ad un passato relativamente recente, l’unico modo per affilare una lama era utilizzare una pietra dotata di particolari caratteristiche per realizzare quella che viene definita una cote.

La cote può presentarsi sotto svariate forme e dimensioni: può essere piatta per affilare lame dritte o sagomata per le necessità di affilatura più particolari, piccola per essere facilmente trasportabile o “da tavolo” (di dimensioni più grandi).

In inglese si utilizzano tre termini per definire le coti: whetstone, waterstone e oilstone. Le waterstone e le oilstone sono pietre il cui utilizzo è necessariamente legato all’impiego di un lubrificante: acqua per le prime e olio per le seconde.

Tipica whetstone da tavolo
Tipica whetstone da tavolo

Whetstone, invece, è un termine generico per identificare una cote. Il termine “to whet” significa “affilare” e non ha alcuna affinità con il termine “wet” (bagnato, umido). Per l’impiego di alcune whetstone potrebbe non essere richiesto l’uso di lubrificante (occorre verificare le istruzioni del produttore): l’ acqua o l’olio diminuirebbero le capacità abrasive della pietra con la conseguenza di ottenere lame poco affilate.

Cote naturale o artificiale?

L’utilizzo in antichità di coti in pietra naturale è testimoniato da Plinio, che oltre a descrivere le tipologie di roccia impiegate per realizzare strumenti per l’affilatura indica anche le località da cui venivano estratte.

L’uso di pietre naturali, al giorno d’oggi, non garantisce risultati superiori rispetto all’impiegodi coti artificiali; anzi, è vero il contrario. Le coti artificiali prodotte in tempi moderni vengono realizzate controllando le dimensioni delle particelle ceramiche che le compongono, per mantenere la superficie abrasiva uniforme e consistente in tutta la sua lunghezza.

Ad esempio, in una cote artificiale si può controllare la proporzione tra particelle abrasive (generalmente composte da carburo di silicio o ossido di alluminio) e il materiale legante che le tiene unite, realizzando pietre che erodono il metallo più o meno velocemente in base a necessità specifiche.

Ogni pietra naturale, invece, è differente, anche se apparentemente identica ad altre. La sua composizione (a base di quarzo o novacolite) può variare millimetro dopo millimetro e costringere a continui adattamenti di pressione, angolo e velocità d’ abrasione.

Coticula Belga
Coticula Belga

Una delle pietre più apprezzate nella storia fu la “Coticula Belga“, dalla grana estremamente fine e apprezzata fin dall’epoca romana per l’affilatura di strumenti da taglio di precisione.

La sua colorazione giallastra la distingueva dalla “Blu Belga“, una pietra dalla grana più spessa che veniva estratta dagli strati sottostanti a quelli che ospitavano la Coticula Belga.

In Giappone, le miniere di Nakayama, Okudo e Shoubudani entrarono in attività circa 800 anni fa ed erano depositi di pietre per coti considerati quasi leggendari. Dalle cave di Nakayama si estraevano pietre destinate alla casa imperiale per la loro qualità superiore; fecero la loro apparizione sul mercato solo alla fine del XVI secolo, consentendo ad artigiani e fabbri di realizzare strumenti da taglio estremamente affilati.

Grana e capacità abrasiva di una cote

Le dimensioni delle particelle che compongono una cote non sono gli unici fattori determinanti nell’affilatura. Con il termine “grana” non si identifica generalmente il diametro delle particelle abrasive, ma il risultato dell’affilatura; altri elementi entrano in gioco durante l’uso di una cote:

  • La forma delle particelle abrasive;
  • Come le particelle sono legate tra loro;
  • La friabilità delle particelle, la loro capacità di fratturarsi in pezzi più piccoli sotto pressione;
  • La durezza delle particelle abrasive e la loro composizione chimica.

Una serie di linee guida approssimative per l’affilatura di una lama possono essere le seguenti:

Grana 200: utilizzata per rimuovere imperfezioni evidenti sul filo di una lama.
Grana 500: Affilatura grossolana di una lama per nulla affilata.
Grana 1.000: Affilatura di una lama per uso non di precisione (es. ascia o falce).
Grana 4.000: Affilatura di coltelli per la carne.
Grana 8.000: Affilatura per il taglio di pesce o verdura (le zone tendinee della carne rischiano di creare piccole pieghe nella lama)
Grana 30.000: Stumenti da taglio di grandissima precisione e molto fragili.

La tua lama ha bisogno di essere affilata?

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Per verificare l’affilatura di una lama esistono diversi metodi, alcuni molto semplici. Il primo prevede il passaggio del pollice perpendicolarmente al filo della lama (se si segue il filo si rischia di tagliarsi).

