caccia – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Video: 10 giorni con gli Hadza https://www.vitantica.net/2019/08/07/video-10-giorni-con-gli-hadza/ https://www.vitantica.net/2019/08/07/video-10-giorni-con-gli-hadza/#respond Wed, 07 Aug 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4471 L’utente YouTube Bush Survival Training ha trascorso 10 giorni in compagnia degli Hadza, un popolo indigeno della Tanzania che conduce uno stile di vita ancora legato alle tradizioni di caccia e raccolta.

Attualmente la popolazione Hadza conta circa 1.300 individui, ma solo 300 conducono ancora un’esistenza da cacciatori-raccoglitori.

Nel video vengono mostrate le attività quotidiane che garantiscono la sopravvivenza degli Hadza: costruzione e posizionamento di trappole per animali, attività di raccolta svolta principalmente dalle donne, battute di caccia, lavorazione delle pelli e creazioni di utensili e armi (come l’arco).

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La realtà della caccia al bisonte dei nativi americani https://www.vitantica.net/2018/12/07/caccia-al-bisonte-nativi-americani/ https://www.vitantica.net/2018/12/07/caccia-al-bisonte-nativi-americani/#respond Fri, 07 Dec 2018 00:10:02 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3007 Cacciare bisonti non è semplice, anche armati di fucili di grosso calibro. Nonostante questo, i nativi americani che tradizionalmente cacciavano bisonti per ottenere carne, pelle e tendini si dedicavano all’attività venatoria senza disporre di armi da fuoco o cavalli. Come era possibile, per una civiltà priva di armi moderne, uccidere animali di grossa taglia senza il supporto della tecnologia?

L’immagine dell’indiano americano rispettoso della natura è di certo molto affascinante e seducente (leggi questo post sulla presunta “vita nel rispetto della natura” dei nativi americani), ma non bisogna dimenticare che, per quanto i nativi venerassero la fauna che li circondava, erano individui molto pratici ed estremamente abili nella manipolazione del territorio che li circondava.

I nativi nordamericani contenevano il numero di bisonti

La caccia al bisonte era un’attività pericolosa: il bisonte americano è un animale che può avvicinarsi ai due metri di altezza e caricare un bersaglio con tutti i suoi 500-1.000 kg di peso; nel XVII secolo, enormi mandrie di questi animali percorrevano incostrastate le praterie nordamericane, forti dei loro numeri e della loro prestanza fisica che intimoriva qualunque predatore.

Osservando qesto gigantesco quadrupede nordamericano e la sua immensità corporea, una domanda dovrebbe sorgere spontanea: come facevano i nativi ad cacciare il bisonte limitando le perdite umane e rendendo il processo il più semplice possibile?

Per i nativi nordamericani che vivevano nelle Grandi Praterie, il bisonte era la seconda fonte di cibo dopo il mais e probabilmente la prima sorgente di materie di origine animale. Secondo alcuni storici, prima dell’arrivo degli Europei sul suolo americano i nativi controllavano il numero dei bisonti sfruttando tecniche di caccia in grado di decimare questi animali.

Fu solo con la riduzione della popolazione nativa causata dalle malattie importate dal Vecchio Continente che il bisonte riuscì a riprodursi a ritmi sfrenati, creando le grandi mandrie descritte dagli esploratori del XVII e XVIII secolo.

Secondo il ricercatore Charles C. Mann, “La spedizione di Hernando de Soto attraversò il Sudest per quattro anni nel XVI secolo e osservò grandi masse di persone ma apparentemente non vide alcun bisonte”. In base alle sue analisi della documentazione storica, le enormi mandrie di bisonte osservate dagli esploratori europei erano in realtà il sintomo di un grande squilibrio dell’ecosistema causato dall’assenza dell’attività venatoria umana, che conteneva il numero di questi animali, e da anni di piogge più abbondanti della norma che causarono la crescita incontrollata dell’erba delle Grandi Praterie, un tempo mantenute spoglie dagli incendi controllati appiccati dagli indiani.

La realtà della caccia al bisonte
Una delle colline utilizzate per il “salto del bisonte” durante la caccia

La tecnica di caccia al bisonte propagata da film e letteratura moderna è molto simile a quella impiegata dai coyote con prede più piccole: si separa un individuo dalla mandria e lo si fa affaticare al punto da farlo collassare dalla fatica, una strategia molto simile alla caccia di persistenza ancora oggi praticata da alcune comunità di cacciatori-raccoglitori. Funziona per i coyote, questo è certo; ma per l’essere umano intento a cacciare una mandria di bisonti le cose sono un po’ più complesse.

Prima dell’arrivo degli Europei, in Nordamerica non esistevano cavalli. I nativi erano costretti a cacciare i bisonti e altri grandi animali usando le gambe, il lavoro di squadra e strumenti di legno e pietra, esponendosi a rischi mortali anche affrontando bisonti di piccola taglia.

Il salto del bisonte

Per limitare i rischi della caccia al bisonte, le popolazioni indigene escogitarono una serie di strategie tutt’altro che compassionevoli se analizzate da un osservatore moderno. Una di queste tecniche di caccia, chiamata “il salto del bisonte”, prevedeva di condurre una mandria verso un dirupo spaventandola con urla, pelli e fuochi controllati, nella speranza che il maggior numero di bisonti si facesse prendere dal panico e corresse verso una caduta mortale.

Secondo i racconti tramandati oralmente dagli indiani Crow, questa strategia poteva fornire ben 700 carcasse di bisonti in una sola battuta di caccia; solo pochi corpi venivano effettivamente scuoiati e lavorati per ottenere pelle, carne, tendini e ossa, lasciando il resto dei cadaveri agli animali spazzini che popolavano l’ecosistema delle praterie.

