video – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Video: costruire un arco da legno di scarsa qualità https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/ https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/#respond Sat, 31 Oct 2020 00:10:04 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4888 La costruzione di un arco funzionale richiede un primo passaggio fondamentale: la selezione del legname. Tasso, quercia, noce, osage, ginepro, frassino e olmo sono generalmente materiali di prima scelta per la fabbricazione di un arco efficace, veloce e duraturo; l’esperienza millenaria accumulata dai costruttori di archi di tutto il mondo insegna che occorre trovare il giusto compromesso tra durezza ed elasticità.

I materiali più adatti alla costruzione di un arco non sono sempre facilmente disponibili: in molte regioni d’Europa, ad esempio, il tasso è un albero protetto; l’osage orange o il noce americano non sono legnami a buon mercato e devono generalmente attraversare l’Atlantico per raggiungere il Vecchio Continente.

E’ possibile fabbricare un arco sufficientemente potente da cacciare animali di media o grossa taglia usando legname di seconda o terza scelta, come quello reperibile nei più comuni centri del “fai da te”?

Per esperienza personale, posso dire che si, è possibile. Occorre prestare attenzione alla direzione delle fibre del legno e spendere un po’ di tempo a cercare la qualità di legno adatta, ma con l’aiuto di un materiale sintetico e molto comune come la fibra di vetro si può ottenere un’arma relativamente veloce e performante.

Il canale YouTube Kramer Ammons ha pubblicato nel dicembre 2019 una guida pratica e chiara per realizzare un arco utilizzando legname comune e fogli di fibra di vetro. La fibra di vetro sostituisce l’applicazione di materiali di origine naturale, come il tendine animale, utilizzati per aumentare la resistenza alla rottura e la potenza degli archi tradizionali.

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Sia chiaro, nulla può sostituire il tipo di legno che da millenni viene impiegato per la costruzione di archi. Il tasso, ad esempio, per quanto non propriamente duro (è considerato il più duro tra i legni morbidi), ha una struttura a strati in cui il durame scuro e l’alburno biancastro sono distintamente separati, e le fibre corrono longitudinalmente per tutto il tronco senza curvature eccessive, aspetti che ne facilitano la lavorazione e non costringono a “seguire gli anelli” come altro legname costringe a fare.

Ma costruire un arco con legno di scarsa qualità è possibile. E’ stato fatto innumerevoli volte (il sottoscritto ne ha realizzati due partendo da materiali non propriamente adatti) e, talvolta, la qualità e l’efficacia di un’arma di questo genere può davvero sorprendere.

BOW WOODS (FROM A MATHEMATICAL PERSPECTIVE)

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Corso di cucina medievale: “Eat Medieval: A Taste of the Past” https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/ https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/#respond Mon, 26 Oct 2020 00:15:38 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5013 A partire dal 2 novembre 2020 la Blackfriars’ Cookery School, in collaborazione con il Durham University’s Institute of Medieval and Early Modern Studies, trasmetterà una serie di corsi culinari a tema medievale, mostrando la preparazione di alcune antiche ricette europee risalenti al XII secolo.

Durante il corso interattivo, della durata di 5 giorni, verranno mostrate 15 ricette medievali raccolte dai monaci del Durham Cathedral Priory, un priorato benedettino fondato nel 1083 come monastero cattolico. Chef professionisti spiegheranno passo passo le tecniche di cucina medievale, accompagnati dalla storia di queste tecniche e da alcune informazioni poco note sulla cucina del XII secolo.

“Sono eccitato ed estasiato da questa nuova partnership” afferma Giles Gasper, professore di Storia Medievale alla Durham University e co-presentatore del corso. “Il cibo medievale apparteneva ad una delle più grandi cucine del mondo: era sofisticato e rappresentava una stupenda miscela di ingredienti locali e spezie provenienti dalle carovane che avevano attraversato le steppe, l’Oceano Indiano e il Mediterraneo.

“Abbiamo lavorato con Giles ed il suo team della Durham University per oltre una decade” dice Andy Hook, proprietario del Blackfriars Restaurant, “esplorando il cibo medievale e riportandolo in vita all’interno di un ristorante moderno attraverso corsi di cucina, banchetti e lezioni”.

EAT MEDIEVAL: A TASTE OF THE PAST | 2-6 NOVEMBER 2020

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Hardtack, la galletta navale a lunga conservazione https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/ https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/#respond Mon, 07 Sep 2020 00:18:50 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4965 I lunghi viaggi per mare degli antichi esploratori e gli estenuanti spostamenti via terra degli eserciti del passato erano legati a doppio filo alla capacità umana di creare cibo a lunga conservazione. Pur non avendo frigoriferi moderni o e possedendo scarse nozioni di igiene alimentare, i nostri antenati furono in grado di conservare alimenti per lunghi periodi di tempo utilizzando l’ingegno e i materiali a loro disposizione.