Una lama affilata verrà percepita come uno spigolo accentuato che spesso “canta” al passaggio del pollice emettendo una leggera vibrazione acuta; una lama non affilata, invece, farà semplicemente scivolare il dito senza produrre alcuna vibrazione.

Si può inoltre verificare se la lama “morde” cercando di tagliare un oggetto senza applicare pressione. In commercio esistono bastoncini specifici per questa operazione, ma è possibile utilizzare la plastica di una penna Bic, un’unghia, un foglio di carta o ortaggi come carote, pomodori e cetrioli. Ogni imperfezione della lama verrà percepita come un piccolo ostacolo.

Come affilare una lama usando una cote

Affilare la lama di un coltello usando una cote può sembrare semplice, ma è un’attività che richiede un po’ di pratica per essere affinata. La procedura usata per un coltello è simile a quella impiegata anche per oggetti più pesanti, come spade o asce (anche se in questi casi si usa di frequente una cote manovrata a mano libera).

Per evitare di risultare eccessivamente prolisso, riporterò soltanto i passi necessari ad affilare una lama ad uso generico, come quella di un coltello multiuso o da caccia/sopravvivenza.

L’affilatura di una lama prevede la rimozione di metallo per ottenere una geometria più performante. Se la lama ha perso quasi totalmente il proprio filo, è necessario procedere per gradi usando coti dalla grana più grossolana per terminare con quelli dalla grana più sottile. Usare una cote a grana fine su una lama priva di filo sarà solo uno spreco di tempo e non farà mai ottenere un risultato ottimale.

Valutazione della lama e preparazione della cote
Una lama può assumere diversi profili. Ogni profilo richiede diverse angoli d'attacco sulla cote per essere affilato correttamente.
Un bisello può assumere diversi profili. Ogni profilo richiede diverse angoli d’attacco sulla cote per essere affilato correttamente.

Per prima cosa occorre considerare la geometria della lama: alcune lame hanno profili più acuti, altre sono dotate di “cunei di taglio” (chiamati “biselli“) più spessi.

Di solito una lama destinata ad un uso generico, come un coltello multiuso o un coltello da caccia/sopravvivenza, ha un bisello inclinato di circa 15-21°; lame più taglienti (ma tendenzialmente più fragili) possono avere angoli di 10-15°; lame per lavori pesanti, come la lama di un’ascia, hanno angoli di 25-30°.

Se la vostra cote ha bisogno di acqua per funzionare correttamente, sarà necessario lasciarla in immersione per qualche minuto per saturarla di liquido; la saturazione è completa quando non si vedranno più bollicine fuoriuscire dalla pietra. Durante l’utilizzo la pietra perderà acqua per un naturale processo di evaporazione: sarà sufficiente spruzzare acqua sulla sua superficie per proseguire con l’affilatura.

Su strumenti da taglio destinati a lavori pesanti è buona norma passare carta vetrata o una lima sul bisello prima di procedere all’affilatura vera e propria, per rimuovere ruggine o grandi imperfezioni come ammacature generate dall’impatto contro oggetti duri.

Affilatura: angolazione della lama e movimento
Le varie fasi dell'affilatura di una lama dal profilo triangolare
Le varie fasi dell’affilatura di una lama dal profilo simmetrico piatto

Dopo aver posizionato la cote su una superficie piana e stabile, possibilmente immobilizzandola, occorre posizionare il filo sulla superficie abrasiva inclinando la lama di circa 20-22° (o con l’angolazione più adatta al tipo di lama da affilare).

Come sapere se si sta utilizzando la corretta angolazione? Un trucco molto semplice è quello di usare un pennarello per colorare il bisello: se il colore sparisce durante l’abrasione sulla cote, l’angolazione della lama è corretta; se rimangono zone di colore dopo i primi passaggi sulla cote, è necessario correggere l’angolo d’incontro tra la lama e la pietra.

L’angolo di 20-22°, ideale per molte lame, può essere mantenuto appoggiando il dorso della lama con il pollice a circa metà altezza del dito, oppure utilizzando appositi cunei reperibili in negozi specializzati.

Alcuni trovano più confortevole spingere la lama verso l’esterno, altri invece sono più a loro agio con un movimento verso l’interno; qualunque siano le vostre preferenze, l’obiettivo del movimento della lama sulla cote è quello di simulare la “sfogliatura” della pietra, applicando una pressione tale da permettere un movimento continuo e gentile.

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Ray Mears mostra come affilare un coltello usando cote e coramella

Se la pressione applicata sulla lama è corretta, il coltello non si fermerà durante il movimento lungo la pietra e inizierà a formarsi una sorta di fanghiglia sulla superficie della cote, un miscuglio di acqua/olio e particelle abrasive frutto dell’erosione della pietra.