L’esploratore americano del XVIII secolo Meriwether Lewis descrive in questo modo il salto del bisonte:

Viene selezionato uno degli uomini più attivi e veloci, che si camuffa con una pelle di bisonte…si piazza ad una certa distanza tra la mandria e un precipizio adatto allo scopo; gli altri indiani circondano la mandria da dietro e dai fianchi e ad un segnale stabilito si rendono visibili e iniziano a muoversi insieme verso i bisonti; l’indiano camuffato ha avuto cura di posizionarsi sufficientemente vicino ai bisonti da essere notato quando iniziano a scappare e si fa seguire dagli animali a piena velocità verso il precipizio; l’indiano-esca nel frattempo ha avuto cura di nascondersi in qualche fessura della collina…mi hanno detto che il ruolo dell’esca è estremamente pericoloso.

Ghiaccio sottile

Non era affatto raro condurre un’intera mandria verso la morte utilizzando vari espedienti in grado di semplificare la caccia. Alcune tribù, utilizzando una serie di recinti improvvisati o dando fuoco alla prateria, conducevano una parte della mandria su terreno difficile, come ai piedi di una rupe o sul ghiaccio sottile, per poi uccidere il maggior numero di animali utilizzando lance o archi e senza porsi alcun problema sul numero di bisonti che stavano ammazzando.

Gli Hidatsa, che vivevano lungo il fiume Missouri, cacciavano il bisonte durante l’inverno per sfruttare il ghiaccio sottile che si formava sulla superficie del fiume: con il peso della mandria, il ghiaccio si rompeva trascinando gli animali sotto il ghiaccio più spesso. I corpi dei bisonti venivano recuperati quando emergevano in prossimità delle sezioni di fiume non coperte dal ghiaccio.

Il recinto per bisonti

Un’altra tecnica relativamente comune per la caccia al bisonte era il recinto. I nativi Cree erano probabilmente i più efficienti nell’utilizzo di questa strategia basata sull’avversione dei bisonti a sfondare una barriera apparentemente solida.

I Cree costruivano recinti di legno alti 3-5 metri all’interno di una piccola radura, avendo cura non non lasciare buchi nel telaio della recinzione per impedire che i bisonti si accorgessero che, dall’altra parte della palizzata, era possibile trovare una via di fuga.

Per convogliare la mandria verso la trappola, i Cree costruivano una sorta di percorso ad imbuto lungo un centinaio di metri dotato di una curva ad angolo retto poco prima della recinzione, per evitare che i bisonti si accorgessero di essere diretti verso una strada senza uscita. La mandria veniva spinta nella direzione della trappola usando coperte o pelli sbattute contro il terreno o sulla neve.

Una volta intrappolati nella recinzione, i bisonti iniziavano a girare in senso orario lungo il perimetro, mentre i cacciatori più abili nel tiro con l’arco li colpivano nei punti vitali. Seguendo questa strategia di caccia, era possibile abbattere decine di bisonti con un singolo sforzo collettivo della comunità, ottimizzando i tempi e limitando al minimo le perdite umane.

La caccia del bisonte a cavallo

L’arrivo dei cavalli semplificò molto la caccia al bisonte. Il cavallo rese possibile l’avvicinamento alle mandrie in corsa e limitava il rischio di essere calpestati da un gruppo di bisonti inferociti o spaventati; rese inoltre più efficace la caccia condotta da piccoli gruppi di nativi, facilitati nel compito dell’abbattimento di bisonti dalla maggiore mobilità e dalla possibilità di usare archi primitivi a distanze ravvicinate.

Gli indigeni nordamericani valutavano l’efficacia di un arco per la caccia in base a quanti bisonti poteva abbattere con una singola freccia: benché lontani dagli standard moderni di arcieria, alcuni archi indiani potevano attraversare il corpo di un bisonte da parte a parte e i migliori esemplari riuscivano addirittura ad traffiggere due bisonti con un colpo solo.

I nativi preferivano tuttavia che le loro frecce rimanessero attaccate all’animale il più a lungo possibile: l’uso di teste di freccia di pietra, larghe e taglienti, consentiva di dissanguare l’animale durante la sua fuga, indebolendolo progressivamente e rendendolo meno combattivo una volta esaurite le energie per correre.

Caccia in sovrannumero e rispetto del bisonte

I metodi finora descritti (che non furono i soli utilizzati tradizionalmente dai nativi nordamericani) non sono i più umani e compassionevoli se osservati da un’ottica moderna, ma questo non significa che i nativi non rispettassero le loro prede: uccidere in sovrannumero non era fonte di vergogna o la conseguenza di un mancato rispetto verso gli animali, ma il segno evidente che tutti i riti della caccia erano stati eseguiti correttamente e che le divinità animali avevano accolto di buon grado gli sforzi degli esseri umani.

Dopo una battuta di caccia terminata con successo era possibile ottenere centinaia di corpi di bisonti, un numero enorme rispetto alle reali necessità di una tribù di cacciatori-raccoglitori. Un bisonte adulto può fornire da 100 a 200 kg di carne e l’uccisione di 50 animali portava ad un enorme spreco di carne e materie prime, un atteggiamento spesso criticato dai primi Europei che osservavano la caccia tradizionale al bisonte.

Lo spreco di risorse dei nativi nordamericani non si limitava all’uccisione di molti più animali del necessario: a volte, intere mandrie venivano sterminate solo per estrarre le lingue degli animali, molto saporite e ricche di grassi; altre volte si uccidevano gli esemplari in fuga dal gruppo di caccia per evitare che avvertissero del pericolo altri bisonti.

