Navigazione antica – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il ruolo di Bristol nell’esplorazione dell’ America del Nord https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/ https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/#respond Mon, 28 Dec 2020 00:15:31 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5087 La città di Bristol ha rivestito una certa importanza durante i viaggi esplorativi del XV e XVI secolo. Nella narrazione moderna che riguarda l’era delle grandi esplorazioni oceaniche si sente spesso parlare (per giusti e ovvi motivi) di Colombo, Magellano e Vespucci; ma coloro che oggi consideriamo “grandi esploratori” rappresentano solo una parte della storia.

I grandi viaggi oceanici sono stati resi possibili non solo dalle figure di spicco che hanno dato nomi a regioni o interi continenti, ma anche da marinai comuni, armatori semi-sconosciuti e persone che per sbarcare il lunario erano costrette a seguire gli spostamenti del pesce, spingendosi verso mari ignoti e terre mai toccate da piede europeo.

I marinai e i pescatori di Bristol parteciparono a loro modo all’impulso esplorativo del XV-XVI secolo, da una parte costretti a trovare nuove fonti di pesce e stringere nuovi rapporti commerciali, dall’altra motivati dalla ricerca di terre leggendarie inesistenti.

I navigatori-mercanti di Bristol

Intorno al XIII secolo Bristol iniziò a diventare un porto marittimo di una certa rilevanza: il vino francese, le spezie orientali e la lana proveniente dall’Europa settentrionale rappresentavano le principali mercanzie che transitavano per il porto, ma all’inizio del XV secolo il merluzzo iniziò a diventare fonte di grossi guadagni.

Il merluzzo pescato in Islanda dai marinai di Waterford e Cork, congelato in blocchi solidi (stoccafisso) facili da trasportare e da conservare, raggiungeva Bristol e veniva smistato in tutta Inghilterra scambiandolo con vestiti, alimenti non presenti in Irlanda e metalli.

Tra il XIV e il XV secolo secolo, la città di Bristol era considerata la terza città più popolata d’Inghilterra, dopo Londra e York, con circa 15-20.000 abitanti quasi totalmente impegnati, direttamente o indirettamente, nel commercio via mare.

Il commercio lungo le rotte atlantiche vedeva coinvolti almeno 250 mercanti di Bristol, che quotidianamente venivano a conoscenza di nuove rotte marittime, nuove opportunità da sfruttare e storie leggendarie che circolavano tra i marinai dell’epoca.

William Canynge, il primo grande mercante di Bristol, fu per cinque volte sindaco della città e possedeva una flotta di 10 navi e 800 marinai totalmente impegnata nel commercio di vino e di merluzzo.

Anche se la Lega Anseatica cercò di limitare il traffico di merluzzo da e verso Bristol, specialmente del merluzzo islandese, i pescatori e i commercianti di Bristol continuarono a intrattenere rapporti con i porti islandesi, e si spinsero oltre le regolari rotte commerciali del pesce superare i limiti imposti dalla Lega.

Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell'epoca
Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell’epoca

Un altro colpo per l’economia di Bristol che spinse i commercianti della città a cercare nuove rotte marittime fu la cattura di Costantinopoli da parte dell’Impero ottomano nel 1453. Costantinopoli rappresentava il fulcro dei traffici di spezie tra Europa e Asia, ma l’arrivo dei Turchi vide l’applicazione di nuove e pesanti tasse sulle esportazioni verso Ovest.

I marinai di Bristol ritenevano possibile circumnavigare l’Africa per raggiungere l’Asia, o che esistesse una rotta verso Ovest per raggiungere il Cipango (Giappone) e il Catai (Cina). Si tratta di idee del tutto analoghe a quelle che motivarono Cristoforo Colombo ad intraprendere l’attraversata dell’Atlantico: il celebre esploratore approdò nel 1476 proprio a Bristol, dove potrebbe aver assorbito i racconti dei marinai inglesi che avrebbero costituito le fondamenta del suo primo viaggio esplorativo.

Spingendosi verso i mari sud-occidentali in cerca di pesce, di nuove rotte marittime e di località con cui intrattenere interessanti rapporti commerciali, i marinai di Bristol potrebbero aver raggiunto le Americhe qualche anno prima del primo viaggio di Colombo.

L’isola di Hy-Brasil

L’esistenza dell’isola di Brasil, o Hy-Brasil, iniziò a circolare tra i marinai di Bristol all’inizio del XIV secolo. Un portolano del 1325 redatto da Angelino Dulcert riporta un’isola chiamata “Bracile” oltre l’Irlanda, verso Ovest; la mappa veneziana di Andrea Bianco, redatta circa un secolo dopo (1436), mostra l’ Insula de Brasil come facente parte di un gruppo di isole nel mezzo dell’Atlantico (probabilmente le Azzorre).

Anche una mappa catalana del 1480 riporta la “Illa de brasil” a sud-ovest dell’Irlanda. Alcune mappe e portolani la disegnano circolare, con un fiume centrale che corre lungo tutto il diametro, da est a ovest.

Oggi sappiamo che Hy-Brasil è in realtà un’isola immaginaria, che non ha riscontri nella realtà; ma nella Bristol del XV secolo la possibile esistenza di un’isola inesplorata era apparentemente un’opportunità così golosa da spingere gli armatori più grandi della città a imbastire spedizioni esplorative con lo scopo di scoprire l’isola.

Verso la fine del 1400 a Londra, grazie ai rapporti del diplomatico spagnolo Pedro de Ayala, era ormai noto che la città di Bristol avesse sponsorizzato diverse missioni esplorative negli anni precedenti, tutte volte alla scoperta dell’isola di Brasil.

sizione dell'isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell'epoca
sizione dell’isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell’epoca

Nel 1480 e nel 1481 due spedizioni lasciarono il porto di Bristol alla ricerca di Hy-Brasil, sostenute dai finanziamenti di John Day e Thomas Croft.

La spedizione di John Day, un inglese molto attivo nel commercio con la Spagna, sosteneva in una lettera indirizzata ad un tale “Grande Ammiraglio” spagnolo (alcuni storici affermano che fosse Colombo) che le terre scoperte da Giovanni Caboto nel 1497 fossero le stesse scoperte dai marinai di Bristol qualche anno prima.

La seconda spedizione vedeva coinvolte due navi, la George e la Trinity; dai diari di bordo sappiamo che i due vascelli trasportavano sale, molto probabilmente in previsione di incontri con grandi banchi di pesce.

L’isola di Hy-Brasil non fu mai scoperta, ma le teorie del professor David Beers Quinn affermano che i pescatori inglesi scoprirono i Grandi Banchi al largo di Terranova, acque ricche di merluzzo e di fatto suolo americano.

William Weston

Il primo inglese a condurre una spedizione in Nordamerica potrebbe essere stato William Weston, un mercante di Bristol che tra il 1499 e il 1500 posò piede sul suolo canadese. E’ possibile che Weston possa essere stato membro dell’equipaggio di Caboto nel 1497, anno in cui si svolse la prima spedizione europea nell’ America settentrionale (se escludiamo i viaggi norreni di 500 anni prima).

William Wenton lavorò a bordo della Trinity, una delle navi di Bristol che partecipò alla spedizione verso Hy-Brasil nel 1480. La licenza per la missione esplorativa di Weston del 1499 sembra essere legata alla spedizione di Caboto, per cui è molto probabile che l’esploratore di Bristol fosse un compagno di viaggio, se non addirittura un amico, del viaggiatore veneziano.

La data esatta del viaggio esplorativo di Weston non è nota, anche se l’ipotesi dominante è che sia iniziata un anno dopo dal ritorno di Caboto. La destinazione raggiunta dalla spedizione è sconosciuta, ma sappiamo per certo che nel 1500 Weston fu ricompensato dal re con una somma di 30 sterline “per le spese sostenute durante la ricerca di nuove terre”.

Lo storico inglese Alwyn A. Ruddock ha sostenuto che Weston possa essersi spinto in profondità nell’Atlantico nord-occidentale, probabilmente raggiungendo la Baia di Hudson, località che riceverà il suo nome solo oltre un secolo dopo, nel 1610, quando Henry Hudson la raggiunse a bordo del veliero Discovery.

English Voyages before Cabot
William Weston: early voyager to the New World
Bristol’s Transatlantic Explorations Prior to 1497
Sebastian Cabot and Bristol Exploration

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Hardtack, la galletta navale a lunga conservazione https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/ https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/#respond Mon, 07 Sep 2020 00:18:50 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4965 I lunghi viaggi per mare degli antichi esploratori e gli estenuanti spostamenti via terra degli eserciti del passato erano legati a doppio filo alla capacità umana di creare cibo a lunga conservazione. Pur non avendo frigoriferi moderni o e possedendo scarse nozioni di igiene alimentare, i nostri antenati furono in grado di conservare alimenti per lunghi periodi di tempo utilizzando l’ingegno e i materiali a loro disposizione.

Nel corso della storia gli espedienti utilizzati per conservare gli alimenti furono molti: celle frigorifere come lo yakhchal, salamoie e salagioni, affumicatura e fermentazione potevano garantire mesi o anni di conservazione se si rispettavano poche ma necessarie regole su temperatura o esposizione all’aria. Alcuni prodotti alimentari erano invece pensati per mantenersi pressoché intatti anche anche in condizioni sfavorevoli.