Questa fanghiglia agevola il processo di abrasione della lama e può essere utilizzata anche per ripulire l’acciaio da difetti superficiali semplicemente sfregandola con le dita sul corpo della lama. Ho personalmente rimosso incisioni molto superficiali e macchie presenti sui miei coltelli usando soltanto la fanghiglia ceramica generata durante l’affilatura di una lama.

Dopo aver fatto scivolare il coltello sulla cote per una dozzina di volte, occorre ripetere la stessa operazione per il lato opposto della lama avendo cura di mantenere l’angolo corretto e applicare la stessa pressione esercitata in precedenza.

Dopo l’affilatura di entrambi i lati, verificare lo stato del bisello: se non presenta grandi imperfezioni per la grana del cote che state utilizzando (grane meno fini produrranno ovviamente imperfezioni più evidenti ma rimuoveranno quelle più grandi e gravi), potete passare ad una cote di grana più ridotta, altrimenti occorrerà ripetere l’affilatura su entrambi i lati fino ad ottenere un risultato soddisfacente.

Rifinitura con coramella

Le fasi finali dell’affilatura consistono nell’utilizzo di una coramella, una striscia di cuoio o tessuto duro utilizzata per rifinire il filo della lama da eventuali sbavature e riallinearlo.

Durante l’uso o dopo l’affilatura su una cote il filo di una lama tende a formare dei piccoli “dentini”: il passaggio sulla coramella ha lo scopo di appianare questi solchi microscopici, rendendo il filo più dolce e scorrevole.

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Stuzzicadenti, l’origine della pulizia dentale https://www.vitantica.net/2019/02/18/stuzzicadenti-lorigine-della-pulizia-dentale/ https://www.vitantica.net/2019/02/18/stuzzicadenti-lorigine-della-pulizia-dentale/#respond Mon, 18 Feb 2019 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3649 Lo stuzzicadenti è un bastoncino sottile di legno, plastica, bambù, metallo, osso o altro materiale, dotato di almeno un’ estremità appuntita da inserire tra i denti per rimuovere i detriti alimentari accumulati dopo un pasto.

Primo strumento per la pulizia dei denti

Utilizzato in tutte le culture del pianeta, lo stuzzicadenti non solo è uno dei più antichi strumenti per la pulizia dentale, ma precede l’arrivo dei primi umani moderni: secondo l’antropologa Christy G. Turner della Arizona State University, alcuni teschi di Neanderthal mostrano chiari segni di denti usurati dall’uso intensivo di stuzzicadenti.

Nel 1986, in Florida furono scoperti resti umani vecchi di 7.500 anni appartenuti ad antichi nativi americani; i teschi mostravano piccoli solchi tra i molari, indizio di un utilizzo costante di stuzzicadenti.

Stuzzicadenti giapponese. E' fatto in modo tale da essere spezzato facilmente dopo l'uso.
Stuzzicadenti giapponese. E’ fatto in modo tale da essere spezzato facilmente dopo l’uso.

Uno dei ricercatori coinvolti nella scoperta, Justin Martin della Concordia University Wisconsin, ha dichiarato: “Lo smalto sui denti è piuttosto duro, quindi devono aver usato stuzzicadenti in modo abbastanza intensivo e vigoroso per creare questi solchi”.

Sulle Alpi sono stati trovati piccoli stuzzicadenti metallici risalenti all’ Età del Bronzo, oggetti che segnano l’inizio di una tradizione di stuzzicadenti di metallo che proseguirà per molti secoli fino agli strumenti d’argento o d’oro utilizzati al XVII-XVIII secolo.

Materiali e usanze legate allo stuzzicadenti

Sin dai tempi antichi, uomini celebri e gente comune hanno usato gli stuzzicadenti per la pulizia quotidiana dei loro denti. Secondo la tradizione Agatocle, tiranno di Siracusa, morì nel 289 a.C. utilizzando uno stuzzicadenti imbevuto di veleno da un suo oppositore politico.

Nel 536 a.C. viene istituita in Cina una legge che prevede che tutti i soldati utilizzassero uno stuzzicadenti per la pulizia della bocca per evitare il sempre più diffuso problema dell’alito pesante. Gli stuzzicadenti cinesi erano generalmente realizzati con rametti di salice, cedro, pesco o bambù.