Nel corso della storia gli espedienti utilizzati per conservare gli alimenti furono molti: celle frigorifere come lo yakhchal, salamoie e salagioni, affumicatura e fermentazione potevano garantire mesi o anni di conservazione se si rispettavano poche ma necessarie regole su temperatura o esposizione all’aria. Alcuni prodotti alimentari erano invece pensati per mantenersi pressoché intatti anche anche in condizioni sfavorevoli.

L’ hardtack, ad esempio, era una semplice galletta di farina e acqua in grado di mantenersi commestibile per molto tempo, poco costosa da produrre, resistente a condizioni ambientali avverse e facile da immagazzinare e trasportare.

La storia dell’ hardtack

Dall’introduzione dei cereali nei regimi alimentari di molti popoli antichi, la farina iniziò a ricoprire un ruolo sempre più fondamentale nella cucine di tutto il mondo. Farina e pane, tuttavia, possono essere attaccati da muffe, insetti, o semplicemente accumulare l’umidità atmosferica favorendo i processi di decomposizione.

La necessità di avere alimenti nutrienti e facilmente conservabili portò gli Egizi alla creazione della dhourra, una galletta di miglio in grado di mantenersi intatta per lunghi periodi di tempo. Col tempo la dhourra si trasformò nel “biscotto musulmano”, come lo descrive Re Riccardo I dopo la Terza Crociata (1189-1192): un mix di farina d’orzo, farina di fagioli e farina di segale.

Nell’antica Roma, invece, il Codex Theodosianus prevedeva che ogni soldato coinvolto in una spedizione militare dovesse essere fornito di “bucellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam.”, traducibile come “gallette e pane, anche vino (o posca) e aceto, ma anche lardo e montone”.

Il bucellatum romano era un mix di farina, sale e acqua, cotto a lungo per due volte a bassa temperatura. Veniva consumato dai soldati accompagnandolo con la posca, per due giorni consecutivi; al terzo giorno, la truppa poteva finalmente consumare vino e pane di buona qualità.

L’hardtack è una delle innumerevoli versioni della galletta a lunga conservazione. Il nome  di questo biscotto, entrato nel lessico comune tra il 1700 e il 1800, deriva da “tack”, il termine slang che i marinai britannici usavano per riferirsi al cibo; col tempo iniziò ad assumere altri nomi, come “biscotto di mare”, “pane per cani”, “spaccamolari” o “castello per vermi”.

La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)
La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)

La Royal Navy britannica del XVI secolo forniva ai suoi marinai una razione giornaliera di mezza libbra di hardtack, qualche pezzo di maiale salato e un gallone di birra a bassa gradazione alcolica. Nel tardo XVIII secolo, l’hardtack entrò a far parte anche della dieta dei pescatori del New England: veniva utilizzato come addensante per le zuppe di mare, sbriciolandolo e mescolandolo agli altri ingredienti.

Grazie a John Billingas, soldato della guerra di secessione americana e autore di un libro di memorie intitolato “Hardtack and Coffee” (1887), abbiamo una descrizione dell’hardtack dal punto di vista di un soldato:

Cos’era la galletta? Era un semplice biscotto di farina e acqua. Due di esse, che ho in mio possesso come ricordo, misurano 3 pollici e 1/8 per 2 pollici e 7/8, e sono spesse quasi mezzo pollice. Sebbene questi biscotti venissero venduti a peso, venivano distribuiti agli uomini in numero, nove gallette costituivano una razione in alcuni reggimenti, dieci in altri reggimenti; ma di solito ce n’erano abbastanza per chi ne voleva di più, poiché alcuni non li utilizzavano. Per quanto l’ hardtack fosse nutriente, un uomo affamato poteva mangiare i suoi dieci in breve tempo ed essere ancora affamato.

Le proprietà dell’hardtack

Per quanto poco appetibile, l’hardtack fornisce un discreto quantitativo di calorie in poco spazio e senza la preoccupazione della conservazione. Una galletta da 24 grammi fornisce circa 100 kilocalorie, circa 5-6 grammi di grassi, due grammi di proteine e quasi nessuna fibra; il resto del peso è costituito da carboidrati.

Come tutti i prodotti realizzati con farine di cereali, biscotti e gallette tendono ad assorbire l’umidità ambientale. Per rallentare questo processo, i fornai tentavano di creare biscotti e gallette estremamente duri, cuocendoli da due a quattro volte e preparandoli in anticipo di 6 mesi dal loro effettivo consumo.

