medicina – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Rimedio medievale efficace contro batteri resistenti ad antibiotici https://www.vitantica.net/2020/08/05/rimedio-medievale-efficace-contro-batteri-resistenti-ad-antibiotici/ https://www.vitantica.net/2020/08/05/rimedio-medievale-efficace-contro-batteri-resistenti-ad-antibiotici/#respond Wed, 05 Aug 2020 00:38:27 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4961 Il libro delle ricette mediche di Bald (Bald’s Leechbook) contiene numerosi medicamenti tradizionali risalenti al Medioevo. Tra questi rimedi è presente anche una pomata per gli occhi, una mistura di erbe medicinali e ingredienti di origine animale che, come citato in questo post, si è dimostrata capace di contrastare le infezioni da Staphylococcus aureus.

I ricercatori della School of Life Sciences alla University of Warwick hanno anche trovato un altro potenziale utilizzo per questa antica ricetta medica: combattere la crescente resistenza agli antibiotici sviluppata da alcuni microrganismi nocivi in grado di generare biofilm.

Antibiotici e biofilm

Alcuni microrganismi sono in grado di formare ciò che viene definito “biofilm”, una pellicola protettiva formata dalla secrezione di composti polimerici che garantiscono la sopravvivenza di una o più colonie batteriche. Contrariamente al comportamento “planctonico”, in cui ogni cellula si muove in modo indipendente, nel biofilm i microrganismi si attaccano l’uno all’altro dopo aver concordato chimicamente alla formazione di una pellicola protettiva.

Il biofilm non solo fornisce adesione alla superficie che alimenta i microrganismi, o che consente loro di sopravvivere più agevolmente, ma li protegge dalle aggressioni di agenti per loro nocivi. Secondo le ultime ricerche in campo biomedico, circa l’80% delle infezioni registrate in Occidente è legato alla presenza di biofilm microbici, spesso formati da più specie microscopiche che si aiutano a vicenda per sopravvivere.

Ogni colonia che compone un biofilm eterogeneo, chiamato consorzio batterico, svolge le proprie funzioni metaboliche all’interno di una specifica nicchia, senza entrare in conflitto con le altre specie all’interno del biofilm.

I batteri che vivono sotto la protezione di un biofilm hanno caratteristiche differenti da quelli osservabili in forma planctonica: non solo cooperano senza conflitti, ma aumentano la loro resistenza nei confronti di antibiotici e detergenti.

I biofilm sono estremamente comuni in natura. La placca è un biofilm composto da alcuni batteri che popolano il cavo orale, come lo Streptococcus mutans; lo Pseudomonas aeruginosa e lo Staphylococcus aureus possono generare infiammazioni croniche ai polmoni grazie al biofilm che creano, molto difficile da contrastare per il sistema immunitario umano; nelle infezioni del tratto urinario o vaginali si riscontrano comunemente biofilm batterici sempre più difficili da combattere.

La pomata per gli occhi di Bald

Partendo dai risultati ottenuti dalla University of Nottingham nel contrastare lo Staphylococcus aureus usando rimedi medievali, i ricercatori hanno ricreato la pomata per gli occhi del Bald’s Leechbook.

Il medicamento prevede una mistura di aglio, cipolla (o porro) e secrezioni dello stomaco di mucca, da applicare direttamente sugli occhi. L’aglio contiene allicina, il composto che gli conferisce un odore pungente e che ha dimostrato più volte di avere effetti antibiotici (la pianta usa l’allicina per difendersi dai parassiti), ma non si è dimostrato altrettanto efficace nel contrastare i biofilm.

I ricercatori sono quindi giunti alla conclusione che sia il mix di ingredienti, e non l’azione del singolo, a risultare efficace contro i biofilm batterici. Inoltre, modificando le proporzioni indicate nel Bald’s Leechbook, l’efficacia nei confronti dei biofilm tende a diminuire.

“Abbiamo dimostrato che un rimedio medievale composto da cipolla, aglio, vino o bile può uccidere una gamma di batteri problematici sia sotto forma planctonica sia come biofilm” afferma Freya Harrison, dottoressa della School of Life Sciences. “Dato che la mistura non ha causato molti danni alle cellule umane in laboratorio, o su quelle dei topi, possiamo potenzialmente sviluppare un trattamento antibatterico sicuro ed efficace da questo rimedio”.

Efficacia antibatterica

Il rimedio medievale di Bald si è rivelato efficace contro diverse infezioni batteriche: Stenotrophomonas maltophilia (presente in diverse infezioni respiratorie), Acinetobacter baumanii (comune nelle ferite infette dei soldati in guerra), Staphylococcus aureus, Staphylococcus epidermidis (causa comune di infezioni a cateteri e infezioni chirurgiche) e Streptococcus pyogenes (responsabile della faringite, della tonsillite, della scarlattina e della febbre reumatica).

“La maggior parte degli antibiotici che usiamo oggi” spiega Harrison, “derivano da composti naturali, ma il nostro lavoro rende necessario esplorare non solo singoli composti, ma misture di prodotti naturali per il trattamento delle infezioni da biofilm. Pensiamo che le future scoperte di antibiotici derivati da prodotti naturali aumenteranno grazie allo studio di combinazioni di ingredienti, piuttosto che singole piante o composti”.

“Il nostro lavoro” continua Jassica Furner-Pardoe della Medical School alla University of Warwick, “dimostra l’importanza di utilizzare modelli di laboratorio realistici quando si cercano nuovi antibiotici di origine vegetale. Anche se un singolo componente è sufficiente ad uccidere colture batteriche planctoniche, fallisce contro modelli di infezione più realistici, mentre il rimedio completo funziona”.

Medieval medicine remedy could provide new treatment for modern day infections
Ancientbiotics: Medieval Medicines for Modern Infections

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Marijuana e hashish nel medioevo arabo https://www.vitantica.net/2020/03/16/marijuana-hashish-medioevo-arabo/ https://www.vitantica.net/2020/03/16/marijuana-hashish-medioevo-arabo/#respond Mon, 16 Mar 2020 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4808 Il problema di uso e abuso di sostanze psicotrope, siano esse droghe leggere o pesanti, non è un fenomeno moderno. Anche se nell’antichità era molto più facile trovare sostanze (oggi illegali) nei mercati cittadini o dal proprio speziale di fiducia, la loro legalità e i comportamenti originati dal loro abuso furono per secoli oggetto di dibattito.

La marijuana, nel XXI secolo come in passato, ha conosciuto oppositori e sostenitori incalliti. Nel mondo medievale arabo era conosciuta sotto diversi nomi, primo tra tutti “l’ Erba”; la si poteva trovare nei mercati egiziani medievali e veniva impiegata per produrre hashish, consumato quotidianamente da una fetta di popolazione locale tra il XIII e il XV secolo.

Nel suo libro “The Herb: Hashish versus Medieval Muslim Society” (1971), Franz Rosenthal esamina l’uso della marijuana nella società medievale islamica, mostrando un quadro sociale e giuridico non molto differente da quello moderno.

Le droghe nell’ Egitto medievale

I reperti archeologici suggerirebbero che la cannabis fosse presente in Egitto già 5.000 anni fa, ma non si ha alcuna prova del suo utilizzo psicoattivo o ricreativo. La divinità egizia Seshat, dea della saggezza, della scrittura, delle scienze e dell’architettura, viene quasi sempre raffigurata con un emblema a sette punte sopra la testa, un emblema che per alcuni sarebbe riconducibile alla foglia di cannabis.

Secondo H. Peter Aleff, nell’articolo “Seshat and her tools” in cui sostiene che l’emblema della dea sia in realtà una foglia di cannabis:

“Molti egittologi hanno speculato a lungo sull’emblema che Seshat indossa sulla testa. Sir Alan Gardiner lo descrisse nel suo libro ‘Egyptian Grammar’ come un ‘fiore stilizzato (?) sormontato da corna’. Il suo punto interrogativo dopo ‘fiore’ riflette il fatto che non c’è alcun fiore che somiglia a quello. Altri lo hanno chiamato ‘stella sormontata da un arco’, ma le stelle nell’antica iconografia egizia avevano cinque punte, non sette come l’emblema di Seshat. Questo numero era così importante che portò il faraone Tutmosi III a chiamare questa dea ‘Sefkhet-Abwy’, o ‘Quella dalle sette punte'”.