L’ hardtack, ad esempio, era una semplice galletta di farina e acqua in grado di mantenersi commestibile per molto tempo, poco costosa da produrre, resistente a condizioni ambientali avverse e facile da immagazzinare e trasportare.

La storia dell’ hardtack

Dall’introduzione dei cereali nei regimi alimentari di molti popoli antichi, la farina iniziò a ricoprire un ruolo sempre più fondamentale nella cucine di tutto il mondo. Farina e pane, tuttavia, possono essere attaccati da muffe, insetti, o semplicemente accumulare l’umidità atmosferica favorendo i processi di decomposizione.

La necessità di avere alimenti nutrienti e facilmente conservabili portò gli Egizi alla creazione della dhourra, una galletta di miglio in grado di mantenersi intatta per lunghi periodi di tempo. Col tempo la dhourra si trasformò nel “biscotto musulmano”, come lo descrive Re Riccardo I dopo la Terza Crociata (1189-1192): un mix di farina d’orzo, farina di fagioli e farina di segale.

Nell’antica Roma, invece, il Codex Theodosianus prevedeva che ogni soldato coinvolto in una spedizione militare dovesse essere fornito di “bucellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam.”, traducibile come “gallette e pane, anche vino (o posca) e aceto, ma anche lardo e montone”.

Il bucellatum romano era un mix di farina, sale e acqua, cotto a lungo per due volte a bassa temperatura. Veniva consumato dai soldati accompagnandolo con la posca, per due giorni consecutivi; al terzo giorno, la truppa poteva finalmente consumare vino e pane di buona qualità.

L’hardtack è una delle innumerevoli versioni della galletta a lunga conservazione. Il nome  di questo biscotto, entrato nel lessico comune tra il 1700 e il 1800, deriva da “tack”, il termine slang che i marinai britannici usavano per riferirsi al cibo; col tempo iniziò ad assumere altri nomi, come “biscotto di mare”, “pane per cani”, “spaccamolari” o “castello per vermi”.

La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)
La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)

La Royal Navy britannica del XVI secolo forniva ai suoi marinai una razione giornaliera di mezza libbra di hardtack, qualche pezzo di maiale salato e un gallone di birra a bassa gradazione alcolica. Nel tardo XVIII secolo, l’hardtack entrò a far parte anche della dieta dei pescatori del New England: veniva utilizzato come addensante per le zuppe di mare, sbriciolandolo e mescolandolo agli altri ingredienti.

Grazie a John Billingas, soldato della guerra di secessione americana e autore di un libro di memorie intitolato “Hardtack and Coffee” (1887), abbiamo una descrizione dell’hardtack dal punto di vista di un soldato:

Cos’era la galletta? Era un semplice biscotto di farina e acqua. Due di esse, che ho in mio possesso come ricordo, misurano 3 pollici e 1/8 per 2 pollici e 7/8, e sono spesse quasi mezzo pollice. Sebbene questi biscotti venissero venduti a peso, venivano distribuiti agli uomini in numero, nove gallette costituivano una razione in alcuni reggimenti, dieci in altri reggimenti; ma di solito ce n’erano abbastanza per chi ne voleva di più, poiché alcuni non li utilizzavano. Per quanto l’ hardtack fosse nutriente, un uomo affamato poteva mangiare i suoi dieci in breve tempo ed essere ancora affamato.

Le proprietà dell’hardtack

Per quanto poco appetibile, l’hardtack fornisce un discreto quantitativo di calorie in poco spazio e senza la preoccupazione della conservazione. Una galletta da 24 grammi fornisce circa 100 kilocalorie, circa 5-6 grammi di grassi, due grammi di proteine e quasi nessuna fibra; il resto del peso è costituito da carboidrati.

Come tutti i prodotti realizzati con farine di cereali, biscotti e gallette tendono ad assorbire l’umidità ambientale. Per rallentare questo processo, i fornai tentavano di creare biscotti e gallette estremamente duri, cuocendoli da due a quattro volte e preparandoli in anticipo di 6 mesi dal loro effettivo consumo.

Se non viene inumidito, l’hardtack è così solido da risultare sostanzialmente immangiabile; viene descritto da coloro che lo consumarono come “denso a tal punto da essere quasi in grado di fermare una pallottola di moschetto”. Se addentato a secco, prosciuga completamente la bocca di ogni goccia di saliva, rendendo ancora più difficile la masticazione.

Per renderlo più masticabile, il biscotto veniva immerso in salamoia, caffè, alcolici o zuppe; non veniva solo consumato come semplice biscotto da inzuppare in qualche liquido, ma anche sbriciolato e impiegato come addensante per le zuppe.

Un altro modo per consumare l’hardtack era quello di sbriciolarlo il più possibile con il calcio di un fucile, o tramite un oggetto duro e pesante, aggiungendo quindi acqua, zucchero e whiskey per creare una pudding denso e grumoso da cuocere in pentola.

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La secchezza dell’hardtack è una proprietà indispensabile alla  lunga conservazione: se mantenuta intatta e all’asciutto, una galletta di hardtack può rimanere commestibile per anni, sopravvivere a sbalzi di temperatura estremi e resistere ad una manipolazione violenta.

Sulle navi del XVI-XVII secolo, tuttavia, non era semplice mantenere il cibo in condizioni ottimali. L’infestazione delle riserve alimentari da parte di insetti, batteri e muffe erano relativamente comuni durante i lunghi viaggi per mare, ma i marinai britannici escogitarono un semplice espediente per rimuovere i parassiti dal loro hardtack.

Immergendo l’hardtack nel caffè mattutino non solo si rendeva masticabile la galletta, ma si costringeva la maggior parte degli insetti infestanti, come il tonchio, a risalire in superficie per tentare di sopravvivere; dopo essersi liberati di tutti gli insetti galleggianti, i marinai erano finalmente pronti a consumare il loro biscotto accompagnato da caffè caldo.

Preparazione dell’hardtack

Non esiste un’unica ricetta per l’hardtack: ogni regione del pianeta lo chiamava in modo diverso, ma la base comune  era una miscela di farina e acqua, in proporzioni che variano da 3:1 a 5:1.

Per ottenere un hardtack durevole è necessario utilizzare poca acqua, e cercare di eliminarne il più possibile durante la cottura. La pasta, in fase di preparazione, non deve essere troppo dura, ma nemmeno attaccarsi alle mani; prima di cuocerla, occorre modellarla per ottenere gallette o crackers.

Dopo aver steso la pasta fino ad uno spessore di circa 1 centimetro, occorre tagliarla creando pezzi più o meno regolari. I soldati della guerra di secessione americana ricevevano gallette di 3 x 3 pollici (7,5 x 7,5 centimetri), dimensioni che facilitavano la cottura e il trasporto.

Creare dei piccoli fori sulle due superfici del cracker impedisce che la farina possa subire una piccola lievitazione, e aiuta cuocere uniformemente l’hardtack. La cottura delle gallette deve essere lunga e a bassa temperatura, cercando di evitare che imbruniscano troppo o si brucino.

La cottura, come suggerisce questa ricetta, dura circa 25-35 minuti a 190°C, e si cerca di ottenere una leggera brunitura della superficie delle gallette. A questo punto occorre rimuovere i biscotti dal forno per farli raffreddare completamente prima di procedere con una seconda cottura o con l’essiccazione all’aria per qualche giorno.

L’hardtack viene prodotto ancora oggi, anche se con un occhio orientato al mercato moderno: pur rispettando la ricetta di base, vengono spesso aggiunti aromi, spezie o altri ingredienti per renderlo più piacevole al palato.

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FOODS OF WAR: HARDTACK
Bucellatum – Roman Army Hardtack
Hardtack – The Ultimate Survival Food
#Hardtack: A Food to Break a Tooth On
Hardtack Described
Bucellatum (Roman hardtack)

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2 anni di VitAntica https://www.vitantica.net/2019/09/09/2-anni-di-vitantica/ https://www.vitantica.net/2019/09/09/2-anni-di-vitantica/#comments Mon, 09 Sep 2019 10:00:04 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4524 Sono ormai trascorsi due anni da quando presi la decisione di pubblicare il blog VitAntica.net. Rosicchiando tempo prezioso ai miei impegni quotidiani, sono riuscito a pubblicare oltre 400 articoli che affrontano i temi più disparati, dalla vita quotidiana dei cacciatori-raccoglitori antichi e moderni ad alcune delle vicende più bizzarre verificatesi nell’arco della storia antica.

Ringrazio ovviamente tutti i lettori, affezionati o semplicemente di passaggio, che hanno contribuito a far conoscere VitAntica sulla Rete e hanno apprezzato i suoi contenuti; ringrazio naturalmente anche i lettori più critici, che con il loro apporto mi hanno consentito di migliorare e di correggere alcuni errori e inesattezze palesi o sottili che ho commesso durante la stesura degli articoli.

In questi due anni alcuni articoli hanno riscosso particolare successo; qui sotto riporto una piccola lista dei contenuti più letti nell’arco dei 12 mesi appena trascorsi.