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Buffalo Hunting on the Northern Plains
Bison hunting

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Documentario: Borneo Death Blow https://www.vitantica.net/2018/12/01/documentario-borneo-death-blow/ https://www.vitantica.net/2018/12/01/documentario-borneo-death-blow/#respond Sat, 01 Dec 2018 00:10:27 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2891 I Penan sono una popolazione indigena che vive in Malesia, tra lo stato di Sarawak e il Brunei, e una delle ultime società di cacciatori-raccoglitori del mondo. I Penan praticano il “molong”, un principio secondo il quale non si preleva dalla natura circostante più del necessario per sopravvivere dignitosamente.

Anche se le nuove generazioni di Penang si stanno convertendo sempre più ad uno stile di vita sedentario e agricolo basato su riso e palme, in origine i Penang vivevano principalmente di caccia: cacciavano qualunque animale di grossa taglia e non disdegnavano insetti, rettili, anfibi e uccelli.

I Penang cacciano utilizzando una cerbottana che chiamano “kelepud“, ricavata dal legname dell’albero Eusideroxylon zwageri e scavata a mano utilizzando un trapano primitivo d’osso. L’operazione di perforazione deve avvenire con precisione estrema, dato che le cerbottane raggiungono lunghezze di circa 3 metri.

I proiettili delle loro cerbottane sono realizzate con schegge di sago imbevute del lattice di un albero (albero Tajem). La tossina ha una potenza sufficiente ad uccidere un essere umano nell’arco di pochi minuti.

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Huaorani: Amazon Tribe https://www.vitantica.net/2018/11/06/huaorani-amazon-tribe/ https://www.vitantica.net/2018/11/06/huaorani-amazon-tribe/#respond Tue, 06 Nov 2018 00:10:53 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2576 Gli Huaorani sono una tribù amazzonica composta da solo 1500 membri che conservano parte del loro stile di vita tradizionale da cacciatori-raccoglitori.

La maggior parte degli Huaorani vive nello Yasuni National Park, una riserva naturale in Ecuador che si estende dalla provincia di Napo a quella di Pastaza per circa 1 milioni di ettari ricoperti interamente da foresta pluviale.

Il parco è una delle riserve con più biodiversità al mondo. Il territorio Huaorani è delimitato dal Napo, uno dei più grandi affluenti del Rio delle Amazzoni e, fino a 50 anni fa, uno dei meno esplorati e conosciuti.

Gli Huaorani hanno vissuto per secoli in isolamento, distribuiti nella foresta in piccoli gruppi familiari e clan.

Oggi, la caccia Huaorani prevede l’utilizzo di fucili e altre armi da fuoco, ma fino a non molto tempo fa gli uomini della tribù cacciavano scimmie e altri animali di media taglia con lunghe cerbottane munite di dardi avvelenati.

Gli Huaorani sono profondi conoscitori della foresta pluviale. Sono in grado di seguire tracce di animali individuandole nel sottobosco fitto e intricato, percepire l’odore che lasciano alcune prede e distinguere con precisione i suoni della foresta.

Gli Huaorani prediligono la caccia, ma in caso di necessità si dedicano alla pesca in pozze d’acqua o in anse lente del fiume.

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Il metodo di pesca praticato è la pesca col veleno (leggi questo post per altri dettagli sulla pesca con tossine naturali): avvelenando temporaneamente lo specchio d’acqua, riusciranno a raccogliere molto facilmente i pesci storditi dalle tossine, ottenendo proteine a sufficienza da sostenere l’intero villaggio per una o due giornate.

In questo documentario viene ripresa la vita quotidiana degli Huaorani, dalla caccia tradizionale con lunghe cerbottane fino alla pesca con il veleno.

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Slash & Burn, o Taglia e Brucia https://www.vitantica.net/2018/10/11/slash-burn-o-taglia-e-brucia/ https://www.vitantica.net/2018/10/11/slash-burn-o-taglia-e-brucia/#respond Thu, 11 Oct 2018 02:00:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2251 In “Up in Smoke”, il regista Adam Wakeling segue l’ecologo Michael Hands nella giungla dell’Honduras per incontrare la popolazione. L’incontro è volto a far conoscere le alternative alla tecnica di slash & burn utilizzata tradizionalmente dai locali per liberare vaste aree di giungla.

Molte società cacciatrici-raccoglitrici manipolano attivamente il territorio utilizzando il fuoco per bruciare le piante infestanti o non commestibili, oppure applicando la tecnica slash & burn per creare nuovi territori di caccia.
I nativi americani conoscevano perfettamente la tecnica del “taglia e brucia” (slash & burn), che prevede l’incendio controllato di una porzione di foresta per lasciar spazio a colture più produttive e creare un terreno di caccia più favorevole alle tecniche predatorie umane.

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In tempi moderni, lo slash & burn è un’attività che coinvolge tra i 200 e i 500 milioni di persone in tutto il mondo. Nel 2004 si è calcolato che soltanto in Brasile circa 500.000 piccoli agricoltori si siano avvantaggiati del taglia e brucia per far spazio a campi e allevamenti.

La tecnica slash & burn è considerata non scalabile (diventa estremamente svantaggiosa in termini ambientali se applicata su scala sempre più vasta) ed è un elemento di primaria importanza nel disboscamento di migliaia di ettari di foresta e nel cambiamento climatico antropogenico locale e globale.