Sappiamo per certo, invece, che l’Egitto iniziò a produrre hashish dalla canapa almeno 9 secoli fa. La prima testimonianza della parola “hashish” appare in un opuscolo pubblicato al Cairo nel 1123 d.C.. Il documento accusava i musulmani del ramo Nizaris, attualmente il più grande gruppo di ismailiti sciiti, di essere dei “mangiatori di hashish”. Il consumo di hashish tramite la combustione, infatti, non divenne comune fino all’introduzione del tabacco nel Vecchio Mondo: fino al 1500 l’hashish prodotto nel mondo islamico veniva ingerito e non fumato.

Storia dell'hashish
Storia dell’hashish

Nel 1596 Jan Huyghen van Linschoten usa tre pagine della sua opera “Reys-gheschrift vande navigatien der Portugaloysers in Orienten” (“Resoconti di viaggio della navigazione portoghese in Oriente”) per descrivere la “bangue” (bhang, una preparazione commestibile della cannabis in uso nel subcontinente indiano).

“Come in India, la bangue è usata anche in Turchia e in Egitto, e viene prodotta in tre qualità chiamate con altrettanti nomi. La prima varietà è quella chiamata Assis (hashish) dagli Egiziani, fatta di polvere o foglie di canapa con l’aggiunta di acqua per ottenere una pasta o un impasto; ne mangiano cinque pezzi, ciascuno grande quanto una noce. L’hashish è usato dalla gente comune per via del suo prezzo basso”

Nell’arco dei secoli i governanti d’Egitto e gli ufficiali locali hanno spesso cambiato idea sul livello di tolleranza da applicare alla marijuana e all’hashish, specialmente per i sottoprodotti della canapa chiamata “canapa indiana”, la più coltivata nei giardini privati egiziani.

In alcuni periodi storici si decise di seguire una linea molto dura, dalla pena di morte per il possesso di hashish ad una procedura estremamente violenta e dolorosa prevista per i consumatori: la rimozione di tutti i molari (su editto dell’ emiro Sudun Sheikuni, anno 1378).

Durante l’epidemia di peste del 1419, invece, gli ispettori dei mercati locali si dimostrarono più tolleranti, ritenendo accettabile la vendita di hashish a patto che le transazioni fossero condotte privatamente a porte chiuse, lontano dai luoghi pubblici e dai mercati.

Il consumo di hashish, tuttavia, divenne sempre più frequente e comune nonostante le policy di controllo imposte dalle autorità: nel XV secolo era possibile consumarlo ovunque, nei bagni pubblici o durante feste private.

Gli oppositori dell’hashish

Anche se i medici medievali erano consapevoli degli effetti positivi della cannabis (la somministravano, ad esempio, per curare l’inappetenza o come diuretico), conoscevano altrettanto bene gli aspetti negativi causati dal consumo abituale, anche se spesso descrivevano le problematiche dell’utilizzo dei prodotti della canapa con esagerazioni prive di alcuna base scientifica o empirica.

Il medico Ibn Wahshiyah, vissuto nel X secolo, consigliò nella sua opera “Il Libro dei Veleni” di usare cautela nella somministrazione di hashish, dato che l’estratto di canapa potrebbe causare la morte se combinato ad altri farmaci.

Az-Zarkashi, medico egiziano del XIV secolo, fornisce una lista completa dei potenziali problemi legati all’uso di hashish:

“Distrugge la mente, riduce la capacità riproduttiva, produce elefantiasi, trasmette la lebbra, attrae malattie, produce tremori, fa puzzare la bocca, secca il seme, causa la caduta delle sopracciglia, brucia il sangue, provoca la carie, fa emergere malattie nascoste, danneggia gli intestini, rende gli arti inattivi, causa fiato corto, genera forti illusioni, diminuisce il potere dell’anima”.

Pensavate fosse finita la lista? Az-Zarkashi aggiunge molto altro:

“Riduce la modestia, rende la carnagione gialla, annerisce i denti, perfora il fegato, infiamma lo stomaco [..] L’hashish genera in coloro che la mangiano pigrizia e indolenza. Trasforma un leone in uno scarabeo e rende umile un uomo orgoglioso, e malato un uomo sano. Se la si mangia, non se ne ha mai abbastanza. Rende sciocche persone dotate di una buona parlantina, e stupidi gli intelligenti. Sottrae ogni virtù maschile e fa terminare la prodezza giovanile. Distrugge la mente, arresta lo sviluppo dei talenti naturali”

Le discussioni sull’hashish in ambito accademico e religioso non mancarono: c’era chi sosteneva che dovesse essere proibito come il vino, dato che si trattava di una sostanza intossicante; altri invece indicavano che il Corano e Maometto non menzionano mai (e di conseguenza non sanzionano) l’uso di marijuana.

Gli studiosi arabi tentarono anche di capire come comportarsi in determinate circostanze legali relative al consumo di cannabis: un uomo può chiedere il divorzio sotto l’effetto di hashish? (La risposta è si) Può alimentare i propri animali con cannabis? (No, a meno che non avesse intenzione di farli ingrassare)

Lo storico arabo al-Maqrizi descrisse il consumo di hashish durante il XV secolo, non mancando di condannare i consumatori abituali che contribuivano a rovinare la società del suo tempo:

“Il carattere e il morale sono diventati incredibilmente vili, il velo di timidezza e vergogna è stato sollevato, la gente usa un linguaggio volgare, si vanta dei propri difetti, ha perso ogni nobiltà e virtù, ha adottato ogni sorta di brutta qualità e vizio. Se non fosse per la loro forma umana, nessuno li considererebbe umani. Se non fosse per la loro percezione dei sensi, nessuno giudicherebbe loro gli esseri viventi”

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Il “movimento Pro-hashish”

Nonostante le condanne dei più severi studiosi e governanti arabi, erano in molti a considerare i prodotti della canapa come vere e proprie medicine, e l’uso ricreativo era molto comune.

I consumatori egiziani del Medioevo, in particolari i dotti che hanno ci hanno lasciato documentazione storica, riportarono spesso gli effetti dell’uso di hashish: letargia, fame, talvolta allucinazioni generalmente positive; c’era anche chi sosteneva che la musica avesse un suono migliore sotto gli effetti della cannabis.

Al-Ukbari, scrittore del XIII secolo apparentemente a favore del consumo di hashish, descrive gli effetti in questo modo:

“Solo le persone intelligenti e buone usano hashish. Quando la si prende, si dovrebbe consumare solo i cibi più leggeri e i migliori dei dolci. Occorre sedersi nei posti più piacevoli e circondarsi degli amici più cari.”

Secondo lo storico Takiy Eddin Makrizy, vissuto nella prima metà del XV secolo, la cannabis (che chiama kounab, hashish o kif) non era una buona abitudine, ma il suo consumo era così diffuso che alcuni contemporanei non esitavano a definirla come “un’istituzione sacra”.

Il testo medico del XVI secolo Makhzan-El-Adwiya celebra invece le virtù mediche dell’hashish:

“Le foglie, tritate fino a polverizzarle e inalate, purificano il cervello; la linfa delle foglie applicata sulla testa elimina la forfora e i parassiti; alcune gocce di succo introdotte nelle orecchie alleviano il dolore e distruggono vermi e insetti. E’ utile contro la diarrea e la gonorrea, limita le emissioni seminali ed è un diuretico. La polvere è raccomandata per applicazioni esterne sulle ferite: le radici o le foglie, bollite e schiacciate, sono eccellenti contro le infiammazioni e neuralgie”

Cannabis in the Islamic Middle Ages
HASHISH IN ISLAM 9TH TO 18TH CENTURY
Getting High in the Middle Ages: Hashish in Medieval Egypt

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Video: come rimuovere una freccia https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/ https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/#respond Wed, 04 Mar 2020 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4843 Come si può rimuovere una freccia medievale incastrata nei tessuti umani? Quanto è complicato rimuovere frecce dotate di barbigli o dalla cuspide non tradizionale? Questo video mostra una particolare tecnica di rimozione delle frecce impiegata durante il Medioevo.

Questa tecnica, esposta dal medico fiammingo Jan Ypermans all’inizio del 1300, prevede l’impiego di due penne d’oca per facilitare le operazioni di estrazione del dardo.