Speranza di vita e longevità dei nostri antenati
Occorre fare una distinzione tra il concetto di longevità media e quello di speranza di vita: la prima stabilisce una media sull’età massima raggiungibile da un individuo in un determinato periodo storico; la seconda invece esprime una media basata sull’incrocio dei dati relativi alla longevità e quelli che descrivono la mortalità nelle varie fasi della crescita umana.

Selce e pietra focaia: utensili e fuoco
Come l ‘ossidiana, anche la selce è in grado di generare fratture concoidi se colpita con la giusta angolazione e la sua struttura criptocristallina contribuisce alla formazione di schegge affilate.
Queste caratteristiche la resero preziosissima fin dall’inizio dell’Età della Pietra e l’attività mineraria legata all’estrazione della selce risale al Paleolitico, anche se le miniere diventarono più comuni nell’arco del Neolitico.

Come si conservava il cibo in antichità?
Come facevano i nostri antenati a conservare gli alimenti facilmente deperibili? Non disponendo dei sistemi di refrigerazione moderni, nell’arco dei millenni sono nate diverse tecniche per la conservazione di carne, frutta e verdura, alcune ancora oggi largamente utilizzate per la produzione di cibi tradizionali.

Ragnar Lothbrok è un personaggio storico o frutto della fantasia norrena?
Quanto c’è di vero nella figura di Ragnar Lothbrok, il protagonista del telefilm Vikings? Quanto è storicamente accurata la sequenza di eventi rappresentata nel telefilm? Se facciamo riferimento alle saghe nordiche che parlano delle gesta di Ragnar, la serie TV non è così inaccurata; se invece pretendiamo fedeltà storica siamo ben lontani dall’ottenerla.

L’importanza del fuoco
La manipolazione del fuoco cambiò radicalmente lo stile di vita delle prime comunità di cacciatori-raccoglitori. Oltre a fornire calore durante l’inverno e luce nel corso delle ore più buie, il fuoco ebbe conseguenze enormi sulla quotidianità dei nostri antenati: qualità del cibo migliorata, metodologie di caccia, pesca e agricoltura più efficaci, nuove attività ricreative e sociali con ricadute dirette sull’evoluzione dell’intero genere umano.

Aquila di sangue norrena: realtà o finzione?
Uno dei miti vichinghi più persistenti è quello dell’ aquila di sangue, un metodo di esecuzione della pena capitale estremamente violento e brutale. I problemi sulla realtà storica dell’aquila di sangue iniziano a sorgere quando si pone sotto attenta analisi la quantità e la qualità delle fonti che citano questa pratica.

Il papiro nell’ antico Egitto
Per almeno due millenni il papiro non trovò rivali come superficie di scrittura fino all’arrivo della pergamena: il papiro è in fatti un materiale fragile e suscettibile a rottura in condizioni di umidità o eccessiva secchezza ambientale, anche se è relativamente facile ed economico da produrre e da lavorare.

La porpora: storia e produzione nell’antichità
Nei millenni passati la porpora, difficile da produrre per vie dalle enormi quantità di molluschi necessari alla sua preparazione, fu spesso associata all’idea di ricchezza, potere e prestigio e raggiunse di frequente un valore commerciale superiore a quello dell’oro e di alcune pietre preziose.

Qual era il vero aspetto dei vichinghi?
Potrà sorprendere sapere che i vichinghi erano tutt’altro che sporchi, ma tenevano molto al loro aspetto; erano forti e robusti, ma come qualunque altro popolo guerriero del loro tempo; ed erano etnicamente più eterogenei di quanto si possa immaginare, avendo esplorato quasi ogni angolo del mondo conosciuto e intrattenendo contatti commerciali con culture ben differenti dalla loro.

Quante calorie servono per sopravvivere?
Calcolare il fabbisogno calorico necessario a sopravvivere è quindi un problema complesso e che deve essere necessariamente adattato al grado di “fitness” di uno specifico individuo e all’ostilità dell’ambiente che lo ospita.

La ghianda: storia, preparazione, ricette
Il seme della ghianda è stato utilizzato per millenni come importante fonte di carboidrati prima dell’avvento della domesticazione dei cereali: una singola quercia adulta può produrre qualche centinaio di chilogrammi di ghiande in una sola stagione, un enorme numero di pasti per i nostri antenati cacciatori-raccoglitori e un’ottima fonte di energia.

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La capacità di orientamento dei pigmei Mbendjele BaYaka https://www.vitantica.net/2019/07/30/capacita-orientamento-pigmei-mbendjele-bayaka/ https://www.vitantica.net/2019/07/30/capacita-orientamento-pigmei-mbendjele-bayaka/#respond Tue, 30 Jul 2019 13:10:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4452 Come possono i cacciatori-raccoglitori che vivono nelle foreste più dense e impervie trovare la via di casa attraverso una spessa coltre di vegetazione che limita enormemente la visibilità?

Una ricerca condotta al Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig ha mostrato che il popolo Mbendjele BaYaka della Repubblica del Congo è in grado di indicare destinazioni fuori dal loro campo visivo con un livello di precisione straordinario. La capacità d’orientamento inoltre aumenta in base alla visibilità del sole, specialmente tra i bambini.

Orientarsi nella foresta

Il senso dell’orientamento all’interno di una foresta fitta e ricca di pericoli è una’abilità fondamentale per la sopravvivenza di un cacciatore-raccoglitore. I rischi non solo soltanto rappresentati da animali in grado di tendere agguati o presi alla sprovvista: non trovare più il percorso verso il villaggio o l’impossibilità di raggiungere risorse alimentari possono mettere in discussione la sopravvivenza di un’intera comunità.

Ma come è possibile sapere esattamente dove ci si trova all’interno di un ambiente che non offre riferimenti visivo-spaziali certi e in costante mutamento? Per scoprirlo, Haneul Jang e i suoi coleghi del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology hanno studiato il popolo congolese dei Mbendjele BaYaka.

Gli antropologi hanno condotto più di 600 test di orientamento con 54 individui Mbendjele BaYaka, sia uomini che donne, di età compresa tra i 6 e i 76 anni, scoprendo che sono dotati di uno straordinario senso della direzione e sono in grado di indicare la posizione di un obiettivo distante senza alcun riferimento spaziale certo.

I Mbendjele BaYaka

Il popolo Mbendjele BaYaka (chiamato anche Aka o Bayaka) è costituito da pigmei nomadi Mbenga che occupano 11 zone ecologiche del bacino del fiume Congo. Gli Aka sono tradizionalmente cacciatori-raccoglitori e basano la loro dieta su ben 63 piante diverse, 28 specie di selvaggina, 20 specie di insetti e una vasta gamma di noci, frutti, funghi e radici.

Solo di recente i Mbendjele BaYaka hanno iniziato a dedicarsi a piccole attività agricole stagionali. Per tutta la loro esistenza hanno condotto uno stile di vita nomade e basato sullo scambio: dai Ngandu, ad esempio, ottengono cetrioli, zucche, gombo, papaya, mango, ananas e riso in cambio di selvaggina e miele.

Gli Aka vivono in una società in cui la distinzione di ruoli tra uomini e donne è quasi nulla: i padri Mbendjele BaYaka spendono più tempo con i loro figli rispetto ai padri di qualunque altra cultura tradizionale conosciuta. Gli uomini aiutano le donne nelle loro attività quotidiane, compresa la cura dei figli, grazie anche allo stretto legame che si forma tra moglie e marito; dal canto loro, le donne partecipano alle attività di caccia senza alcun limite.

Un giovane Mbendjele punta ad  una risorsa alimentare durante il test condotto da Haneul Jang per verificare l'accuratezza del suo senso dell'orientamento nella foresta.
Un giovane Mbendjele punta ad una risorsa alimentare durante il test condotto da Haneul Jang per verificare l’accuratezza del suo senso dell’orientamento nella foresta.

“L’uguaglianza di genere tra i Mbendjele BaYaka può portare ad attività di raccolta su lunga distanza da parte delle donne, come per la caccia e la pesca che praticano gli uomini. Questo può consentrie alle donne e agli uomini di sviluppare abilità d’orientamento simili” spiega Haneul Jang.

Donne e uomini si sono infatti dimostrati capaci in egual misura di orientarsi nella foresta più fitta e di indicare la direzione di oltre 60 obiettivi distanti fuori dal loro campo visivo.

“I nostri risultati sono consistenti con gli studi precedenti che hanno scoperto che non ci sono differenze di sesso nelle capacità d’orientamenti delle società cacciatrici-raccoglitrici in cui entrambi i sessi viaggiano attivamente lontano da casa”.

“In contrasto con gli uomini e le donne della nostra società” aggiunge Karline Janmaat, che ha supervisionato la ricerca, “in cui le donne hanno ancora più probabilità di lavorare a casa o vicino a casa rispetto agli uomini, abbiamo osservato che sia gli uomini che le donne Mbendjele BaYaka viaggiano lontano da casa, e non soprende il fatto che siano ugualmente bravi nelle attività di orientamento”.

Abilità appresa fin da piccoli

Gli antropologi hanno scoperto che i bambini Aka sono in grado di orientarsi nella foresta fin dall’età di 6 anni, e con un’accuratezza del tutto paragonabile a quella degli adulti. Quando il sole era alto e ben visibile tra gli alberi, inoltre, l’accuratezza dei bambini è cresciuta sensibilmente, specialmente nei test condotti in aree distanti o a loro poco familiari.