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Le caratteristiche di una società di cacciatori-raccoglitori https://www.vitantica.net/2018/07/16/caratteristiche-societa-cacciatori-raccoglitori/ https://www.vitantica.net/2018/07/16/caratteristiche-societa-cacciatori-raccoglitori/#comments Mon, 16 Jul 2018 02:00:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1901 Cosa distingue una cultura basata sulla caccia e sulla raccolta da una società agricola o dedita alla pastorizia? Le tribù di cacciatori-raccoglitori sono meno belligeranti di quelle industrializzate o pre-industriali? Gli antropologi si pongono queste domande da diverso tempo; con anni di osservazioni e di duro lavoro sono riusciti a delineare alcune caratteristiche comuni tra le società cacciatrici-raccoglitrici conosciute, antiche e moderne.

Stile di vita nomade o seminomade

Molte società di cacciatori-raccoglitori conducono generalmente uno stile di vita nomade o seminomade (molto più raramente sono stanziali) e sono organizzate in piccole comunità dalla scarsa densità abitativa.

La vita totalmente nomade è più frequente in ambienti in cui le stagioni tendono ad essere più lunghe (e di solito più estreme), ma è abbastanza frequente a tutte le latitudine che la necessità di cibo e risorse costringa intere comunità a spostamenti frequenti tra diversi accampamenti stagionali.

Scarsa gerarchia sociale

Le società di cacciatori-raccoglitori osservabili in epoca moderna non dispongono di ufficiali politici specializzati. Più in generale, non esiste una vera e propria differenziazione in base alla ricchezza posseduta, ma molti beni sono di uso comune, case comprese (sono abitazioni occupate da un intero clan o gruppo familiare).

Esperienza e uguaglianza

Non importa se patriarcali o matriarcali, le società di cacciatori-raccoglitori tendono ad essere parzialmente egualitarie e ad apprezzare più l’esperienza sul campo piuttosto che la proprietà posseduta. Di solito non esiste un vero capo, ma piuttosto una gamma di esperti in vari campi (caccia, pesca, raccolta) che prendono l’iniziativa e che vengono seguiti dagli individui meno esperti.

Durante la caccia tutti devono fare la loro parte, compresi questi ragazzini Awa di ritorno da una battuta di caccia terminata con successo. Foto di Domenico Pugliese
Durante la caccia tutti devono fare la loro parte, compresi questi ragazzini Awa di ritorno da una battuta di caccia terminata con successo. Foto di Domenico Pugliese
Suddivisione dei ruoli

Il lavoro viene generalmente suddiviso solo in base ad età e sesso: le donne e i bambini si occupano solitamente della raccolta di piante spontanee e gli uomini invece si applicano nella pesca e nella caccia. La suddivisione dei ruoli non è rigida e immutabile e in alcune regioni del pianeta ci sono eccezioni degne di nota: nel popolo Aeta delle Filippine oltre l’ 80% delle donne partecipa alle attività di caccia e ottiene un successo maggiore rispetto agli uomini (31% contro 17%). Quando lavorano in combinazione con gli uomini, le probabilità di successo aumentano ulteriormente raggiungendo il 41%.

Tempo libero: meno ore di lavoro

I cacciatori-raccoglitori tendono a lavorare meno ore e a disporre di più tempo libero rispetto ai produttori di cibo: circa 6,5 ore di lavoro contro le 8,8 delle società agricole o industrializzate.

Cooperazione nella caccia e nella raccolta

La sopravvivenza delle comunità di cacciatori-raccoglitori, come anche di quelle agricole, dipende in buona parte dalla cooperazione dell’intero gruppo sociale: molti membri sono quotidianamente impegnati a procacciare cibo tramite la caccia e la raccolta, a mantenere le risorse a disposizione (come bestiame e orti) o a preparare e conservare il cibo per i periodi più duri.

Speranza di vita

Il 57% dei cacciatori-raccoglitori moderni raggiungerà l’età di 15 anni; tra questi, il 64% riuscirà a superare i 45 anni, con un’ aspettativa di vita compresa tra i 21 e i 37 anni. L’ 80% dei decessi è causato da malattie e il 20% da atti violenti o incidenti.

Aspettativa di vita dei cacciatori-raccoglitori moderni da una ricerca del 2007 condotta dalla UC Santa Barbara
Apprendimento:

Se paragonata ad una società che produce attivamente cibo, una cultura di cacciatori-raccoglitori pone meno enfasi sull’obbedienza, sulla responsabilità individuale o sull’insegnamento verbale; ma le culture con una forte impronta cacciatrice sono più portate a presentare traguardi da superare ai loro bambini.

Scorte di cibo e risorse alimentari

I cacciatori-raccoglitori sono tendenzialmente meno suscettibili a carestie e all’imprevidibilità delle risorse alimentari. Il loro stile di vita li ha abituati all’ottenimento di risorse alimentari da qualunque pianta o animale commestibile e la varietà di specie vegetali che consumano impedisce di incappare nei problemi tipici della monocoltura.

Manipolazione del territorio:

Molte società cacciatrici-raccoglitrici manipolano attivamente il territorio utilizzando il fuoco per bruciare le piante infestanti o non commestibili, oppure applicando la tecnica slash-and-burn per creare nuovi territori di caccia.

Belligeranza

Secondo alcune ricerche, la maggior parte delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ingaggia guerre con altri gruppi sociali almeno una volta ogni due anni; secondo altre invece gli scontri violenti si verificherebbero con minore frequenza rispetto alle culture produttrici di cibo. I risultati di queste analisi variano in base al valore che assumono termini come “pace” e “guerra” tra gli indigeni e tra i ricercatori: alcune azioni violente (come il punire severamente chi ha violato un tabù) non vengono considerate atti di guerra ma solo disciplina e rispetto delle tradizioni.

