esplorazione – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il ruolo di Bristol nell’esplorazione dell’ America del Nord https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/ https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/#respond Mon, 28 Dec 2020 00:15:31 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5087 La città di Bristol ha rivestito una certa importanza durante i viaggi esplorativi del XV e XVI secolo. Nella narrazione moderna che riguarda l’era delle grandi esplorazioni oceaniche si sente spesso parlare (per giusti e ovvi motivi) di Colombo, Magellano e Vespucci; ma coloro che oggi consideriamo “grandi esploratori” rappresentano solo una parte della storia.

I grandi viaggi oceanici sono stati resi possibili non solo dalle figure di spicco che hanno dato nomi a regioni o interi continenti, ma anche da marinai comuni, armatori semi-sconosciuti e persone che per sbarcare il lunario erano costrette a seguire gli spostamenti del pesce, spingendosi verso mari ignoti e terre mai toccate da piede europeo.

I marinai e i pescatori di Bristol parteciparono a loro modo all’impulso esplorativo del XV-XVI secolo, da una parte costretti a trovare nuove fonti di pesce e stringere nuovi rapporti commerciali, dall’altra motivati dalla ricerca di terre leggendarie inesistenti.

I navigatori-mercanti di Bristol

Intorno al XIII secolo Bristol iniziò a diventare un porto marittimo di una certa rilevanza: il vino francese, le spezie orientali e la lana proveniente dall’Europa settentrionale rappresentavano le principali mercanzie che transitavano per il porto, ma all’inizio del XV secolo il merluzzo iniziò a diventare fonte di grossi guadagni.

Il merluzzo pescato in Islanda dai marinai di Waterford e Cork, congelato in blocchi solidi (stoccafisso) facili da trasportare e da conservare, raggiungeva Bristol e veniva smistato in tutta Inghilterra scambiandolo con vestiti, alimenti non presenti in Irlanda e metalli.

Tra il XIV e il XV secolo secolo, la città di Bristol era considerata la terza città più popolata d’Inghilterra, dopo Londra e York, con circa 15-20.000 abitanti quasi totalmente impegnati, direttamente o indirettamente, nel commercio via mare.

Il commercio lungo le rotte atlantiche vedeva coinvolti almeno 250 mercanti di Bristol, che quotidianamente venivano a conoscenza di nuove rotte marittime, nuove opportunità da sfruttare e storie leggendarie che circolavano tra i marinai dell’epoca.

William Canynge, il primo grande mercante di Bristol, fu per cinque volte sindaco della città e possedeva una flotta di 10 navi e 800 marinai totalmente impegnata nel commercio di vino e di merluzzo.

Anche se la Lega Anseatica cercò di limitare il traffico di merluzzo da e verso Bristol, specialmente del merluzzo islandese, i pescatori e i commercianti di Bristol continuarono a intrattenere rapporti con i porti islandesi, e si spinsero oltre le regolari rotte commerciali del pesce superare i limiti imposti dalla Lega.

Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell'epoca
Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell’epoca

Un altro colpo per l’economia di Bristol che spinse i commercianti della città a cercare nuove rotte marittime fu la cattura di Costantinopoli da parte dell’Impero ottomano nel 1453. Costantinopoli rappresentava il fulcro dei traffici di spezie tra Europa e Asia, ma l’arrivo dei Turchi vide l’applicazione di nuove e pesanti tasse sulle esportazioni verso Ovest.

I marinai di Bristol ritenevano possibile circumnavigare l’Africa per raggiungere l’Asia, o che esistesse una rotta verso Ovest per raggiungere il Cipango (Giappone) e il Catai (Cina). Si tratta di idee del tutto analoghe a quelle che motivarono Cristoforo Colombo ad intraprendere l’attraversata dell’Atlantico: il celebre esploratore approdò nel 1476 proprio a Bristol, dove potrebbe aver assorbito i racconti dei marinai inglesi che avrebbero costituito le fondamenta del suo primo viaggio esplorativo.

Spingendosi verso i mari sud-occidentali in cerca di pesce, di nuove rotte marittime e di località con cui intrattenere interessanti rapporti commerciali, i marinai di Bristol potrebbero aver raggiunto le Americhe qualche anno prima del primo viaggio di Colombo.

L’isola di Hy-Brasil

L’esistenza dell’isola di Brasil, o Hy-Brasil, iniziò a circolare tra i marinai di Bristol all’inizio del XIV secolo. Un portolano del 1325 redatto da Angelino Dulcert riporta un’isola chiamata “Bracile” oltre l’Irlanda, verso Ovest; la mappa veneziana di Andrea Bianco, redatta circa un secolo dopo (1436), mostra l’ Insula de Brasil come facente parte di un gruppo di isole nel mezzo dell’Atlantico (probabilmente le Azzorre).

Anche una mappa catalana del 1480 riporta la “Illa de brasil” a sud-ovest dell’Irlanda. Alcune mappe e portolani la disegnano circolare, con un fiume centrale che corre lungo tutto il diametro, da est a ovest.

Oggi sappiamo che Hy-Brasil è in realtà un’isola immaginaria, che non ha riscontri nella realtà; ma nella Bristol del XV secolo la possibile esistenza di un’isola inesplorata era apparentemente un’opportunità così golosa da spingere gli armatori più grandi della città a imbastire spedizioni esplorative con lo scopo di scoprire l’isola.

Verso la fine del 1400 a Londra, grazie ai rapporti del diplomatico spagnolo Pedro de Ayala, era ormai noto che la città di Bristol avesse sponsorizzato diverse missioni esplorative negli anni precedenti, tutte volte alla scoperta dell’isola di Brasil.

sizione dell'isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell'epoca
sizione dell’isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell’epoca

Nel 1480 e nel 1481 due spedizioni lasciarono il porto di Bristol alla ricerca di Hy-Brasil, sostenute dai finanziamenti di John Day e Thomas Croft.

La spedizione di John Day, un inglese molto attivo nel commercio con la Spagna, sosteneva in una lettera indirizzata ad un tale “Grande Ammiraglio” spagnolo (alcuni storici affermano che fosse Colombo) che le terre scoperte da Giovanni Caboto nel 1497 fossero le stesse scoperte dai marinai di Bristol qualche anno prima.

La seconda spedizione vedeva coinvolte due navi, la George e la Trinity; dai diari di bordo sappiamo che i due vascelli trasportavano sale, molto probabilmente in previsione di incontri con grandi banchi di pesce.

L’isola di Hy-Brasil non fu mai scoperta, ma le teorie del professor David Beers Quinn affermano che i pescatori inglesi scoprirono i Grandi Banchi al largo di Terranova, acque ricche di merluzzo e di fatto suolo americano.

William Weston

Il primo inglese a condurre una spedizione in Nordamerica potrebbe essere stato William Weston, un mercante di Bristol che tra il 1499 e il 1500 posò piede sul suolo canadese. E’ possibile che Weston possa essere stato membro dell’equipaggio di Caboto nel 1497, anno in cui si svolse la prima spedizione europea nell’ America settentrionale (se escludiamo i viaggi norreni di 500 anni prima).

William Wenton lavorò a bordo della Trinity, una delle navi di Bristol che partecipò alla spedizione verso Hy-Brasil nel 1480. La licenza per la missione esplorativa di Weston del 1499 sembra essere legata alla spedizione di Caboto, per cui è molto probabile che l’esploratore di Bristol fosse un compagno di viaggio, se non addirittura un amico, del viaggiatore veneziano.

La data esatta del viaggio esplorativo di Weston non è nota, anche se l’ipotesi dominante è che sia iniziata un anno dopo dal ritorno di Caboto. La destinazione raggiunta dalla spedizione è sconosciuta, ma sappiamo per certo che nel 1500 Weston fu ricompensato dal re con una somma di 30 sterline “per le spese sostenute durante la ricerca di nuove terre”.

Lo storico inglese Alwyn A. Ruddock ha sostenuto che Weston possa essersi spinto in profondità nell’Atlantico nord-occidentale, probabilmente raggiungendo la Baia di Hudson, località che riceverà il suo nome solo oltre un secolo dopo, nel 1610, quando Henry Hudson la raggiunse a bordo del veliero Discovery.

English Voyages before Cabot
William Weston: early voyager to the New World
Bristol’s Transatlantic Explorations Prior to 1497
Sebastian Cabot and Bristol Exploration

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Zuppa tascabile degli esploratori del XVIII secolo https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/#comments Tue, 13 Oct 2020 00:10:26 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4981 L’hardtack non era l’unico cibo a disposizione dei marinai che solcavano il mare nei secoli passati: carne e pesce salati, farina, avena, olio, formaggio e alcolici erano comuni nelle stive di mercantili, navi da guerra o vascelli dediti all’esplorazione di mari sconosciuti.

Tra il XVIII e il XIX secolo le navi francesi e britanniche iniziarono ad includere nelle loro stive quella che veniva definita “zuppa portatile”, “zuppa di vitello” o “zuppa tascabile”, un alimento disidratato utile ad insaporire ed arricchire di nutrienti le razioni di cibo disponibili a bordo. La zuppa tascabile era del tutto simile, per impiego culinario, ai dadi da brodo moderni.

L’origine della zuppa portatile

L’esistenza della zuppa portatile viene documentata ben prima del XVIII secolo. Un resoconto del XIV secolo descrive come i cavalieri ungheresi utilizzassero una sorta di zuppa istantanea che veniva prodotta facendo bollire grandi quantità di carne salata per lungo tempo, fino a quando le fibre si staccavano da sole dall’osso, per poi lasciar asciugare e rapprendere questo brodo allo scopo di ottenere un composto rigido da tagliare o sbriciolare quando necessario.

Tra il 1500 e il 1600 Sir Hugh Plat, agricoltore e inventore inglese autore di svariati libri sulle materie più disparate, cita il potenziale militare della zuppa tascabile per l’esercito e la marina inglesi.

Plat suggerisce che l’uso di tavolette di zuppa portatile renderebbe molto più digeribili i pasti dei soldati in marcia, o dei marinai diretti verso lidi lontani; questo alimento disidratato era inoltre ideale per il trasporto: consumava poco spazio rispetto a quello occupato dagli ingredienti necessari per produrlo, un vantaggio per nulla trascurabile specialmente se si considerano gli spazi limitati di una stiva.

L’ideatrice della produzione di massa della zuppa portatile fu Mrs Dubois, che operava da una locanda in Fleet Street, Londra, chiamata “Golden Head“. Nel 1756, insieme all’inventore William Cookworthy e al marito Edward Bennet, ottenne un contratto con la Royal Navy per rifornire ogni equipaggio delle navi militari inglesi con razioni di zuppa tascabile.

Le alte cariche militari dell’epoca ritenevano che la zuppa portatile potesse prevenire lo scorbuto, una malattia tragicamente comune per i marinai durante i lunghi viaggi oceanici: il contratto di fornitura con Mrs Dubois consentì di inserire la zuppa tascabile nelle razioni di ogni marinaio a partire dalla fine degli anni ’50 del 1700.

La zuppa portatile non era esclusivamente un alimento destinato alla vita sul mare: Lewis e Clark, durante la loro spedizione attraverso il continente nordamericano, acquistarono a Philadelphia un carico di quasi 90 kg di zuppa, carico che si rivelò provvidenziale secondo il diario di Patrick Grass, il carpentiere della spedizione:

“Nessuno dei cacciatori ha avuto successo ad eccezione di 2 o 3 fagiani; senza un miracolo era impossibile sfamare 30 uomini affamati. Quindi il capitano Lewis distribuì parte della zuppa tascabile che aveva acquistato in caso di necessità”.