Se non viene inumidito, l’hardtack è così solido da risultare sostanzialmente immangiabile; viene descritto da coloro che lo consumarono come “denso a tal punto da essere quasi in grado di fermare una pallottola di moschetto”. Se addentato a secco, prosciuga completamente la bocca di ogni goccia di saliva, rendendo ancora più difficile la masticazione.

Per renderlo più masticabile, il biscotto veniva immerso in salamoia, caffè, alcolici o zuppe; non veniva solo consumato come semplice biscotto da inzuppare in qualche liquido, ma anche sbriciolato e impiegato come addensante per le zuppe.

Un altro modo per consumare l’hardtack era quello di sbriciolarlo il più possibile con il calcio di un fucile, o tramite un oggetto duro e pesante, aggiungendo quindi acqua, zucchero e whiskey per creare una pudding denso e grumoso da cuocere in pentola.

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La secchezza dell’hardtack è una proprietà indispensabile alla  lunga conservazione: se mantenuta intatta e all’asciutto, una galletta di hardtack può rimanere commestibile per anni, sopravvivere a sbalzi di temperatura estremi e resistere ad una manipolazione violenta.

Sulle navi del XVI-XVII secolo, tuttavia, non era semplice mantenere il cibo in condizioni ottimali. L’infestazione delle riserve alimentari da parte di insetti, batteri e muffe erano relativamente comuni durante i lunghi viaggi per mare, ma i marinai britannici escogitarono un semplice espediente per rimuovere i parassiti dal loro hardtack.

Immergendo l’hardtack nel caffè mattutino non solo si rendeva masticabile la galletta, ma si costringeva la maggior parte degli insetti infestanti, come il tonchio, a risalire in superficie per tentare di sopravvivere; dopo essersi liberati di tutti gli insetti galleggianti, i marinai erano finalmente pronti a consumare il loro biscotto accompagnato da caffè caldo.

Preparazione dell’hardtack

Non esiste un’unica ricetta per l’hardtack: ogni regione del pianeta lo chiamava in modo diverso, ma la base comune  era una miscela di farina e acqua, in proporzioni che variano da 3:1 a 5:1.

Per ottenere un hardtack durevole è necessario utilizzare poca acqua, e cercare di eliminarne il più possibile durante la cottura. La pasta, in fase di preparazione, non deve essere troppo dura, ma nemmeno attaccarsi alle mani; prima di cuocerla, occorre modellarla per ottenere gallette o crackers.

Dopo aver steso la pasta fino ad uno spessore di circa 1 centimetro, occorre tagliarla creando pezzi più o meno regolari. I soldati della guerra di secessione americana ricevevano gallette di 3 x 3 pollici (7,5 x 7,5 centimetri), dimensioni che facilitavano la cottura e il trasporto.

Creare dei piccoli fori sulle due superfici del cracker impedisce che la farina possa subire una piccola lievitazione, e aiuta cuocere uniformemente l’hardtack. La cottura delle gallette deve essere lunga e a bassa temperatura, cercando di evitare che imbruniscano troppo o si brucino.

La cottura, come suggerisce questa ricetta, dura circa 25-35 minuti a 190°C, e si cerca di ottenere una leggera brunitura della superficie delle gallette. A questo punto occorre rimuovere i biscotti dal forno per farli raffreddare completamente prima di procedere con una seconda cottura o con l’essiccazione all’aria per qualche giorno.

L’hardtack viene prodotto ancora oggi, anche se con un occhio orientato al mercato moderno: pur rispettando la ricetta di base, vengono spesso aggiunti aromi, spezie o altri ingredienti per renderlo più piacevole al palato.

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FOODS OF WAR: HARDTACK
Bucellatum – Roman Army Hardtack
Hardtack – The Ultimate Survival Food
#Hardtack: A Food to Break a Tooth On
Hardtack Described
Bucellatum (Roman hardtack)

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Video: epidemie nella storia dell’ umanità https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/ https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/#respond Thu, 09 Jul 2020 00:07:54 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4930 Le società moderne stanno gradualmente realizzando la fragilità dei loro sistemi, edificati nell’arco di millenni, di fronte alle nuove incertezze epidemiologiche. L’archeologia, la storia e la biologia possono fornire preziose informazioni sulle epidemie del passato, informazioni che possono aiutare i biologi moderni nell’elaborazione di strategie adatte ad affrontare le emergenze epidemiche moderne.

Olivier Dutour, professore alla Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, analizza in questo video le epidemie del passato, esaminando diversi aspetti che le hanno alimentate o hanno contribuiro a fermarle: antropologia epidemiologica, ecologia, medicina antica ed evoluzione degli agenti patogeni più temuti della storia, come la peste, la tubercolosi, la lebbra, il vaiolo e la sifilide.