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Caccia o raccolta

Più ci si trova vicino all’equatore e in “località verdi” in cui la disponibilità di piante commestibili è elevata, meno i cacciatori-raccoglitori saranno dediti alla pesca o alla caccia. In queste circostanze, anche gli uomini partecipano attivamente alla raccolta. In climi più freddi, invece, la caccia e la pesca diventano attività predominanti (come tra gli Inuit, in cui l’attività di raccolta è pressoché inesistente a favore di una dieta a base di grasso e proteine animali).

Matriarcale o patriarcale

Più una società di cacciatori-raccoglitori si dedica alla raccolta, più avrà probabilità di avere una struttura matriarcale. Le società patriarcali e matriarcali non mostrano differenze nella frequenza di atti di guerra o violenti: l’elevata densità di popolazione e la complessità della cultura sembrano essere fattori che influiscono sulla belligeranza.

Territorio

Una società cacciatrice-raccoglitrice ha bisogno di un vasto territorio per poter sopravvivere; la sedentarietà è possibile solo in aree con una particolare abbondanza di risorse facilmente reperibili e un terreno adatto a supportare grandi quantità di monocoltura.

No, hunter gatherers were not peaceful paragons of gender equality
Carol R. Ember. 2014. “Hunter-Gatherers” in C. R. Ember, ed. Explaining Human Culture. Human Relations Area Files
Hunter-gatherer

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Caccia preistorica al bradipo gigante raccontata dalle orme impresse su una distesa salata https://www.vitantica.net/2018/05/02/caccia-bradipo-gigante-orme/ https://www.vitantica.net/2018/05/02/caccia-bradipo-gigante-orme/#comments Wed, 02 May 2018 02:00:47 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1667 Comprendere nel dettaglio le tecniche di caccia dei nostri antenati del Pleistocene è una questione complessa. Possiamo fare deduzioni plausibili analizzando i cacciatori-raccoglitori moderni (come per la caccia di persistenza), esaminando le antiche armi da caccia oppure usando la logica e il buon senso; ma non è affatto semplice realizzare un quadro completo di come i nostri antenati cacciassero la megafauna, animali di grossa taglia come gli uri o i bradipi giganti.

In qualche occasione, tuttavia, abbiamo la fortuna di avere a disposizione indizi capaci di narrarci chiaramente il racconto della caccia, come nel caso delle orme del White Sands National Monument, un complesso di dune sabbiose a base di cristalli di gesso che in tempi recenti è stato il luogo di nascita del programma spaziale statunitense ma, in un passato preistorico, fu teatro di numerose battute di caccia.

Caccia al bradipo gigante

Una recente ricerca pubblicata sulla rivista Science Advances ha analizzato una serie di tracce rimaste impresse nella distesa salata di White Sands chiamata Alkali Flat, tracce risalenti a circa 10.000 anni fa e che documenterebbero con straordinaria precisione l’inseguimento e la lotta contro un bradipo gigante, un avversario formidabile per uomini che impugnavano armi di legno, osso e pietra.

Tracce del bradipo gigante (Megatherium) e degli esseri umani che lo inseguivano
Tracce del bradipo gigante (Megatherium) e degli esseri umani che lo inseguivano

Alkali Flat era un lago in epoca glaciale, ma con il progressivo riscaldamento climatico iniziò a ridursi fino a diventare una distesa salata che, in occasione delle piogge periodiche, si trasformava in una distesa fangosa, uno strato ideale per conservare le tracce del passaggio di uomini e animali.

Sulla distesa salata di Alkali Flat sono rimaste impresse numerosissime impronte appartenenti alla megafauna del Pleistocene come mastodonti, mammut, cammelli, metalupi e bradipi giganti; le loro “tracce fantasma” sono per lo più visibili solo in determinate condizioni atmosferiche (strato salato non troppo spesso e poco umido) e in alcuni casi sono state scavate ed esaminate nel dettaglio, rivelando informazioni incredibili.

Le tracce più interessanti sembrano essere quelle lasciate da un bradipo gigante: all’interno o intorno alle sue orme sono state trovate quelle di esseri umani, suggerendo che un gruppo di uomini preistorici si fosse messo all’inseguimento dell’animale fino a raggiungerlo, circondarlo e abbatterlo.

Tracce del bradipo gigante (Megatherium) e degli esseri umani che lo inseguivano

Alcune delle tracce umane si trovano all’interno di quelle del bradipo, altre invece sono posizionate attorno ad orme che sembrano indicare che l’animale avesse assunto una posizione difensiva, sollevandosi sulle due zampe posteriori per poter agitare quelle anteriori nel tentativo di colpire gli aggressori.

Agitando le potenti zampe anteriori artigliate, il bradipo gigante tendeva a perdere l’equilibrio finendo per appoggiarsi al terreno su 4 zampe prima di assumere nuovamente la posizione difensiva eretta.

Il bradipo gigante era un avversario temibile

Il Megatherium, comunemente chiamato bradipo gigante, fu uno dei più grandi mammiferi terrestri mai esistiti. Poteva misurare fino a 6 metri da unestremità all’altra ed era grande quanto un elefante moderno. Grazie alla sua coda, di fatto una “terza gamba”, poteva assumere una stazione eretta per raggiungere le fronde degli alberi inaccessibili alla maggior parte degli erbivori del suo tempo.

Affrontare in campo aperto un bradipo gigante non è affatto semplice: questo animale poteva superare i 4 metri in posizione eretta e raggiungere le 5 tonnellate di peso. Era inoltre dotato di artigli anteriori lunghi circa 30 centimetri e capaci di difenderlo efficacemente dalla maggior parte dei grandi predatori.