Nel 1815, tuttavia, il medico britannico Gilbert Blane analizzò lo stato di salute dei membri della Royal Navy tra il 1779 e il 1814, scoprendo che la zuppa portatile non era per nulla efficace nella lotta contro lo scorbuto, e non portava evidenti miglioramenti nella salute dei marinai che trascorrevano molto tempo in mare; la marina britannica iniziò a rimuovere la zuppa tascabile dalle razioni standard in favore della carne in scatola, più nutriente e protetta da involucri metallici.

La produzione di zuppa tascabile

La ricetta di base esposta da Plat prevedeva la bollitura di zampe bovine per lungo tempo e a bassa temperatura, fino ad ottenere un brodo saporito e denso. Hannah Glasse e William Gelleroy suggeriscono di bollire le proteine animali fino a quando “la carne ha perso tutte le sue proprietà”, suggerimento che non contribuisce a fornire delle tempistiche esatte; dalla produzione ottocentesca e dalle moderne riproduzioni di zuppa tascabile sappiamo tuttavia che i tempi di bollitura erano compresi tra le 8 e le 12 ore.

La ricetta di Hannah Glasse, riportata nel libro “The Art of Cookery Made Plain and Easy” (1747), elenca tra gli ingredienti: due zampe di vitello, acciughe, chiodi di garofano, pepe bianco e nero, cipolle, maggiorana e timo.

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Il brodo veniva quindi filtrato e ridotto, tramite ulteriore bollitura, ad una gelatina (se già le 12 ore di cottura non avevano ottenuto lo stesso risultato), successivamente esposta a luce solare e vento invernali per perdere la maggior parte dell’acqua che conteneva; il prodotto così ottenuto veniva tagliato in pezzi, e ogni frammento veniva coperto di farina per evitare che si appiccicasse agli altri.

Secondo Plat era necessario non aggiungere sale o zucchero durante la preparazione del brodo, perché durante il procedimento di riduzione i sapori si sarebbero concentrati. Era inoltre fondamentale sgrassare il brodo rimuovendo il più possibile il grasso, per evitare che diventasse rancido e ottenere una consistenza più rigida.

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Il brodo tascabile veniva prodotto durante i primi mesi dell’anno, sfruttando il gelo invernale per far solidificare più agevolmente la gelatina in un unico blocco dalla consistenza uniforme. I frammenti di zuppa tascabile potevano conservarsi per almeno un anno, e venivano generalmente disciolti in acqua per creare in poco tempo un brodo saporito in cui cuocere le razioni di cibo.

Cibo d’emergenza

La zuppa tascabile fu per molto tempo utilizzata per insaporire zuppe, o consumata come alimento d’emergenza. Ingerire frammenti di brodo solidificato era un’eventualità che ogni soldato o marinaio voleva scongiurare a causa del sapore poco appetibile.

Bisogna considerare che le condizioni igieniche dell’epoca non sempre consentivano la produzione di brodo tascabile partendo da ingredienti di prima qualità: la carne impiegata era spesso di seconda o terza scelta, e in buona parte non propriamente conservata.

James Cook, prima del suo viaggio verso l’Australia nel 1772, caricò a bordo circa mezza tonnellata di zuppa portatile nella speranza di poter prevenire eventuali emergenze alimentari e fornire nutrienti ai suoi marinai malati. Dopo aver servito all’equipaggio zuppa tascabile sciolta nell’acqua e mescolata a farina di piselli, alcuni marinai rifiutarono il pasto per via del suo sapore disgustoso, accettando di buon grado la fustigazione pur di non ingerire la brodaglia.

Patrick Grass, subito dopo aver descritto l’impiego di zuppa portatile come cibo d’emergenza durante la spedizione di Lewis e Clark, continua dicendo che “alcuni uomini non apprezzarono questa zuppa e decisero di uccidere un puledro”.

Portable Soup – Wikipedia
Portable Soup
Who Put the Paprika in Goulash…and Other Hungarian Soup Tales
The Luke-Warm, Gluey, History of Portable Soup

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Team giapponese replica l’antica (e ipotetica) migrazione da Taiwan a Okinawa https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/ https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/#comments Mon, 15 Jul 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4419 Secondo i maggiori esperti del Paleolitico giapponese, i primi insediamenti umani in Giappone risalirebbero a circa 30.000 anni fa. Ad oggi non abbiamo alcuna certezza su come le isole nipponiche siano state popolate dall’uomo in epoca paleolitica, ma gli studiosi della preistoria giapponese hanno formulato tre differenti ipotesi.

La prima ipotesi prevede che i primi abitanti del Giappone siano giunti dalla Corea attraverso lo stretto di Tsushima; la seconda, invece, sostiene che le comunità paleolitiche eurasiatiche abbiano attraversato il lembo di mare tra la Russia e Hokkaido per poi superare lo stretto di Tsugaru, che separa l’isola di Hokkaido da quella di Honshu.

La terza ipotesi, invece, afferma che gli esseri umani giunti in Giappone intorno a 30-40.000 anni fa provenissero da Taiwan. Per dimostrare la fattibilità dell’impresa, un team di ricercatori giapponesi e taiwanesi ha percorso il tratto di mare che separa Taiwan dall’isola giapponese di Yonaguni a bordo di una canoa a scafo monossilo.

Una traversata senza strumenti

La traversata di 200 km è stata compiuta a bordo di una canoa ricavata da un singolo tronco d’albero, lunga 7,6 metri e larga 70 centimetri. I cinque membri dell’equipaggio, un taiwanese e 4 giapponesi, hanno solcato il mare per due giorni consecutivi orientandosi esclusivamente con il sole, le stelle e i venti seguendo i metodi tradizionali di navigazione utilizzati nel Pacifico, come il sistema di navigazione polinesiano.

Il progetto, iniziato nel 2017 grazie alla collaborazione del National Museum of Nature and Science giapponese e del National Museum of Prehistory di Taiwan, aveva l’obiettivo di verificare la fattibilità di un viaggio simile utilizzando la tecnologia paleolitica.

“E’ stato un viaggio perfetto” spiega Koji Hara, uno dei 5 membri dell’equipaggio. “La Corrente Nera ha trasportato la canoa e ci siamo limitati a manovrarla un pochino”. All’arrivo sull’isola di Yonaguni, la spedizione è stata accolta dalle celebrazioni dei residenti, lieti di vedere il progetto concludersi con successo.

Prima di questa spedizione erano stati effettuati altri due tentativi, uno nel 2017 e un altro nel 2018, partendo dall’isola di Yonaguni a bordo di imbarcazioni realizzate con paglia, bambù e rattan. La prima spedizione ha coperto solo 66 km, mentre la seconda ha resistito poco al mare aperto, costringendo l’equipaggio ad interrompere l’impresa.

Kuroshio, la Corrente Giapponese

Quella che viene definita come “Corrente Nera”, “Kuroshio” o “Corrente Giapponese” è una corrente oceanica nel Pacifico settentrionale che ha inizio nelle Filippine e fluisce verso Nord lungo la costa orientale del Giappone. Si tratta essenzialmente di una corrente che svolge una funziona analoga alla Corrente del Golfo atlantica, trasportando acqua calda tropicale verso le regioni polari.

La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan
La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan

Durante il suo passaggio, la Corrente Giapponese crea vasti vortici del diametro di 100-300 km che possono persistere per mesi interi. Questi vortici sembrano rappresentare un ambiente ideale per la sopravvivenza di molte specie di larve di pesce e favorire l’accumulo di plankton.

L’isola di Yonaguni, appartenente alla prefettura di Okinawa, si trova nel bel mezzo della corrente Kuroshio. Essendo l’ultima isola giapponese a Sud prima di Taiwan, potrebbe aver rappresentato il primo approdo per raggiungere le isole maggiori giapponesi.

Yonaguni costituisce infatti il primo passo per raggiungere Okinawa: superando tratti di mare di 50-100 km seguendo la Corrente Nera, è possibile raggiungere l’isola di Ishigaki, quella di Miyakojima e infine Okinawa. Spingendosi ancora più a nord sospinti dalla Kuroshio si raggiunge il Kyūshū, una delle isole maggiori del Giappone.

Diverse ondate migratorie

La maggior parte delle ricerche antropologiche sugli antichi abitanti del Giappone suggeriscono che le isole nipponiche siano state occupate in almeno due ondate migratorie; la più recente si è verificata circa 2.300 anni fa tra Corea e Giappone.

Per quanto riguarda il flusso migratorio più antico, le analisi della morfologia dentale degli antichi giapponesi suggerirebbero che le isole maggiori siano state popolate circa 30.000 anni fa da individui provenienti da Okinawa; la genetica, invece, propone l’ipotesi di un arrivo precedente, circa 40.000 anni fa, frutto di un’ondata migratoria partita dalla Siberia.

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Lo scenario più probabile è che le isole maggiori del Giappone siano state occupate da migrazioni provenienti dalla Siberia, dalla Corea e da Taiwan, e non da un singolo evento migratorio localizzabile con precisione. Alcuni archeologi ritengono inoltre che i primi abitanti giapponesi siano giunti 100.000 anni fa sfruttando ponti di terre emerse che collegavano la penisola coreana con Honshu e Hokkaido.

Team successfully replicates imagined ancient sea migration from Taiwan to Okinawa
Advanced maritime adaptation in the western Pacific coastal region extends back to 35,000-30,000 years before present
EARLY MAN IN JAPAN

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La storia di Hugh Glass https://www.vitantica.net/2019/06/24/la-storia-di-hugh-glass/ https://www.vitantica.net/2019/06/24/la-storia-di-hugh-glass/#comments Mon, 24 Jun 2019 00:02:17 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4353 Hugh Glass fu un uomo di frontiera, cacciatore ed esploratore americano rimasto nell’immaginario collettivo per il suo tragico incontro con un grizzly. Il suo devastante incontro con un orso e la sua straordinaria capacità di sopravvivenza, con l’aggiunta di particolari di fantasia o non confermati, sono stati rappresentati nel film “The Revenant“, in cui Leonardo DiCaprio interpretava il cacciatore di pelli di origini irlandesi-scozzesi.

Ma quanto c’è di vero nella pellicola cinematografica? Quanto realmente sappiamo sulla vita e sulle imprese di Hugh Glass, uno degli uomini-simbolo della vita nella natura selvaggia e della lotta feroce per la sopravvivenza?

Hugh Glass, pirati e Pawnee

Si sa ben poco sulla vita di Hugh Glass prima della spedizione di caccia che lo portò all’incontro con un grizzly. Sappiamo che nacque in Pennsylvania, ma la data (1783) e la località (Stanton) di nascita sono tutt’ora difficilmente dimostrabili con la documentazione dell’epoca.

Nelle memorie di George C. Yount, un cacciatore di pelli che nel 1825 attraversò le Montagne Rocciose in compagnia di Hugh Glass, ci viene raccontato che tra il 1817 e il 1820 l’esploratore si trovava probabilmente a bordo di un vascello americano catturato dal celebre pirata francese Jean Lafitte.

Secondo il racconto di Yount, Lafitte offrì a Glass due opzioni: morire sul posto o entrare a far parte della sua ciurma. Glass scelse la seconda e per i successivi due anni visse in una piccola colonia a Galveston Island chiamata Campeachy, una località pericolosa non solo per la presenza di pirati che solcavano il Golfo del Messico ma anche a causa delle tribù native locali che non perdevano occasione per uccidere e cannibalizzare gli Europei.

