america – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il ruolo di Bristol nell’esplorazione dell’ America del Nord https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/ https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/#respond Mon, 28 Dec 2020 00:15:31 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5087 La città di Bristol ha rivestito una certa importanza durante i viaggi esplorativi del XV e XVI secolo. Nella narrazione moderna che riguarda l’era delle grandi esplorazioni oceaniche si sente spesso parlare (per giusti e ovvi motivi) di Colombo, Magellano e Vespucci; ma coloro che oggi consideriamo “grandi esploratori” rappresentano solo una parte della storia.

I grandi viaggi oceanici sono stati resi possibili non solo dalle figure di spicco che hanno dato nomi a regioni o interi continenti, ma anche da marinai comuni, armatori semi-sconosciuti e persone che per sbarcare il lunario erano costrette a seguire gli spostamenti del pesce, spingendosi verso mari ignoti e terre mai toccate da piede europeo.

I marinai e i pescatori di Bristol parteciparono a loro modo all’impulso esplorativo del XV-XVI secolo, da una parte costretti a trovare nuove fonti di pesce e stringere nuovi rapporti commerciali, dall’altra motivati dalla ricerca di terre leggendarie inesistenti.

I navigatori-mercanti di Bristol

Intorno al XIII secolo Bristol iniziò a diventare un porto marittimo di una certa rilevanza: il vino francese, le spezie orientali e la lana proveniente dall’Europa settentrionale rappresentavano le principali mercanzie che transitavano per il porto, ma all’inizio del XV secolo il merluzzo iniziò a diventare fonte di grossi guadagni.

Il merluzzo pescato in Islanda dai marinai di Waterford e Cork, congelato in blocchi solidi (stoccafisso) facili da trasportare e da conservare, raggiungeva Bristol e veniva smistato in tutta Inghilterra scambiandolo con vestiti, alimenti non presenti in Irlanda e metalli.

Tra il XIV e il XV secolo secolo, la città di Bristol era considerata la terza città più popolata d’Inghilterra, dopo Londra e York, con circa 15-20.000 abitanti quasi totalmente impegnati, direttamente o indirettamente, nel commercio via mare.

Il commercio lungo le rotte atlantiche vedeva coinvolti almeno 250 mercanti di Bristol, che quotidianamente venivano a conoscenza di nuove rotte marittime, nuove opportunità da sfruttare e storie leggendarie che circolavano tra i marinai dell’epoca.

William Canynge, il primo grande mercante di Bristol, fu per cinque volte sindaco della città e possedeva una flotta di 10 navi e 800 marinai totalmente impegnata nel commercio di vino e di merluzzo.

Anche se la Lega Anseatica cercò di limitare il traffico di merluzzo da e verso Bristol, specialmente del merluzzo islandese, i pescatori e i commercianti di Bristol continuarono a intrattenere rapporti con i porti islandesi, e si spinsero oltre le regolari rotte commerciali del pesce superare i limiti imposti dalla Lega.

Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell'epoca
Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell’epoca

Un altro colpo per l’economia di Bristol che spinse i commercianti della città a cercare nuove rotte marittime fu la cattura di Costantinopoli da parte dell’Impero ottomano nel 1453. Costantinopoli rappresentava il fulcro dei traffici di spezie tra Europa e Asia, ma l’arrivo dei Turchi vide l’applicazione di nuove e pesanti tasse sulle esportazioni verso Ovest.

I marinai di Bristol ritenevano possibile circumnavigare l’Africa per raggiungere l’Asia, o che esistesse una rotta verso Ovest per raggiungere il Cipango (Giappone) e il Catai (Cina). Si tratta di idee del tutto analoghe a quelle che motivarono Cristoforo Colombo ad intraprendere l’attraversata dell’Atlantico: il celebre esploratore approdò nel 1476 proprio a Bristol, dove potrebbe aver assorbito i racconti dei marinai inglesi che avrebbero costituito le fondamenta del suo primo viaggio esplorativo.