Stuzzicadenti in oro con perla risalente al XVI secolo
Stuzzicadenti in oro con perla risalente al XVI secolo

Greci e Romani tenevano particolarmente all’igiene orale e crearono stuzzicadenti sfruttando materiali differenti, in particolare le penne d’uccello. Secondo Plinio il Giovane, utilizzare una penna d’avvoltoio avrebbe provocato alitosi, ma usare l’aculeo di un porcospino non avrebbe provocato lo stesso problema.

Lo stuzzicadenti divenne così popolare da meritarsi libri come il The Tanhausers Court Manners del 1393, che avvertiva che utilizzare uno stuzzicadenti durante un pasto poteva essere interpretato come una grave offesa al galateo del tempo.

Erasmo da Rotterdam, nel suo De civilitate morum puerilium (“‘educazione civile dei bambini”) del 1530, spiega che:

“Occorre prendersi cura dei denti…Se qualcosa si attacca ai tuoi denti, devi rimuoverlo, non con un coltello, o con le unghie come fanno cani e gatti, e nemmeno con un fazzoletto, ma con uno stuzzicadenti, o un aculeo d’osso ottenuto dalle tibie di galli o galline”

Per lo stuzzicadenti moderno, piccolo e in legno, occorre attendere il XVI secolo. Le monache del monastero Mos-teiro de Lorvão di Coimbra iniziarono a produrre stuzzicadenti in legno dalla forma moderna per raschiare via la confettura appiccicosa che tendeva ad attaccarsi su mani e denti.

Lo stuzzicadenti d'oro di Carlo I
Lo stuzzicadenti d’oro di Carlo I

Carlo I d’Inghilterra possedeva uno stuzzicadenti d’oro dotato di custodia, un oggetto così prezioso per lui da tenerlo anche durante la sua prigionia nel corso delle Guerra Civile Inglese. Prima della sua esecuzione, donò lo stuzzicadenti d’oro alla sua guardia per ringraziarlo del trattamento ricevuto.

Bastoncini da denti: datun e miswak

La nascita dello stuzzicadenti è quasi certamente legata ai “bastoncini da masticare” (miswak o datun) utilizzati ancora oggi da molti popoli del mondo arabo per praticare un’elementare ma efficace pulizia dentale.

I bastoncini da masticare non sono altro che ramoscelli o radici di alcune piante che vengono masticati per ammorbidire un’estremità che, una volta ridotta a fibre sottili, sarà utilizzata come rudimentale ma efficace spazzolino da denti.

Generalmente i bastoncini da denti vengono realizzati utilizzando ramoscelli o radici di piante dall’elevato contenuto di tannini o ricche di composti antibatterici che possono giovare alla salute di gengive e denti.

Miswak
Miswak

I più antichi bastoncini da masticare sono stati scoperti in Medio oriente (3.500 a.C.) e in alcune tombe egizie risalenti a III millenni prima di Cristo. In Cina, la prima citazione documentata di questo strumento per l’igiene dentale risale al 1.600 a.C.

In Africa, i bastoncini da masticare vengono generalmente realizzati con rametti del Salvadora persica, un albero conosciuto anche come “albero-spazzolino”. Nel mondo islamico, lo stesso albero viene utilizzato per produrre i miswak, bastoncini dalle blande proprietà antimicrobiche utilizzati sia come spazzolino che come stuzzicadenti.

In Europa, questo tipo di strumento veniva generalmente realizzato con rametti prelevati da alberi come melo, pero, fico, nocciolo, salice, betulla, noce o liquirizia. La liquirizia (Glycyrrhiza glabra) è nota da millenni per le sue proprietà antinfiammatorie e protettrici delle mucose orali ed era spesso considerato un materiale di prima qualità per bastoncini da masticare.

The Strange History of the Toothpick: Neanderthal Tool, Deadly Weapon, and Luxury Possession
Who Invented the Toothpick?

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La misteriosa sega a pendolo dell’ Età del Bronzo https://www.vitantica.net/2018/06/14/sega-a-pendolo-eta-del-bronzo/ https://www.vitantica.net/2018/06/14/sega-a-pendolo-eta-del-bronzo/#respond Thu, 14 Jun 2018 02:00:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1771 L’archeologia sperimentale ha contribuito negli ultimi decenni a farci un’idea di come i nostri antenati costruissero case, imbarcazioni o oggetti d’uso comune.

Non significa necessariamente che simili metodi o tecnologie fossero realmente impiegate quotidianamente durante epoche storiche remote, ma l’ archeologia sperimentale è capace di fornire una buona approssimazione della gamma di soluzioni pratiche disponibili durante periodi che hanno lasciato poco o nulla di scritto.

Un aspetto che ha da sempre intrigato gli archeologi che si dedicano allo studio dell’ Età del Bronzo è l’abilità dimostrata dai nostri predecessori nel taglio della pietra.