Giunto il momento opportuno, Glass ed un suo compagno decisero di fuggire dalla nave di Lafitte nuotando per tre chilometri per raggiungere la terraferma e sopravvivendo con la caccia e la raccolta, cercando di rimanere nascosti dai nativi Karankawa mentre tentavano di trovare un insediamento sicuro in cui rifugiarsi.

Ritratto di Hugh Glass
Ritratto di Hugh Glass

Glass e il suo compagno viaggiarono per oltre 1.500 km verso Nord (secondo la versione dei fatti raccontata da Glass a Yount) in pieno territorio indiano, evitando nativi Comanche, Osage e Kiowa ma imbattendosi in un gruppo di Skiri, una tribù Pawnee nota per effettuare sacrifici umani. Hugh fu costretto ad assistere al sacrificio del suo compagno di fuga e fu inizialmente risparmiato in attesa del momento propizio per compiere un altro rituale sacrificale.

Per qualche ragione non ancora chiara, Glass fu risparmiato. La leggenda vuole che, al momento del suo sacrificio, Glass si inchinò di fronte al capo tribù offrendogli una fiala di polvere di cinabro, un minerale rosso a base di mercurio utilizzato come pigmento di guerra dai Pawnee e da altre tribù di nativi. Impressionato dal gesto, il capo clan decise di salvare quel’uomo bianco e renderlo un membro della comunità.

Secondo il racconto trascritto da Yount, fu adottato come figlio dal capo tribù. Nel corso della sua permanenza con i Pawnee, Glass apprese i loro segreti di sopravvivenza, si sposò con una nativa e partecipò ad alcune guerre tra clan rivali, prima di abbandonare la tribù per unirsi alle spedizioni europee di cacciatori di pelli.

Gli storici del West non sono in grado di determinare quanto il racconto di Yount sia vero. Glass era sicuramente in buoni rapporti con i Pawnee, ma è possibile che la sua storia sia stata arricchita di elementi di fantasia.

Non abbiamo alcuna prova certa, e spesso nemmeno uno straccio di indizio, che Glass avesse effettivamente sposato una Pawnee, come non esistono prove della sua partecipazione a guerre tra clan di nativi.

La spedizione di William Ashley del 1821

L’epoca degli “uomini di montagna” (mountain men), cacciatori di pelli coriacei e in grado di sopravvivere tra la natura selvaggia del West, inizia ufficialmente con i “100 giovani intraprendenti”, una spedizione voluta dal generale William Henry Ashley, membro della Rocky Mountain Fur Company, allo scopo di seguire il percorso del fiume Missouri per raggiungere le zone più ricche di castori.

I “100 di Ashley” contavano mountain men celebri, come Jedediah Smith, James Beckwourth, John S. Fitzgerald, David Jackson e William Sublette, ma Glass non fu tra i primi ad arruolarsi e si unì alla spedizione solo l’anno successivo, nel giugno 1823.

Poco dopo il suo arrivo, la spedizione fu attaccata da un gruppo di Arikara, nativi locali dediti all’agricoltura di sussistenza e al commercio di prodotti locali come mais, zucche e tabacco. I coloni europei consideravano gli Arikara troppo imprevedibili e il fatto di averli estromessi dal commercio di pelliccia li rendeva ancora più pericolosi, visti i precedenti di rapine e omicidi nei confronti di commercianti di pelli di passaggio.

Ashley sbarcò nei pressi di uno dei due villaggi Arikara sul fiume Missouri per tentare di trattare con loro ed evitare problemi futuri; i nativi desideravano compensazione per l’uccisione di alcuni loro guerrieri da parte di un’altra compagnia di cacciatori di pelli, ed Ashley non esitò a ripagarli pur di mantenere rapporti pacifici con loro.

Jedediah Smith
Jedediah Strong Smith, uno dei più celebri mountain men e membro della spedizione di Ashley. Nel 1823 anche lui sarà vittima dell’attacco di un grizzly, riportando costole rotte, un orecchio staccato  (ricucito sul campo da un suo compagno) e una profonda cicatrice sul viso.

Dopo aver ottenuto qualche decina di cavalli cedendo in cambio di 25 moschetti con munizioni, Ashley ordinò a Jedediah Smith e ai suoi uomini (tra i quali Hugh Glass) di sorvegliare la piccola mandria e guidarla a Fort Henry il giorno successivo.

Durante la notte, si udirono grida provenire da uno dei villaggi: Edward Rose e Aaron Stephens, due cacciatori della compagnia di Ashley, si erano introdotti nell’accampamento dei nativi al tramonto, in cerca di compagnia femminile. Rose arrivò dai suoi compagni correndo, gridando che Stephens era stato ucciso e mettendo in allerta tutta la compagnia di cacciatori. Ashley decise comunque di attendere l’alba prima di abbandonare il posto.

Alle prime luci dell’alba, Ashley e la compagnia si resero conto della situazione: i guerrieri Arikara erano chiaramente visibili lungo la palizzata che delimitava il loro villaggio, intenti a caricare i moschetti scambiati recentemente con gli esploratori in cambio di cavalli.

In poco tempo iniziarono ad esplodere colpi verso Ashley e i suoi uomini, rendendone difficile la fuga. Convinti della loro vittoria, gli Arikara abbandonarono la sicurezza della palizzata per avvicinarsi ai cacciatori. Gli esploratori europei in grado di nuotare si lanciarono nel fiume; i più deboli e i feriti sparirono tra le correnti.

Nel giro di circa 15 minuti dal primo colpo di moschetto, 14 uomini di Ashley avevano perso la vita e 11 erano rimasti feriti, tra i quali anche Hugh Glass. I sopravvissuti riuscirono a fuggire per rifugiarsi a Fort Kiowa, dove Glass ebbe modo di riprendersi dalla ferita ed essere reclutato per una nuova spedizione verso Fort Henry sotto la guida di Andrew Henry e in compagnia di altri 30 uomini.

Il grizzly più famoso della storia (e del cinema)

Hugh Glass e il grizzly

La spedizione di Henry e Glass fu attaccata durante la notte da due tribù Hidatsa, generalmente amichevoli verso gli esploratori bianchi. Questo insolito attacco causò la morte di due uomini e il ferimento di altri due, come raccontò in seguito Moses “Black” Harris, uno dei membri della spedizione.

Dopo essere sfuggiti all’attacco e aver raggiunto la Grand River Valley, Glass si distaccò dal gruppo per le attività di caccia, incontrando una femmina di grizzly in compagnia di due cuccioli. Non appena notò la sua presenza, l’orso attaccò quasi immediatamente il cacciatore colpendolo ripetutamente con le zampe, mordendolo alla testa e saltandogli sul corpo.

Glass tentò inizialmente di difendersi, sparando con il suo fucile contro l’orso in carica, ma il colpo sembrò non avere alcun effetto. Tentò anche di arrampicarsi su un albero dopo aver subito la prima carica, ma il grizzly lo trascinò a terra e gli strappò brandelli di carne dalla schiena. Dopo una piccola pausa per portare i pezzi di carne umana ai suoi piccoli, l’orso riprese ad attaccare Glass, che lo colpì ripetutamente con il suo pugnale.

Non sappiamo se furono il fucile ed il pugnale di Glass ad uccidere l’orso, o i colpi esplosi da altri due cacciatori che accorsero sul posto dopo aver sentito i gemiti disperati dell’uomo. Sappiamo però che il grizzly fu ucciso e scuoiato per la sua pelliccia.

Le condizioni di Glass furono giudicate così gravi da non lasciar sperare nulla di buono: i membri della spedizione erano certi che l’uomo sarebbe morto entro la mattinata successiva. All’alba tuttavia Glass era ancora vivo: Henry, per non mettere a rischio l’intera compagnia, decise di trasportare il ferito su una lettiga improvvisata con rami di pino.

Per due giorni i compagni di Glass lo trasportarono lungo il fiume Yellowstone, un tributario del fiume Missouri, procedendo con lentezza pericolosa: il rischio di attacco da parte dei nativi era troppo alto e costrinse Henry a lasciare due volontari in compagnia di Glass nell’attesa del suo imminente decesso, in modo tale da far procedere la compagnia più velocemente.

I due volontari, che accettarono una ricompensa di 80 dollari (altre fonti dicono 400 $) per rimanere al fianco di Glass, erano John Fitzgerald e un giovane di nome James Bridger (chiamato “Bridges” in uno dei resoconti dell’epoca), ma l’dentità di quest’ultimo non è del tutto certa.

Anche se incapace di muoversi, Glass era ancora vivo cinque giorni dopo la partenza di Henry. Terrorizzati da una possibile aggressione da parte dei nativi, Fitzgerald e Bridger decisero di abbandonare il compagno nei pressi di una sorgente prendendo con loro tutto l’equipaggiamento di Glass, compresa la sua arma da fuoco, il suo coltello, un tomahawk e il kit per il fuoco.

L’epica sopravvivenza di Glass

Solo, ferito e senza equipaggiamento, Glass radunò le poche energie rimaste per strisciare verso il fiume Missouri per poter raggiungere Fort Kiowa, l’unico posto in cui avrebbe potuto curare efficacemente le sue ferite e riottenere l’equipaggiamento perduto.

Il percorso di Hugh Glass fino a Fort Kiowa
Il percorso di Hugh Glass fino a Fort Kiowa

Per rendere l’idea delle condizioni di Glass, secondo i resoconti di Henry e dei mebri della spedizione il cacciatore aveva una frattura scomposta alla gamba, la gola totalmente compromessa (non riuscì più a parlare con la sua voce naturale per il resto della sua vita) e ferite così profonde sulla schiena da lasciare esposte le costole. Glass sistemò l’osso della gamba alla meglio, si avvolse nella pelle d’orso che era stata posata su di lui come sudario e iniziò a muoversi trascinandosi sul terreno con le braccia e la gamba sana.

A causa delle ferite, il viaggio fu inizialmente molto lento e faticoso. Glass fu costretto a nutrirsi di insetti, serpenti e bacche. Dopo una settimana, l’esploratore si trovò ad assistere ad un attacco di lupi nei confronti di un cucciolo di bisonte; attendendo con pazienza il momento propizio, riuscì a sottrarre ai predatori ormai sazi una buona metà della carcassa.

Glass si accampò per qualche giorno, dando modo al corpo di riprendersi grazie alle proteine ottenute dal bisonte. Riuscì a recuperare parzialmente le energie, a curare le ferite più lievi e a prevenire la cancrena di quelle più profonde lasciando che i vermi si cibassero della carne in decomposizione in corrispondenza delle lesioni.

In qualche modo Glass riuscì a raggiungere il fiume Missouri e ad ottenere una canoa di pelli da alcuni indiani Lakota (che gli offirono un pasto a base di carne di cane), raggiungendo così Fort Kiowa nell’ottobre del 1823 dopo aver coperto oltre 300 km.

Dopo aver recuperato le forze, Glass era intenzionato a cercare vendetta nei confronti di chi lo aveva abbandonato sequestrandogli ogni strumento utile a sopravvivere. Essendo venuto a sapere che Fitzgerald e Bridger si trovavano a Fort Henry, si aggregò ad una spedizione diretta verso il forte dopo aver ottenuto a credito un fucile, delle munizioni e alcuni beni di prima necessità.