Durante il Medioevo furono definite due principali metodologie di rimozione di una freccia: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

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Ferite da freccia e medicina antica https://www.vitantica.net/2020/03/02/ferite-da-freccia-medicina-antica/ https://www.vitantica.net/2020/03/02/ferite-da-freccia-medicina-antica/#comments Mon, 02 Mar 2020 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4778 Il trattamento delle ferite di guerra rappresentò una delle principali priorità della medicina antica. Sebbene anche i nostri antenati avessero a che fare con problemi di salute del tutto simili ai nostri (malattie, incidenti domestici e malnutrizione erano tra le principali cause di infortuni e decessi), l’avanzata militare degli antichi imperi, la difesa dei confini e il mantenimento dell’ordine interno forzarono i curatori di tutto il mondo a sviluppare tecniche sempre più efficienti per medicare le ferite da trauma.

La tipologia di ferita più diffusa negli antichi ospedali da campo (se così possono essere definiti) era la perforazione da dardi e frecce. Dall’affermazione dell’arco come arma da lancio all’introduzione su larga scala delle armi da fuoco, le perforazioni da freccia non solo erano estremamente comuni sui campi di battaglia di ogni epoca e regione del mondo, ma erano anche molto complesse da medicare.

Contrariamente a ciò che si vede nella cinematografia moderna, estrarre una freccia dal corpo tentando di limitare i danni non era una procedura semplice ed esponeva ad un serie di rischi potenzialmente fatali, tra i quali il danneggiamento di vasi sanguigni e organi vitali o l’insorgere di infezioni difficilmente trattabili con la medicina popolare.

Ferite da freccia estremamente comuni

Secondo stime recenti (vedere le fonti in fondo al post), dal primo utilizzo dell’arco ad oggi il numero di morti causato da frecce è superiore a quello provocato da qualunque altra arma nella storia della guerra.

Nelle “sole” 56 battaglie combattute in Europa nel 1241 dal generale mongolo Subotai si contarono oltre mezzo milione di morti causati da frecce, con altrettanti feriti tra i ranghi degli invasori e delle popolazioni locali intente a difendere i loro territori tradizionali.

Le ferite da freccia furono quindi un’importante “spinta evolutiva” dell’antica ricerca medica. A differenza di un proiettile d’arma da fuoco, una freccia possiede poca energia cinetica pur penetrando a profondità simili a quelle rilevate per armi da fuoco di piccolo-medio calibro.

La cuspide tagliente, unita alla forza dell’impatto, provoca tagli profondi agli organi interni, e non lo spostamento dei tessuti molli osservabile nella penetrazione di un proiettile.

Al momento del contatto con il tessuto osseo, la maggior parte delle frecce tendeva a fermarsi e a scheggiarsi in frammenti difficilmente recuperabili. La frammentazione delle cuspidi complicava enormemente le operazioni d’estrazione, ma allo stesso tempo fornì impeto nella ricerca di metodologie capaci di ripulire le perforazioni dai corpi estranei più evidenti per limitare infezioni e favorire la guarigione.

Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia
Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia

Una cuspide rappresenta un’arma potenzialmente letale anche nella sua forma più semplice, ma nel corso della storia antica furono sviluppate diverse varianti della tradizionale punta di freccia, volte ad aumentare l’efficacia dei dardi. Barbigli, escrescenze taglienti e forme più o meno elaborate forzarono i chirurghi del passato a sviluppare strumenti d’estrazione specificamente legati alla morfologia delle cuspidi.

Secondo gli autori della ricerca “Arrow head wounds: major stimulus in the history of surgery“, gli strumenti operatori legati all’estrazione delle frecce costituirono una delle maggiori spinte propulsive per l’elaborazione della chirurgia moderna.

Uno dei metodi più rudimentali usati per la rimozione di dardi dal corpo è stato osservato a Tonga durante il XIX secolo, e fu probabilmente impiegato migliaia di anni fa in altre regioni del mondo: tramite conchiglie affilare e pezzi di bambù, gli abitanti dell’isola del Pacifico erano in grado di incidere il petto del ferito ed estrarre la freccia dalla sua sede.

Già nel VI – IV secolo a.C. il trattato medico Sushruta Samhita descriveva svariate tecniche di estrazione di una freccia, dall’incisione dei tessuti all’uso di pietre magnetiche. Uno dei metodi descritti prevede anche l’impiego di un uncino metallico in grado di agganciare la cuspide del dardo per facilitarne l’estrazione.

Le punte di freccia incastrate nelle ossa costituivano un problema ancora più serio; il Sushruta Samhita suggeriva un metodo di estrazione estremamente brutale (anche se apparentemente efficace): legare l’estremità di una corda alla cocca della freccia, agganciando l’altra estremità al morso di un cavallo da tiro.

Iatros, specialisti dell’estrazione di frecce

Omero introduce nei suoi poemi una figura chiamata iatros, traducibile come “colui che estrae frecce”. Si trattava di un vero e proprio specialista nell’estrazione di dardi dal corpo, suggerendo che questo genere di traumi fosse molto comune, specialmente in uno scenario bellico.

Dopo aver somministrato vino al paziente nella vana speranza di sedarlo, lo iatros procedeva all’estrazione della cuspide e di eventuali frammenti metallici o lignei, per poi medicare la ferita con bendaggi di lana ed misture anti-infiammatorie a base di piante o miele.

Particolarmente temute erano le frecce degli Sciti, noti per ricoprire le loro cuspidi con una mistura di veleno di serpente e sangue lasciata fermentare in mezzo al letame; se il ferito sopravviveva alla ferita e al veleno di serpente, era molto probabile che dovesse affrontare una gravissima infezione dalle conseguenze spesso fatali.

Dopo l’estrazione della cuspide e di eventuali altri frammenti del dardo, lo iatros succhiava la ferita nel tentativo di estrarre il veleno, trascurando il fatto, oggi noto ma al tempo sconosciuto, che la pratica di succhiare il veleno non ottiene alcun risultato apprezzabile, come spiegato in questo post.

Rimozione per estrazione o per espulsione

Cornelius Celsus, e successivamente Paolo di Egina, identificarono due principali metodologie di rimozione delle frecce: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

La rimozione per expulsionem era sempre preferibile rispetto all’estrazione, perché tendeva a limitare i danni causati agli organi interni e l’allargamento della ferita d’ingresso necessario alla rimozione del dardo. Il procedimento per expulsionem facilitava inoltre l’espulsione di cuspidi dotate di barbigli, che dovevano essere necessariamente recisi prima di un’estrazione per evitare di causare ulteriori danni agli organi interni.

Cornelius Celsus menziona uno strumento specifico per le estrazioni, il cucchiaio di Diocle. L’unico esemplare conosciuto è stato rinvenuto nella “domus del chirurgo” di Rimini ed è essenzialmente uno strumento dotato di lamina a forma di cucchiaio, con un foro centrale per bloccare la freccia e facilitare l’estrazione.

Paolo di Egina raccomanda l’uso dell’estrazione solo nei casi in cui la penetrazione della cuspide sia superficiale, o nella situazione in cui un’espulsione avrebbe causato danni a vasi sanguigni, nervi o organi interni. Descrive anche uno speciale strumento, il propulsorium, utilizzato per l’espulsione di una cuspide, e la pratica di legare i vasi sanguigni prima di procedere alla rimozione del dardo.

Uomo delle Ferite
Uomo delle Ferite

Durante il Medioevo, il trattamento delle ferite da freccia era basato sulle pratiche utilizzate dai medici del passato. Anche se la Scuola Salernitana e il mondo medico arabo introdussero nuove nozioni e strumenti chirurgici, le fondamenta del trattamento delle ferite da freccia rimasero sostanzialmente invariate rispetto ai secoli precedenti.

Come si può leggere in questo post:

“L’estrazione di una freccia seguiva tre linee guida: valutazione della zona di penetrazione della freccia, esame di eventuali tracce di veleno e, per finire, l’estrazione vera e propria.

 

La freccia doveva essere estratta con delicatezza ma il più velocemente possibile, limitando la perdita di sangue e la contaminazione della ferita. Anche se furono proposti molti metodi in grado di far uscire spontaneamente i dardi conficcati in un corpo umano (Avicenna proponeva una mistura di radice di canna di fiume e bulbo di narciso, mentre Abu Bakr al-Razi aveva compilato una lista di “droghe estrattive”), la soluzione più efficace rimaneva la chirurgia.”