In alcune circostanze, come in Egitto, abbiamo rinvenuto utensili e segni sulla roccia in grado di fornirci una spiegazione relativamente accurata di come gli antichi egizi tagliassero blocchi di calcare o granito per rifornire i cantieri delle piramidi; in altre situazioni, invece, le tecniche impiegate per il taglio della pietra sono ancora avvolte nel mistero.

Il mistero della sega a pendolo

Una particolare tecnologia probabilmente esistita circa tre millenni fa sembra aver eluso l’archeologia sperimentale per decadi: la sega a pendolo.

In nessuno scavo risalente all’Età del Bronzo è mai stato ritrovato un telaio o una lama facenti parte di questo tipo di attrezzo da taglio, ma circa 30 anni fa l’analisi di alcuni segni lasciati su blocchi di pietra utilizzati per la costruzione del Palazzo Reale di Micene, edificato circa 3.000 anni fa, aprirono il campo al sospetto che gli antichi tagliatori di pietra micenei si fossero serviti di seghe in grado di creare profonde incisioni ricurve.

Ancora oggi diversi archeologi sostengono che queste incisioni possano essere state fatte da attrezzi da taglio tradizionali, come seghe ricurve di bronzo bagnate da acqua e sabbia per aumentare il loro potere abrasivo.

Ma il ritrovamento di altri segni simili in diversi siti archeologici micenei, e la forma stessa di questi marchi sulla pietra, lascerebbero intendere, secondo alcuni studiosi, che fu impiegato uno strumento più complesso di una comune sega metallica ad azione manuale.

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Intorno agli anni ’90 del secolo scorso alcuni archeologi tedeschi proposero l’ipotesi che le incisioni micenee fossero state prodotte da uno strumento a pendolo, una sorta di sega che sfruttava l’oscillazione di un pendolo per praticare fenditure nella roccia.

Secondo uno dei ricercatori, l’attrezzo era alto tra i 3 e gli 8 metri e creava profondi tagli ricurvi che rappresentavano segmenti di cerchi geometrici imperfetti, ma è solo negli ultimi anni che alcuni studiosi si sono cimentati nell’impresa di ricreare una sega a pendolo funzionante.

La riproduzione della sega a pendolo

Nicholas Blackwell, archeologo della Indiana University Bloomington, ha ricostruito con l’aiuto di suo padre una sega a pendolo funzionante, misurando le prestazioni di diverse lame appositamente create da un fabbro di Creta specializzato nella lavorazione del bronzo.

Per costruire la sega, Blackwell ha analizzato sette differenti design ideati negli anni passati, concludendo di aver bisogno di uno schema costruttivo totalmente nuovo e relativamente semplice per ottenere un attrezzo funzionante.

Durante il test di Blackwell, la punta triangolare ha lasciato un segno irregolare e impreciso (B), mentre quella piatta dai bordi arrotondati ha tagliato la pietra con regolarità.
Durante il test di Blackwell, la punta triangolare ha lasciato un segno irregolare e impreciso (B), mentre quella piatta dai bordi arrotondati ha tagliato la pietra con regolarità.

Uno dei problemi che i costruttori precedenti non riuscirono a risolvere fu quello di costruire un pendolo che si adattasse alla profondità del taglio per penetrare la roccia esercitando costantemente una pressione verticale.

La soluzione di Blackwell è stata quella di costruire un telaio dotato di coppie di fori ovali, disposti verticalmente lungo i due pali di sostegno, in grado di ospitare il perno che consente l’oscillazione della sega: i fori ovali permettono di avere un margine verticale grazie al quale il pendolo può esercitare una pressione continua sul pezzo di roccia da tagliare prima di spostare il perno su una coppia di fori più bassa.

Le quattro lame di bronzo testate con la sega a pendolo di Blackwell
Le quattro lame di bronzo testate con la sega a pendolo di Blackwell

Le lame in bronzo utilizzate nell’esperimento di Blackwell hanno riservato qualche sorpresa.

La lama triangolare dalla punta arrotondata, inizialmente considerata ideale per effettuare i tagli osservati sulle pietre micenee, si è rivelata la meno adatta allo scopo, balzando continuamente sulle imperfezioni della roccia e causando tagli irregolari e poco profondi.

La lama più efficace si è invece rivelata piatta, con i bordi arrotondati verso l’alto: aggiungendo sabbia e acqua ogni due minuti per lubrificare il taglio e aumentare il potere abrasivo della sega, Blackwell e suo fratello sono riusciti a praticare un taglio ricurvo profondo 2,5 centimetri in circa 45 minuti su una lastra di calcare.