“Diversamente dagli adulti, che hanno un ottimo senso della direzione in aree distanti anche se non possono vedere la posizione del sole, i bambini compiono errori di orientamento grossolani in aree poco conosciute in cui non possono vedere il sole. Comunque, se riescono a vederlo, la loro precisione aumenta considerevolmente” afferma Jang.

“I Mbendjele BaYaka vivono in una foresta pluviale di pianura, in cui orientarsi è difficile per via della fitta vegetazione e dell’assenza di punti di riferimento distanti, come le vette delle montagne. I popoli che vivono in questo tipo di ambiente potrebbero avere la necessità di imparare fin da piccoli come usare la posizione del sole per stabilire una direzione”.

Quando il sole non è visibile

Le culture cacciatrici-raccoglitrici hanno più volte dimostrato di essere in grado di orientarsi in modo efficace e istintivo, che si tratti di popoli delle savane o delle foreste pluviali. Il sole non è l’unico punto di riferimento: nelle regioni tropicali, durante la stagione delle piogge, la nostra stella risulta spesso non visibile sulla volta celeste, vanificando ogni tentativo di trovare la giusta direzione basandosi sul sole.

I cacciatori-raccoglitori, oltre ad una memoria spaziale a volte più addestrata della nostra e più capace di comporre mappe mentali dell’ecosistema, sono abilissimi nell’individuare e interpretare gli indizi del territorio, dall’aspetto delle piante alle tracce animali, da piccole alterazioni del terreno alle ombre proiettate dalla flora.

Le più recenti ricerche sull’intelligenza spaziale umana (come la teoria di Silverman e Eals del 1992) supportano l’ipotesi che la capacità di navigare un ecosistema sia legata a diversi meccanismi specializzati connessi al significato e alla rilevanza di alcuni elementi dell’ambiente naturale.

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Ad esempio, nella maggior parte dei casi le donne appartenenti a società cacciatrici-raccoglitrici si rivelano particolarmente abili nel localizzare risorse alimentari vegetali in relazione ad altri punti di riferimento: ricordano molto bene la presenza di piante commestibili nell’area che circonda il loro insediamento, un’abilità che si può rivelare molto utile per orientarsi nella foresta.

La navigazione nello spazio avviene secondo due strategie differenti. Nelle strategie egocentriche, si tende a memorizzare la disposizione spaziale dell’ambiente in base alla posizione dell’osservatore, ricordando in seguito la sequenza di punti di riferimenti. Sono tecniche di orientamento spaziale che si basano su punti di riferimento locali (come risorse alimentari) e sulla direzione intrapresa per navigare all’interno di un ambiente familiare. Un esempio di strategia egocentrica è la navigazione che utilizza una sequenza di movimenti come “avanti 10 passi, gira a destra, avanti 5 passi, gira a sinistra”.

La strategia allocentrica, invece, è più adatta alla navigazione in vaste aree o in regioni poco conosciute, pur essendo efficace anche nella navigazione locale: si basa principalmente su una mappa mentale dello spazio creata a partire da punti di riferimento ben visibili e riconoscibili, indipendentemente dal fatto che costituiscano o meno una risorsa utile. Un esempio di navigazione allocentrica è l’utilizzo dei punti cardinali per creare una mappa spaziale in grado di determinare la direzione da seguire per raggiungere la destinazione designata.

Sun, age and test location affect spatial orientation in human foragers in rainforests
Navigation skills develop early on among rainforest hunter-gatherers
Cognitive adaptations for gathering-related navigation in humans
Memory for Body Movements in Namibian Hunter-Gatherer Children

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Team giapponese replica l’antica (e ipotetica) migrazione da Taiwan a Okinawa https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/ https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/#comments Mon, 15 Jul 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4419 Secondo i maggiori esperti del Paleolitico giapponese, i primi insediamenti umani in Giappone risalirebbero a circa 30.000 anni fa. Ad oggi non abbiamo alcuna certezza su come le isole nipponiche siano state popolate dall’uomo in epoca paleolitica, ma gli studiosi della preistoria giapponese hanno formulato tre differenti ipotesi.

La prima ipotesi prevede che i primi abitanti del Giappone siano giunti dalla Corea attraverso lo stretto di Tsushima; la seconda, invece, sostiene che le comunità paleolitiche eurasiatiche abbiano attraversato il lembo di mare tra la Russia e Hokkaido per poi superare lo stretto di Tsugaru, che separa l’isola di Hokkaido da quella di Honshu.

La terza ipotesi, invece, afferma che gli esseri umani giunti in Giappone intorno a 30-40.000 anni fa provenissero da Taiwan. Per dimostrare la fattibilità dell’impresa, un team di ricercatori giapponesi e taiwanesi ha percorso il tratto di mare che separa Taiwan dall’isola giapponese di Yonaguni a bordo di una canoa a scafo monossilo.

Una traversata senza strumenti

La traversata di 200 km è stata compiuta a bordo di una canoa ricavata da un singolo tronco d’albero, lunga 7,6 metri e larga 70 centimetri. I cinque membri dell’equipaggio, un taiwanese e 4 giapponesi, hanno solcato il mare per due giorni consecutivi orientandosi esclusivamente con il sole, le stelle e i venti seguendo i metodi tradizionali di navigazione utilizzati nel Pacifico, come il sistema di navigazione polinesiano.

Il progetto, iniziato nel 2017 grazie alla collaborazione del National Museum of Nature and Science giapponese e del National Museum of Prehistory di Taiwan, aveva l’obiettivo di verificare la fattibilità di un viaggio simile utilizzando la tecnologia paleolitica.

“E’ stato un viaggio perfetto” spiega Koji Hara, uno dei 5 membri dell’equipaggio. “La Corrente Nera ha trasportato la canoa e ci siamo limitati a manovrarla un pochino”. All’arrivo sull’isola di Yonaguni, la spedizione è stata accolta dalle celebrazioni dei residenti, lieti di vedere il progetto concludersi con successo.

Prima di questa spedizione erano stati effettuati altri due tentativi, uno nel 2017 e un altro nel 2018, partendo dall’isola di Yonaguni a bordo di imbarcazioni realizzate con paglia, bambù e rattan. La prima spedizione ha coperto solo 66 km, mentre la seconda ha resistito poco al mare aperto, costringendo l’equipaggio ad interrompere l’impresa.

Kuroshio, la Corrente Giapponese

Quella che viene definita come “Corrente Nera”, “Kuroshio” o “Corrente Giapponese” è una corrente oceanica nel Pacifico settentrionale che ha inizio nelle Filippine e fluisce verso Nord lungo la costa orientale del Giappone. Si tratta essenzialmente di una corrente che svolge una funziona analoga alla Corrente del Golfo atlantica, trasportando acqua calda tropicale verso le regioni polari.

La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan
La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan

Durante il suo passaggio, la Corrente Giapponese crea vasti vortici del diametro di 100-300 km che possono persistere per mesi interi. Questi vortici sembrano rappresentare un ambiente ideale per la sopravvivenza di molte specie di larve di pesce e favorire l’accumulo di plankton.

L’isola di Yonaguni, appartenente alla prefettura di Okinawa, si trova nel bel mezzo della corrente Kuroshio. Essendo l’ultima isola giapponese a Sud prima di Taiwan, potrebbe aver rappresentato il primo approdo per raggiungere le isole maggiori giapponesi.

Yonaguni costituisce infatti il primo passo per raggiungere Okinawa: superando tratti di mare di 50-100 km seguendo la Corrente Nera, è possibile raggiungere l’isola di Ishigaki, quella di Miyakojima e infine Okinawa. Spingendosi ancora più a nord sospinti dalla Kuroshio si raggiunge il Kyūshū, una delle isole maggiori del Giappone.

Diverse ondate migratorie

La maggior parte delle ricerche antropologiche sugli antichi abitanti del Giappone suggeriscono che le isole nipponiche siano state occupate in almeno due ondate migratorie; la più recente si è verificata circa 2.300 anni fa tra Corea e Giappone.

Per quanto riguarda il flusso migratorio più antico, le analisi della morfologia dentale degli antichi giapponesi suggerirebbero che le isole maggiori siano state popolate circa 30.000 anni fa da individui provenienti da Okinawa; la genetica, invece, propone l’ipotesi di un arrivo precedente, circa 40.000 anni fa, frutto di un’ondata migratoria partita dalla Siberia.

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Lo scenario più probabile è che le isole maggiori del Giappone siano state occupate da migrazioni provenienti dalla Siberia, dalla Corea e da Taiwan, e non da un singolo evento migratorio localizzabile con precisione. Alcuni archeologi ritengono inoltre che i primi abitanti giapponesi siano giunti 100.000 anni fa sfruttando ponti di terre emerse che collegavano la penisola coreana con Honshu e Hokkaido.