Uno dei metodi più semplici e comuni per la rimozione di frecce dotate di barbigli prevedeva l’impiego di due penne d’oca. Ideata intorno al 1300 dal medico belga Jan Ypermans, questa tecnica utilizzava due penne cave prive di punta il cui fusto doveva raggiungere e ricoprire i barbigli della cuspide (generalmente 2): in questo modo, i barbigli non avrebbero avuto modo di arpionare i tessuti durante l’estrazione, facilitando notevolmente la rimozione della freccia. Questa pratica non era sicuramente indolore: era necessario determinare precisamente la posizione della cuspide sondando la ferita, e inserire i due fusti di penne nella cavità prima di procedere all’estrazione.

Ferite da freccia nel mondo moderno

L’uso dell’arco è oggigiorno un puro e semplice passatempo, che si pratichi la caccia o il tiro al bersaglio. Il numero di ferite da freccia è enormemente diminuito dopo l’introduzione su larga scala della polvere da sparo e la regolamentazione delle armi bianche e da fuoco.

Gli incidenti, tuttavia, capitano con relativa facilità, specialmente se ad impugnare le armi sono persone inesperte. Anche se disponiamo di strumenti chirurgici all’avanguardia, anestesia e igiene di gran lunga superiore ai secoli passati, ancora oggi il personale medico si trova in difficoltà di fronte all’estrazione di una freccia.

Nel 2010 fu documentato il caso di un uomo di 35 anni ricoverato in ospedale per una perforazione cranica causata dall’impatto di una cuspide di freccia. Il paziente riportò lesioni cerebrali che migliorarono dopo la rimozione del dardo, ma il personale medico annotò la particolare difficoltà incontrata nella rimozione del corpo estraneo.

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Arrow Wounds: Major Stimulus in the History of Surgery
BATTLE WOUNDS: NEVER PULL AN ARROW OUT OF A BODY
Removing Arrowheads in Antiquity and the Middle Ages
Treatment of Arrow Wounds: A Review
Handbook of Forensic Medicine

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Tela di ragno, bendaggio naturale https://www.vitantica.net/2020/01/20/tela-di-ragno-bendaggio-naturale/ https://www.vitantica.net/2020/01/20/tela-di-ragno-bendaggio-naturale/#respond Mon, 20 Jan 2020 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4755 Le proprietà meccaniche della tela di ragno sono ormai note in epoca moderna: un singolo filo di ragnatela può esprimere, a parità di peso, una resistenza alla tensione e una robustezza superiori a quelle dell’acciaio.

Le caratteristiche della tela di ragno, tuttavia, non passarono inosservate anche nel mondo antico: viene tradizionalmente impiegata come esca nella pesca con l’aquilone praticata da alcune comunità marittime del Pacifico, e fu per secoli apprezzata nella medicina occidentale come bendaggio antisettico.

Tessuto naturale dalle proprietà straordinarie

Le caratteristiche della tela di ragno sono dovute ad una combinazione di proteine cristalline ed elastiche, mescolate ad altri elementi come zuccheri, lipidi e pigmenti che agiscono come aggreganti o protezioni della fibra.

Ogni ragnatela intessuta in natura è costituita da due categorie di seta: la prima categoria è occupata da filamenti rivestiti da un liquido appiccicoso, utilizzati per la cattura delle prede; il secondo tipo di seta, invece, chiamato genericamente “dragline”, è dotato di grandi proprietà elastiche e di resistenza, rese possibili da due proteine specifiche a base di alanina, glicina, glutamina e prolina.

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La tela di ragno viene prodotta a richiesta da un ghiandole filatrici, o seritteri, e può vantare diverse conformazioni in base all’utilizzo finale. I filamenti strutturali, ad esempio, sono molto robusti e possiedono scarse proprietà adesive; quelli intermedi, invece, sono incredibilmente elastici, resistenti e appiccicosi, dato che sono quelli con più probabilità di intrappolare una preda.

Fibre di tipo tubolare sono genericamente utilizzate per creare sacche protettive per le uova, mentre per avviluppare la preda in un bozzolo per poterla consumare comodamente viene creata una seta straordinariamente forte, circa tre volte più robusta di quella strutturale.

Qualunque sia la fibra creata dalla ghiandola, ogni filamento possiede anche proprietà antisettiche che lo proteggono dall’azione di microrganismi che potrebbero danneggiare la ragnatela.

Uso in medicina

Le caratteristiche della seta di ragno furono ben comprese dai nostri antenati, che utilizzarono per millenni questo materiale naturale nel trattamento delle ferite aperte, anche se l’uso in medicina fu spesso limitato a causa della reperibilità stessa del materiale.

Estrarre tela di ragno in quantità sufficiente alla produzione di bendaggi o tessuti richiede una quantità immane di ore-lavoro: nel 2019, per realizzare il tessuto in tela di ragno più grande del mondo (3,4 per 1,2 metri) fu necessario fu necessario il lavoro di 82 persone nell’arco 4 anni per lavorare la seta di ragno estratta da oltre 1 milione di ragni.

Bozzolo di Cheiracanthium punctorium. Foto di Rainer Altenkamp
Bozzolo di Cheiracanthium punctorium. Foto di Rainer Altenkamp

Potrebbero essere necessarie fino a 3 ragnatele complete e in ottimo stato per il trattamento di una ferita lunga qualche centimetro e non troppo profonda, motivo per cui l’impiego della seta di ragno in medicina non ha mai raggiunto la diffusione conosciuta da altri tipi di bendaggio.

Un’altra considerazione necessaria è relativa alla conoscenza dei ragni locali. Alcuni ragni tessitori comuni in Europa possono dimostrarsi particolarmente aggressivi in determinate circostanze, esponendo al rischio di morsi potenzialmente molto dolorosi e pericolosi.

I ragni della specie Segestria florentina, ad esempio, tessono una tipica ragnatela tubolare che può fornire molta seta, ma sono dotati di grossi cheliceri che possono infliggere dolorose perforazioni.
Il ragno dal sacco giallo (Cheiracanthium punctorium), invece, crea piccoli bozzoli di seta per scopi riproduttivi, ma se disturbato può mordere e iniettare un veleno che provoca dolori simili a quelli di una puntura di vespa, con conseguenza più tossiche in caso di reazione allergica.

In ogni caso, la scarsa reperibilità e il pericolo di essere morsi non impedì l’uso della tela di ragno nella medicina tradizionale europea: sui Carpazi, per esempio, la seta di ragno viene ancora oggi usata per medicare ferite aperte non troppo profonde; la medicina popolare ritene che la seta di ragno faciliti la guarigione e la coagulazione del sangue (credenze supportate dalle proprietà blandamente antisettiche e la presenza di vitamina K nei filamenti).

Greci e Romani conoscevano le proprietà medicinali della tela di ragno: inserivano nelle ferite aperte seta non più vecchia di qualche giorno e priva di impurità avvolgendola per ottenere una sorta di tampone che inserivano nel taglio.

Per verificare l’efficacia di questo trattamento, nel 2018 un team di biologi ha monitorato le modalità di guarigione delle ferite inflitte ad alcuni conigli e successivamente medicati con placebo, metodi tradizionali e seta di ragno. I risultati hanno evidenziato l’efficacia della tela di ragno nel velocizzare la guarigione dei tessuti.

Medicare una ferita con la tela di ragno

Il requisito primario per l’uso della seta di ragno per il trattamento delle ferite è utilizzare materiale non contaminato. Le ragnatele prelevate devono essere possibilmente recenti, e necessariamente prive da ogni residuo di pasti effettuati dal proprietario.

Eliminate eventuali fonti di contaminazione, i residui di fogliame e i resti di insetti, la ragnatela deve essere semplicemente modellata in una pallina di seta e inserita nel taglio. Le proprietà coagulanti della vitamina K diminuiranno la fuoriuscita di sangue e favoriranno la guarigione dei tessuti, mentre le caratteristiche antisettiche dei composti presenti nella tela terranno alla larga la maggior parte degli agenti microbici.

Per proteggere ulteriormente la ferita era buona norma utilizzare un bendaggio più tradizionale, come tessuto pulito attorno alla parte lesa. Era necessario mantenere asciutta la ferita per favorire la guarigione.

Una volta rimarginata buona parte della ferita, la ragnatela veniva rimossa a mano ammorbidendola con acqua calda per facilitare l’estrazione.