La tecnica d’utilizzo della sega a pendolo

I diversi tagli effettuati con la lama ricurva si sono dimostrati sostanzialmente identici a quelli d’epoca micenea. Una delle incisioni ha richiesto “solo” 24 minuti, suggerendo che una piccola squadra di operai dell’ Età del Bronzo potesse facilmente tagliare grossi blocchi di pietra nell’arco di una giornata di lavoro.

Un taglio parziale su un blocco di conglomerato lavorato in epoca micenea
Un taglio parziale su un blocco di conglomerato lavorato in epoca micenea

Quando il braccio di legno della sega entrava quasi in contatto con il blocco di pietra, uno o più operai allargavano la fenditura a colpi di martello o scalpello per consentire l’ingresso del braccio dell’attrezzo.

Ripetendo questa operazione più e più volte, era possibile segare un blocco di pietra profondo 50 centimetri in 8-10 ore.

“La sega a pendolo potrebbe essere stata la soluzione al problema miceneo di lavorare il conglomerato” spiega l’archeologo Wright del Bryn Mawr College in Pennsylvania. Il conglomerato è una roccia sedimentaria composta da granuli di svariata natura, dalla silice all’ argilla; il conglomerato miceneo è particolarmente duro e difficile da tagliare se paragonato ad altre rocce disponibili nell’area.

Nonostante l’esperimento di Blackwell si sia rivelato un successo, non dimostra affatto che la sega a pendolo fosse uno strumento reale usato dai micenei.

Jürgen Seeher, archeologo del German Archaeological Institute di Istanbul, ha proposto nel 2007 una soluzione alternativa: una sega ricurva molto lunga attaccata ad un palo di legno e tirata avanti e indietro da due uomini, sostenendo che “una sega a mano azionata da due uomini è molto più controllabile di un pendolo in sospensione libera”.

How a backyard pendulum saw sliced into a Bronze Age mystery

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Il bambù, alternativa asiatica alle lame di pietra https://www.vitantica.net/2017/10/11/il-bambu-alternativa-asiatica-alle-lame-di-pietra/ https://www.vitantica.net/2017/10/11/il-bambu-alternativa-asiatica-alle-lame-di-pietra/#respond Wed, 11 Oct 2017 02:00:17 +0000 https://www.vitantica.net/?p=294 L’ Estremo Oriente sembra mostrare un’ insolita scarsità di strumenti di pietra utilizzati dai nostri antenati per le loro attività quotidiane come tagliare la carne, creare punte di lancia e di freccia, o lavorare la pelle.

Paesi come Cina, Cambogia e Indonesia mostrano un livello di tecnologia litica decisamente più arretrato rispetto al resto del mondo. Questo gap qualitativo e quantitativo è sempre rimasto un mistero e ha fatto nascere diverse ipotesi, tra cui quella del bambù.

L’ipotesi del bambù

Questa ipotesi sostiene che gli antichi abitanti dell’Asia avrebbero creato e utilizzato con efficacia strumenti di bambù per alcune delle loro attività quotidiane.

Una nuova ricerca condotta dall’archeologo Metin I. Eren ha raccolto elementi validi che sembrerebbero puntare verso una storia degli utensili umani più complessa di quanto precedentemente immaginato.

Eren, antropologo della Southern Methodist University, ha pubblicato assieme agli archeologi cinesi Jiarong Yuan e Yiyuan Li una ricerca dal titolo “Were Bamboo Tools Made in Prehistoric Southeast Asia? An Experimental View from South China“, in cui esamina la possibilità di produrre sofisticati strumenti di bambù attraverso semplici artefatti di pietra.

“Quella che viene definita ‘ipotesi del bambù’, a spiegazione dell’assenza virtuale di tecnologie complesse della lavorazione della pietra in Asia, viene spesso stata citata, ma rimane qualcosa di ambiguo” dice Parth Chauhan, editore della rivista Quaternary International su cui è stata pubblicata la ricerca.

“Questa ricerca sperimentale senza precedenti rappresenta il primo passo nella giusta direzione per verificare l’idea degli adattamenti tecnologici umani nella preistoria”.

Efficacia delle lame di bambù

Il problema principale della teoria degli strumenti di bambù era principalmente rappresentato dal fatto che non si aveva la certezza di poter ottenere una lama o una lancia efficaci lavorando le canne con strumenti di pietra.

Eren ha mostrato che lame di pietra possono effettivamente tagliare e lavorare il bambù con relativa precisione. Ma le lame ottenute dal bambù sono utili soltanto per alcune attività come il taglio della carne, diventando sempre meno efficaci quando si tenta di lavorare materiali più duri, come la pelle animale.