Team successfully replicates imagined ancient sea migration from Taiwan to Okinawa
Advanced maritime adaptation in the western Pacific coastal region extends back to 35,000-30,000 years before present
EARLY MAN IN JAPAN

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Coracle, antica imbarcazione fluviale https://www.vitantica.net/2019/07/08/coracle-antica-imbarcazione-fluviale/ https://www.vitantica.net/2019/07/08/coracle-antica-imbarcazione-fluviale/#respond Mon, 08 Jul 2019 00:10:32 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4397 La storia delle imbarcazioni fluviali è ricca di esempi di ingegno: sapersi adattare con i materiali a disposizione era una virtù fondamentale nell’antichità, a maggior ragione quando l’adattabilità poteva fare la differenza tra la vita e la morte.

Anche se la canoa a scafo monossilo è un’ imbarcazione non troppo complessa da realizzare, resistente e adatta all’uso fluviale, in realtà non è il natante più facile e veloce da costruire: è necessario un duro lavoro di scavo, lavoro che può essere mitigato dall’uso del fuoco ma che in ogni caso richiede una buona dose di pazienza.

Un’imbarcazione più semplice e veloce da realizzare è il coracle: anche se meno stabile e resistente di un solido tronco di legno scavato con cura, garantisce il galleggiamento e una certa manovrabilità anche in acque molto basse.

L’origine del coracle

“Coracle” è un termine che deriva dalla parola gallese cwrwgl, presente nella documentazione storica inglese fin dal XVI secolo. Abbiamo tuttavia la certezza che questo genere di imbarcazione sia stato utilizzato per millenni dagli abitanti delle isole britanniche.

In Scozia sono stati ritrovati resti di imbarcazioni molto simili ai coracle inglesi del XVI secolo e databili alla prima Età del Bronzo. Queste imbarcazioni non erano impiegate esclusivamente per lo spostamento lungo corsi fluviali, ma anche per la pesca: coppie di coracle si dedicavano alla cattura di pesci d’acqua dolce distendendo una rete che veniva tenuta saldamente con una mano, mentre la mano libera veniva impiegata per manovrare un remo.

Le più antiche istruzioni per la realizzazione di un coracle è contenuta in una tavoletta cuneiforme mesopotamica risalente a circa 4.000 anni fa: le istruzioni fanno riferimento alla costruzione di un quffa (noto come “coracle iracheno”) ordinata da Enki ad Atra-Hasis per salvare l’uomo dal Grande Diluvio.

Coracle indiano usato presso le cascate di Hogenakkal
Coracle indiano usato presso le cascate di Hogenakkal

Anche gli indiani realizzavano coracle, più bassi e larghi di quelli inglesi, fin dall’epoca preistorica. Ancora oggi sulle cascate di Hogenakkal si usano coracle larghi da 2 a 3 metri per trasportare turisti o per la pesca di fauna ittica d’acqua dolce.

La struttura del coracle

La struttura tipica di un coracle europeo è costituita da un reticolo di rami di salice tenuti insieme da corteccia estratta dallo stesso albero. Il telaio viene quindi ricoperto da pelle animale, tradizionalmente cuoio bovino, rivestita da catrame di conifere o di betulla.

I coracle di origine orientale hanno un telaio di bambù, materiale ideale per flessibilità e resistenza, e sono anch’essi rivestiti di pelle e impermeabilizzati tramite l’uso di resina o di olio di cocco.

Le strisce di betulla (o frassino) che formano il telaio, lunghe mediamente 2-2,5 metri, vengono immerse in acqua per circa una settimana prima del loro utilizzo, per aumentarne la flessibilità.

Le bull boat nordamericane, un mix di tecnologia nativa ed europea, avevano un telaio di ossa di bisonte (Lewis e Clark descrivono un coracle dal telaio composto da 15 costole di bisonte) e una copertura impermeabilizzata di pelle estratta dallo stesso animale.

Il coracle ha una forma arrotondata, spesso tondeggiante o ovale, che ricorda quella di un guscio di noce. Il fondo dell’imbarcazione è piatto e fornisce allo scafo un pescaggio molto limitato, spesso di soli pochi centimetri rispetto alla superficie dell’acqua.

Coracle antico custodito al Field Museum of Natural History, Chicago
Coracle antico custodito al Field Museum of Natural History, Chicago

Ogni coracle viene costruito specificamente per le condizioni fluviali che dovrà affrontare. Ad esempio, i coracle costruiti per affrontare il fiume gallese Teifi hanno un fondo piatto adatto ad affrontare rapide; quelli realizzati per il fiume Tywi, invece, sono più tondeggianti e profondi.

Il design del coracle rende l’imbarcazione poco stabile rispetto ad una canoa. Dato che “siede” sulla superficie dell’acqua invece di solcarla, il coracle può essere spostato facilmente dalle correnti o dal vento e tende ad inclinarsi sulla base degli spostamenti del centro di massa del suo contenuto.

Uso del coracle

I coracle sono imbarcazioni perfette per la pesca in acque basse: disturbano poco la superficie se manovrati da un esperto e possono facilmente essere orientati con un braccio solo, lasciando libera una mano che verrà impiegata per gestire una rete da pesca o impugnare una lancia.

Il coracle può essere facilmente trasportato sulla terraferma da una persona sola, caricandolo sulle spalle o sopra la testa. La trasportabilità è un aspetto molto importante, dato che la maggior parte dei coracle sono di dimensioni tali da poter ospitare solo un occupante (anche se in India non è raro che coracle di 2,5 metri di diametro riescano a trasportare fino a otto persone).

I quffa che ancora oggi percorrono il Tigri o l’Eufrate, usati da almeno 3.000 anni e per nulla differenti in quanto a struttura da quelli europei, possono raggiungere il diametro di 5,5 metri e trasportare fino a 4-5 tonnellate di carico.

Un coracle pesa generalmente tra i 15 e i 20 kg, caratteristica che rendeva queste imbarcazioni un mezzo di trasporto ideale per i viaggi solitari di cacciatori di pelli ed esploratori.

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Coracle
The Tradition of Coracle Fishing in Wales
Coracles: The surprising history of Britain’s strangest boat
Pagine dedicate alla Marina Militare e Mercantile ed alla marineria etnica e storica

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La navigazione oceanica polinesiana senza strumenti https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/ https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/#comments Mon, 08 Apr 2019 00:03:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3881 Di recente ho affrontato il tema della spedizione Kon-Tiki, una missione volta a dimostrare che i primi popoli polinesiani fossero giunti dal Sud America a bordo di zattere e senza alcuna tecnologia di navigazione.

Come citato in questo articolo sulla Kon-Tiki, le culture polinesiane sono note da secoli per la loro straordinaria abilità di navigare l’oceano senza l’uso di strumentazione moderna come bussole, sestanti o dispositivi satellitari; spesso non possono nemmeno fare affidamento sulla navigazione costiera, considerate le enormi distanze che spesso separano un’isola dall’altra.

Come è possibile coprire lunghe distanze per mare senza alcuno strumento di navigazione moderno? Nainoa Thompson della Polynesian Voyaging Society, allievo del celebre navigatore micronesiano Mau Piailug (scomparso nel 2010 all’età di 78 anni), afferma che la “bussola stellare” utilizzata dai polinesiani sia così efficace da permettere un orientamento pressoché perfetto anche senza alcuno strumento.

Gli insegnamenti di Mau Piailug

La bussola stellare è un costrutto mentale utilizzato per la navigazione: identificando le stelle, memorizzando il loro percorso e conoscendo direzione e velocità di navigazione, è possibile determinare la propria posizione nell’oceano.

“Come determiniamo la direzione? Usiamo i migliori indizi a partire da ciò che abbiamo a disposizione” spiega Thompson. “Usiamo il sole quando è basso sull’orizzonte. Mau ha stabilito nomi diversi in base alle dimensioni del sole e alle differenti colorazioni dell’acqua in corrispondenza del percorso solare. Quando il sole è basso, il percorso disegnato sull’acqua è stretto; quando è alto sull’orizzonte diventa sempre più largo. Quando il sole è troppo alto non si può determinare dove sia sorto e occorre basarsi su altri elementi”.

Bussola stellare polinesiana
Bussola stellare polinesiana

“L’alba è il momento più importante della giornata. All’alba si inizia ad osservare la forma dell’oceano, il carattere del mare. Si memorizza la direzione del vento. Il vento genera onde sulla superficie marina. Al tramonto si ripete l’osservazione. Il sole si abbassa e si guarda la forma delle onde. E’ cambiato il vento? Sono cambiate le onde oceaniche? Durante la notte si usano le stelle. Usiamo circa 220 stelle, memorizzando dove sono sorte e dove tramontano”.

“Quando sono tornato dal mio primo viaggio da Tahiti alle Hawaii come apprendista navigatore, Mau mi invitò in camera e mi disse: sono molto orgoglioso del mio studente. Hai fatto un buon lavoro, per te e per il tuo popolo. Tutto ciò che devi vedere è nell’oceano ma ti occorreranno altri vent’anni per vederlo”.

“Quando è nuvoloso e non si possono usare sole o stelle si può soltanto fare affidamento sulle onde. Uno dei problemi è che quando il cielo si oscura sotto nuvole pesanti durante la notte non si possono vedere le increspature della superficie marina. Non si riesce nemmeno a vedere la prua della canoa. Ed è in questa circostanza che persone come Mau si dimostrano così esperte. Anche se si trovasse all’interno dello scafo percepirebbe le onde del mare muoversi sotto la canoa e potrebbe determinare la direzione dell’imbarcazione. Io non riesco a farlo”.