Non solo ferite

Nel 1817 il medico Robert Jackson pubblicò un trattato dal titolo “Sketch of the History and Cure of Febrile Diseases“, in cui descriveva i sintomi e le cure per diversi disturbi di tipo febbrile.

Diverse pagine del trattato sono dedicate all’impiego della seta di ragno come medicinale ad uso interno:

“La ragnatela, e perfino il corpo abitato in precedenza da un ragno, sono impiegati dai popoli di alcune nazioni come rimedio per la malaria e la febbre; ma, quando menzionato da alcuni scrittori medici, viene solitamente menzionato per essere messo in ridicolo; o si suppone che produca un effetto, cosa che l’esperienza ha dimostrato, per trasmettere disgusto all’idea di ingoiare un ragno, o una ragnatela.”

Il dottor Jackson ritiene che le proprietà medicinali della ragnatela siano state troppo a lunghe ignorate senza alcuna ragione. A supporto della sua idea descrive l’uso di seta di ragno in un ospedale dell’esercito nel 1801, un trattamento a quanto pare utilizzato da tempo nella struttura medica citata.

I dettagli sui suoi esperimenti che coinvolgevano la seta di ragno possono essere letti qui: The spider’s web cure.

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Spider silk
How To Heal Wounds With Spider’s Silk
Evaluation of Wound Dressing Made From Spider Silk Protein Using in a Rabbit Model.
Applications of Spider Silk
The spider’s web cure

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L’enigma della sifilide – Timeline https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/ https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/#comments Fri, 10 Jan 2020 00:17:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4758 Nel 1495 una nuova malattia colpì il Vecchio Continente: era mortale, devastante, e prendeva di mira chiunque dimostrasse una certa promiscuità sessuale. Come ebbe origine la sifilide?

L’ipotesi dominante fino a non molto tempo fa era che la sifilide fosse arrivata in Europa tramite lo “scambio colombiano”, conseguenza dei primi contatti con le Americhe. Insieme a tabacco e patate, Colombo ebbe il “merito” di portare la sifilide, inizialmente in Spagna poi in tutto il continente europeo, nel cuore di popolazioni che non avevano mai conosciuto la malattia.

Le prime ipotesi sull’ origine americana della sifilide ebbero origine con il medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: nel 1539 scritte il Tractado contra el mal serpentino que vulgarmente en España es llamado bubas, opera frutto del suo lavoro come medico a Barcellona e dei trattamenti curativi adoperati su alcuni marinai di Colombo.

Pochi anni dopo, Bartolomé de Las Casas contribuisce alle fondamenta della teoria sull’origine americana della sifilide con queste affermazioni della sua Storia generale delle Indie:

«C’erano e ci sono due cose in quest’isola che all’inizio furono molto penose per gli spagnoli: una è la malattia delle bubas che in Italia si chiama mal francese. È accertato che essa venne da quell’isola, e questo accadde, o al ritorno dell’ammiraglio Don Cristobal Colon, quando assieme alla notizia della scoperta delle Indie giunsero i primi indiani che io vidi fin dal loro arrivo a Siviglia, i quali importarono le bubas in Spagna infettando l’aria o in tutt’altro modo; o al tempo del primo ritorno a Castiglia, quando rientrarono alcuni spagnoli con le bubas, e questo poteva accadere tra il 1494 e il 1496. […] Io personalmente mi sono impegnato a più riprese a chiedere agli indiani se questo male esisteva già da tempo dalle loro parti, ed essi risposero affermativamente […] È anche accertato che tutti gli spagnoli incontinenti che su quell’isola non osservavano affatto la virtù della castità, furono colpiti dalle bubas e che, su cento, non ne sfuggì uno solo, salvo nel caso in cui l’altra parte non avesse mai avuto le bubas»

Ci sono tuttavia prove scheletriche del fatto che in Francia, Italia e Inghilterra la malattia fosse già conosciuta secoli prima del viaggio di Colombo. Alcuni resti ossei scoperti presso il monastero di Kingston-upon-Hull, in Inghilterra, hanno mostrato segni evidenti di sifilide risalenti ad oltre 1 secolo prima dell’ esplorazione dei continenti americani.

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Il documentario cerca di fare luce sull’origine della sifilide, esplorando i primi contatti con le malattie nordamericane ed esaminando le prove sulla sua possibile presenza in Europa prima della scoperta delle Americhe.

Sifilide

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Merit Ptah: personaggio reale o immaginario? https://www.vitantica.net/2019/12/19/merit-ptah-reale-immaginario/ https://www.vitantica.net/2019/12/19/merit-ptah-reale-immaginario/#respond Thu, 19 Dec 2019 00:22:24 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4745 In questo post sulla timeline della medicina dall’antichità ad oggi, viene citata una figura femminile di particolare importanza, una delle prime donne ad aver dedicato la sua vita all’arte curativa e unanimamente considerata la prima ad aver conquistato una posizione di potere grazie alla pratica medica: Merit Ptah.

Il nome di Merit Ptah si trova ovunque, dalle citazioni su libri scritti nell’ultimo secolo ai più moderni videogiochi; il suo nome è stato anche utilizzato per battezzare un cratere sul pianeta Venere.

Si tratta di un personaggio iconico, un simbolo di emancipazione femminile e l’incarnazione stessa della medicina antica; ma tutte le menzioni di questo mondo non possono nascondere il fatto che Merit Ptah, in realtà, è molto probabilmente un personaggio di pura fantasia.

La “storia” di Merit Ptah

Su questa figura femminile dell’antico Egitto sappiamo ben poco (le ragioni saranno più chiare leggendo il resto del post), ma da ciò che si racconta ormai da decadi, fu una delle prime curatrici a raggiungere una posizione di potere nella corte del faraone, e probabilmente la prima donna ad essere menzionata nella storia della medicina.

Il suo nome significa “Amata da Ptah”: Ptah era la divinità protettrice della città di Memphis, esistente ben prima della creazione dell’universo, venuto alla luce per sua volontà. Merit Ptah sarebbe vissuta quasi 5.000 anni fa, al termine del periodo Protodinastico.

Un’apparente prova dell’esistenza di Merit Ptah sarebbe la raffigurazione di una donna nella necropoli di Saqqara e una citazione sulla tomba del figlio, che la definisce “Sommo Medico.

Errore d’identità

Jakub Kwiecinski, storico della medicina della University of Colorado’s School of Medicine, ha deciso di scavare più a fondo nella documentazione storica disponibile agli egittologi per capire se Merit Ptah sia stato un personaggio realmente esistito, o sia solo il frutto di una mescolanza tra realtà e fantasia.

La popolarità di Merit Ptah inizia nel 1938: appare in un libro di Kate Campbell Hurd-Mead in cui vengono delineate alcune figure femminili nella storia della medicina. Nel suo libro, Hurd-Mead identifica Merit Ptah come la prima dottoressa della storia, vissuta intorno al 2730 a.C. e madre di un sacerdote di alto rango sepolto nella Valle dei Re.

All’interno della tomba di questo sacerdote sarebbe stata trovata una tavoletta che citava la madre, chiamata Merit Ptah, come il “Capo Medico” del faraone, un titolo molto prestigioso e generalmente riservato a uomini di alto rango.

La scoperta descritta da Hurd-Mead appare estremamente affascinante, se non fosse per un piccolo dettaglio: la Valle dei Re non esisteva all’epoca in cui sarebbe vissuta la donna (risale a oltre un millennio dopo), e non esiste alcun documento che citi Merit Ptah nelle liste di curatori e curatrici dell’antico Egitto.

Merit Ptah: personaggio reale o immaginario?

Da dove deriva quindi la citazione di Merit Ptah? Probabilmente da un libro in possesso di Hurd-Mead, un volume che cita una curatrice di nome Peseshet, il cui nome appare nella tomba del figlio Akhethetep, vissuto intorno al 2400 a.C..

La tomba di Akhethetep si trova a Giza e include una falsa porta che riporta la raffigurazione del padre e della madre, quest’ultima descritta come la “Sovrintendente delle Donne Curatrici”. Secondo Kwiecinski, Hurd-Mead fece confusione tra Merit Ptah e Peseshet.