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Lo zoo di Montezuma https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/ https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/#respond Mon, 18 May 2020 00:06:44 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4861 Prima dell’istituzione moderna dello zoo, alcuni sovrani o uomini particolarmente ricchi amavano collezionare animali nel loro serraglio privato. Collezionare animali rari o esotici era uno status symbol: dimostrava ricchezza, potere e connessioni commerciali ed economiche molto rilevanti con il resto del mondo.

Carlo Magno aveva ben tre serragli a Aachen, Nijmegen e Ingelheim, serragli che ospitavano scimmie, leoni, orsi, cammelli, falchi, uccelli esotici di ogni tipo e un esemplare di elefante, il primo registrato in Europa dai tempi dell’ Impero Romano.

Il serraglio dell’ imperatore Montezuma, spesso definito un vero e proprio zoo, merita tuttavia una menzione particolare per le sue dimensioni, per le risorse impiegate nel suo mantenimento e per la varietà di animali presenti al suo interno.

Serraglio, l’antenato del giardino zoologico

Il primo serraglio della storia sembra essere stato quello di Ieraconpoli, o Nekhen, una città egizia che si trova lungo la riva occidentale del Nilo e centro di culto del dio Horus (Nekhen significa “Città del Falco”). All’interno del serraglio, in attività circa 5.500 anni fa, si potevano osservare ippopotami, gnu, elefanti, babbuini e felini selvatici africani.

Nel II secolo a.C. l’imperatrice cinese Tanki istituì la “Casa del Cervo”, un serraglio dedicato in particolar modo ai cervidi, ma circa un millennio prima di lei il re Wen di Zhou aveva destinato una fetta di 6 km quadrati dei suoi possedimenti a quello che lui chiamava “Ling-Yu” (“Giardino dell’Intelligenza”, o “Parco Divino”), un serraglio in cui erano custodite alcune delle specie animali più curiose e rare del continente asiatico: antilopi, capre, cervidi, pesci, uccelli dai colori sgargianti e animali considerati sacri.

Sembra che i Greci amassero particolarmente l’istituzione del serraglio: molte città-stato avevano strutture adibite a zoo o voliere, e il serraglio di Alessandria arrivò a contenere una collezione di animali che farebbe impallidire alcuni zoo moderni: elefanti, felini di ogni tipo, giraffe, rinoceronti, diverse specie di antilopi, orsi, e probabilmente un enorme pitone africano.

La passione per il collezionismo di animali nella Roma antica si sviluppò intorno al III secolo a.C. ma pian piano perse di valore: la maggior parte dei serragli si occupavano principalmente di custodire animali destinati alle arene. Con il crollo dell’impero, il serraglio divenne sempre più un inutile e costosissimo show di potere che ben pochi potevano o volevano permettersi.

Intorno al XIII secolo iniziano ad apparire nuovamente serragli in tutta Europa: a Napoli, Firenze, Milano, Lisbona e Nicosia erano presenti serragli invidiati in tutto il Vecchio Continente. A Oriente, invece, Marco Polo visitava la personale collezione di animali di Kublai Khan, un serraglio che conteneva animali provenienti dall’Asia e dall’Africa.

Lo zoo di Montezuma

Nel libro VIII del Codice Fiorentino, ultima versione in spagnolo e lingua nauhatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España” di Bernardino de Sahagun, è presente l’illustrazione di alcuni “guardiani” addetti alla cura degli animali presenti nel serraglio di Montezuma, sovrano azteco con l’evidente passione per le bestie rare.

Secondo i resoconti in nostro possesso, Montezuma avrebbe posseduto un serraglio/zoo contenente un’infinità di animali: uccelli di ogni tipo e provenienza, leoni di montagna, ocelot e orsi. Il serraglio era così grande da richiedere la cura costante di almeno 300 guardiani.

Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577
Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577

Gli animali dello zoo consumavano quotidianamente la carne di oltre 500 tacchini, in particolar modo i grandi felini e gli uccelli rapaci. Un edificio era interamente dedicato a falchi e aquile, mentre una seconda struttura ospitava uccelli di altre specie; all’interno di queste strutture vivevano i guardiani, il cui unico scopo nella vita era quello di mantenere in salute gli animali sotto la loro custodia.

Secondo S.L. Washburn, del Dipartimento di Antropologia dell’ Università della California, Berkeley, i resti umani ottenuti dai sacrifici rituali venivano utilizzati per alimentare i grandi predatori dello zoo di Montezuma. I predatori di grossa taglia, come i leoni di montagna, ricevevano ogni giorno svariati chilogrammi di carne umana, viscere comprese, ottenendo un apporto di proteine sufficiente alla loro sopravvivenza.