Anche in questo caso, Glass si salvò per il rotto della cuffia sbarcando un giorno prima che gli Arikara massacrassero l’intera spedizione. Dopo essere stato avvistato dagli Arikara il giorno successivo, fu tratto in salvo da due guerrieri Mandan che lo trasportarono a Tilton’s Post, un punto di scambio della Columbia Fur Company. La notte stessa Glass lasciò il fortino per raggiungere Fort Henry, non sapendo che Andrew Henry era stato costretto ad abbandonarlo a causa degli attacchi dei Piedi Neri.

Dopo 38 giorni di marcia, Glass raggiunse un Fort Henry deserto. Secondo alcuni storici, l’esploratore trovò un biglietto che spiegava le ragioni dell’abbandono e la posizione del nuovo Fort Henry; Hugh fu comunque in grado di determinare la posizione del fortino, collocato a circa 50 km di distanza, e raggiungerlo nel capodanno del 1823.

La rinuncia alla vendetta

Gli uomini di Fort Henry furono inizialmente sgomenti nel vedere Glass vivo e vegeto. Il cacciatore fu inondato di domande su come fosse riuscito a sopravvivere, domande a cui rispose con calma apparente per poi chiedere “Dove sono Fitzgerald e Bridger?”.

L’unico presente a Fort Henry era Bridger. Dopo un breve confronto sulle ragioni del suo abbandono, Glass decise di perdonare il giovane cacciatore, ritenendo che la vera colpa delle sue sventure fosse attribuibile a Fitzgerald. Decise quindi di ripartire, al termine del periodo più duro dell’inverno, per Fort Atkinson, meta dell’uomo che lo aveva abbandonato.

Secondo i racconti dell’epoca, la vendetta di Glass, più che per l’abbandono in balia degli elementi, era incentrata sul recupero del suo amato fucile, un Hawken calibro .54 che lo accompagnava fin dalla sua permanenza con i Pawnee dopo la fuga dal pirata Lafitte.

In compagnia di altri 4 uomini, Glass lasciò Fort Henry il 29 febbraio 1824 con la missione ufficiale di consegnare un dispaccio a Fort Atkinson, ma con il preciso intento di recuperare il suo fucile e farla pagare a Fitzgerald. L’arrivo della primavera aveva riempito i fiumi con l’acqua di disgelo, forzando gli uomini a costruire canoe di pelle di bisonte per percorrere agevolmente il North Platte River.

Dopo qualche giorno il gruppo si imbattè in alcuni indiani lungo la riva del fiume. Pensando che fossero Pawnee, in 4 sbarcarono accettando l’invito del capo tribù ad unirsi a loro. Glass tuttavia riuscì ad accorgersi che alcuni nativi parlavano un dialetto Arikara: alla prima occasione tentò la fuga con i compagni, ma finì per restare ancora una volta isolato nella natura selvaggia, senza fucili (rimasti sulle imbarcazioni) e a centinaia di chilometri di distanza dalla civiltà.

Per evitare l’incontro con altri Arikara, Glass lasciò le rive del fiume e iniziò a dirigersi verso Fort Kiowa. Fortunatamente per lui, la primavera gli offrì numerosi cuccioli di bisonte da uccidere per sostenersi durante il viaggio, riuscendo a raggiungere il forte senza problemi o incontri con nativi ostili.

Tornato a Fort Kiowa, Glass ripartì quasi immediatamente per Fort Atkinson, raggiungendo il fortino nel giugno del 1824 e chiedendo al suo arrivo un faccia a faccia con Fitzgerald. Quest’ultimo, arruolatosi nell’esercito, era ormai considerato tecnicamente “proprietà del governo”: dopo aver ascoltato il racconto di Glass, il capitano della compagnia restituì all’esploratore il fucile sottratto da Fitgerand un anno prima e lo obbligò a dimenticare l’accaduto per non incorrere nelle gravi punizioni previste per l’assalto ad un soldato.

Glass dimenticò Fitzgerald anche grazie al rimborso di 300 dollari ricevuto dal capitato di compagnia di Fort Atkinson come compensazione per le peripezie vissute a causa di Fitzgerald.

Glass continuò a dedicarsi al trapping e al mercato dela pelliccia per gli anni successivi fino al 1833, anno in cui fu attaccato dai nativi Arikara lungo il fiume Yellowstone e ucciso, scalpato e derubato insieme ai suoi due compagni di caccia.

Le differenze rispetto al film “The Revenant”
  • Non c’è alcuna prova che Glass si sia mai sposato con una Pawnee;
  • Il figlio mezzosangue della pellicola, membro della spedizione in cui Glass fu attaccato dall’orso, non è mai esistito;
  • Fitzgerald non tentò di soffocare Glass, come si vede nel film, e nemmeno di uccidere il figlio sanguemisto;
  • Glass non saltò da una rupe e non si rifugiò nella carcassa del suo cavallo morto;
  • Non fu aiutato da un nativo nell’episodio del bufalo attaccato dai lupi;
  • Glass non si vendicò contro Fitzgerald, che godeva della protezione dell’esercito.

The Real Story of ‘The Revenant’ Is Far Weirder (and Bloodier) Than the Movie
The Real Story of Hugh Glass

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Ahmad ibn Fadlan e l’incontro con i Variaghi https://www.vitantica.net/2019/06/12/ahmad-ibn-fadlan-incontro-variaghi/ https://www.vitantica.net/2019/06/12/ahmad-ibn-fadlan-incontro-variaghi/#respond Wed, 12 Jun 2019 00:10:30 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4293 La conoscenza moderna che abbiamo sui Vichinghi non si basa esclusivamente sui resoconti delle loro scorrerie redatti dagli antichi abitanti d’Europa invasi dai popoli scandinavi, ma anche su testi nati dall’incontro tra la cultura musulmana e quella norrena.

Ibn Fadlan (Aḥmad ibn Faḍlān ibn al-ʿAbbās ibn Rāšid ibn Ḥammād), celebre viaggiatore del X secolo, fu uno dei primi a trascrivere con dovizia di particolari una descrizione dei Variaghi, gente di origine norrena che intratteneva rapporti commerciali tra il Mar Baltico e il Mar Nero.

Chi era Ahmad ibn Fadlan

Si hanno ben poche informazioni certe sull’origine di Ahmad ibn Fadlan, sulla sua etnicità e sulla sua educazione; non abbiamo nemmeno informazioni sulla sua data di nascita o di morte.

Sappiamo che Ahmad ibn Fadlan era un esperto di giurisprudenza islamica (faqih) alla corte del califfo abbaside al-Muqtadir e che, nell’anno 921, si imbarcò verso la Russia per incontrare Almis, primo regnante musulmano della regione.

Ibn Fadlan fu probabilmente un personaggio minore nella società araba del tempo: non ci sono poemi che celebrino il suo viaggio e non esistono citazioni del suo nome nella documentazione del tempo. Il fatto che sia stato inviato verso Nord a trattare con un alleato minore fa pensare che non ricoprisse un ruolo rilevante nella corte abbaside.

Per molto tempo il resoconto di viaggio di Ibn Fadlan fu citato solo parzialmente nel dizionario geografico di Yaqut al-Hamawi, geografo arabo del XII-XIII secolo. Nel 1923 fu scoperto in Iran un manoscritto, risalente al XIII secolo, che contiene una versione più completa del resoconto di viaggio di Ibn Fadlan; alcuni passi non presenti nel documento sono invece citati nell’opera “Sette Climi” (Haft Iqlim, XVI secolo) del geografo persiano Amin Razi.

Il viaggio verso Nord

A seguito della spedizione dell’eunuco e diplomatico Susan al-Rassi, Ahmad ibn Fadlan lasciò Baghdad il 21 giugno 921 con l’obiettivo di illustrare la legge islamica ai Bulgari che vivevano sulla riva orientale del fiume Volga, recentemente convertiti all’Islam.

I Bulgari sotto il regno di Almis, chiamati Bulgari del Volga, erano una popolazione distinta da quella che fondò lo stato conosciuto in tempi moderni come Bulgaria: intorno al VI secolo i discendenti dei bulgari moderni si spostarono verso ovest, convertendosi successivamente al Cristianesimo.

L’ambasceria fu una risposta alle richieste di Almis al califfato abbaside, richieste volte a trovare sostegno nella sua campagna contro i Cazari, una confederazione di tribù in perenne lotta contro i Bulgari del Volga per il predominio nella regione.

Pagina del diario di Ibn Fadlan
Pagina del diario di Ibn Fadlan

Per raggiungere i Bulgari del Volga la spedizione si servì di alcune rotte commerciali verso Bukhara (nell’attuale Uzbekistan), per poi cambiare direzione prima di raggiungere la città proseguendo verso nord, in Iran, il territorio dei Cazari e dei Turchi Oghuz.

Dopo circa 4.000 chilometri di viaggio, Ibn Fadlan raggiunse la capitale dei Bulgari del Volga, Bolghar, il 12 maggio 922, presentando doni al regnante locale e consegnando una lettera da parte del califfato.

Almis non prese molto bene il fatto che l’ambasceria non aveva portato il denaro richiesto al califfato per la costruzione di una fortezza difensiva per arrestare l’avanzata dei Cazari; di fatto, l’alleanza tra il califfato e i Bulgari del Volga non venne mai stipulata a causa dei finanziamenti non pervenuti.

I Bulgari del Volga

Durante il suo viaggio, Ibn Fadlan ebbe modo di osservare a lungo i popoli che incontrò, annotando critiche, aspetti per lui straordinari e descrizioni accurate del loro stile di vita.

Nel suo diario di viaggio Ibn Fadlan appare particolarmente critico nei confronti della dottrina religiosa praticata dai Bulgari del Volga. Sembra provare disgusto e rabbia nella loro errata interpretazione dell’Islam e tende a giudicare gli incontri con i locali in base alla loro pratica della religione.

Secondo Ibn Fadlan, molte delle culture islamiche incontrate lungo il Volga sono “come somari smarriti. Non hanno alcun legame religioso con Dio, e nemmeno fanno ricorso alla ragione”. I Bulgari non avrebbero accettato l’Islam per fede, come mostrerebbero alcuni retaggi della loro precedente religione pagana, ma solo come mezzo per ottenere sostegno dal califfato.

Uno degli aspetti più sorprendenti per l’ambasciatore arabo (perché sovvertiva completamente il rituale islamico) fu il pianto degli uomini durante i funerali pagani di una personalità importante tra i Bulgari: “Stanno di fronte alla porta della tenda e piangono, emettendo suoni orrendi e selvaggi. Così si fa tra gli uomini liberi”.

I Rus / Variaghi

I Variaghi intrattenevano nella regione attività commerciali e belliche (sia come pirati, sia come mercenari) e crearono diverse stazioni commerciali o fortificate che andarono a comporre il primo Stato slavo orientale, il Rus’ di Kiev. I Variaghi erano di fatto partner commerciali dei Bulgari del Volga.

L’esistenza dei Variaghi (che Ibn Fadlan chiamava Rusiyyah) non rappresentava una grossa novità per il mondo islamico, contrariamente allo sconvolgente primo impatto tra i popoli norreni e le culture cristiane nordeuropee. Ibn Fadlan fu tuttavia uno dei primi a mettere per iscritto le usanze dei popoli Rus, dipingendoli come mercanti ed esploratori armati la cui attività principale era quella del commercio.

Il mondo arabo forniva ai Variaghi l’argento che tanto desideravano in cambio di pelli, cera d’api, miele, falconi, noci, corteccia di betulla, armi e ambra, un materiale pagato a caro prezzo nei mercati musulmani. La vendita di prigionieri slavi costituiva una buona fetta della ricchezza commerciale dei Rus, che commerciavano schiavi dall’Egitto alla Spagna.