Tutte le armi da lancio disponibili all’epoca non erano in grado di ferire seriamente un bradipo gigante da una distanza di oltre 10 metri, anche perché l’animale disponeva di pelle spessa e resistente in grado di fermare l’impatto di un pesante proiettile di atlatl.

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Per cacciare un bradipo gigante, quindi, era necessario posizionarsi a distanza molto ravvicinata e giocare con la morte ad ogni affondo di lancia. Considerata la lentezza nei movimenti dell’animale e la disposizione delle orme sulla scena dello scontro, il bradipo di Alkali Flat fu probabilmente abbattuto cercando di attirare la sua attenzione verso un “uomo-esca” per consentire agli altri cacciatori di colpire il gigante alle spalle o alle zampe posteriori, indebolendolo fino a farlo crollare.

Le orme animali e umane di Alkali Flat sembrano confermare che i cacciatori-raccoglitori nordamericani conoscessero bene la megafauna che cacciavano e che stessero progressivamente raggiungendo l’apice della catena alimentare.

Il bradipo gigante era solo una delle prede di grandi dimensioni che venivano cacciate e uccise dai nostri antenati, prede di dimensioni tali da poter sfamare per mesi una piccola comunità e rifornirla di preziosissime materie prime come pelliccia, tendini e ossa.

How to hunt a giant sloth—according to ancient human footprints

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Il cervo rosso https://www.vitantica.net/2018/02/16/cervo-rosso/ https://www.vitantica.net/2018/02/16/cervo-rosso/#respond Fri, 16 Feb 2018 02:00:47 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1381 Il cervo rosso (Cervus elaphus), noto anche come cervo nobile o cervo reale, è il tipico cervide delle foreste temperate e fredde eurasiatiche e il suo rapporto con l’essere umano risale a tempi antichissimi.

Pitture rupestri datate a 40.000 anni fa sono la testimonianza di come questo ungulato facesse parte della cultura dei nostri antenati fin dal Pleistocene e rappresentasse, oltre ad un’ovvia fonte di proteine, un’importantissima miniera di risorse per la realizzazione di una vasta gamma di oggetti d’utilità quotidiana.

Il cervo: una miniera di risorse
Tante proteine e pochi grassi

Il cervo rosso è il quarto cervide più grande dopo l’alce americano, l’alce europeo e il sambar (Rusa unicolor): un esemplare maschio cresce generalmente fino a raggiungere la lunghezza di 170-250 centimetri, un peso di 90-240 kg (soggetto a forti variazioni stagionali) e un’altezza al garrese compresa tra i 90 e i 130 centimetri.

Alla specie Cervus elaphus appartengono differenti sottospecie le cui dimensioni variano sensibilmente in base all’area geografica di distribuzione.

E’ facile intuire le ragioni che portarono i nostri antenati a cacciare i cervi rossi: ogni animale può fornire svariati chilogrammi di pelle e ossa, oltre a 20-40 kg di carne altamente proteica e particolarmente saporita, considerata pregiata da molte culture del passato.

Qualunque parte dell’animale può essere consumata, a partire dagli organi interni come cuore, fegato, polmoni e cervello. La carne di cervo è ricca di proteine quanto quella di manzo o di maiale ma ha un basso contenuto di grassi, caratteristiche che nella storia più recente hanno contribuito a renderla un alimento di lusso riservato all’aristocrazia.

I palchi

Non bisogna dimenticare inoltre i palchi, impiegati per la realizzazione di utensili, e i tendini delle zampe o del dorso utilizzati da millenni per creare cordame straordinariamente resistente.

Cervo rosso carne

Solo i maschi di cervo dispongono di palchi che iniziano a crescere durante la primavera e vengono sostituiti ogni anno, generalmente alla fine dell’inverno, diventando sempre più grandi e ramificati con l’aumentare dell’età dell’animale.

I palchi possono superare il metro di lunghezza e i 5 kg di peso e sono costituiti da osso ricoperto da uno strato di peluria corta chiamato velluto.

Le corna vengono utilizzate dal cervo sia come strumenti di difesa contro i predatori sia come armi per i combattimenti svolti durante la stagione degli amori per stabilire il diritto all’accoppiamento.

Il velluto

Un cervo adulto può produrre fino a 15 kg di velluto nell’arco di un anno: inizialmente molto vascolarizzati, i palchi dei cervi tendono a ossificarsi progressivamente fino ad ostruire del tutto i vasi sanguigni che ne sostengono la crescita.

In questa fase il velluto inizia a distaccarsi dai palchi e può essere raccolto per essere utilizzato come sostanza medicinale (come succede in alcune culture tradizionale della Nuova Zelanda, Cina, Siberia e Corea).

Tendini

I tendini di cervo sono un materiale di prima scelta per la produzione di cordame robusto e dalle innumerevoli applicazioni pratiche: sono stati impiegati in passato per rinforzare il dorso di un arco, per assicurare punte di freccia o di dardi alle loro aste e per realizzare cuciture di indumenti in pelle.

I tendini delle gambe e della schiena sono i più lunghi e più resistenti. Per rimuoverli dalla carcassa di cervo è necessario usare un coltello affilato in grado di reciderli con precisione senza danneggiarli.

Una volta fatti essiccare, è possibile sfruttare i tendini per ottenere fibre sottili e resistenti colpendoli ripetutamente con una pietra o un martello di gomma per sfibrarli.

Le abitudini del cervo rosso

cervo rosso

Il cervo è un ruminante e preferisce dedicarsi alla ricerca di cibo durante l’alba o il tramonto, come molti mammiferi terrestri abituati ad essere una preda. Nell’arco della giornata tende a rimanere inattivo. Si nutre principalmente di erba o germogli e ha una predilezione per il tarassaco e i trifogli, non disdegnando qualche fungo di tanto in tanto.