L’area esterna dello zoo conteneva 20 stagni, 10 di acqua salata e i rimanenti pieni d’acqua dolce, che fornivano gli habitat ideali per pesci, anfibi, rettili e uccelli acquatici. Il serraglio ospitava anche grandi predatori come giaguari, puma, coccodrilli, orsi e lupi, e animali di taglia media o piccola, come scimmie, bradipi, armadilli e tartarughe.

Non solo: era presente un piccolo edificio nel quale erano rinchiuse diverse specie di serpenti a sonagli e viperidi, tenuti per cautela all’interno di contenitori di terracotta. Nel giardino, infine, vagava ciò che venne descritto “toro messicano”, considerato dagli Aztechi l’animale più raro e descritto come un animale del tutto simile al bisonte nordamericano.

Ma il diario di Cortez e i resoconti di alcuni dei suoi compagni di conquista citano anche alcune particolari sezioni di questo zoo destinate agli esseri umani.

La “Casa degli Umani”

Le descrizioni contemporanee e di poco posteriori non sono sempre concordi nei dettagli dello zoo di Montezuma, ma il resoconto di Cortez viene considerato uno dei più singolari perché cita una “Casa degli Umani”, un’area dello zoo adibita alla custodia di esseri umani.

Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali
Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali

Nel corso della descrizione di uno dei palazzi in cui Montezuma custodiva i suoi uccelli, Cortez afferma che:

“In questo palazzo c’è una stanza in cui ci sono uomini e donne e bambini, con viso, corpo, capelli, sopracciglia e ciglia tutti bianchi dalla nascita…Aveva un’altro edificio in cui c’erano molti uomini e donne mostruosi, tra i quali nani, persone con arti deformi, gobbi e altri con differenti deformità, e ogni persona aveva una stanza personale, e c’erano persone dedicate a fornire loro assistenza”

Secondo Francisco López de Gómara, storico e cappellano di Cortez che tuttavia mai accompagnò il conquistatore spagnolo nelle Americhe, le persone affette da nanismo o da deformità fisiche avevano un ruolo rilevante nella corte di Montezuma: venivano impiegati come confidenti, spie, servitori o intrattenitori. Alcuni godevano di uno status sociale così elevato da poter mangiare subito dopo il sovrano e i suoi commensali, prima di servitori e guardie.

Cortez tuttavia non cita il ruolo dei disabili fisici all’interno della corte o del sistema politico azteco. Li descrive rinchiusi in un edificio, ben nutriti e serviti ma pur sempre proprietà imperiali, non rispettati come esseri umani ma come possedimenti.

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Zoo History: The Halls of Montezuma
Menagerie
Animals and the Law: A Sourcebook
Were humans included in Moctezuma’s Zoo?
Cartas y relaciones de Hernan Cortés al emperador Carlos V

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Video: come rimuovere una freccia https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/ https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/#respond Wed, 04 Mar 2020 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4843 Come si può rimuovere una freccia medievale incastrata nei tessuti umani? Quanto è complicato rimuovere frecce dotate di barbigli o dalla cuspide non tradizionale? Questo video mostra una particolare tecnica di rimozione delle frecce impiegata durante il Medioevo.

Questa tecnica, esposta dal medico fiammingo Jan Ypermans all’inizio del 1300, prevede l’impiego di due penne d’oca per facilitare le operazioni di estrazione del dardo.

Durante il Medioevo furono definite due principali metodologie di rimozione di una freccia: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

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L’enigma della sifilide – Timeline https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/ https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/#comments Fri, 10 Jan 2020 00:17:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4758 Nel 1495 una nuova malattia colpì il Vecchio Continente: era mortale, devastante, e prendeva di mira chiunque dimostrasse una certa promiscuità sessuale. Come ebbe origine la sifilide?

L’ipotesi dominante fino a non molto tempo fa era che la sifilide fosse arrivata in Europa tramite lo “scambio colombiano”, conseguenza dei primi contatti con le Americhe. Insieme a tabacco e patate, Colombo ebbe il “merito” di portare la sifilide, inizialmente in Spagna poi in tutto il continente europeo, nel cuore di popolazioni che non avevano mai conosciuto la malattia.

Le prime ipotesi sull’ origine americana della sifilide ebbero origine con il medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: nel 1539 scritte il Tractado contra el mal serpentino que vulgarmente en España es llamado bubas, opera frutto del suo lavoro come medico a Barcellona e dei trattamenti curativi adoperati su alcuni marinai di Colombo.