“Sfortunatamente, Hurd-Mead nel suo libro mescola accidentalmene il nome dell’antica curatrice, la data in cui visse e la località della tomba” afferma Kwiecinski. “Da allora, da un caso di errata identificazione di un’autentica curatrice dell’antico Egitto, Peseshet, nacque Merit Ptah, ‘la prima dottoressa’”.

Nome reale, personaggio di fantasia

“Merit Ptah, come nome, esisteva nell’antico Egitto (era il nome della moglie di Ramose, governatore di Tebe sotto Akhenaton), ma non appare in alcuna delle liste di curatori, nemmeno come un personaggio leggendario o come ‘caso controverso'”, sostiene Kwiecinski. Il suo nome non è presente negli elenchi delle donne amministratrici, e non ci sono riferimenti alla curatrice all’interno delle tombe conosciute.

Ma la figura di Merit Ptah è ormai largamente diffusa come simbolo di emancipazione, sospinta anche da venti ideologici. “E’ stata associata con il problema, estremamente emozionale, partigiano, ma anche profondamente personale, della parità di genere. Tutto questo ha creato una tempesta perfetta che ha alimentato la storia di Merit Ptah”.

Merit Ptah potrebbe quindi essere un personaggio partorito dall’errore di interpretazione di una scrittrice, ma questo non significa che nell’antico Egitto non esistessero curatrici di particolare importanza.

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Peseshet, vissuta verso il termine della Quarta Dinastia, viene descritta come “Sommo Medico”, o “Sovrintendente delle Donne Curatrici”, proprio come la Merit Ptah citata da Hurd-Mead. Non sappiamo se lei stessa fosse un medico, ma la citazione nella mastaba del figlio Akhethetep la colloca in una posizione sociale molto elevata.

Anche su Peseshet conosciamo ben poco: una falsa porta nella mastaba del figlio la cita per nome e la mostra insieme ad un uomo chiamato Kanefer, probabilmente il marito; sappiamo tuttavia che Peseshet è stato un personaggio realmente esistito, la prima donna della storia della medicina ad essere ricordata ancora oggi.

Celebrated Ancient Egyptian Woman Physician Likely Never Existed, Says Researcher
Peseshet
Merit Ptah, “The First Woman Physician”: Crafting of a Feminist History with an Ancient Egyptian Setting

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De Materia Medica di Dioscoride Pedanio https://www.vitantica.net/2019/07/22/de-materia-medica-di-dioscoride-pedanio/ https://www.vitantica.net/2019/07/22/de-materia-medica-di-dioscoride-pedanio/#respond Mon, 22 Jul 2019 00:10:30 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4428 Il De Materia Medica è un compendio di medicina e botanica scritto da Dioscoride Pedanio. In esso è racchiusa una conoscenza così vasta in materia di piante medicinali da renderlo un’opera medica di assoluto successo nel bacino del Mediterraneo tra il I secolo d.C. e il 1500.

L’origine e il successo dell’opera

Il medico greco Dioscoride Pedanio scrisse tra il 50 e il 70 d.C. un’opera in cinque volumi conosciuta in tutta Europa con il titolo di “De Materia Medica”. Dioscoride nativo di Anazarbus e studiò presso la scuola farmacologica di Tarsus, probabilmente sotto il medico locale Laecanius Arius, a cui fu dedicato il De Materia Medica.

Il libro nacque dall’esperienza farmacologica e botanica acquisita da Dioscoride durante i suoi studi in Anatolia, e dalla sua pratica botanica volta a individuare e utilizzare le piante medicinali per la cura delle patologie più diffuse nel suo tempo.

Il De Materia Medica è una raccolta di informazioni utilizzate in campo medico da Greci, Romani e altre culture antiche che vivevano sulle coste del Mediterraneo. Il libro contribuì alla formazione delle rinomate scuole di medicina arabe assieme alle opere di altri autori greci, come Galeno e Ippocrate.

Il De Materia Medica restò in uso per almeno 1500 anni dopo la sua pubblicazione. Durante il Medioevo fu tradotto in latino e in arabo, mentre nel Rinascimento furono effettuate traduzioni anche in italiano, in spagnolo, in tedesco e in francese.

De Materia Medica di Dioscoride Pedanio
La raffigurazione di una Artemisia absinthium in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)

Il commentario del medico e botanico arabo Ibn al-Baitar, vissuto nel XII secolo, fu uno dei più completi lavori di analisi del De Materia Medica; grazie ad esso, gli studiosi moderni sono stati in grado di identificare molte piante, radici e bacche descritte nell’opera di Dioscoride.

Fino al XVI secolo gli erboristi di tutta Europa basarono il loro lavoro sull’opera di Dioscoride e sugli scritti di Teofrasto. GLi erbari di Leonhart Fuchs, Valerius Cordus, Lobelius, Rembert Dodoens, Carolus Clusius, John Gerard e William Turner furono a tutti gli effetti indirizzati dal De Materia Medica e dall’esperienza botanica del suo autore.

Oggi sopravvivono diversi manoscritti del De Materia Medica, alcuni corredati di commenti e note minori, altri forniti di illustrazioni aggiunte da fonti arabe e indiane. Una di queste versioni è il Juliana Anicia Codex, redatto a Costantinopoli intorno al 512-513 d.C.; altre copie del manoscritto sopravvivono nei monasteri del Monte Athos o nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

Un’opera farmacologica e botanica dall’approccio moderno

Ogni pianta o sostanza all’interno del De Materia Medica viene descritta in modo dettagliato, concentrando l’attenzione sul suo uso medicinale e allegando talvolta alcuni consigli su come identificarla. Ad esempio, descrivendo le proprietà medicinali dei papaveri Dioscoride fornisce un aiuto sull’identificazione delle specie allegando una descrizione sul differente aspetto dei loro semi.

Dopo queste utili informazioni per distinguere le diverse specie, Dioscoride passa all’aspetto farmacologico, indicando che l’estratto di alcuni papaveri causa sonnolenza, mentre gli estratti di altre specie possono trattare infiammazioni o, se mescolati con miele, creare uno sciroppo per la tosse.

La raffigurazione di un ciclamino in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)
La raffigurazione di una Artemisia absinthium in una delle copie illustrate delDe Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)

Il De Materia Medica contiene quindi sia il riconoscimento delle piante medicinali, sia il loro effetto farmacologico, oltre ad indicazioni e ricette per preparare i medicamenti con gli ingredienti indicati.

L’opera di Dioscoride contiene anche informazioni utili a distinguere un preparato medicinale autentico da uno contraffatto. Menzionando le raccomandazioni di altri medici, come Diagoras, Andrea e Mnesidemus, non manca di far notare che i loro consigli non provengono dall’esperienza diretta e che sono quindi da considerarsi non autentici.

Fino al periodo dei Tudor, gli erbari maggiormente diffusi in Gran Bretagna continuarono a classificare le piante secondo lo schema indicato da Dioscoride e da altri autori classici: non tramite l’analisi della loro struttura o delle loro somiglianze, ma al profumo e al sapore, alla loro edibilità e all’impiego medicinale.

Il contenuto del De Materia Medica

L’opera contiene la descrizione di circa 600 piante e di diverse sostanze di origine animale (35 in totale) e minerale (90), oltre che la formulazione di quasi 1.000 medicinali ottenibili con questi ingredienti.

La raffigurazione di una pianta di cannabis in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)
La raffigurazione di una pianta di cannabis in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)

Il libro è diviso in cinque volumi, ognuno dei quali è incentrato su determinate tipologie di piante dalle proprietà organolettiche e medicinali comuni.

Volume I: piante aromatiche. Descrizione delle piante in grado di produrre olio aromatico, come il nardo, la valeriana, la cannella, la resina di pino, la mela, la pesca, il limone e l’albicocca;

Volume II: animali ed erbe. Questo volume contiene informazioni su sostanze di origine animale, incluse creature marine, rettili e anfibi, oltre a dettagli sull’impiego di cereali e vegetali come l’asparago, la bietola, la cipolla e l’aglio;

Volume III: radici, semi ed erbe. Primo dei due volumi incentrati sulle radici, sui semi e sulle erbe. Vengono descritte le proprietà medicinali di liquirizia, cumino, prezzemolo e genziana;

Volume IV: radici, semi ed erbe. Secondo volume dedicato a radici e tuberi, semi ed erbe spontanee dall’uso medicinale;

Volume V: viti, vini e minerali. Proprietà medicinali e informazioni per identificare i diversi tipi di vite e d’uva, oltre a contenuti dedicati alle sostanze di origine minerale come ossido di zinco, ossido di ferro e verderame.