Sepoltura Rus di un capo riprodotta da Henryk Siemiradzki nel 1883 secondo la descrizione di Ibn Fadlan
Sepoltura Rus di un capo riprodotta da Henryk Siemiradzki nel 1883 secondo la descrizione di Ibn Fadlan
Il vestiario dei Rus

Ibn Fadlan approfondisce la conoscenza dei Variaghi incontrandoli a Wisu, rimanendone affascinato e dedicando a loro circa 1/5 del suo resoconto di viaggio. Li descrive alti quanto palme da dattero, biondi e rubicondi, ricoperti di tatuaggi blu e verdi dal collo ai piedi e armati di ascia, spada e un lungo pugnale.

Le donne Rus indossano gioielli come collane d’oro, d’argento, di rame o di ferro, monili che rappresentavano la ricchezza del loro marito. Tra i gioielli più gettonati ci sarebbero state anche delle perle di vetro verde, spille, chiavi e pettini, e ciò che Ibn Fadlan descrive come “dischi da portare sul petto”.

“Ho visto i Rusiyyah quando arrivarono dai loro viaggi commerciali e si accamparono lungo il fiume Atil [il Volga]. Non ho mai visto esemplari così fisicamente perfetti, alti come palme da dattero, biondi e rubicondi; non indossano tuniche o caffetani, ma gli uomini indossano una veste che copre un lato del corpo e lascia una mano libera.
Ogni uomo possiede un’ascia, una spada e un coltello, e li tiene con sé in ogni momento. Ogni donna indossa sul petto un disco di ferro, argento, rame o oro; il valore del disco indica la ricchezza o lo status del marito. Ogni disco ha un anello da cui pende un coltello. Le donne indossano collane d’oro e d’argento. Il loro ornamento più pregiato sono perle di vetro verde.”.

Fisicamente perfetti ma sporchi

Secondo Ibn Fadlan, i Rus sono esemplari umani “perfetti” in quanto a condizione fisica, ma le loro abitudine igieniche sono disgustose anche se, ogni giorno, trascorrono diverso tempo a pettinarsi. Sono volgari, poco sofisticati e sporchi.

“Sono i più sporchi di tutte le creature di Allah: non si puliscono dopo aver defecato o urinato e non si lavano quando sono in uno stato di impurità rituale e nemmeno si lavano le mani dopo aver consumato del cibo […] Non possono evitare di lavarsi faccia e testa ogni giorno, cosa che fanno con l’acqua più sporca e torbida immaginabile”.

Ibn Fadlan non lesina critiche verso i Rus che hanno deciso di convertirsi all’Islam, facendo notare che continuano a consumare carne di maiale e sostenendo che “molti di quelli che hanno intrapreso la via dell’Islam hanno perso la giusta direzione”.

Secondo Ibn Fadlan i Rus sono dipendenti dall’alcol e bevono giorno e notte. Capita anche che “uno di loro muoia con la coppa nelle mani”.

Religione, legge e funerali

Ibn Fadlan dedica parte della sua descrizione dei Variaghi ai loro usi e costumi, come i sacrifici rituali alle loro divinità pagane, il trattamento riservato ai malati e il funerale di un capo tribù, dato alle fiamme a bordo della sua nave riempita dei suoi possedimenti più preziosi, cani, cavalli, buoi e il corpo di una schiava che si offrì volontaria per accompagnare il suo padrone nell’aldilà.

“Quando qualcuno si ammala, erigono una tenda lontano dall’accampamento e lo portano dentro, dandogli pane e acqua. Non si avvicinano a lui e nemmeno gli parlano, non hanno alcun contatto con lui per tutta la durata della malattia, specialmente se è socialmente inferiore o uno schiavo. Se si riprende ed è in grado di rialzarsi, si unirà ai suoi compagni. Se muove, lo seppelliscono, ma se è uno schiavo lo lasciano sul posto come cibo per i cani e per gli uccelli”.

Non appena sbarcati dopo un viaggio, i Rus si recavano immediatamente nei pressi di idoli di legno per offrire ai loro dei parte delle mercanzie e ingraziarsi il favore divino nelle trattative per il prezzo della merce. Una volta ottenuto un prezzo di favore al termine delle trattative, i Rus sacrificavano una pecora o un bue di fronte agli idoli, lasciando un’offerta di carne come ringraziamento alle divinità.

Nel caso in cui qualcuno fosse stato sorpreso a sottrarre parte del carico o a rubare da una delle tende dell’accampamento dei Variaghi, la pena era estremamente severa:

“Se catturano un ladro o un bandito, lo portano ad un grande albero e gli legano una corda attorno al collo. Legano la corda all’albero e lo lasciano appeso fino a quando la corda non si rompe per l’esposizione alla pioggia o al vento”.

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Anche se la morte di un uomo di basso rango aveva ben poco peso nella comunità, il decesso di un capo tribù era un evento che prevedeva uno specifico rituale composto dalla preparazione del corpo e del corredo funebre, il sacrificio di animali e schiavi e l’abbondante consumo di alcol. Alcuni elementi riportati da Ibn Fadlan nella sua dettagliata descrizione del funerale vichingo di un comandante non trovano riscontro nella tradizione norrena e non possono essere considerati attendibili al 100%.

“Quando muore un uomo povero costruiscono una piccola barca, collocano il corpo al suo interno e le danno fuoco. Nel caso di un uomo ricco, radunano i suoi averi e li dividono in tre, un terzo alla famiglia, un terzo come corredo funerario e un terzo per comprare alcol da bere nel giorno in cui la sua schiava si suiciderà venendo bruciata insieme al padrone”.

Il rituale sembra essere guidato da una figura chiamata “Angelo della Morte”, una donna anziana probabilmente associata al culto di Freyr, divinità della fertilità spesso associata al culto della morte. Per la descrizione completa della cerimonia, consiglio la lettura di questo documento.

Among the Norse Tribes: The Remarkable Account of Ibn Fadlan
IBN FADLAN AND THE R£USIYYAH
Black banner and white nights: The world of Ibn Fadlan
IBN FADLAN’S ACCOUNT OF A RUS FUNERAL: TO WHAT DEGREE DOES IT REFLECT NORSE MYTH?

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Perché la noce moscata era così costosa in passato? https://www.vitantica.net/2019/06/10/noce-moscata-spezia-pregiata/ https://www.vitantica.net/2019/06/10/noce-moscata-spezia-pregiata/#respond Mon, 10 Jun 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4249 La noce moscata fu a lungo considerata una delle spezie più pregiate del pianeta. La sua fragranza era estremamente ricercata e i prezzi d’acquisto furono per molto tempo fuori dalla portata dell’uomo comune; cosa portò questo seme ad essere così prezioso per le culture occidentali?

Noce moscata e macis

La noce moscata è il seme prodotto da un albero (Myristica fragrans) originario dell’Indonesia, in particolare delle isole Molucche. Non si tratta di un albero semplice da coltivare: il primo raccolto si ottiene solo dopo 7-9 anni dall’impianto, mentre la piena produzione si raggiunge dopo i 20 anni d’età.

Il frutto di quest’albero contiene un seme racchiuso in un endocarpo, una sorta di membrana che separa il seme dalla polpa esterna del frutto. Dal frutto del Myristica fragrans si ottiene la vera e propria noce moscata (il seme) e una spezia chiamata macis, costituita dall’endocarpo seccato.

La noce moscata acquisisce una fragranza particolare quando il seme essiccato viene tritato fino a ridurlo in polvere. Per essiccarlo, tradizionalmente si lasciava esposto alla luce solare per 6-8 settimane, periodo durante il quale la noce riduce la sua massa fino a “ballare” all’interno del guscio.

A questo punto il guscio viene frantumato per estrarre la noce, che avrà assunto una colorazione grigio-marrone, le dimensioni di 2-3 centimetri di lunghezza e un peso compreso tra i 5 e i 10 grammi.

Frutto di noce moscata.
Frutto di noce moscata.

Il macis, invece, si ottiene dall’endocarpo rosso che ricopre il guscio del seme di Myristica fragrans. Il suo sapore è più delicato, anche se molto simile a quello della noce moscata.

Per essiccare il macis, lo si esponeva al sole per 10-14 giorni: il suo colore cambiava gradualmente fino ad assumere tinte giallo-arancio pallide.

Uso della noce moscata e del macis

Per comprendere le ragioni che portarono la noce moscata e il macis ad essere spezie molto ricercate in Europa occorre considerare i molteplici utilizzi a cui erano destinate.

Anche se la noce moscata aveva prezzi proibitivi per la maggior parte delle persone comuni, entrò a far parte della tradizione culinaria dei più ricchi non appena fu introdotta nel Vecchio Continente.

La noce moscata non era solo un condimento pregiato, ma anche un ingrediente della farmacopea europea. La polvere di noce moscata o il suo olio essenziale venivano impiegati come anti-infiammatori e per il trattamento dei reumatismi; durante le epidemie di peste, inoltre, si riteneva che la noce moscata contribuisse a prevenire l’infezione.

La noce moscata fu utilizzata anche come sostanza psicoattiva per via del suo contenuto di miristicina. A piccole dosi, la spezia non produce alcun effetto psicotropo, ma in dosi più elevate può indurre delirio, allucinazioni, confusione, nausea, amnesia, convulsioni e palpitazioni. Gli effetti di questa intossicazione possono durante anche giorni interi e raggiungono il culmine diverse ore dopo l’assunzione.

Perchè la noce moscata era così costosa in passato?

Fino alla metà del XIX secolo, l’unica fonte di noce moscata al mondo furono le isole Banda, note anche come “Isole delle Spezie”. Queste isole, un gruppo di 11 affioramenti vulcanici nella regione orientale dell’Indonesia, furono per secoli le uniche località del pianeta in cui cresceva il Myristica fragrans.

Isole Banda
Isole Banda. Wikipedia

La difficoltà nel raggiungere le isole di Banda e il lunghissimo viaggio di ritorno fino all’Europa resero la noce moscata una delle spezie più costose in circolazione durante l’epoca medievale. La credenza che questa spezia contribuisse a proteggere dalla peste non fece altro che farne aumentare ulteriormente il prezzo durante i periodi di pestilenza.

Fino al 1200 il costo di mezzo chilogrammo di macis raggiungeva facilmente quello di un bue o una vacca. Un prezzario tedesco del 1393 indica che la stessa quantità di noce moscata costasse quanto 7 buoi grassi.

Una volta giunta a Venezia attraverso i bastimenti arabi, la noce moscata importata nel XV era rivenduta al resto d’Europa aumentando il prezzo d’acquisto di 4 volte.

La lotta per il monopolio della noce moscata

Per via del suo costo elevatissimo, il commercio della noce moscata veniva protetto ad ogni costo. I mercanti arabi che rifornivano Venezia della preziosa spezia  tennero segreta per secoli l’esatta posizione delle isole Banda per mantenere il monopolio della noce moscata.

Fu solo nel 1511, quando Afonso de Albuquerque conquistò Malacca, il centro asiatico del commercio di noce moscata, che gli Europei appresero dell’esistenza delle isole Banda. Il Portogallo inviò immediatamente una spedizione di tre navi verso le isole allo scopo di impadronirsi dell’unica fonte conosciuta di noce moscata e macis.

Afonso de Albuquerque
Afonso de Albuquerque. ResearchGate

Per molto tempo tuttavia nessun europeo riuscì a stabilire il monopolio del commercio di noce moscata. A partire 1621 la Compagnia Olandese delle Indie Orientali sterminò quasi totalmente la popolazione bandanese (non particolarmente collaborativa nell’assecondare gli affari olandesi), riducendo la popolazione delle isole a meno di 1.000 individui e costruendo fortini per proteggere i futuri bastimenti di spezia da e verso l’Europa.