Il cervo è un animale gregario che per la maggior parte dell’anno trascorre il suo tempo in compagnia di esemplari dello stesso sesso. I maschi dominanti si aggregano ai gruppi di femmine durante la stagione dell’accoppiamento e gli esemplari più maturi possono arrivare a possedere un harem composto da diversi gruppi di cerve.

E’ difficile che un maschio di soli 2-4 anni possieda un harem, e lo stesso vale per maschi troppo anziani, oltre gli 11-12 anni di età. Per mantenere coesi gli harem, i cervi maschi usano un richiamo molto potente e profondo, un verso ideale per risuonare tra le foreste densamente coperte da vegetazione.

Il mantenimento di un harem è un’attività che consuma una quantità enorme di energie: i maschi intenti a sorvegliare il proprio gruppo di femmine si cibano molto raramente e possono arrivare a perdere il 20% del loro peso corporeo durante la stagione dell’accoppiamento.

Le femmine di cervo raggiungono la maturità sessuale intorno ai 2 anni d’età. Spesso sono necessari oltre una decina di accoppiamenti per ingravidare una femmina fertile e durante il secondo anno è raro che una cerva riesca a partorire più di un cucciolo. Il periodo di gestazione dura dai 240 ai 262 giorni e il piccolo appena nato pesa circa 15 kg.

Una lunga storia di caccia

Intorno all’anno 1.000 in Inghilterra sorsero almeno una trentina di riserve di caccia dedicate al cervo, parchi in cui la caccia a questo animale era rigidamente regolamentata e che nel XIV secolo arrivarono a coprire circa il 2% dell’intera superficie emersa dell’Inghilterra.

Il cervo rosso un tempo era abbondante in tutte le foreste eurasiatiche e comunemente predato dai nostri antenati cacciatori-raccoglitori: ossa di cervo risalenti a 130.000 anni fa dimostrerebbero come l’essere umano cacciasse i cervi rossi anche durante i periodi glaciali, nonostante gli insuccessi fossero più frequenti rispetto alle battute di caccia riuscite a causa del clima e del terreno impraticabile.

A dispetto degli ostacoli dell’era glaciale, la carne di cervo ha costituito per millenni una fetta importante della dieta preistorica, come testimoniano i resti ossei rinvenuti in quasi tutti i siti risalenti al Pleistocene o all’ Olocene.

 

Palco di cervo e velluto in fase di distaccamento
Palco di cervo e velluto in fase di distaccamento
La caccia al cervo nella preistoria

La caccia al cervo in tempi preistorici non era molto differente dalle strategie moderne impiegate nella caccia con l’arco. Non potendo competere con le prestazioni atletiche di un cervo, è possibile cacciare questi animali tendendo agguati a distanza ravvicinata o, nel caso di esemplari di piccola taglia, piazzando trappole a laccio per immobilizzarli e sfinirli prima di infliggere il colpo di grazia.

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Prima dell’invenzione dell’arco o del propulsore, la lancia era l’unica arma a disposizione ed è possibile che i nostri antenati utilizzassero tecniche di caccia che prevedevano un breve inseguimento volto a convogliare interi branchi all’interno di percorsi ciechi come canyon, formazioni rocciose naturali o palizzate realizzate appositamente per la caccia di grossi mammiferi gregari.

Secondo questa ricerca, molti dei cervi rossi scoperti in siti preistorici europei risalenti a 20-50.000 anni fa erano esemplari molto giovani che solitamente vengono si separano dal gruppo durante la fuga del branco da una potenziale minaccia.

Le culture che introdussero l’utilizzo del propulsore furono in grado di cacciare prede di taglia media in modo più efficace rispetto all’utilizzo di lance e giavellotti, ma quest’arma da lancio richiede una distanza inferiore ai 20-25 metri per causare ferite letali in un grosso mammifero.

Data la natura schiva e sospettosa del cervo, distanze così ravvicinate non sono facilmente ottenibili ancora oggi dai cacciatori più esperti e dotati del moderno bagaglio di conoscenze sulla biologia e sul comportamento delle prede, ma per nulla impossibili per cacciatori nati e cresciuti in totale immersione nella natura.

E’ più probabile quindi che i cacciatori di cervi del Paleolitico che intendevano procacciare carne per comunità di media grandezza basassero le loro strategie predatorie principalmente sulla cooperazione e sull’utilizzo di trappole naturali o artificiali per concentrare i branchi in aree che privilegiavano la cattura di individui rimasti isolati o favorivano l’utilizzo di lance, giavellotti e proiettili.

Battuta di caccia al cervo nel Medioevo
Battuta di caccia al cervo nel manoscritto medievale Livre de La Chasse di Gaston Phoebus (1387-1389)
Caccia al cervo nel Medioevo

Molti millennio dopo, in epoca medievale, la caccia al cervo divenne più un passatempo aristocratico che un’attività di sussistenza. Animali dotati di palchi con meno di 10 punte non erano considerati degni di essere uccisi e la caccia al cervo si trasformò in un evento mondano che coinvolgeva almeno una decina di persone, diverse mute di cani e una precisa sequenza di operazioni da effettuare prima, durante e dopo la caccia:

  • Un cacciatore esperto localizzava un cervo adulto seguendone le tracce;
  • Il gruppo di caccia si riuniva per discutere con il tracker su come procedere con la battuta. In questa fase veniva servita la colazione ai partecipanti;
  • I cani venivano piazzati lungo il percorso del cervo basandosi sulla previsione dei cacciatori più esperti, in attesa che un cane da traccia localizzasse con precisione l’animale;
  • I cani si lanciavano all’inseguimento per sfiancare il cervo costringendolo a fermarsi e a tentare di difendersi. Il cacciatore di rango sociale più elevato effettuava l’uccisione con una spada, una lancia o un arco;
  • La preda veniva dissezionata accuratamente e parti della carcassa erano lasciate ai cani come ricompensa per il loro lavoro.