La bussola stellare

La navigazione polinesiana usa il sole come punto di riferimento per la navigazione diurna. Due volte al giorno, all’alba e al tramonto, il sole fornisce un punto di riferimento per orientarsi in mare.

Per mantenere una rotta precisa il navigatore si allinea con i punti in cui il sole sorge o tramonta grazie a 16 segni sulla canoa, 8 per ogni lato, accoppiati con un singolo punto sulla poppa della canoa.

Le stelle del cielo notturno sorgono e tramontano in particolari direzioni. Il navigatore mantiene la rotta orientando la canoa verso le stelle che sorgono o tramontano nella direzione desiderata, effettuando continue correzioni per compensare la direzione del vento e il moto ondoso.

Bussola stellare polinesiana

“La Croce del Sud è molto importante per noi” spiega Thompson. “Sembra un aquilone. Due stelle sella Croce del Sud puntano sempre a sud (Gacrux e Acrux). Se si sta viaggiando in canoa verso sud, quelle stelle sembreranno spostarsi sempre più in alto nel cielo notturno. […] Se ci si dirige a nord verso le Hawai’i, ogni notte la Croce del Sud si sposta nel cielo seguendo un arco sempre più basso sull’orizzonte”.

Per trovare correttamente la direzione, i polinesiani usano coppie di stelle differenti in base all’emisfero in cui si trovano: una linea immaginaria tra queste coppie determinerà il nord o il sud.

La Luna

Anche la Luna segue un’eclittica, un percorso apparente sulla volta celeste, completando il suo ciclo in 29,5 giorni. Nel calendario tradizionale hawaiano, il mese lunare era determinato da questo ciclo e dal susseguirsi delle fasi lunari.

Il ciclo lunare veniva diviso in tre periodi di 10 giorni, chiamati “ho’onui“, “poepoe” e “‘emi“, a loro volta suddivisi in “fasi” in base alla visibilità del nostro satellite naturale.

Confrontando le fasi lunari, la posizione della Luna e quella delle stelle conosciute consentiva di determinare con una certa precisione la posizione nell’oceano e la rotta da seguire.

Il moto ondoso
"Mappa" che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine
“Mappa” che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine

Le onde generate da venti forti, più precisamente quelle che sono prodotte dalle tempeste e tendono a persistere oltre la durata del fenomeno atmosferico che le ha create, hanno una direzione più stabile rispetto a quelle generate dalla brezza marina o da venti locali.

Talvolta è più semplice percepire un’onda di questo tipo piuttosto che vederla. Le tempeste che nascono nel Pacifico del sud durante l’estata hawaiana tendono a generare un moto ondoso che punta a sud; quelle invece che si scatenano durante l’inverno nel Pacifico del nord producono onde che puntano nella direzione opposta.

Qesto tipo di moto ondoso può cambiare direzione con il tempo seguendo lo spostamento della tempesta che lo ha generato. E’ per questo che i polinesiani preferiscono incrociare le informazioni sul moto ondoso con quelle raccolte dall’osservazione delle stelle, ottenendo misurazioni più affidabili.

Navigazione imprecisa ma corretta

Navigare senza strumenti è un’operazione che porta a inevitabili errori di precisione. Conservare nella memoria tutte le informazioni necessarie a determinare la corretta posizione nell’oceano non è affatto facile; anche riuscendo a farlo, si commetteranno inevitavbilmente errori di approssimazione.

I navigatori polinesiani tuttavia non cercavano di navigare verso la loro destinazione con accuratezza assoluta. Le isole del Pacifico si trovano spesso in “cluster”, gruppi che possono estendersi anche per centinaia di chilometri.

I navigatori polinesiani facevano affidamento sull’avvistamento di questi cluster per correggere la loro rotta e puntare con più accuratezza la loro destinazione: l’arcipelago di Tuamotu, ad esempio, si estende per oltre 600 chilometri da nord a sud e per altrettanti chilometri da est a ovest.

Il "triangolo polinesiano", una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione
Il “triangolo polinesiano”, una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione

Viaggiando da Tahiti alle Hawaii (il viaggio effettuato da Mau Piailug e Thompson) è possibile fare rotta verso una direzione generica in un cono di circa 500 chilometri compreso tra le isole Manihi e Maupiti: raggiungendo una delle isole intermedie, il navigatore può orientarsi con più precisione e raggiungere la sua effettiva destinazione senza troppe difficoltà.

Se si dovesse capitare in un vasto tratto di mare tra due o più isole non visibili ad occhio nudo, i polinesiani cercavano di localizzare indizi di vicinanza con la terraferma, come vegetazione galleggiante, gruppi di nubi che tendono a concentrarsi sopra i picchi delle isole, uccelli marini o particolari caratteristiche del moto ondoso.

Polynesian Voyaging Society: Summary Wayfinding, or Non-Instrument Navigation

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La spedizione Kon-Tiki https://www.vitantica.net/2019/04/03/spedizione-kon-tiki/ https://www.vitantica.net/2019/04/03/spedizione-kon-tiki/#respond Wed, 03 Apr 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3832 Chi raggiunse per primo le isole polinesiane? Ad oggi, questa domanda non ha una risposta certa. Ma i tentativi di ricostruire l’arrivo dei primo esseri umani sulle isole del Pacifico, avvenuto intorno al 1200, non sono stati pochi nel corso della storia recente: è ormai oltre un secolo che gli archeologi cercano di spiegare come i primi abitanti della Polinesia avessero potuto percorrere una distanza così vasta via mare per sbarcare su atolli sperduti.

L’ipotesi di Thor Heyerdahl

Una delle ipotesi più affascinanti viene dall’archeologia sperimentale e da un viaggio compiuto dall’esploratore norvegese Thor Heyerdahl: Heyerdahl sosteneva che i primi abitanti polinesiani fossero giunti dal Sud America in epoca precolombiana partendo dal Perù e viaggiando via mare su imbarcazioni semi-primitive, basando la sua ipotesi su un’antica leggenda degli abitanti dell’Isola di Pasqua, quella relativa alla lotta tra gli Hanau epe (“orecchie lunghe”) e gli Hanau momoko (“orecchie corte”).

Secondo l’interpretazione di Heyerdahl, il mito narra che gli Hanau momoko facessero parte di una seconda ondata migratoria di nativi americani provenienti dalla costa occidentale peruviana, preceduta da una prima ondata che portò gli Hanau epe sulle stesse isole; dopo un periodo di convivenza pacifica, i due gruppi entrarono in conflitto nel XVII secolo per ragioni ancora parzialmente misteriose.

La maggior parte degli storici moderni è concorde sul fatto che, in realtà, il mito di Hanau epe sia soltanto una leggenda legata a scontri tribali e lotte di classe degli abitanti dell’isola. L’analisi genetica dei nativi di Rapa Nui, tuttavia, ha evidenziato che esiste nel loro genoma l’8% di DNA nativo americano, penetrato nel loro patrimonio genetico tra il XIII e il XV secolo.

E’ possibile che Heyerdahl avesse ragione? Non possiamo dichiararlo con certezza. Possiamo tuttavia affermare che il viaggio dal Perù alle isole polinesiane era alla portata degli antichi peruviani, come dimostrerebbe la spedizione Kon-Tiki.

La spedizione Kon-Tiki

Per aggiungere una prova sperimentale alla sua ipotesi, Heyerdahl decise di imbarcarsi in un’impresa senza precedenti: attraversare il Pacifico a bordo di un’imbarcazione realizzata con tecnologie e materiali a disposizione dei peruviani del XIII secolo.

La zattera Kon-Tiki esposta al Museo di Oslo
La zattera Kon-Tiki esposta al Museo di Oslo

Il corpo principale dell’imbarcazione era composto da nove tronchi di balsa lunghi 14 metri e dal diametro di 60 centimetri, legati tra loro con corde di canapa. Per mantenere solida la struttura, altri tronchi di balsa lunghi oltre 5 metri e larghi 30 centimetri furono disposti trasversalmente a intervalli di 91 centimetri.

L’albero principale era alto 8 metri e sorretto da un telaio a forma di “A”. La vela era lunga 4,6 metri, alta 5,5 e sorretta da fusti di bambù, un materiale utilizzato anche per ricoprire il ponte dell’imbarcazione.

A poppa fu costruita una cabina di bambù lunga 4,3 metri, larga 2,4 metri e alta da 1,2 a 1,5 metri, dotata di un tetto di foglie di banano. Il timone, realizzati in legno di mangrovia e abete, era lungo quasi sei metri.

Per costruire la zattera non furono impiegati chiodi, viti o materiali metallici, ma solo legname, bambù e corde di canapa. Gli unici elementi moderni a bordo erano la radio, le batterie che la alimentavano, un generatore elettrico a manovella, un sestante e una bussola, tecnologia di certo non disponibili ai navigatori polinesiani del 1200 ma indispensabili per garantire la sopravvivenza dell’equipaggio

Per garantire la sopravvivenza dei sei membri dell’equipaggio, a bordo furono immagazzinati 1.040 litri d’acqua in 56 contenitori e diversi fusti di bambù, per testare l’efficacia di contenitori antichi e moderni. Furono inoltre caricati decine di noci di cocco, patate dolci e frutta assortita; l’esercito americano fornì anche razioni di cibo di sopravvivenza.