Gli Inglesi, dal canto loro, cercarono di occupare pacificamente l’isola di Run promettendo protezione dalla violenza olandese in cambio di concessioni di sfruttamento della noce moscata. Le isole di Banda rimasero territorio conteso fino al 1667, quando con il Trattato di Breda gli Inglesi rinunciarono all’isola di Run in cambio di Manhattan, dall’altro capo del pianeta.

La produzione di noce moscata finì interamente nelle mani degli Olandesi, che iniziarono a spedire la spezia in grandi quantità verso l’Europa. Questo causò un calo di prezzi sconveniente per la Compagnia: non furono rari i casi di carichi di spezie gettati in mare per tentare di mantenere elevato il costo della noce moscata.

Nei primi anni del XIX secolo, gli Inglesi riuscirono ad ottenere temporaneamente il controllo delle isole Banda, contrabbandando semi del Myristica fragrans e terreno locale per trapiantarli in Sri Lanka, Penang e Singapore. Dopo i primi esperimenti di successo nella coltivazione dell’albero, la pianta sbarcò a Zanzibar e Grenada.

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Nutmeg
Consider nutmeg

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La spedizione Kon-Tiki https://www.vitantica.net/2019/04/03/spedizione-kon-tiki/ https://www.vitantica.net/2019/04/03/spedizione-kon-tiki/#respond Wed, 03 Apr 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3832 Chi raggiunse per primo le isole polinesiane? Ad oggi, questa domanda non ha una risposta certa. Ma i tentativi di ricostruire l’arrivo dei primo esseri umani sulle isole del Pacifico, avvenuto intorno al 1200, non sono stati pochi nel corso della storia recente: è ormai oltre un secolo che gli archeologi cercano di spiegare come i primi abitanti della Polinesia avessero potuto percorrere una distanza così vasta via mare per sbarcare su atolli sperduti.

L’ipotesi di Thor Heyerdahl

Una delle ipotesi più affascinanti viene dall’archeologia sperimentale e da un viaggio compiuto dall’esploratore norvegese Thor Heyerdahl: Heyerdahl sosteneva che i primi abitanti polinesiani fossero giunti dal Sud America in epoca precolombiana partendo dal Perù e viaggiando via mare su imbarcazioni semi-primitive, basando la sua ipotesi su un’antica leggenda degli abitanti dell’Isola di Pasqua, quella relativa alla lotta tra gli Hanau epe (“orecchie lunghe”) e gli Hanau momoko (“orecchie corte”).

Secondo l’interpretazione di Heyerdahl, il mito narra che gli Hanau momoko facessero parte di una seconda ondata migratoria di nativi americani provenienti dalla costa occidentale peruviana, preceduta da una prima ondata che portò gli Hanau epe sulle stesse isole; dopo un periodo di convivenza pacifica, i due gruppi entrarono in conflitto nel XVII secolo per ragioni ancora parzialmente misteriose.

La maggior parte degli storici moderni è concorde sul fatto che, in realtà, il mito di Hanau epe sia soltanto una leggenda legata a scontri tribali e lotte di classe degli abitanti dell’isola. L’analisi genetica dei nativi di Rapa Nui, tuttavia, ha evidenziato che esiste nel loro genoma l’8% di DNA nativo americano, penetrato nel loro patrimonio genetico tra il XIII e il XV secolo.

E’ possibile che Heyerdahl avesse ragione? Non possiamo dichiararlo con certezza. Possiamo tuttavia affermare che il viaggio dal Perù alle isole polinesiane era alla portata degli antichi peruviani, come dimostrerebbe la spedizione Kon-Tiki.

La spedizione Kon-Tiki

Per aggiungere una prova sperimentale alla sua ipotesi, Heyerdahl decise di imbarcarsi in un’impresa senza precedenti: attraversare il Pacifico a bordo di un’imbarcazione realizzata con tecnologie e materiali a disposizione dei peruviani del XIII secolo.

La zattera Kon-Tiki esposta al Museo di Oslo
La zattera Kon-Tiki esposta al Museo di Oslo

Il corpo principale dell’imbarcazione era composto da nove tronchi di balsa lunghi 14 metri e dal diametro di 60 centimetri, legati tra loro con corde di canapa. Per mantenere solida la struttura, altri tronchi di balsa lunghi oltre 5 metri e larghi 30 centimetri furono disposti trasversalmente a intervalli di 91 centimetri.

L’albero principale era alto 8 metri e sorretto da un telaio a forma di “A”. La vela era lunga 4,6 metri, alta 5,5 e sorretta da fusti di bambù, un materiale utilizzato anche per ricoprire il ponte dell’imbarcazione.

A poppa fu costruita una cabina di bambù lunga 4,3 metri, larga 2,4 metri e alta da 1,2 a 1,5 metri, dotata di un tetto di foglie di banano. Il timone, realizzati in legno di mangrovia e abete, era lungo quasi sei metri.

Per costruire la zattera non furono impiegati chiodi, viti o materiali metallici, ma solo legname, bambù e corde di canapa. Gli unici elementi moderni a bordo erano la radio, le batterie che la alimentavano, un generatore elettrico a manovella, un sestante e una bussola, tecnologia di certo non disponibili ai navigatori polinesiani del 1200 ma indispensabili per garantire la sopravvivenza dell’equipaggio

Per garantire la sopravvivenza dei sei membri dell’equipaggio, a bordo furono immagazzinati 1.040 litri d’acqua in 56 contenitori e diversi fusti di bambù, per testare l’efficacia di contenitori antichi e moderni. Furono inoltre caricati decine di noci di cocco, patate dolci e frutta assortita; l’esercito americano fornì anche razioni di cibo di sopravvivenza.

Il viaggio della Kon-Tiki

La Kon-Tiki partì da Callao, Perù, il 28 aprile 1947 scortata per circa 80 km dalla marina peruviana per evitare il traffico costiero. Trasportata dalla corrente di Humboldt, iniziò quindi a navigare verso Ovest a vela spiegata solcando il Pacifico in solitaria.

Il percorso della spedizione Kon-Tiki
Il percorso della spedizione Kon-Tiki

Il primo avvistamento di un’isola si verificò il 30 luglio: l’equipaggio riuscì ad intravedere l’atollo di Puka-Puka, ma non sbarcò preferendo proseguire verso l’atollo di Angatau, dove furono impossibilitati a sbarcare per via della conformazione dell’isola.

Il 7 agosto il viaggio giunse al termine quando la zattera colpì il reef che circondava l’isola disabitata di Raroia, facente parte del gruppo di atolli di Tuamotu. L’equipaggio aveva percorso quasi 7.000 chilometri in 100 giorni ad una velocità media di 1,5 nodi (circa 2,8 km/h).

L’equipaggio era stanco ma in salute: durante la navigazione aveva avuto occasione di pescare pesce in abbondanza e il consumo di scorte alimentari era in linea con le previsioni di Heyerdahl.

Dopo qualche giorno sull’atollo deserto, l’equipaggio fu raggiunto dalle canoe degli abitanti di un villaggio posto su un atollo vicino, allarmati dallo spiaggiamento sulle loro spiagge di alcune parti della Kon-Tiki. Heyerdahl e i suoi compagni furono condotti in salvo nel villaggio per poi essere trasferiti a Tahiti dalla goletta Tamara.

Una spedizione apripista

La Kon-Tiki aprì la strada ad altre spedizioni simili: nel 1954 William Willis si imbarcò sulla zattera Seven Little Sisters viaggiando dal Perù a Samoa, percorrendo 10.800 km; in un secondo viaggio dieci anni dopo, la stessa imbarcazione viaggiò per 12.000 km dal Sud America all’Australia.

La Kantuta, ideata dall’esploratore ceco Eduard Ingris, tentò di replicare il viaggio della Kon-Tiki nel 1955 ma fallì; quattro anni dopo costruì la Kantuta II, riuscendo a raggiungere la Polinesia.

spedizione Kon-Tiki

Il navigatore francese Éric de Bisschop tentò invece di fare il viaggio da Tahiti al Cile a bordo di una zattera polinesiana, la Tahiti-Nui. Partì nel novembre del 1956 da Papeete in compagnia di altre cinque persone e raggiunse le Isole di Juan Fernandez cilene nel maggio 1957.

Nel 1973 lo spagnolo Vital Alsar condusse la “spedizione Las Balsas”, l’unica spedizione di zattere multiple sul Pacifico nella storia recente volta a dimostrare che gli antichi navigatori conoscessero le correnti oceaniche quanto gli esseri umani moderni conoscono la rete stradale.

Nel novembre 2015 è stata organizzata una spedizione commemorativa della Kon-Tiki, la Kon-Tiki2, composta da due imbarcazioni, la Rahiti Tane e la Tupac Yupanqui, ed altrettanti equipaggi internazionali. L’obiettivo era quello di replicare il viaggio effettuato da Heyerdahl aggiungendo il percorso di ritorno.

Ognuna delle due zattere era composta da 11 tronchi di balsa tenuti insieme da circa 2 km di corde di canapa. Dopo aver incontrato condizioni avverse e onde alte fino a sei metri, gli equipaggi furono costretti ad abbandonare le imbarcazioni salendo a bordo della Hokuetsu Ushaka dopo 115 giorni di navigazione.

Le obiezioni alla spedizione

Lo scetticismo sulla capacità di navigazione degli antichi polinesiani è sempre vivo, fin da prima della spedizione di Thor Heyerdahl.

Dal punto di vista geografico, la Polinesia è la nazione più vasta del pianeta: si tratta di oltre un migliaio di isole disperse in milioni di chilometri quadrati di oceano, ben più grande della superficie Russia, Canada e Stati Uniti.

Gli abitanti delle isole sono linguisticamente connessi da idiomi comprensibili anche a migliaia di chilometri di distanza, tra culture che apparentemente non hanno mai avuto contatti per svariati secoli.

James Cook dimostrò questa connessione linguistica portando Tupaia, il gran sacerdote di Tahiti, fino all’isola di Ra’iatea, ad oltre 3.000 chilometri di distanza, scoprendo che poteva comprendere perfettamente il linguaggio degli isolani.

E’ quindi indubbio che ci siano affinità non solo linguistiche ma anche culturali tra le popolazioni delle isole polinesiane. E’ tuttavia molto più difficile dimostrare il perché esistano queste connessioni e come si siano originate.

Sir Peter Buck, in origine noto col nome maori Te Rangi Hiroa, presentò nel 1938 una prima ipotesi sulla migrazione di popoli dal sud-est asiatico, popoli che divennero in seguito gli abitanti della Polinesia. Le sue teorie non fugarono i dubbi degli antropologi, ma ad oggi sembrano più fondate dell’ipotesi di Heyerdahl.

La Hōkūle‘a
La Hōkūle‘a

Sappiamo infatti che i polinesiani raggiunsero le Americhe, ma non abbiamo alcuna prova di un viaggio in direzione opposta se non una componente genetica presente nella popolazione delle isole del Pacifico.

I polinesiani riuscivano a navigare per lunghissime distanze orientandosi con il sole, le stelle e una profonda conoscenza delle correnti oceaniche, elementi che, come dimostrato dal viaggio di Mau Piailug del 1976, erano sufficienti a coprire migliaia di miglia marine.