Pochi anni dopo, Bartolomé de Las Casas contribuisce alle fondamenta della teoria sull’origine americana della sifilide con queste affermazioni della sua Storia generale delle Indie:

«C’erano e ci sono due cose in quest’isola che all’inizio furono molto penose per gli spagnoli: una è la malattia delle bubas che in Italia si chiama mal francese. È accertato che essa venne da quell’isola, e questo accadde, o al ritorno dell’ammiraglio Don Cristobal Colon, quando assieme alla notizia della scoperta delle Indie giunsero i primi indiani che io vidi fin dal loro arrivo a Siviglia, i quali importarono le bubas in Spagna infettando l’aria o in tutt’altro modo; o al tempo del primo ritorno a Castiglia, quando rientrarono alcuni spagnoli con le bubas, e questo poteva accadere tra il 1494 e il 1496. […] Io personalmente mi sono impegnato a più riprese a chiedere agli indiani se questo male esisteva già da tempo dalle loro parti, ed essi risposero affermativamente […] È anche accertato che tutti gli spagnoli incontinenti che su quell’isola non osservavano affatto la virtù della castità, furono colpiti dalle bubas e che, su cento, non ne sfuggì uno solo, salvo nel caso in cui l’altra parte non avesse mai avuto le bubas»

Ci sono tuttavia prove scheletriche del fatto che in Francia, Italia e Inghilterra la malattia fosse già conosciuta secoli prima del viaggio di Colombo. Alcuni resti ossei scoperti presso il monastero di Kingston-upon-Hull, in Inghilterra, hanno mostrato segni evidenti di sifilide risalenti ad oltre 1 secolo prima dell’ esplorazione dei continenti americani.

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Il documentario cerca di fare luce sull’origine della sifilide, esplorando i primi contatti con le malattie nordamericane ed esaminando le prove sulla sua possibile presenza in Europa prima della scoperta delle Americhe.

Sifilide

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Antiche strategie per la sopravvivenza invernale https://www.vitantica.net/2019/12/16/antiche-strategie-sopravvivenza-invernale/ https://www.vitantica.net/2019/12/16/antiche-strategie-sopravvivenza-invernale/#respond Mon, 16 Dec 2019 00:08:31 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4705 Vivere lungo le rive del Mediterraneo ha indubbi vantaggi: cibo in abbondanza, rotte commerciali marittime sempre a disposizione e una situazione climatica in grado di mitigare il freddo dell’inverno. Ma a latitudini sempre più prossime al Nord, l’essere umano è stato costretto ad escogitare sistemi in grado di proteggerlo dai pericoli invernali.

L’organismo umano, se esposto al gelo, cerca di regolare la temperatura corporea in modo tale che gli organi interni siano sempre in grado di funzionare correttamente. L’ipotermia insorge quando la temperatura interna scende a 35°C o meno: questa circostanza è molto più comune nei Paesi più settentrionali rispetto a quelli che godono di climi più miti, non solo d’inverno ma anche in presenza di vento o forte umidità.

Durante le passate glaciazioni, inoltre, la vasta copertura di ghiaccio che ricopriva buona parte dell’emisfero nord spinse il freddo verso limiti quasi intollerabili, costringendo i nostri antenati a difendersi dal clima rigido sfruttando ogni risorsa a disposizione.

Sopravvivere all’inverno durante i secoli passati richiedeva duro lavoro e una lunga preparazione. Tra le attività di primaria importanza c’erano la conservazione dei prodotti della terra, estivi e autunnali, la raccolta del legname necessario ad alimentare il focolare domestico e la messa all’ingrasso del bestiame, specialmente i maiali.

Pseudo-ibernazione

Sonno

Fino a non molto tempo fa, in Francia e in Russia era usanza dormire svariate ore durante la sezione diurna della giornata. Un documento del 1844 spiega che la maggior parte della gente “spende la giornata a letto, stringendosi l’uno con l’altro per stare caldi e mangiando meno cibo”.

Sulle Alpi era consuetudine dormire con vacche e maiali durante i mesi invernali per sfruttare il calore prodotto dal bestiame, mentre il British Medical Journal riportò agli inizi del 1900 che nella regione russa di Pskov gli abitanti dormivano circa metà giorni dell’anno, alzandosi dal letto solo per mangiare qualche pezzo di pane e badare al focolare.

Dormire nello stesso letto fu una strategia molto comune in tutto il mondo: i bambini dormivano insieme per tenersi al caldo, indossando uno strato aggiuntivo di vestiario adatto a proteggerli dal freddo della notte.

Zuppe e grasso

Timeline e storia del cibo e delle ricette

Durante il Medioevo russo le temperature crollavano così rapidamente col sopraggiungere dell’inverno che era di fatto impossibile lavorare nei campi da fine settembre a inizio febbraio.

I contadini erano in grado di sopravvivere nutrendosi di ciò che avevano raccolto durante i mesi più caldi: granaglie, verdure e frutta erano gli ingredienti più comuni per realizzare zuppe calde, ma venivano impiegati anche formaggi, uova e carne di ogni tipo (se disponibile).