Il De Materia Medica è uno dei primi testi ad avere un approccio metodico e approfondito all’utilizzo delle piante medicinali. Descrive con dovizia di particolari alcuni antidolorifici, come la corteccia di salice, l’oppio e il colchico d’autunno (“falso zafferano”); tratta l’impiego di piante in grado di causare aborti, trattare infezioni del tratto urinario, lenire il mal di denti o i dolori intestinali.

Molte delle piante e delle sostanze descritte nel De Materia Medica trovano ancora impiego nella farmacopea moderna come medicine naturali, diluenti, aromi ed emollienti. Altre invece sono cadute in disuso per via delle pratiche superstiziose indicate da Dioscoride: le piante del genere Echium servivano a fabbricare amuleti contro il morso dei serpenti, mentre il Polemonium caeruleum trovava impiego contro le punture di scorpione.

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The 1500th Anniversary (512-2012) of the Juliana Anicia Codex: An Illustrated Dioscoridean Recension

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Terapia larvale: larve di mosca per la pulizia delle ferite https://www.vitantica.net/2019/07/10/terapia-larvale-larve-mosca-ferite/ https://www.vitantica.net/2019/07/10/terapia-larvale-larve-mosca-ferite/#comments Wed, 10 Jul 2019 11:10:13 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4407 In condizioni di sopravvivenza è spesso necessario fare tutto ciò che serve per salvarsi la vita, anche a costo di dover essere costretti a superare le nostre paure più profonde o un senso di disgusto considerato intollerabile dalla maggior parte di noi.

Nel post dedicato a Hugh Glass viene descritto un metodo di disinfezione e pulizia di una ferita aperta che moltissime persone rifiuterebbero senza la minima riflessione, anche in condizioni estreme: lasciare che le larve di mosca si nutrano della propria carne.

Quando è realmente efficace questo sistema di pulizia delle ferite? E’ davvero applicabile in condizioni di estrema necessità?

Breve storia della terapia larvale

Le larve di mosca sono state utilizzate in passato come efficace trattamento di disinfezione delle ferite: i Maya le utilizzavano comunemente per eliminare sporcizia e tessuti necrotici, e gli aborigeni australiani prevedono ancora questo trattamento nel loro complesso di medicina tradizionale.

Le ricerche antropologiche sulla medicina maya hanno ipotizzato che le ferite aperte venissero medicate tramite l’utilizzo di garze imbevute di sangue animale lasciate esposte al sole per favorire la deposizione di larve di mosca. Una volta applicati i bendaggi sulle lesioni, le uova si sarebbero schiuse dando modo alle larve di nutrirsi del tessuto necrotico.

Durante il Rinascimento, molti chirurghi militari si resero conto che le ferite invase dalle larve di mosca tendevano a causare meno complicazioni e ad essere meno fatali rispetto a quelle trattate soltanto secondo la scienza medica del tempo.

Ambroise Paré (1510–1590) fu il primo medico ad annotare gli effetti benefici delle larve di mosca all’interno di tessuti in stato di necrosi, anche se inizialmente le sue osservazioni si concentrarono sull’azione distruttiva delle larve. Dopo aver notato che alcuni pazienti traevano benefici dall’azione delle larve di mosca, divenne pratica comune di Paré lasciare che le larve si nutrissero dei tessuti morti per favorire il recupero dei pazienti.

Il barone Dominique Larrey, chirurgo francese al seguito di Napoleone, durante la campagna in Siria tra il 1798 e il 1801, osservò che alcune specie di larve di mosca consumavano esclusivamente solo i tessuti necrotici e contribuivano a mantenere pulite le ferite e a favorire il processo di guarigione.

La prima vera e propria terapia larvale documentata fu utilizzata dall’ufficiale medico John Forney Zacharias durante la Guerra civile americana. Il medico riportò nel suo diario che “In un solo giorno possono pulire una ferita molto meglio di ogni altro metodo a nostra disposizione…sono sicuro di aver salvato molte vite con il loro utilizzo, evitato la setticemia e favorito un recupero rapido”.

Quali larve di mosca?
Mosca verde (Lucilia sericata). Pete Hillman
Mosca verde (Lucilia sericata). Pete Hillman

Solo alcune larve appartenenti a specie che si nutrono di animali morti (come la Lucilia sericata, la mosca verde) sono indicate per la terapia larvale. Essendo una specie molto comune, la Lucilia sericata è probabilmente la larva più impiegata, ma le larve di Protophormia terraenovae creano delle secrezioni in grado di combattere infezioni di Streptococcus pyogenes e S. pneumoniae.

Le larve di mosca verde sono biancastre, di forma conica, e dotate di doppi uncini boccali che usano per cibarsi. Dopo essere uscite dalle loro uova, trovano un cadavere pronto ad essere sfruttato e attaccano gli strati più nutrienti del corpo ammorbidendoli tramite la secrezione di enzimi digestivi.

Le larve usano un procedimento noto come “digestione extracorporea”: producono enzimi in grado di liquefare il tessuto necrotico, che verrà succcessivamente assorbito tramite il loro apparato boccale. Nell’arco del loro periodo di attività, le larve passano da 1-2 millimetri di lunghezza a 8-10 millimetri, aumentando anche la circonferenza del loro corpo.

Nel caso non fosse disponibile un punto d’ingresso alla carcassa, una una ferita o un’ulcerazione, le larve iniziano a secernere i loro succhi digestivi in un unico punto, favorendo la degradazione della pelle e praticando una lacerazione che consentirà loro di accedere agli strati più nutrienti del cadavere.

Quando e come praticare la terapia larvale

L’uso di larve è indicato in presenza di ferite umide: le lacerazioni secche o non molto ossigenate non costituiscono un buon ambiente di sviluppo delle larve. In alcuni casi è possibile creare un ecosistema gradevole per le larve di mosca inumidendo la ferita con un impacco di acqua salata per 48 ore.

Le larve di mosca svolgono principalmente quattro funzioni: ripuliscono la ferita da tessuto necrotico e da impurità organiche, disinfettano la ferita, stimolano la guarigione e limitano la produzione di biofilm che favoriscono la crescita di batteri potenzialmente nocivi.

Un sufficiente numero di larve è in grado di ripulire una ferita molto più precisamente della pulizia chirurgica, impiegando solo un giorno o due per svolgere il loro lavoro. Nell’arco di 48-72 ore le larve di mosca lasciano una ferita sostanzialmente pulita e priva di tessuto necrotico.

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Il monitoraggio di ferite trattate secondo metodi tradizionali o tramite terapia larvale ha mostrato inoltre che le larve di mosca possono ripulire completamente un’ulcerazione vasta e profonda in meno di 14 giorni, mentre le terapie tradizionali non riuscivano a rimuovere circa la metà del tessuto necrotico.

Gli studi clinici e in vitro hanno infine dimostrato che le larve di mosca inibiscono la crescita o distruggono alcuni batteri patogeni resistenti alla meticillina, ma risultano inefficaci contro i batteri Pseudomonas aeruginosa e E. coli.

Mechanisms of Maggot-Induced Wound Healing: What Do We Know, and Where Do We Go from Here?

Larval therapy from antiquity to the present day: mechanisms of action, clinical applications and future potential

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Variolizzazione: la lotta contro il vaiolo prima del vaccino https://www.vitantica.net/2019/06/21/variolizzazione-vaiolo-prima-del-vaccino/ https://www.vitantica.net/2019/06/21/variolizzazione-vaiolo-prima-del-vaccino/#comments Fri, 21 Jun 2019 00:10:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4290 Il primo vaccino contro il vaiolo risale al 1796 e fu ideato dal medico britannico Edward Jenner; prima di lui era comune la variolizzazione, una rudimentale pratica di immunizzazione usata in Oriente almeno dal XV secolo.

Il vaiolo

Il vaiolo è una malattia infettiva causata da due virus, il Variola major e il Variola minor. Anche se oggi è stato debellato (l’ultimo caso di vaiolo contratto in modo naturale risale al 1977) ed eradicato ufficialmente nel 1979, per millenni rappresentò una vera e propria catastrofe per le popolazioni che colpiva.