Mau Piailug, esperto di navigazione senza strumenti, si imbarcò sulla Hōkūle‘a (una canoa a doppio scafo costruita dalla Polynesian Voyaging Society) nelle Hawaii senza alcuno strumento di navigazione e riuscì a raggiungere Tahiti, fornendo ulteriore supporto ad un’ipotesi differente da quella di Heyerdahl: i polinesiani provenivano dall’ Asia, non dalle Americhe.

Kon-Tiki expedition
How the Voyage of the Kon-Tiki Misled the World About Navigating the Pacific

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William Adams, il primo samurai europeo https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/ https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/#respond Fri, 22 Mar 2019 00:10:50 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3819 Molti di voi avranno visto il film “L’ultimo samurai”, che dipinge le gesta di un americano dall’indomito spirito guerriero divenuto samurai dopo essere caduto preda del fascino dei famigerati guerrieri giapponesi.

Se istintivamente avete scartato l’ipotesi che uno straniero potesse diventare samurai in un Giappone conservatore e legato indissolubilmente alle antiche tradizioni, la realtà è che nel corso dei secoli passati i samurai di origine non nipponica furono diversi, primo tra tutti William Adams.

Adams non fu il primo samurai straniero della storia del Giappone: fu probabilmente preceduto da un africano, Yasuke, che servì sotto Oda Nobunaga 20 anni prima dell’arrivo dell’inglese. E’ anche accertato che alcuni coreani e cinesi ottennero il titolo di samurai durante il periodo Sengoku, ma Adams fu certamente il primo samurai europeo della storia.

Una vita da marinaio

William Adams era originario di Gillingham, Inghilterra. Nato nel settembre del 1564, rimase orfano di padre all’età di 12 anni e venne preso come apprendista dal costruttore di navi Nicholas Diggins. Adams trascorse i successivi 12 anni imparando il mestiere del marinaio, e molte altre nozioni utili alla vita sul mare come l’astronomia, la navigazione e le tecniche costruttive dei vascelli inglesi.

Dopo essersi arruolato, Adams servì la Marina Reale sotto nientemeno che Sir Francis Drake, il famoso corsaro e navigatore inglese. Partecipò anche alle manovre di contrasto dell’ Invincibile Armata spagnola nel 1588 a bordo del vascello di supporto Richarde Dyffylde.

Terminata la guerra, Adams fu assunto come navigatore della Barbary Company, una compagnia commerciale creata dalla regina Elisabetta I nel 1585 che per circa 12 anni potè godere di un trattato commerciale esclusivo con il Marocco.

Secondo le fonti gesuite, Adams partecipò anche ad una spedizione diretta verso Oriente durata circa due anni, alla ricerca del Passaggio a nord-est lungo la costa della Siberia; in una sua lettera autobiografica, tuttavia, Adams non cita mai la sua partecipazione all’impresa.

La flotta su cui era imbarcato Adams: la "Blijde Bootschap", la "Trouwe", la "T Gelooue", la "Liefde" e la "Hoope"
La flotta su cui era imbarcato Adams: la “Blijde Bootschap”, la “Trouwe”, la “T Gelooue”, la “Liefde” e la “Hoope”

All’età di 34 anni, Adams prese parte nel ruolo di pilota ad una spedizione mercantile olandese verso il Sud America, nella speranza di vendere il carico della flotta in cambio di argento.

La piccola flotta di cinque navi salpò da Rotterdam nel 1598; come piano di riserva in caso di fallimento della spedizione era previsto di far rotta verso il Giappone per ottenere argento da utilizzare per acquistare spezie nelle Molucche prima di tornare in Europa.

La spedizione fu un fallimento: in corrispondenza del’isola di Annobòn la flotta fu attaccata e costretta a dirigersi verso lo Stretto di Magellano; flagellata dal tempo e dai capricci dell’Atlantico, solo tre navi riuscirono a superare lo stretto.

Ben presto la flotta si ridusse ad una sola nave dopo che l’equipaggio della Hoope fu sterminato da un tifone in prossimità delle Hawaii nel febbraio del 1600 e la Trouw fu attaccata in Indonesia da navi portoghesi nel 1601.

L’arrivo in Giappone

Quasi due anni dopo aver girovagato per il Pacifico, Adams, a bordo dell’ultima nave della spedizione, la Liefde, si ritrovarò a sbarcare sull’isola di Kyushu in Giappone in compagnia di un equipaggio di soli 20 uomini malati e stanchi.

Il carico della nave consisteva in tessuti, perle di vetro, specchi, utensili di metallo, chiodi, 19 cannoni di bronzo, 5.000 palle di cannone, 500 moschetti e tre bauli pieni di cotte di maglia.

William Adams incontra Tokugawa Ieyasu
William Adams incontra Tokugawa Ieyasu in una mappa del Giappone del 1707 di Pieter van der Aa

Dopo essersi ripreso dal viaggio, l’equipaggio della Liefde si spostò a Bungo (nell’attuale prefettura di Oita). Qualche giorno dopo lo sbarco, Adams e l’equipaggio furono imprigionati nel castello di Osaka per ordine diretto di Tokugawa Ieyasu: alcuni gesuiti portoghesi suggerirono che i nuovi arrivati fossero pirati e consigliarono al daimyo di Edo di giustiziare l’intero equipaggio.

Ma fu proprio l’incontro con Ieyasu che cambiò in meglio la sorte di Adams: considerata la vasta esperienza dell’inglese nella costruzione di navi e nella navigazione, il futuro shogun decise di liberare l’equipaggio dopo aver attentamente valutato le conversazioni avute con il marinaio inglese durante i tre interrogatori che precedettero la sua liberazione.

Il rapporto tra Adams e Ieyasu

Nel 1604, Tokugawa chiese ad Adams di costruire una nave in stile occidentale per Mukai Shogen, comandante in capo della flotta di Uraga. I lavori, condotti nel porto di Ito, portarono alla costruzione di un vascello di otto tonnellate, al quale fece seguito una nave di 120 tonnellate, simile alla Liefde, rinominata successivamente “San Buena ventura“.

La costruzione di queste due navi fece entrare Adams nelle grazie di Tokugawa. Ma mentre la maggior parte dell’equipaggio ottenne il permesso di lasciare il Giappone nel 1605, ad Adams non fu concesso di lasciare il Paese fino al 1613, anche se l’inglese decise di non fare più ritorno in Europa per il resto della sua vita.

Ritratto di Adams dal "Black Ship Scroll"
Ritratto di Adams dal “Black Ship Scroll”

Durante la sua permanenza alla corte di Tokugawa, Adams assunse presto il ruolo di diplomatico, diventando consigliere personale dello shogun per le questioni commerciali e ogni attività connessa ai contatti con il mondo occidentale. Dopo pochi anni Adams sostituì il gesuita João Rodrigues nel ruolo di interprete ufficiale dello shogun.

Adams ottenne infine il titolo di samurai. Lo shogun decretò che il pilota William Adams era defunto e che era nato un nuovo samurai: Miura Anjin.

La carica rendeva di fatto Adams un servitore ufficiale dello shogunato e annullava ogni legame con la sua patria d’origine: Adams inviò regolarmente somme di denaro alla moglie e ai figli rimasti in Inghilterra sfruttando i contatti commerciali con le compagnie olandesi e inglesi, ma non riuscì mai più a ricongiungersi con la sua famiglia.

Adams ricevette anche la carica di “hatamoto“, un titolo estremamente prestigioso che consentiva al vassallo di conferire direttamente con lo shogun.

Una nuova vita in Giappone

Ad Adams fu assegnato un feudo a Hemi (in corrispondenza dell’odierna città di Yokosuka), con un seguito di schiavi e servitori composto da 80-90 persone. Le sue proprietà furono valutate a circa 250 koku: un koku corrispondeva alla quantità di riso necessaria a sfamare una persona per un anno.

Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613
Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613

Dato che il suo nuovo rango recideva ogni legame con la sua vita in Inghilterra, Adams sposò Oyuki, la nipote adottiva dell’ufficiale governativo Magome Kageyu, avendo da lei Joseph e Susanna.

Considerata la presenza di cattolici nel Giappone del XVII secolo e il fatto che Adams fosse protestante, l’inglese fu bersaglio di numerose campagne di discredito ordite dai gesuiti: inizialmente si tentò di convertirlo, in seguito gli si offrì segretamente un modo per fuggire dal Giappone a bordo di una nave portoghese, offerta che Adams non accettò mai anche dopo la caduta del divieto di lasciare il Sol Levante imposto per anni da Ieyasu.

La vita di Adams divenne quella di un vero e proprio giapponese: ottenne il rispetto dell’intero Giappone e imparò ad apprezzare un popolo così differente dai costumi occidentali. Parlava correntemente giapponese e vestiva secondo la moda giapponese, tanto da essere stato definito da commercianti inglesi come “un giapponese naturalizzato”.

Nel corso della sua vita partecipò a diverse spedizioni in Asia nel ruolo di ambasciatore, specialmente in Siam e Vietnam, e creò un punto di scambio commerciale in Giappone per conto della Compagnia delle Indie orientali britannica.

Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki
Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki

Adams morì nel 1620 a Hirado, a nord di Nagasaki, all’età di 55 anni. La sua tomba è visibile ancora oggi, al fianco della tomba di Francis Xavier, missionario cattolico spagnolo. Nel suo testamento lasciò scritto di distribuire i suoi possedimenti e il suo patrimonio tra la famiglia lasciata in Inghilterra e la famiglia che aveva costruito in Giappone.

Ogni anno, il 15 giugno, viene celebrata la sua figura storica ad Anjin-cho, oggi chiamata Nihonbashi. Nella città di Ito, invece, ogni anno viene celebrato il Miura Anjin Festival il 10 agosto; in quello che fu un tempo il suo feudo, un villaggio e una stazione ferroviaria portano un nome che evoca il passaggio di Adams: Anjinzuka.

William Adams (sailor, born 1564)
Will Adams, The First Englishman in Japan
William Adams, the First Englishman in Japan

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Trasporti e spostamenti nell’antico Egitto https://www.vitantica.net/2018/11/16/trasporti-spostamenti-antico-egitto/ https://www.vitantica.net/2018/11/16/trasporti-spostamenti-antico-egitto/#comments Fri, 16 Nov 2018 00:10:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2512 Gli antichi Egizi non amavano particolarmente viaggiare verso terre straniere. Il Nordafrica non è una regione che consente facili spostamenti per terra o per mare, ma le necessità commerciali, amministrative e militari costringevano a muoversi da Nord a Sud, principalmente seguendo il lungo percorso del Nilo.

La maggior parte degli spostamenti via terra o Nilo avvenivano su distanze inferiori ai 90 km. Il 17% dei viaggi erano inferiori ai 260 km mentre il 13% superiori e principalmente effettuati da rappresentanti del governo centrale in viaggio verso località straniere o province lontane, o membri dell’esercito impegnati in qualche campagna militare.

Uno spostamento via terra richiedeva mediamente una giornata di viaggio nel deserto per percorrere 30 km, mentre il viaggio fluviale consentiva spostamenti più rapidi: era possibile coprire 40-70 km al giorno lungo il Nilo a patto che le condizioni fossero favorevoli.

Le vie di trasporto utilizzati dagli Egizi erano subordinate a due fattori fondamentali: facilità di spostamento e pericolosità del tragitto. Tutto il mondo antico, salvo rare eccezioni, era popolato da bande di predoni che pattugliavano le rotte commerciali più battute in attesa di un carico prezioso o facilmente rivendibile sui mercati del regno.