Spingendosi verso i mari sud-occidentali in cerca di pesce, di nuove rotte marittime e di località con cui intrattenere interessanti rapporti commerciali, i marinai di Bristol potrebbero aver raggiunto le Americhe qualche anno prima del primo viaggio di Colombo.

L’isola di Hy-Brasil

L’esistenza dell’isola di Brasil, o Hy-Brasil, iniziò a circolare tra i marinai di Bristol all’inizio del XIV secolo. Un portolano del 1325 redatto da Angelino Dulcert riporta un’isola chiamata “Bracile” oltre l’Irlanda, verso Ovest; la mappa veneziana di Andrea Bianco, redatta circa un secolo dopo (1436), mostra l’ Insula de Brasil come facente parte di un gruppo di isole nel mezzo dell’Atlantico (probabilmente le Azzorre).

Anche una mappa catalana del 1480 riporta la “Illa de brasil” a sud-ovest dell’Irlanda. Alcune mappe e portolani la disegnano circolare, con un fiume centrale che corre lungo tutto il diametro, da est a ovest.

Oggi sappiamo che Hy-Brasil è in realtà un’isola immaginaria, che non ha riscontri nella realtà; ma nella Bristol del XV secolo la possibile esistenza di un’isola inesplorata era apparentemente un’opportunità così golosa da spingere gli armatori più grandi della città a imbastire spedizioni esplorative con lo scopo di scoprire l’isola.

Verso la fine del 1400 a Londra, grazie ai rapporti del diplomatico spagnolo Pedro de Ayala, era ormai noto che la città di Bristol avesse sponsorizzato diverse missioni esplorative negli anni precedenti, tutte volte alla scoperta dell’isola di Brasil.

sizione dell'isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell'epoca
sizione dell’isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell’epoca

Nel 1480 e nel 1481 due spedizioni lasciarono il porto di Bristol alla ricerca di Hy-Brasil, sostenute dai finanziamenti di John Day e Thomas Croft.

La spedizione di John Day, un inglese molto attivo nel commercio con la Spagna, sosteneva in una lettera indirizzata ad un tale “Grande Ammiraglio” spagnolo (alcuni storici affermano che fosse Colombo) che le terre scoperte da Giovanni Caboto nel 1497 fossero le stesse scoperte dai marinai di Bristol qualche anno prima.

La seconda spedizione vedeva coinvolte due navi, la George e la Trinity; dai diari di bordo sappiamo che i due vascelli trasportavano sale, molto probabilmente in previsione di incontri con grandi banchi di pesce.

L’isola di Hy-Brasil non fu mai scoperta, ma le teorie del professor David Beers Quinn affermano che i pescatori inglesi scoprirono i Grandi Banchi al largo di Terranova, acque ricche di merluzzo e di fatto suolo americano.

William Weston

Il primo inglese a condurre una spedizione in Nordamerica potrebbe essere stato William Weston, un mercante di Bristol che tra il 1499 e il 1500 posò piede sul suolo canadese. E’ possibile che Weston possa essere stato membro dell’equipaggio di Caboto nel 1497, anno in cui si svolse la prima spedizione europea nell’ America settentrionale (se escludiamo i viaggi norreni di 500 anni prima).

William Wenton lavorò a bordo della Trinity, una delle navi di Bristol che partecipò alla spedizione verso Hy-Brasil nel 1480. La licenza per la missione esplorativa di Weston del 1499 sembra essere legata alla spedizione di Caboto, per cui è molto probabile che l’esploratore di Bristol fosse un compagno di viaggio, se non addirittura un amico, del viaggiatore veneziano.

La data esatta del viaggio esplorativo di Weston non è nota, anche se l’ipotesi dominante è che sia iniziata un anno dopo dal ritorno di Caboto. La destinazione raggiunta dalla spedizione è sconosciuta, ma sappiamo per certo che nel 1500 Weston fu ricompensato dal re con una somma di 30 sterline “per le spese sostenute durante la ricerca di nuove terre”.