Il Variola major può avere una mortalità superiore al 30%, con variazioni fino al 75% in base alla distribuzione e al numero delle pustole che produce, mentre il minor raramente raggiunge l’1% di mortalità. La forma emorragica del vaiolo ha invece una mortalità prossima al 100% e il decesso sopraggiunge tra i 7 e i 16 giorni.

Il vaiolo inizia a manifestarsi generalmente con febbre e vomito, per poi sviluppare eruzioni cutanee su tutto il corpo. Nel corso di qualche giorno l’eruzione si trasforma in vesciche piene di fluido e successivamente in croste che lasceranno segni indelebili sul paziente.

L’origine certa del vaiolo è sconosciuta, ma sappiamo che la malattia era nota fin dal 1.500 a.C. in India. La malattia ha probabilmente avuto origine tra i 68.000 e i 16.000 anni fa dal virus del vaiolo del gerbillo e da allora non fece altro che mietere vittime anche illustri, come Ramses V.

All’inizio del XVI secolo, il vaiolo era ormai diffuso in tutta Europa, probabilmente portato nel Vecchio Continente attraverso scambi commerciali e scontri militari con il mondo arabo. Il vaiolo colpiva soprattutto i bambini e causava la morte di circa 1/3 degli infetti.

L’arrivo del vaiolo nelle Americhe causò una vera e propria pandemia. Il tasso di mortalità tra i nativi era tra l’80% e il 90%, la stessa dei primi aborigeni australiani che vennero a contatto con la malattia tra il 1780 e il 1870.

Nel XVII secolo, ogni anno il vaiolo uccideva circa 400.000 europei; il 10% dei neonati svedesi moriva di vaiolo ogni anno, e la mortalità sembra essere stata anche superiore in Russia e in altre regioni del mondo.

Negli ultimi 100 anni prima della sua eradicazione, si calcola che il vaiolo abbia ucciso circa 300-500 milioni di persone; nel solo 1967 i contagi sono stati 15 milioni e i morti 2 milioni.

L’inizio della battaglia contro il vaiolo

Variolizzazione: la lotta contro il vaiolo prima del vaccino

Le prime pratiche documentate di variolizzazione fanno la loro comparsa in Cina durante il XV secolo. Il metodo prevedeva l’inalazione nasale di polvere di croste di vaiolo, una pratica che continuò durante il XVI e il XVII secolo.

Secondo la documentazione del tempo, si selezionavano soggetti infetti da ceppi non particolarmente letali di vaiolo, prelevando dalla pelle le croste o il liquido delle pustole per farli seccare e triturarli allo scopo di ottenere una polvere fine.

La polvere veniva quindi inserita in una sorta di cannuccia d’argento e soffiata nelle narici, la narice destra per gli uomini e quella sinistra per le donne. I pazienti sviluppavano quindi una forma minore della malattia e venivano trattati come se fossero infettivi quanto un individuo affetto dal Variola major.

Anche nel mondo arabo si iniziò ad adottare lo stesso metodo, specialmente in Sudan, dove la pratica del Tishteree el Jidderi (“corrompere il vaiolo”) era diffusa specialmente tra le donne. Una madre non protetta visitava la casa di un bambino infetto, legando un panno di cotone attorno al bambino per poi portare a casa il tessuto per legarlo attorno al braccio del proprio figlio.

Una seconda pratica, il Dak el Jedri (“colpire il vaiolo”), usata principalmente in Turchia, prevedeva la raccolta dei fluidi fuoriusciti dalle pustole allo scopo di spalmarli su un taglio profondo praticato sulla pelle dei pazienti.

Benché molto diffusa in Cina e in Africa, la variolizzazione fu considerata in Europa una tecnica medica priva di fondamenti scientifici fino al XVII secolo. Fu solo con la promozione della pratica a Costantinopoli da parte del medico italiano Emmanuel Timoni che iniziò a diffondersi nel Vecchio Continente.

Dopo aver appreso dell’esistenza della variolizzazione, Timoni scrisse una lettera nel 1714 in cui descriveva nel dettaglio il metodo di immunizzazione, attirando l’attenzione del predicatore di Boston Cotton Mather e della moglie dell’ambasciatore britannico nell’Impero Ottomano, Lady Mary Wortley Montagu.

Mary Wortley Montagu e il Metodo Sutton

Mary Wortley Montagu aveva perso il fratello a causa del vaiolo, per poi contrarre lei stessa la malattia poco dopo. Riuscì fortunatamente a sopravvivere ma riportò numerose cicatrici sul volto e sul resto del corpo.

Mentre si trovava in Turchia in compagnia del marito, venne a conoscenza della variolizzazione, una pratica relativamente comune a Costantinopoli. Nel 1718 sottopose suo figlio Edward, di 5 anni, alla variolizzazione, con la supervisione del dottore dell’ambasciata; nel 1721, al suo ritorno in Inghilterra, fece lo stesso per la figlia di 4 anni di fronte ai dottori della corte reale.

Mary Wortley Montagu
Mary Wortley Montagu

Dopo il successo della variolizzazione sui due figli, iniziarono i primi esperimenti inglesi sull’immunizzazione dal vaiolo. Il primo esperimento fu condotto su sei prigionieri della Prigione di Newgate di Londra, esponendoli dopo la variolizzazione a pazienti infetti da Variola major; se fossero sopravvissuti dimostrando immunità alla malattia, avrebbero in cambio ricevuto la libertà. L’esperimento fu un successo e la famiglia reale iniziò a promuovere la pratica in tutte l’Inghilterra.

All’inizio della seconda metà del 1700, il chirurgo britannico Robert Sutton subì la perdita di uno dei suoi figli a causa della variolizzazione. L’evento lo portò a cercare una nuova procedura per immunizzare i pazienti contro il vaiolo.

Il Metodo Sutton, che riscosse un grande successo a partire dal 1762, prevedeva incisioni superficiali della pelle, una selezione accurata dei pazienti affetti da forme lievi di Variola minor da cui prelevare campioni biologici e l’assenza di salassi per la purificazione del sangue, una procedura che spesso precedeva l’immunizzazione vera e propria.

La variolizzazione di Sutton, su cui il chirurgo costruì una vera e propria fortuna tramite la costruzione di cliniche di immunizzazione, fu condotta su oltre 300.000 pazienti con effetti negativi molto limitati rispetto a quelli prodotti dalla variolizzazione che prevedeva incisioni profonde e salassi estremi.

Una pratica non esente da rischi

Anche se è vero che molti pazienti a cui veniva praticata la variolizzazione riuscivano ad ottenere l’immunità dal vaiolo, è altrettanto vero che la procedura poteva avere effetti negativi non trascurabili.

Secondo i medici del tempo, la variolizzazione rendeva immuni al vaiolo in modo permanente, ma ci furono diversi casi in cui i pazienti immunizzati finirono vittime di un secondo attacco della malattia. Alcuni di questi contagi possono essere attribuiti a diagnosi sbagliate (diagnosi di varicella invece che di vaiolo), altri invece alla mancanza di memoria immunologica.

La variolizzazione tramite cicatrice, inoltre, prevedeva un livello di abilità medica e un’attenzione per i dettagli non molto diffuse in passato. Non era raro che i pazienti che contraevano la malattia in forma lieve diffondessero il vaiolo venendo in contatto con familiari, parenti e amici; inoltre, era abbastanza comune che le cicatrici non debitamente trattate sviluppassero infezioni, alcune con risultati fatali.

Infine, la medicina del tempo prevedeva l’uso di salassi estremi prima di procedere all’immunizzazione, salassi così pesanti da far perdere i sensi e motivati dalla necessità di purificare il sangue e prevenire la febbre.

Il principe Octavius di Gran Bretagna, ottavo figlio di Re Giorgio III, fu una delle vittime illustri della variolizzazione: dopo essere stato immunizzato insieme alla sorella Sophia, si ammalò gravemente morendo qualche giorno dopo il 3 maggio del 1783, all’età di 4 anni.

A partire dall’inizio del XIX secolo, la variolizzazione iniziò ad diventare una pratica sempre meno diffusa (in Russia divenne illegale nel 1805) per via dell’introduzione di un vaccino in grado di contenere enormemente gli effetti negativi dell’immunizzazione grazie all’uso di vaiolo bovino, non trasmissibile ad altri esseri umani.

Variolation
A death from inoculated smallpox in the English royal family
How Variolation Worked

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