Secondo la teoria umorale, l’umore dominante dell’inverno era il flegma, capace di causare pigrizia e malattie associate al freddo. Il testo del XIV secolo Secretum Secretorum consiglia di consumare fichi, uva, vino rosso e pasti caldi per combattere gli effetti del flegma, e di evitare salassi, lassativi e rapporti sessuali.

Gli alimenti ad elevato contenuto di grasso, grazie al loro apporto energetico, erano l’ideale per i freddi inverni. Il grasso animale, inoltre, poteva essere impiegato come unguento “antigelo”: ricoprendo il corpo di grasso d’orso o d’anatra si respinge l’umidità e si contribuisce a trattenere il calore corporeo.

Diversi tipi di casa
Il wigwam (o wikiup), la capanna dei nativi americani
Il wigwam (o wikiup), la capanna dei nativi americani

Charles Hudson, autore del libro “The Southeastern Indians” (Knoxville: Univ. of Tennessee Press, 1976), sostiene che nonostante le temperature delle Smoky Mountains scendessero sotto lo zero durante l’inverno, i nativi Cherokee indossavano pochi indumenti, ben poco adatti a proteggerli dal gelo.

La loro principale strategia di sopravvivenza durante l’inverno consisteva nella costruzione di residenze estive e case più adatte alla vita invernale, come i wigwam descritti in questo post.

Le case invernali venivano isolate utilizzando corteccia, erba e foglie incastrate in telai di legno resistente alla putrefazione. Nel Massachusetts, ad esempio, i nativi utilizzavano legno di cedro, che impiega da 15 a 20 anni per iniziare a decomporsi se inserito nel terreno, e corteccia estratta dallo stesso albero; in questo modo, la temperatura interna dei wigwam poteva rimanere costantemente sopra i 20 gradi.

Ogni abitazione invernale era dotata di panche ricoperte da stuoie di canne di fiume e pelli animali, e veniva riscaldata da un focolare centrale che distribuiva calore in tutta la struttura.

Il compito di mantenere il fuoco era spesso affidati agli anziani, che generalmente trascorrevano più tempo tra le mura domestiche, ed era un’attività di primaria importanza. “Gli esploratori europei che visitarono queste case invernali si lamentarono del fumo e della scarsa ventilazione, ma queste abitazioni erano in grado di mantenere efficientemente il calore” spiega Hudson. “Una piccola brace manteneva la casa invernale calda come un forno. Sotto i letti si conservavano zucche e altre verdure per proteggerle dal gelo”.

Abbigliamento

Abbigliamento invernale

La fabbricazione di abbigliamento fu uno degli elementi che consentirono l’espansione dell’essere umano verso Nord. Man mano che si spostavano dalle regioni equatoriali, i nostri antenati si trovarono ad affrontare il susseguirsi delle stagioni per la prima volta.

Se in primavera e in estate la natura forniva loro tutto il necessario per sopravvivere, durante l’inverno la disponibilità di cibo calava drasticamente, a tal punto da non consentire ad alcun primate (ad eccezione dell’essere umano) di sopravvivere.

Oltre ad essere forzati ad immagazzinare provviste per la stagione fredda, i nostri antenati furono anche costretti a realizzare indumenti in grado di proteggerli dalle intemperie e dalle basse temperature, specialmente considerando che alcuni dei primi esploratori delle regioni più settentrionali non conoscevano la manipolazione del fuoco.

I primi Sapiens

L’analisi degli antichi insediamenti umani dell’ Età della pietra hanno rivelato una presenza massiccia di ossa appartenute ad animali da pelliccia, come conigli, volpi e visoni. In una cinquantina di siti sono state rinvenute anche ossa di ghiottoni, la cui pelliccia viene ancora oggi utilizzata per realizzare i parka dei popoli artici.

“La pelliccia di ghiottone è la miglior pelliccia naturale per fabbricare i parka” spiega Mark Collard, professore di archeologia all’ Università di Aberdeen. “Fornisce una protezione eccellente contro il vento, ripara bene dalla brina ed è estremamente durevole”.

Gli abiti dei primi Sapiens venivano cuciti utilizzando aghi d’osso e utensili di pietra per raschiare le pelli. L’abbigliamento invernale non solo consentiva di sopravvivere all’inverno, ma anche di rendere più efficiente la caccia: dato che il principale metodo venatorio era l’agguato, un indumento in grado di tenere al caldo si rivelò un oggetto vincente durante i lunghi appostamenti che precedevano l’attacco ad una preda.

Prima dell’età del ferro

Grazie a Ötzi sappiamo come i suoi contemporanei dell’Età del rame si proteggevano dal freddo. L’ abbigliamento di Ötzi è interamente realizzato in pelle, pelliccia e materiale vegetale, materiali cuciti insieme da fibre vegetali o tendini.