Lo storico inglese Alwyn A. Ruddock ha sostenuto che Weston possa essersi spinto in profondità nell’Atlantico nord-occidentale, probabilmente raggiungendo la Baia di Hudson, località che riceverà il suo nome solo oltre un secolo dopo, nel 1610, quando Henry Hudson la raggiunse a bordo del veliero Discovery.

English Voyages before Cabot
William Weston: early voyager to the New World
Bristol’s Transatlantic Explorations Prior to 1497
Sebastian Cabot and Bristol Exploration

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America e popoli indigeni: le culture native erano pacifiche? https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/ https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/#respond Mon, 23 Nov 2020 00:15:28 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5029 Sotto le carneficine, le epidemie e il saccheggio dei territori dei nativi, l’esplorazione e la conquista delle Americhe hanno innumerevoli aspetti interessanti che un appassionato di storia non può non apprezzare. Si tratta di un’epoca di grandi viaggi oceanici, giochi tra poteri politici, economici e religiosi, scontri e guerre brutali, senza contare le innumerevoli scoperte, e invenzioni ideate per rendere possibile l’incredibile densità di eventi storici avvenuti tra la metà del XV secolo e il XVIII secolo.

Scontri armati, carestie e pestilenze provocarono milioni di vittime quando Vecchio Mondo e Nuovo Mondo vennero a contatto. Milioni di esseri umani indigeni furono sterminati in nome di qualche re, regina o compagnia commerciale; alcune specie animali, come il bisonte, sparirono dal continente nordamericano per la caccia intensiva condotta dalle spedizioni occidentali.

Lo sterminio di interi popoli nativi, violento o provocato da malattie, e i forti cambiamenti ecologici che gli europei apportarono agli ecosistemi americani non devono tuttavia far pensare che le Americhe fossero continenti abitati da popoli pacifici, in armonia con la natura e con i popoli limitrofi.

Prima dell’arrivo dei primi esploratori europei, le Americhe erano un territorio solo parzialmente selvaggio. I nativi erano in grado di modificare profondamente il territorio con incendi controllati e un attento controllo della vegetazione locale; cacciavano animali in grandi numeri, spesso uccidendo molto più di quanto potessero utilizzare e mangiare; la violenza tribale, infine, era relativamente comune, contrariamente all’immagine comune del “buon selvaggio” associata spesso e volentieri alle culture native americane precolombiane.

Un nuovo mondo non violento?

Aztechi, Maya, Inca e popoli dell’ America Centro-meridionale non erano di certo popoli pacifici. La Guerra dei Fiori era un rituale che provocava relativamente poche morti e serviva a scongiurare guerre di portata più grande tra le città-stato azteche, ma si trattava comunque di un rituale estremamente cruento mirato a indebolire militarmente i rivali di Tenochtitlan.

Il regno di Cusco, invece, iniziò ad espandersi a partire dal 1438 sotto la guida di Pachacuti-Cusi Yupanqui, nome dal significato molto poco pacifico di “colui che fa tremare la terra”. Pachacuti creò quello che sarebbe diventato l’impero Inca conquistando col sangue i Chancas, una tribù di guerrieri formidabili ed estremamente abili nel combattimento. Nel 1463 iniziò un’altra campagna di conquista per sconfiggere il vero rivale degli Inca, il regno di Chimor.

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Le tre civiltà americane più famose e potenti degli ultimi 1.000-1.500 anni di storia non erano quindi per nulla pacifiche, avevano aspirazioni imperialistiche e regolavano col sangue molte delle questioni aperte con i rivali locali.

Cosa succedeva invece nelle regioni settentrionali e meridionali delle Americhe, prima che iniziasse l’esplorazione metodica dei continenti americani? Nulla di molto diverso, anche se la maggior parte delle comunità poteva contare su un numero di individui più ridotto.

Nell’estremità settentrionale delle Americhe, gli Inuit canadesi conducevano abitualmente schermaglie contro gruppi locali concorrenti, anche se della stessa cultura: i Nunatamiut del Fiume Mackenzie, ad esempio, si davano battaglia tra loro per il controllo delle risorse ittiche.