Upper Perigordian Hunting: organisational and Technological Strategies

DEER – Wildlife Online

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I rapaci piromani: l’uomo non è il solo animale che usa il fuoco https://www.vitantica.net/2018/01/21/rapaci-piromani-animale-che-usa-fuoco/ https://www.vitantica.net/2018/01/21/rapaci-piromani-animale-che-usa-fuoco/#respond Sun, 21 Jan 2018 02:00:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1281 Il dominio del fuoco fu un traguardo fondamentale per l’evoluzione fisica, culturale e tecnologica dell’essere umano: con il fuoco si possono rendere alcuni alimenti commestibili o più facilmente digeribili; si possono realizzare strumenti o mettere in pratica strategie di caccia più produttive; un fuoco da campo è spesso stato il fulcro delle attività sociali umane.

Fino ad ora si è sempre pensato che il controllo del fuoco fosse una prerogativa tipicamente umana, una delle abilità che ci differenzia enormemente dal resto del regno animale; ma negli ultimi anni si sono accumulate prove del fatto che anche alcuni rapaci australiani sembra siano in grado di utilizzare deliberatamente le fiamme come strumento per aumentare le loro possibilità di caccia.

Nibbio e falco usano il fuoco, dicevano gli aborigeni
Falco bruno (Falco berigora)
Falco bruno (Falco berigora)

Nel 2016, l’ornitologo Bob Gosford documentò diverse occasioni in cui alcuni uccelli rapaci, come il nibbio bruno (Milvus migrans) e il falco bruno (Falco berigora), contribuivano attivamente alla diffusione di incendi boschivi naturali, un’abilità già nota agli aborigeni australiani ma spesso messa in discussione dalla comunità scientifica per assenza di prove.

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Le prove accumulate da Gosford non erano tuttavia in grado di dimostrare con certezza se i rapaci australiani contribuissero alla diffusione degli incendi in modo involontario, o con un preciso intento predatorio.

Per ottenere una risposta sulla natura del loro comportamento, Gosford ha trascorso il 2017 raccogliendo ulteriori testimonianze che sembrano confermare il fatto che nibbi e falchi australiani sfruttino le fiamme come strumento per facilitare le loro attività di caccia.

Gli oltre 20 rapporti da parte di altrettanti testimoni oculari raccontano di come alcuni rapaci siano stati osservati mentre afferravano col becco pezzi di legno ancora ardenti per trasportarli in aree non ancora colpite dagli incendi, appiccando deliberatamente fuochi boschivi per stanare le loro prede preferite.

Si pensa che questi uccelli traggano vantaggio dalle fiamme generate dai fulmini che spesso danno origine ad incendi boschivi nelle regioni settentrionali dell’Australia.

Caccia con le fiamme

L’incendio boschivo naturale è una dinamica ben nota in queste zone e contribuisce a mantenere sano l’ecosistema: le piante locali si sono ormai adattate ad un ciclo di “distruzione e rinascita” e non risentono particolarmente degli effetti distruttivi del fuoco.

Nibbio bruno (Milvus migrans)
Nibbio bruno (Milvus migrans)

Un effetto secondario degli incendi boschivi è la fuga dalle fiamme degli animali terrestri: piccoli o grandi che siano, tutte le creature che vivono a contatto con la terra o che spendono il loro tempo sugli alberi sono naturalmente terrorizzate dalle fiamme e tendono ad allontanarsi al primo segnale d’allarme.

Queste fughe dagli incendi sono ciò che i rapaci attendono con ansia: prima o poi le loro prede preferite saranno costrette ad uscire allo scoperto, in aree meno coperte da vegetazione (come le zone di transizione) e che le rendono bersagli perfetti per questi uccelli predatori.

Evidentemente alcuni rapaci hanno ben compreso il nesso tra incendi boschivi e disponibilità di facili prede, così bene da aver imparato ad agire attivamente nella diffusione delle fiamme.

Rapaci che appiccano incendi

Almeno tre specie di rapaci (nibbio fischiatore, nibbio bruno e falco bruno) sono state osservate trasportare piccoli rametti in fiamme per oltre 50 metri su zone di terreno non ancora bruciate o che non si trovano lungo il percorso di un incendio, appiccando volontariamente il fuoco e attendendo che le loro prede uscissero allo scoperto.

Nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus)
Nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus)

In questo modo i rapaci australiani sono capaci di ottimizzare le loro strategie di caccia sfruttando la paura che le fiamme suscitano in ogni animale. Uno dei resoconti raccolti da Gosford riguarda un incendio boschivo a Kakadu: il vigile del fuoco Dick Eussen stava lottando contro le fiamme assieme ai suoi colleghi, ma non appena circoscrivevano un focolaio se ne generava immediatamente un altro dal lato opposto della strada.

Alla settima occorrenza di un nuovo focolaio non previsto, Eussen e i suoi compagni hanno scoperto il colpevole: un nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus) prelevava continuamente rametti infuocati dall’incendio che i pompieri cercavano di domare per poi depositarli alle loro spalle, dando origine ad un altro focolaio e attendendo che piccoli roditori, anfibi o rettili uscissero allo scoperto.

Intentional Fire-Spreading by “Firehawk” Raptors in Northern Australia

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