La sopravveste di Ötzi lo copriva fino quasi al ginocchio e fu realizzata con pelliccia di capra e di pecora, avendo cura di tenere il pelo rivolto verso l’esterno. I gambali, una sorta di calzoni, sono anch’essi di capra e pecora, con i bordi rinforzati da strisce di pelle; venivano mantenuti in posizione grazie a legacci agganciati alla cintura e una linguetta che li fissava alle calzature.

Le scarpe di Ötzi furono realizzate a strati: la struttura interna era costituita da una rete di fibre di tiglio imbottita con erba secca, per ottenere un discreto isolamento termico. Il rivestimento esterno era in pelle di cervo, mentre la suola fu realizzata con pelliccia rivolta verso l’interno.

Romani

Nell’immaginario collettivo i Romani indossavano sandali e tuniche, un vestiario adatto al clima Mediterraneo ma ben poco efficace nelle regioni periferiche dell’impero. In Gallia o in Gran Bretagna, l’abbigliamento dei Romani era ben differente.

Il primo degli indumenti utilizzati per proteggersi dal freddo era il mantello, che si presentava in due principali varianti: la paenula, un mantello dotato di cappuccio, e il sagum, largo e pesante, capace di trattenere il calore corporeo.

Gli udones (calzini) erano fondamentali per la sopravvivenza nei climi più rigidi e venivano spesso inviati dalle famiglie ai parenti dislocati nelle regioni fredde. I pantaloni, considerati a Roma un indumento barbaro tipicamente indossato da tribù celtiche e germaniche, furono particolarmente apprezzati dai legionari romani in Gallia e in Dacia per la loro capacità di mantenere calde le gambe.

Medioevo

L’abbigliamento invernale di un contadino medievale era semplice: uno strato esterno di lana e indumenti intimi di lino. Lo strato di lino consentiva di tollerare il prurito causato dalla lana a contatto con la pelle e veniva lavato relativamente spesso, contrariamente allo strato esterno.

Il fumo del focolare, grazie alle numerose ore trascorse in casa, permeava gli indumenti di lana, contribuendo a ridurre gli odori molesti della lana non lavata. Se mantenuta con cura, la lana non trattata risulta parzialmente impermeabile, ma finisce inevitabilmente per inzupparsi sotto una pioggia abbondante.

Guanti, mantelli e cappelli di lana erano indumenti abbastanza comuni. Le scarpe erano generalmente prerogativa dei più abbienti, mentre gli stivali di cuoio non erano una rarità. I contadini generalmente non indossavano calzature.

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Fonti per “Antiche strategie per la sopravvivenza invernale”:

Surviving Winter in the Middle Ages
Surviving the Winter: Medieval-Style
How Did People Survive the Winter Hundreds of Years Ago?
L’abbigliamento di Ötzi
Ancient Cherokees found protection from the cold
How humans evolved to live in the cold
Early Europeans unwarmed by fire
How Parka jackets saved early humans from the chilly fate of the Neanderthals

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Polvere da sparo: Fire Lance, Bomba, and Devil’s Dung https://www.vitantica.net/2019/12/05/polvere-da-sparo-fire-lance-bomba-and-devils-dung/ https://www.vitantica.net/2019/12/05/polvere-da-sparo-fire-lance-bomba-and-devils-dung/#respond Thu, 05 Dec 2019 00:20:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4707 A distanza di qualche secolo dalla sua invenzione, la polvere nera iniziò a rivoluzionare la tecnologia bellica dei nostri antenati. Un antenato delle armi moderne fu uno strumento che in Cina veniva definito “lancia di fuoco”: un piccolo e rudimentale cannone inastato caricato a polvere nera.

Terrence, uno studente della University of Glasgow, impiega due differenti repliche della lancia di fuoco per effettuare un esperimento sulla loro efficacia.

La prima arma è in bronzo e viene accesa dall’imboccatura. La seconda è stata realizzata in legno d’ulivo legato con cordame di canapa ed è dotata di due coltelli in prossimità del foro d’uscita del proiettile.

L’esperimento ha mostrato che entrambe le armi possono risultare letali, anche se hanno una gittata ristretta. Questi strumenti si sono anche dimostrati più resistenti del previsto, non subendo danni evidenti dopo l’innesco.

La composizione della polvere è simile a quella indicata in alcuni manuali storici: 6 parti di resina di Ferula asafoetida, 3 parti di salnitro e 2 di zolfo per un mix a combustione lenta; 4 parti di resina, 1 di salnitro e una dose non specificata di sale e soluzione di etanolo (aqua vitae) per una combustione veloce.

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