La foresta pluviale amazzonica, invece, era popolata da decine di milioni di individui appartenenti a culture molto diverse tra loro, come i Valdivia, i Quimbaya, i Calima e i Tairona, che sicuramente ebbero molte occasioni per entrare in contrasto per questioni di territorialità o risorse.

Tra gli Inuit e le culture amazzoniche, guerre e rivolte spinte da ragioni politiche, economiche o religiose imperversavano, la brutalità era all’ordine del giorno e la vita trascorreva ben diversamente dal quadro idilliaco talvolta dipinto da alcune ricostruzioni poco fedeli alla realtà storica.

Scontri intertribali frequenti

Secondo la storica Diana Muir, la Lega Irochese pre-contatto europeo era caratterizzata da uno spirito espansionistico e imperialista che mirava al possesso dei territori degli Algonchini e di ogni potenziale preda vicina. La confederazione irochese era così assetata di potere da cannibalizzare se stessa, abbattendo anche le comunità della propria cultura che conducevano stili di vita meno belligeranti.

Nel 1649 gli Irochesi distrussero il villaggio di Wendake, facendo sciogliere la nazione degli Uroni e rimuovendo l’ultimo reale avversario alla conquista dei territori delle Nazioni Neutrali, dei Mohicani e di altre tribù irochesi non appartenenti alla Lega, principalmente per una questione di prestigio territoriale e per prendere il controllo del commercio delle pelli.

Facendo un salto indietro nella storia, i resti umani rinvenuti nelle Grandi Pianure e risalenti ad un periodo compreso tra il 250 a.C. e il 900 d.C. mostrano segni occasionali di violenza dovuta a scontri intertribali. A partire dal XIII secolo, tuttavia, scorrerie e guerre iniziarono a diventare sempre più frequenti, e i resti archeologici mostrano segni di incendi, di violenze brutali e di mutilazioni.

La ragione di queste sempre più frequenti aggressioni non è chiara, ma si ipotizza che possa essere stata la fame a scatenare gli scontri tra tribù. Gli scavi nel sito di Crow Creek, un’antica città Arikara sorta nel 1325, ha rivelato i corpi di 486 persone, incluse donne e bambini, massacrate, scalpate e smembrate. I resti ossei mostrano evidenti segni di malnutrizione, suggerendo che il massacro sia stato motivato dalla competizione per le scarse risorse alimentari disponibili.

Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata
Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata

Gli scontri intertribali terminati in massacri sono molti e ben documentati; talvolta si parla di migliaia di vittime in una singola battaglia (molti leghe tribali non superavano le 10-20.000 unità). Il 90% dei resti umani appartenenti al XIII secolo mostrano segni di traumi, spesso alla testa o agli arti.

Nel 1800 Alexander Henry, commerciante per la Northwest Company, esclamò osservando una le Grandi Pianure ricoperte di mandrie di bisonti: “Questo è un paese meraviglioso, e se non fosse per le guerre perpetue, i nativi potrebbero essere le persone più felici della Terra”. Detto da una delle pedine dei poteri che sfruttavano i nativi americani, l’affermazione non sembra avere alcun valore, ma la realtà è che i nativi si dilettavano nell’arte della guerra ben prima dell’arrivo degli Europei.

Cherokee e schiavi

Sui Cherokee esiste parecchia documentazione storica rispetto ad altre culture, documentazione risalente non soltanto agli scontri tra Europei e nativi, ma anche ai primi contatti indiretti con la confederazione.

In cima alla piramide sociale dei clan Cherokee c’erano due figure politiche: “bianco”, amministratore in periodi di pace, e “rosso”, il comandante in caso di guerra. Le decisioni militari venivano prese dal capo “rosso” e dai delegati dei sette clan Cherokee (che includevano le ghigau, donne guerriere).

I Cherokee erano una cultura schiavista, come molte altre nordamericane dalla California al Canada. Gli schiavi potevano essere catturati in guerra, ma esistevano anche schiavi divenuti tali a causa di debiti di gioco. La tribù aveva diritto di vita e di morte sui suoi schiavi, e solo il consiglio tribale poteva concedere loro la libertà.