Viaggiare in compagnia riduceva il rischio di essere attaccati. Le carovane che si muovevano via terra potevano contare decine o centinaia di persone per ridurre al minimo la pericolosità del viaggio.

Anche se il governo centrale condusse diverse spedizioni per contrastare l’attività dei predoni del deserto e i pirati che solcavano il Nilo, fu quasi impossibile eliminare totalmente il brigantaggio e ogni spostamento comportava un fattore di rischio non indifferente.

Gli spostamenti fluviali

Egitto trasporto fluviale

Viaggiare sul Nilo era un metodo di spostamento molto comune: consentiva di trasportare grossi carichi lungo distanze considerevoli. La gente comune costruiva piccole zattere di papiro per effettuare spostamenti brevi come il trasporto di merce verso il mercato, ma per le spedizioni commerciali più significative era necessario servirsi di vere e proprie imbarcazioni in grado di resistere alle correnti e di immagazzinare grossi carichi.

Il Nilo era certamente più sicuro del mare aperto, ma lasciava esposte le piccole imbarcazioni all’attacco di ippopotami e coccodrilli, oltre che alle imboscate dei pirati fluviali che sfruttavano banchi di sabbia nascosti e insenature per tendere agguati ai bastimenti più proficui.

Lungo il tratto meridionale del Nilo era difficile perdere la strada: si poteva viaggiare solo verso Nord o verso Sud. Ma in prossimità del delta la navigazione era resa più complessa dell’intricata rete di canali naturali che costituivano la foce del fiume. In questo caso era talvolta più semplice viaggiare per terra, specialmente se condotti da una guida locale.

Gli spostamenti via terra

Egitto spostamento via terra

Lo scriba Ankhsheshonq consigliava di camminare sempre in compagnia di un bastone da viaggio, sia come aiuto per attraversare le zone più impervie o sabbiose, sia come ultima arma di difesa contro eventuali aggressori.

Per evitare di dover camminare per decine di chilometri portando in spalla o sulla testa carichi pesanti, si usavano spesso bestie da soma come asini e muli, non propriamente mansueti anche se largamente utilizzati specialmente nel caso di trasporto di merci.

Sotto i Ramessidi, il tempio di Amon ospitava nelle sue proprietà oltre 11 milioni di asini e muli; per quanto riguarda i cammelli, erano ben noti agli Egizi ma non abbiamo alcuna traccia scritta del loro impiego come mezzo di trasporto comune ad eccezione di quelli usati dagli stranieri, come le popolazioni arabe provenienti da Oriente.

Il viaggio via terra non era semplice: l’assenza di strade ben definite e pavimentate e la mancanza di riferimenti spaziali rendeva complessa la navigazione nel deserto, anche se molti dei villaggi egizi erano raggiungibili in una giornata di cammino.

Nei punti in cui c’era la possibilità di perdere la direzione, gli Egizi costruirono dei “segnaposti”, dei tumuli di pietra per indicare la distanza percorsa e il giusto percorso per raggiungere la propria destinazione.

Mappe poco affidabili
Mappa di papiro custodita al Museo Egizio di Torino e risalente al 1160 a.C.
Mappa di papiro custodita al Museo Egizio di Torino e risalente al 1160 a.C.

Le mappe disponibili all’epoca non erano ciò che definiremmo oggi come “mappa”. I principi della cartografia erano noti anche nell’ antico Egitto, ma le mappe non rappresentavano una vera e propria rete stradale ma un insieme di itinerari con punti di riferimento vaghi e proporzioni inadeguate a descrivere con precisione le distanze di viaggio.

Dopotutto, in un deserto roccioso e sabbioso in cui il territorio può cambiare da un giorno all’altro, segnare punti di riferimento lascia il tempo che trova.

In Egitto esistevano vere e proprie strade, anche se la maggior parte di esse era sostanzialmente un piccolo canale scavato nel terreno; spesso l’utilizzo delle strade meglio manutenute era tassato e la maggior parte degli spostamenti compiuti dalla gente comune avveniva su sentieri poco battuti o in aree che mutavano spesso d’aspetto. Anche il traffico commerciale era soggetto a tassazione, sia quello condotto sul Nilo sia quello via terra.

Come si orientavano gli antichi Egizi? Bene o male sfruttavano le stesse nozioni impiegate dai navigatori del Mediterraneo: Sole, Luna e stelle. Il viaggio notturno per terra aveva due vantaggi: evitare il caldo nordafricano e avere una volta celeste in grado di fornire una direzione verso cui muoversi.

Anche orientarsi all’interno di un villaggio o di una città non era semplice a causa dell’assenza della segnaletica che oggi consideriamo scontata. Nei papiri di Ossirinco, risalenti al III secolo d.C., sono riportare le istruzioni per la consegna di una lettera:

Dalla Porta della Luna cammina verso i granai e quando raggiungi la prima strada gira a sinistra dietro le terme, dove troverai un tempietto, quindi vai a ovest. Scendi la scalinata e sali la successiva e gira a destra e dopo il tempio sulla destra c’è una casa di sette piani e sulla cima della porta una statua della Fortuna e di fronte un negozio di cesti. Chiedi all’inserviente e otterrai le informazioni.

Travel in ancient Egypt

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Chi fu realmente Floki? https://www.vitantica.net/2018/07/25/chi-fu-realmente-floki/ https://www.vitantica.net/2018/07/25/chi-fu-realmente-floki/#respond Wed, 25 Jul 2018 11:00:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1979 Uno dei personaggi più amati dal pubblico di Vikings è Floki, amico di Ragnar e costruttore della flotta che sbarcò in Gran Bretagna trasportando la Grande Armata norrena.

Riguardo alle figure di Ragnar e di Lagertha esistono ancora molti dubbi sulla loro reale identità o sull’attendibilità storica delle fonti che li citano; per Floki invece la situazione è un po’ diversa: si tratta di un personaggio realmente esistito, conosciamo abbastanza bene la sua storia e sappiamo che fu il primo a navigare volontariamente verso l’Islanda con lo scopo di fondare un nuovo insediamento.

Flóki Vilgerðarson e i primi islandesi

Flóki Vilgerðarson (questo era il suo nome) visse in Norvegia nel IX secolo e la sua storia è documentata dal manoscritto medievale Landnámabók, che descrive i dettagli dell’insediamento dei popoli norreni in Islanda tra il IX e il X secolo.

Il Landnámabók è un documento straordinario: nei suoi oltre 100 capitoli descrive con dovizia di particolari oltre 3.000 coloni e circa 1.400 insediamenti islandesi, fornendo anche una breve genealogia di tutti i 435 primi colonizzatori dell’Islanda.

Floki, probabilmente a capo del primo gruppo che si insediò sull’isola, fu il terzo nordeuropeo a raggiungere l’Islanda: Garðarr Svavarsson, svedese con possedimenti nella moderna Danimarca, fu costretto ad approdare sull’isola nei primi anni dell’ 860 dopo il naufragio causato da una tempesta.

Naddoddr, anno 850, è invece considerato il primo vichingo a scoprire l’esistenza dell’Islanda (anche lui in modo fortuito) oltre che il primo norreno ad insediarsi sulle Isole Faroe (Fær Øer).

I viaggi intrapresi da Naddodd, Garðarr Svavarsson e Floki
I viaggi intrapresi da Naddodd, Garðarr Svavarsson e Floki
Il viaggio di Flóki

Flóki Vilgerðarson fu però il primo europeo a navigare verso l’Islanda con il preciso intento di fondare una colonia. Nell’anno 868 Floki partì dalla Norvegia in direzione Nord-Ovest nel tentativo di trovare la terra scoperta qualche anno prima da Garðarr Svavarsson, accompagnato dalla moglie Gró, dai suoi figli e da qualche centinaio di coloni.

In corrispondenza delle Isole Shetland una delle sue figlie annegò in mare, ma l’avvenimento non fece desistere il navigatore norreno: continuò fino alle Isole Faroe, dove un’altra delle sue figlie si sposò.

Durante la sosta alle Faroe Floki prese a bordo tre corvi per aiutarlo a localizzare l’Islanda in mare aperto: da questo momento verrà conosciuto come Hrafna-Flóki (Corvo-Floki).

Dopo aver guadagnato nuovamente il mare aperto, Floki iniziò a liberare i corvi nella speranza di localizzare l’Islanda: il primo corvo tornò alle Faroe, il secondo volteggiò per qualche tempo sopra la nave per poi atterrare sul ponte, mentre il terzo corvo volò verso Nord-Ovest senza fare più ritorno.

Secondo Floki, il mancato ritorno del terzo corvo poteva avere un solo significato: la terra era vicina. Decise quindi di seguire la rotta verso Nord-Ovest fino a quando raggiunse una vasta baia che dava l’impressione di appartenere ad una grande massa di terraferma, scoprendo per primo la baia di Reykjavík.

Riserva naturale di Vatnsfjörður
Riserva naturale di Vatnsfjörður
Insediamento, abbandono e ritorno in Islanda

Dopo aver individuato una località adatta allo sbarco (Barðaströnd, nella riserva naturale di Vatnsfjörður) i coloni costruirono un accampamento invernale in previsione della stagione rigida.

Durante l’inverno, Floki riuscì a localizzare dalla cima di una montagna un grande fiordo (Ísafjörður) completamente ricoperto da frammenti di ghiaccio galleggiante; fu in questo momento che l’Islanda ottenne il suo nome: Floki battezzò l’isola Ísland, terra dei ghiacci.

Il fiordo ghiacciato convinse Floki e altri coloni a fare ritorno in Norvegia nell’estate successiva: secondo lui quella terra era quasi del tutto inutilizzabile, troppo poco fertile e fredda da poter sostenere una comunità di esseri umani.

L’ abbandono dell’Islanda non fu però causato soltanto dal terreno povero di nutrienti ma da problemi ben più gravi: sembra che Floki e i coloni avessero totalmente trascurato il bestiame e i piccoli orti dell’accampamento spendendo tutta l’estate a pescare e a cacciare; l’arrivo dell’inverno colse i norreni impreparati, il bestiame e gli orti finirono per cedere al gelo e l’accampamento si trovò a dover razionare i viveri.

Per quanto Floki parlasse male dell’Islanda al suo ritorno in Norvegia, altri coloni la descrivevano come una terra dura ma ricca di opportunità: Herjolf riteneva che l’isola avesse lati negativi bilanciati da altrettanti aspetti positivi, mentre Thorolf si meritò l’appellativo di “Thorolf di Burro” dopo aver sostenuto che ogni filo d’erba islandese fosse cosparso di burro.

Nonostante il suo iniziale parere negativo sull’abitabilità dell’isola, Floki fece ritorno in Islanda qualche anno dopo, vivendo nella terra dei ghiacci fino al giorno della sua morte. La valle in cui stabilì la propria dimora porta ancora oggi il suo nome: Flókadalur, la Valle di Floki.

Flókadalur, la Valle di Floki
Flókadalur, la Valle di Floki

Il viaggio di Floki ispirò molti norreni: il primo abitante permanente d’Islanda, Ingólfur Arnarson, prese il mare in compagnia della moglie e del fratello dopo aver sentito della scoperta di una nuova isola nell’Atlantico da parte di Flóki Vilgerðarson.

Nell’anno 874 raggiunse l’Islanda per fuggire ad una faida iniziata in terra norvegese, trovò la baia che Floki aveva scoperto nel corso del suo primo viaggio e fondò la città di Reykjavík.

17 exhibits from the Icelandic Sagas
Hrafna-Flóki Vilgerðarson
Landnámabók – Fyrsti hluti

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