Il viaggio della Kon-Tiki

La Kon-Tiki partì da Callao, Perù, il 28 aprile 1947 scortata per circa 80 km dalla marina peruviana per evitare il traffico costiero. Trasportata dalla corrente di Humboldt, iniziò quindi a navigare verso Ovest a vela spiegata solcando il Pacifico in solitaria.

Il percorso della spedizione Kon-Tiki
Il percorso della spedizione Kon-Tiki

Il primo avvistamento di un’isola si verificò il 30 luglio: l’equipaggio riuscì ad intravedere l’atollo di Puka-Puka, ma non sbarcò preferendo proseguire verso l’atollo di Angatau, dove furono impossibilitati a sbarcare per via della conformazione dell’isola.

Il 7 agosto il viaggio giunse al termine quando la zattera colpì il reef che circondava l’isola disabitata di Raroia, facente parte del gruppo di atolli di Tuamotu. L’equipaggio aveva percorso quasi 7.000 chilometri in 100 giorni ad una velocità media di 1,5 nodi (circa 2,8 km/h).

L’equipaggio era stanco ma in salute: durante la navigazione aveva avuto occasione di pescare pesce in abbondanza e il consumo di scorte alimentari era in linea con le previsioni di Heyerdahl.

Dopo qualche giorno sull’atollo deserto, l’equipaggio fu raggiunto dalle canoe degli abitanti di un villaggio posto su un atollo vicino, allarmati dallo spiaggiamento sulle loro spiagge di alcune parti della Kon-Tiki. Heyerdahl e i suoi compagni furono condotti in salvo nel villaggio per poi essere trasferiti a Tahiti dalla goletta Tamara.

Una spedizione apripista

La Kon-Tiki aprì la strada ad altre spedizioni simili: nel 1954 William Willis si imbarcò sulla zattera Seven Little Sisters viaggiando dal Perù a Samoa, percorrendo 10.800 km; in un secondo viaggio dieci anni dopo, la stessa imbarcazione viaggiò per 12.000 km dal Sud America all’Australia.

La Kantuta, ideata dall’esploratore ceco Eduard Ingris, tentò di replicare il viaggio della Kon-Tiki nel 1955 ma fallì; quattro anni dopo costruì la Kantuta II, riuscendo a raggiungere la Polinesia.

spedizione Kon-Tiki

Il navigatore francese Éric de Bisschop tentò invece di fare il viaggio da Tahiti al Cile a bordo di una zattera polinesiana, la Tahiti-Nui. Partì nel novembre del 1956 da Papeete in compagnia di altre cinque persone e raggiunse le Isole di Juan Fernandez cilene nel maggio 1957.

Nel 1973 lo spagnolo Vital Alsar condusse la “spedizione Las Balsas”, l’unica spedizione di zattere multiple sul Pacifico nella storia recente volta a dimostrare che gli antichi navigatori conoscessero le correnti oceaniche quanto gli esseri umani moderni conoscono la rete stradale.

Nel novembre 2015 è stata organizzata una spedizione commemorativa della Kon-Tiki, la Kon-Tiki2, composta da due imbarcazioni, la Rahiti Tane e la Tupac Yupanqui, ed altrettanti equipaggi internazionali. L’obiettivo era quello di replicare il viaggio effettuato da Heyerdahl aggiungendo il percorso di ritorno.

Ognuna delle due zattere era composta da 11 tronchi di balsa tenuti insieme da circa 2 km di corde di canapa. Dopo aver incontrato condizioni avverse e onde alte fino a sei metri, gli equipaggi furono costretti ad abbandonare le imbarcazioni salendo a bordo della Hokuetsu Ushaka dopo 115 giorni di navigazione.

Le obiezioni alla spedizione

Lo scetticismo sulla capacità di navigazione degli antichi polinesiani è sempre vivo, fin da prima della spedizione di Thor Heyerdahl.

Dal punto di vista geografico, la Polinesia è la nazione più vasta del pianeta: si tratta di oltre un migliaio di isole disperse in milioni di chilometri quadrati di oceano, ben più grande della superficie Russia, Canada e Stati Uniti.

Gli abitanti delle isole sono linguisticamente connessi da idiomi comprensibili anche a migliaia di chilometri di distanza, tra culture che apparentemente non hanno mai avuto contatti per svariati secoli.

James Cook dimostrò questa connessione linguistica portando Tupaia, il gran sacerdote di Tahiti, fino all’isola di Ra’iatea, ad oltre 3.000 chilometri di distanza, scoprendo che poteva comprendere perfettamente il linguaggio degli isolani.

E’ quindi indubbio che ci siano affinità non solo linguistiche ma anche culturali tra le popolazioni delle isole polinesiane. E’ tuttavia molto più difficile dimostrare il perché esistano queste connessioni e come si siano originate.

Sir Peter Buck, in origine noto col nome maori Te Rangi Hiroa, presentò nel 1938 una prima ipotesi sulla migrazione di popoli dal sud-est asiatico, popoli che divennero in seguito gli abitanti della Polinesia. Le sue teorie non fugarono i dubbi degli antropologi, ma ad oggi sembrano più fondate dell’ipotesi di Heyerdahl.

La Hōkūle‘a
La Hōkūle‘a

Sappiamo infatti che i polinesiani raggiunsero le Americhe, ma non abbiamo alcuna prova di un viaggio in direzione opposta se non una componente genetica presente nella popolazione delle isole del Pacifico.

I polinesiani riuscivano a navigare per lunghissime distanze orientandosi con il sole, le stelle e una profonda conoscenza delle correnti oceaniche, elementi che, come dimostrato dal viaggio di Mau Piailug del 1976, erano sufficienti a coprire migliaia di miglia marine.

Mau Piailug, esperto di navigazione senza strumenti, si imbarcò sulla Hōkūle‘a (una canoa a doppio scafo costruita dalla Polynesian Voyaging Society) nelle Hawaii senza alcuno strumento di navigazione e riuscì a raggiungere Tahiti, fornendo ulteriore supporto ad un’ipotesi differente da quella di Heyerdahl: i polinesiani provenivano dall’ Asia, non dalle Americhe.

Kon-Tiki expedition
How the Voyage of the Kon-Tiki Misled the World About Navigating the Pacific

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William Adams, il primo samurai europeo https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/ https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/#respond Fri, 22 Mar 2019 00:10:50 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3819 Molti di voi avranno visto il film “L’ultimo samurai”, che dipinge le gesta di un americano dall’indomito spirito guerriero divenuto samurai dopo essere caduto preda del fascino dei famigerati guerrieri giapponesi.

Se istintivamente avete scartato l’ipotesi che uno straniero potesse diventare samurai in un Giappone conservatore e legato indissolubilmente alle antiche tradizioni, la realtà è che nel corso dei secoli passati i samurai di origine non nipponica furono diversi, primo tra tutti William Adams.

Adams non fu il primo samurai straniero della storia del Giappone: fu probabilmente preceduto da un africano, Yasuke, che servì sotto Oda Nobunaga 20 anni prima dell’arrivo dell’inglese. E’ anche accertato che alcuni coreani e cinesi ottennero il titolo di samurai durante il periodo Sengoku, ma Adams fu certamente il primo samurai europeo della storia.

Una vita da marinaio

William Adams era originario di Gillingham, Inghilterra. Nato nel settembre del 1564, rimase orfano di padre all’età di 12 anni e venne preso come apprendista dal costruttore di navi Nicholas Diggins. Adams trascorse i successivi 12 anni imparando il mestiere del marinaio, e molte altre nozioni utili alla vita sul mare come l’astronomia, la navigazione e le tecniche costruttive dei vascelli inglesi.

Dopo essersi arruolato, Adams servì la Marina Reale sotto nientemeno che Sir Francis Drake, il famoso corsaro e navigatore inglese. Partecipò anche alle manovre di contrasto dell’ Invincibile Armata spagnola nel 1588 a bordo del vascello di supporto Richarde Dyffylde.

Terminata la guerra, Adams fu assunto come navigatore della Barbary Company, una compagnia commerciale creata dalla regina Elisabetta I nel 1585 che per circa 12 anni potè godere di un trattato commerciale esclusivo con il Marocco.

Secondo le fonti gesuite, Adams partecipò anche ad una spedizione diretta verso Oriente durata circa due anni, alla ricerca del Passaggio a nord-est lungo la costa della Siberia; in una sua lettera autobiografica, tuttavia, Adams non cita mai la sua partecipazione all’impresa.

La flotta su cui era imbarcato Adams: la "Blijde Bootschap", la "Trouwe", la "T Gelooue", la "Liefde" e la "Hoope"
La flotta su cui era imbarcato Adams: la “Blijde Bootschap”, la “Trouwe”, la “T Gelooue”, la “Liefde” e la “Hoope”

All’età di 34 anni, Adams prese parte nel ruolo di pilota ad una spedizione mercantile olandese verso il Sud America, nella speranza di vendere il carico della flotta in cambio di argento.

La piccola flotta di cinque navi salpò da Rotterdam nel 1598; come piano di riserva in caso di fallimento della spedizione era previsto di far rotta verso il Giappone per ottenere argento da utilizzare per acquistare spezie nelle Molucche prima di tornare in Europa.