Generalmente, la cattura di ostaggi durante una razzia o una battaglia poteva finire in due modi: essere risparmiato (nel caso di donne e bambini) e diventare schiavo, o essere ucciso. Alcuni schiavi potevano diventare “parenti” di membri della comunità, entrando a far parte del tessuto sociale tribale, o continuare a rimanere all’esterno di ogni interazione con la comunità.

Per i Cherokee gli schiavi non erano un vero e proprio elemento funzionale per l’economia tribale, ed erano una proprietà collettiva. Le attività di raccolta e quelle di caccia potevano tranquillamente soddisfare i bisogni della comunità (gli schiavi potevano aiutare nei campi o trasportare carichi) senza l’aiuto di altre braccia, per cui il possesso di prigionieri era sostanzialmente una questione di prestigio.

Dopo l’incontro-scontro con gli Europei e la schiavitù di migliaia di Cherokee, la cultura schiavista dei nativi iniziò a cambiare in peggio: lo schiavo divenne una proprietà individuale che poteva essere scambiata con gli stranieri per ottenere oggetti che i nativi non erano in grado di produrre.

Scontri per la terra

Come citato in questo post, la maggior parte delle comunità native americane conosceva il concetto di proprietà privata, che veniva tutelata da una serie di leggi tribali tramandate oralmente.

Nelle culture dedite all’agricoltura, esistevano diritti di sfruttamento per le risorse naturali e i terreni diventavano parte del patrimonio di famiglia. Ma un diritto di sfruttamento può essere messo in discussione alla morte del capofamiglia, o con lo sconfinamento continuo da parte di membri della tribù o provenienti da altre culture; le diatribe sui diritti di sfruttamento dei terreni agricoli o di caccia causavano scontri spesso violenti, che potevano sfociare in vere e proprie battaglie.

Nelle regioni degli Stati Uniti Sud-occidentali, gli archeologi hanno ritrovato numerosi scheletri, risalenti al periodo che precede l’arrivo degli Europei, che riportano svariati segni lasciati da armi da lancio e corpi contundenti. In queste regioni le carestie innescavano probabilmente scontri locali tra clan in competizione per le risorse, o per sconfinamenti non autorizzati in territori di caccia e raccolta controllati da altre culture.

I diritti di sfruttamento o il possesso di un terreno potevano quindi subire cambiamenti continui. Un campo di mais posseduto da più generazioni dalla stessa famiglia o clan poteva improvvisamente diventare proprietà di un’altra tribù dopo uno scontro violento o uno sconfinamento in massa, spesso senza lasciare tracce permanenti dei proprietari precedenti.

E’ per questa ragione che il mantra moderno che recita “restituiamo la terra ai nativi” non ha molta logica. “Nativi americani” è un termine ombrello che racchiude un’incredibile varietà di culture, di approcci al potere e di eventi storici locali difficili da ricostruire, specialmente se si scava nella storia precedente all’arrivo degli Europei sul continente.

A chi dovremmo restituire la regione canadese attorno al villaggio di Wendake? Agli Irochesi, che dalla metà del 1600 se ne appropriarono con la forza, o agli Uroni, i precedenti “proprietari” dell’area? O forse ai Petun, il “Popolo del Tabacco”, in competizione per le risorse con gli Uroni da prima che gli Irochesi iniziassero a conquistare i clan minori?

Fonti:

Thanksgiving guilt trip: How warlike were Native Americans before Europeans showed up?
Slaveholding Indians: the Case of the Cherokee Nation  (PDF)
INTERTRIBAL WARFARE
Intertribal Warfare as the Precursor of Indian-White Warfare on the Northern Great Plains (PDF)
The Indians’ Old World: Native Americans and the Coming of Europeans
The Most Violent Era In America Was Before Europeans Arrived

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La piscicoltura dei nativi americani Calusa https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/ https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/#respond Mon, 22 Jun 2020 00:10:15 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4886 La maggior parte dei lettori di questo blog avrà ormai una certa familiarità con le culture native del Nord America. Molte di queste popolazioni, considerate in passato come primitive e incapaci di sviluppare società ed economie complesse, si stanno rivelando molto più avanzate di quanto sospettato fino a qualche decade fa.