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“L’ipotesi del bambù è girata per diverso tempo, ma è sempre stata semplicistica, come se le diverse specie di bambù e le diverse tecniche di produzione di strumenti fossero tutte uguali” spiega Eren.

“L’archeologia sperimentale, la riproduzione di strumenti di bambù con semplici oggetti di pietra, era una necessità da molto tempo. Grazie alla cooperazione in ogni fase degli esperimenti con i nostri colleghi cinesi, abbiamo dimostrato il potenziale della semplice tecnologia di oggetti di pietra nella produzione di differenti oggetti quotidiani in bambù”.

Coltelli da canne di bambù

Eren si è dedicato alla riproduzione di alcuni strumenti di bambù attraverso la tecnologia e i materiali disponibili nella preistoria. In circa 84 minuti, il team è riuscito a tagliare 14 canne di bambù appartenenti a 5 differenti specie, e con soli strumenti di pietra molto primitivi.

Si è quindi passati alla fase successiva: produrre strumenti utili dal bambù. In cinque ore, e senza alcuna esperienza nella lavorazione del bambù, i ricercatori hanno creato una sequenza di lavorazione in grado di produrre 20 lame efficaci a tal punto da riuscire a tagliare facilmente un pezzo di carne di maiale.

Sono state poi prodotte lance efficaci in soli 30 minuti, strisce di bambù abbastanza sottili da produrre materiale per la fabbricazioni di canestri, e altri strumenti di uso quotidiano.

“Per alcuni oggetti, come un cesto, il bambù potrebbe essere stato un materiale ideale. Ma questo fa riflettere, almeno nel caso della macellazione, sul perché si dovrebbero produrre coltelli di bambù quando gli strumenti di pietra possono svolgere lo stesso lavoro, e meglio” afferma Eren.

Per saperne di più: Scientists make bamboo tools to test theory explaining East Asia’s Stone Age tool scarcity

 

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La gomma dei popoli precolombiani https://www.vitantica.net/2017/09/24/la-gomma-dei-popoli-precolombiani/ https://www.vitantica.net/2017/09/24/la-gomma-dei-popoli-precolombiani/#respond Sun, 24 Sep 2017 07:00:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=341 I popoli mesoamericani sono noti per essere stati i primi a lavorare la linfa dell’ albero della gomma locale (Castilla elastica) quasi 2.000 anni prima di Cristo. La linfa di quest’albero è un mix di acqua, impurità organiche e polimeri di isoprene, ed è un colloide dal colore biancastro, appiccicoso, che sgorga naturalmente da incisioni praticate sulla corteccia dell’albero.

Il lattice dell’ albero della gomma, una volta rappreso, crea un materiale elastico e impermeabile, dall’aspetto simile alla gomma dei nostri tempi. Le sue proprietà, tuttavia, non sono paragonabili alla gomma moderna: è appiccicoso e difficile da lavorare agevolmente, si deforma con facilità se esposto al calore e tende a diventare fragile al freddo; un mix di caratteristiche che rende la gomma naturale un buon sigillante, ma nulla di più.

Per applicazioni pratiche e frequenti, tuttavia, i popoli precolombiani avevano bisogno di gomma resistente, elastica e che non perdesse le sue proprietà distintive con il cambio della temperatura: come fare senza la conoscenza del processo di vulcanizzazione, inventato a millenni di distanza?

Trattamento chimico della gomma precolombiana

Una ricerca condotta dal MIT sembra indicare che non solo le civiltà precolombiane fossero a conoscenza di metodi per lavorare la linfa estratta dagli alberi della gomma locali, ma che avessero addirittura perfezionato un trattamento chimico in grado di amplificare le proprietà della gomma naturale in base al suo impiego finale.

Per esempio, per fabbricare suole per sandali gli abili artigiani maya realizzavano una gomma resistente e tenace, priva di una grande elasticità. Per costruire palle di gomma utilizzate nei giochi tradizionali e religiosi, invece, trattavano la gomma in modo tale da ottenere una sostanza estremamente elastica e massimizzare il rimbalzo delle palle. Per la fabbricazione di elastici e adesivi utilizzati negli ornamenti e per la fabbricazione di armi, producevano gomma ottimizzata per la resistenza e l’aderenza.

Estrazione del lattice dall'albero della gomma
http://hankeringforhistory.com/wp-content/uploads/rubber-tree.jpg

Tutto ciò era possibile intervenendo sui due ingredienti principali impiegati nella fabbricazione della gomma: il lattice estratto dall’ albero della gomma e il succo dei viticci di Ipomea locali, come sostengono Dorothy Hosler e Michael Tarkanian del Dipartimento di Scienze ed Ingegneria dei Materiali del MIT. Grazie all’analisi di diversi artefatti in gomma vecchi di secoli, è stato possibile stabilire che le civiltà precolombiane potessero intervenire sulle proprietà chimiche della gomma.