La spedizione fu un fallimento: in corrispondenza del’isola di Annobòn la flotta fu attaccata e costretta a dirigersi verso lo Stretto di Magellano; flagellata dal tempo e dai capricci dell’Atlantico, solo tre navi riuscirono a superare lo stretto.

Ben presto la flotta si ridusse ad una sola nave dopo che l’equipaggio della Hoope fu sterminato da un tifone in prossimità delle Hawaii nel febbraio del 1600 e la Trouw fu attaccata in Indonesia da navi portoghesi nel 1601.

L’arrivo in Giappone

Quasi due anni dopo aver girovagato per il Pacifico, Adams, a bordo dell’ultima nave della spedizione, la Liefde, si ritrovarò a sbarcare sull’isola di Kyushu in Giappone in compagnia di un equipaggio di soli 20 uomini malati e stanchi.

Il carico della nave consisteva in tessuti, perle di vetro, specchi, utensili di metallo, chiodi, 19 cannoni di bronzo, 5.000 palle di cannone, 500 moschetti e tre bauli pieni di cotte di maglia.

William Adams incontra Tokugawa Ieyasu
William Adams incontra Tokugawa Ieyasu in una mappa del Giappone del 1707 di Pieter van der Aa

Dopo essersi ripreso dal viaggio, l’equipaggio della Liefde si spostò a Bungo (nell’attuale prefettura di Oita). Qualche giorno dopo lo sbarco, Adams e l’equipaggio furono imprigionati nel castello di Osaka per ordine diretto di Tokugawa Ieyasu: alcuni gesuiti portoghesi suggerirono che i nuovi arrivati fossero pirati e consigliarono al daimyo di Edo di giustiziare l’intero equipaggio.

Ma fu proprio l’incontro con Ieyasu che cambiò in meglio la sorte di Adams: considerata la vasta esperienza dell’inglese nella costruzione di navi e nella navigazione, il futuro shogun decise di liberare l’equipaggio dopo aver attentamente valutato le conversazioni avute con il marinaio inglese durante i tre interrogatori che precedettero la sua liberazione.

Il rapporto tra Adams e Ieyasu

Nel 1604, Tokugawa chiese ad Adams di costruire una nave in stile occidentale per Mukai Shogen, comandante in capo della flotta di Uraga. I lavori, condotti nel porto di Ito, portarono alla costruzione di un vascello di otto tonnellate, al quale fece seguito una nave di 120 tonnellate, simile alla Liefde, rinominata successivamente “San Buena ventura“.

La costruzione di queste due navi fece entrare Adams nelle grazie di Tokugawa. Ma mentre la maggior parte dell’equipaggio ottenne il permesso di lasciare il Giappone nel 1605, ad Adams non fu concesso di lasciare il Paese fino al 1613, anche se l’inglese decise di non fare più ritorno in Europa per il resto della sua vita.

Ritratto di Adams dal "Black Ship Scroll"
Ritratto di Adams dal “Black Ship Scroll”

Durante la sua permanenza alla corte di Tokugawa, Adams assunse presto il ruolo di diplomatico, diventando consigliere personale dello shogun per le questioni commerciali e ogni attività connessa ai contatti con il mondo occidentale. Dopo pochi anni Adams sostituì il gesuita João Rodrigues nel ruolo di interprete ufficiale dello shogun.

Adams ottenne infine il titolo di samurai. Lo shogun decretò che il pilota William Adams era defunto e che era nato un nuovo samurai: Miura Anjin.

La carica rendeva di fatto Adams un servitore ufficiale dello shogunato e annullava ogni legame con la sua patria d’origine: Adams inviò regolarmente somme di denaro alla moglie e ai figli rimasti in Inghilterra sfruttando i contatti commerciali con le compagnie olandesi e inglesi, ma non riuscì mai più a ricongiungersi con la sua famiglia.

Adams ricevette anche la carica di “hatamoto“, un titolo estremamente prestigioso che consentiva al vassallo di conferire direttamente con lo shogun.

Una nuova vita in Giappone

Ad Adams fu assegnato un feudo a Hemi (in corrispondenza dell’odierna città di Yokosuka), con un seguito di schiavi e servitori composto da 80-90 persone. Le sue proprietà furono valutate a circa 250 koku: un koku corrispondeva alla quantità di riso necessaria a sfamare una persona per un anno.

Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613
Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613

Dato che il suo nuovo rango recideva ogni legame con la sua vita in Inghilterra, Adams sposò Oyuki, la nipote adottiva dell’ufficiale governativo Magome Kageyu, avendo da lei Joseph e Susanna.

Considerata la presenza di cattolici nel Giappone del XVII secolo e il fatto che Adams fosse protestante, l’inglese fu bersaglio di numerose campagne di discredito ordite dai gesuiti: inizialmente si tentò di convertirlo, in seguito gli si offrì segretamente un modo per fuggire dal Giappone a bordo di una nave portoghese, offerta che Adams non accettò mai anche dopo la caduta del divieto di lasciare il Sol Levante imposto per anni da Ieyasu.

La vita di Adams divenne quella di un vero e proprio giapponese: ottenne il rispetto dell’intero Giappone e imparò ad apprezzare un popolo così differente dai costumi occidentali. Parlava correntemente giapponese e vestiva secondo la moda giapponese, tanto da essere stato definito da commercianti inglesi come “un giapponese naturalizzato”.

Nel corso della sua vita partecipò a diverse spedizioni in Asia nel ruolo di ambasciatore, specialmente in Siam e Vietnam, e creò un punto di scambio commerciale in Giappone per conto della Compagnia delle Indie orientali britannica.

Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki
Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki

Adams morì nel 1620 a Hirado, a nord di Nagasaki, all’età di 55 anni. La sua tomba è visibile ancora oggi, al fianco della tomba di Francis Xavier, missionario cattolico spagnolo. Nel suo testamento lasciò scritto di distribuire i suoi possedimenti e il suo patrimonio tra la famiglia lasciata in Inghilterra e la famiglia che aveva costruito in Giappone.

Ogni anno, il 15 giugno, viene celebrata la sua figura storica ad Anjin-cho, oggi chiamata Nihonbashi. Nella città di Ito, invece, ogni anno viene celebrato il Miura Anjin Festival il 10 agosto; in quello che fu un tempo il suo feudo, un villaggio e una stazione ferroviaria portano un nome che evoca il passaggio di Adams: Anjinzuka.

William Adams (sailor, born 1564)
Will Adams, The First Englishman in Japan
William Adams, the First Englishman in Japan

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Documentario: Le storie di Tutku https://www.vitantica.net/2018/12/21/documentario-le-storie-di-tutku/ https://www.vitantica.net/2018/12/21/documentario-le-storie-di-tutku/#respond Fri, 21 Dec 2018 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3069 Tra tutti i popoli che vivono in Nord America, gli Inuit sono probabilmente i più difficili da comprendere per un invididuo civilizzato. Vivendo in una striscia di terra lunga 5.000 chilometri che va dallo Stretto di Bering alla Groenlandia, i contatti tra Inuit e mondo moderno sono stati praticamente inesistenti fino al termine del XIX secolo.

Contrariamente al resto dei nativi americani, le cui culture e tradizioni sono da secoli oggetto di numerosissime interpretazioni (talvolta errate) da parte dell’opinione pubblica e della scienza, gli Inuit sono rimasti pressoché sconosciuti per la maggior parte della loro storia, anche se nel XX secolo hanno spesso attratto l’attenzione per le loro tradizioni, come la caccia alla foca.

Gli Inuit non vivono soltanto in una delle regioni più difficili e remote del pianeta, ma stanno subendo una distruzione sistematica del loro stile di vita tradizionale, eroso dalla modernità e da concetti del mondo moderno che hanno poco o nulla a che vedere con la sopravvivenza tra i ghiacci.

Anche se il freddo, i cani da slitta e gli igloo sono stati sostituiti da stufe elettriche, motoslitte e prefabbricati, è possibile avere uno scorcio delle antiche tradizioni Inuit grazie alla serie “Le storie di Tuktu“, documentari di 15 minuti filmati nel 1967 dal regista canadese Laurence Hyde.

Hyde ha incontrati gli Inuit Netsilik canadesi quando il loro stile di vita non era stato ancora “corrotto” dalla modernità. I Netsilik erano tradizionalmente cacciatori e pescatori: non avendo piante commestibili nel loro territorio, cibo e materiali di prima necessità provenivano quasi esclusivamente da animali.

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Durante i mesi estivi, i Netsilik cacciavano i caribù che vagavano nella tundra, ottenendo carne e pelli indispensabili per la sopravvivenza autunnale e invernale. In inverno, invece, i Netsilik migravano verso il ghiaccio per la caccia alle foche e per la pesca ai salmerini, conservando il surplus alimentare all’interno di blocchi di ghiaccio.

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La serie “Le storie di Tuktu” è una docu-fiction che ha come protagonista Tuktu, un anziano Inuit che, nel corso degli episodi, ricorda lo stile di vita tradizionale dei Netsilik. In ogni puntata viene analizzato un aspetto della vita quotidiana: dalla caccia alla pesca, dalla costruzione di slitte, kayak e igloo all’addestramento dei cani da slitta.

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