Osservando ciò che è rimasto di Cahokia, l’impatto dei nativi sulle foreste americane, sui grandi mammiferi come il bisonte, e la loro dieta, ci si rende presto conto che siamo ben lontani dalle molte culture primitive, presenti e passate.

La maggior parte delle popolazioni nordamericane basavano la loro economia su prodotti della terra come mais, zucche e fagioli, prodotti che consentivano loro di avere risorse in sovrannumero da poter scambiare con i popoli limitrofi, o tramite le quali poter crescere numericamente; oppure, avevano preservato uno stile di vita incentrato prevalentemente su caccia e raccolta, una scelta che generalmente costringe a mantenere una bassa densità di popolazione per sfamare ogni individuo del proprio gruppo sociale.

La cultura Calusa, invece di sfruttare il mais o i grandi mammiferi, fondò il proprio successo sul pesce, una risorsa preziosa ma difficile da gestire se lo scopo è quello di creare il surplus alimentare necessario alla crescita di un popolo.

Chi erano i Calusa

Il popolo Calusa si è sviluppato lungo la costa sudoccidentale della Florida. All’arrivo dei primi Europei in Florida, tra il XVI e il XVII secolo, la cultura Caloosahatchee occupava la regione delle Everglades, un intricato labirinto di acquitrini e piante acquatiche abitato da un’incredibile varietà di specie animali.

L’esistenza dei Calusa ci viene testimoniata da Hernando de Escalante Fontaneda, uno spagnolo tenuto prigioniero dai nativi nel XVI secolo, e da Juan Rogel, un missionario gesuita che visitò i Calusa negli anni ’60 del 1500.

Gli antenati dei Calusa vivevano in Florida da migliaia di anni prima dell’arrivo degli Europei. Iniziarono a stabilirsi nelle regioni paludose vicino alla costa circa 7.000 anni fa, costruendo cumuli di terra su cui edificare le proprie abitazioni.

Nel loro periodo arcaico delle popolazioni delle Everglades (circa 500 a.C.) iniziarono ad emergere culture regionali distinte, ma tutte basate su un profondo rapporto con il mare e con le paludi: sia i Calusa che i loro antenati erano “mangiatori di molluschi”, ma progressivamente incorporarono sempre più fauna ittica nella loro dieta, diventando abilissimi pescatori e piscicoltori.

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L’analisi dei sedimenti prelevati nei pressi degli insediamenti Calusa ha mostrato un’ alimentazione composta da animali terrestri piccoli e grandi, molluschi, pesci d’acqua dolce e salata come squali e razze, oltre a grandi quantità di crostacei, uccelli acquatici e tartarughe.

I sedimenti degli insediamenti costieri (come il sito di Wightman) lasciano supporre che il 93% delle proteine animali consumate dai Calusa fosse composto da pesce e molluschi, con il rimanente 7% rappresentato da mammiferi, uccelli e rettili. Negli insediamenti più interni, come Platt Island, il 60% delle proteine animali proveniva invece da mammiferi terrestri, ma il consumo di pesce era comunque elevato (circa il 20% sul totale delle proteine).

Ad oggi non ci sono prove che i Calusa coltivassero il mais; anzi, sappiamo che probabilmente rifiutarono di diventare agricoltori quando gli Spagnoli offrirono loro l’opportunità.

“I soldati, i sacerdoti e gli ufficiali spagnoli” spiega Victor Thompson, direttore del Laboratorio di Archeologia alla University of Georgia, “erano abituati ad avere a che fare con culture agricole, come i popoli incontrati nei Caraibi che producevano surplus di mais. Questo non fu possibile con i Calusa. Infatti, in un tentativo dei francescani nel tardo 1600, ai Calusa furono donate delle zappe, ma non appena le videro i nativi replicarono ‘Perchè non hanno anche portato degli schiavi per arare la terra?'”