Gli Aztechi, gli Olmechi e i Maya, ben prima che Charles Goodyear inventasse la vulcanizzazione, si rivelarono abili fabbricatori di gomma, materiale che utilizzavano per realizzare una vasta gamma di utensili e ornamenti, oltre che le palle impiegate durante i giochi cerimoniali.

Alcune di queste palle sono state ritrovate durante scavi archeologici in Centro-America e in Messico, le più antiche risalenti a circa 1600 anni prima di Cristo. “Erano davvero spettacolari, davvero enormi” dice Hosler riferendosi alle palle di gomma mesoamericane, che andavano dal diametro di pochi centimetri fino alle dimensioni di una palla da calcio.

Raffigurazione maya del gioco della palla
Raffigurazione maya del gioco della palla
Come si alteravano le proprietà della gomma naturale

Fino ad oggi, nessuno era riuscito a dimostrare che fosse possibile manipolare le proprietà della gomma precolombiana intervenendo sugli elementi fondamentali della ricetta per fabbricarla. Al contrario delle palle di gomma, l’esistenza di sandali con suole di gomma (e della gomma dalle caratteristiche necessarie per fabbricarli) non è mai stata dimostrata prima d’ora, anche se queste calzature vengono descritte nei diari dei conquistadores spagnoli e dei missionari.

La gomma mesoamericana sopravvissuta fino ad oggi è così degradata e secca che è estremamente difficile stabilire quali siano state le sue proprietà meccaniche. Per poter capire di più sulla gomma precolombiana, Tarkanian e Hosler hanno messo in piedi un laboratorio di fabbricazione della gomma secondo gli antichi metodi precolombiani: utilizzando diverse proporzioni di lattice e di succo di Ipomea, sono stati in grado di creare campioni con differenti proprietà meccaniche, e di misurare la loro elasticità, resistenza e forza.

Una combinazione di 50% di lattice e 50% di succo di Ipomea, ad esempio, produce la massima elasticità, perfetta per le palle di gomma. Per fabbricare adesivi o per congiungere materiali di diversa natura, come ceramiche o legno, le proporzioni devono essere differenti, con una maggiore quantità di lattice rispetto al succo di Ipomea. Per le suole dei sandali, applicazione in cui la resistenza è la proprietà primaria, il rapporto Ipomea-lattice si fa di 3 a 1.

I mesoamericani ebbero molto tempo, più di 2.000 anni, per perfezionare queste tecniche attraverso prove ed errori. Quando arrivarono gli Spagnoli, “c’era una grossa industria della gomma” spiega Tarkanian, industria che produceva 16.000 palle ogni anno ed un grande numero di statue di gomma, sandali, elastici e altri prodotti di uso comune.

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Maestri nei polimeri della gomma

Come se non bastasse, pare che il trattamento chimico non si limitasse alla sola gomma: Hosler ha studiato altri artefatti mesoamericani, giungendo alla conclusione che, molto probabilmente, il trattamento chimico fosse utilizzato anche nella metallurgia per intervenire sulle proprietà meccaniche dei metalli.

“Ci sono altre aree di produzione in cui le culture preispaniche combinavano diversi materiali per ottenere prodotti perfezionati.” afferma Frances Berdan, professore di antropologia della California State University. “La ricerca di Tarkanian e Hosler sull’antica gomma precolombiana dovrebbe avere l’effetto di rivolgere la nostra attenzione sulle metodologie utilizzate da queste culture, e riconoscere che svilupparono risposte sofisticate ai loro problemi quotidiani”.

John McCloy, ricercatore del Pacific Northwest National Laboratory, sostiene che “Tarkanian e Hosler hanno portato le prove che gli antichi mesoamericani furono i primi scienziati dei polimeri, avendo un controllo sostanziale sulle proprietà meccaniche della gomma per diverse applicazioni”.

“Quello che rimane da fare” continua McCloy, “è trovare prove archeologiche di sandali nell’antica America Centrale, e studiare i metodi di produzione della gomma mesoamericana utilizzata come adesivo e come calzatura. Sarebbe inoltre interessante fare analisi chimiche sulle palle di gomma, sugli adesivi e sui sandali (se dovessero essere trovati) per vedere se la quantità di additivi a base di Ipomea confermano lo studio in laboratorio sulle proprietà meccaniche”.) quasi 2000 anni prima di Cristo.

Per saperne di più: Mesoamerican people perfected details of rubber processing more than 3,000 years ago: study

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