Secondo l’antropologo George Murdock, mediamente solo il 20% della dieta Calusa era costituita da piante, come bacche selvatiche, frutti, noci, radici e tuberi: circa 2.000 anni fa, nella regione venivano coltivate anche papaya e “zucche bottiglia“, utilizzate come galleggianti per le reti da pesca, ma l’alimentazione locale era già sostanzialmente basata sul pesce.

Potere fondato sul pesce

I Calusa furono tra le culture più rilevanti in Florida per molti secoli, commerciando lungo rotte che si estendevano per centinaia di chilometri oltre la costa, modificando profondamente il territorio per costruire le loro case e creando vere e proprie isole composte dai gusci dei molluschi che consumavano.

Un “impero” che si fonda sul pesce, tuttavia, è costretto ad affrontare la sfida di come conservare l’alimento base della propria dieta in un clima tropicale che favorisce la decomposizione della materia organica morta. I Calusa conoscevano la salagione e l’affumicatura, ma per sfamare circa 10.000 individui (o forse più, come alcuni archeologi hanno ipotizzato) occorre pescare grandi quantità di pesce e affrontare lunghi processi di pulizia e preparazione, con il rischio che parte del pescato vada a male.

Come facevano i Calusa a gestire le loro risorse ittiche e a generare un surplus in grado di metterli nelle condizioni di creare un’economia fiorente strettamente legata al mare?

Secondo William Marquardt, curatore della sezione South Florida Archaeology and Ethnography del Florida Museum of Natural History, i Calusa utilizzavano enormi strutture simili a quelle della moderna piscicoltura per conservare vivo il pesce. Queste strutture, che Marquardt definire “watercourts“, avevano fondamenta di gusci di molluschi e venivano realizzate sfruttando porzioni degli estuari.

I watercourts servivano come riserva ittica a breve termine: mantenevano il pesce vivo e in salute fino al momento del consumo, della salagione o dell’affumicatura. La più grande di queste strutture misurava quanto 7 campi da basket e aveva una base profonda 1 metro composta da sedimenti e gusci di molluschi.

“Ciò che rende differenti i Calusa è il fatto che le altre società che raggiungono questi livelli di complessità e potere sono principalmente culture agricole” afferma Marquardt. “Per molto tempo le società che si basavano sulla pesca, sulla caccia o sulla raccolta sono state considerate meno avanzate. Ma il nostro lavoro nel corso di oltre 35 anni ha mostrato che i Calusa svilupparono una società politicamente complessa con architettura, religione, esercito, stratificazione sociale e commercio molti sofisticati, il tutto senza essere agricoltori”.

Thompson, Marquardt e i loro colleghi hanno analizzato due watercourts nei pressi di Mound Key, un’isola artificiale su cui si trovava l’immensa abitazione del sovrano dei Calusa, una struttura così grande da poter accogliere fino a 2.000 persone.

Metodo di pesca non chiaro

I watercourts di Mound Key furono costruiti tra il 1300 e il 1400, qualche decade dopo un calo del livello del mare che potrebbe aver ispirato un periodo di innovazioni volte a preservare lo stile uno stile di vita basato su prodotti ittici.

Non sappiamo ancora come i Calusa catturassero il pesce che allevavano e consumavano, ma le ipotesi sono due: pescandolo tradizionalmente con l’utilizzo di reti, oppure indirizzandolo verso i watercourts tramite canali appositamente realizzati.

“Non possiamo sapere esattamente come funzionasse [il loro metodo di pesca], ma la nostra sensazione è che conservassero il pesce in queste strutture per poco tempo, da poche ore a qualche giorno, non interi mesi” sostiene Michael Savarese, ricercatore che ha collaborato con Thompson e Marquardt.

“Il fatto che i Calusa ottenessero la maggior parte del loro cibo dagli estuari plasmò quasi ogni aspetto delle loro vite” conclude Thompson. “Anche oggi, i popoli che vivono lungo le coste sono un po’ differenti dagli altri, e le loro vite continuano ad essere influenzate dall’acqua, per quanto riguarda il cibo che consumano o per le tempeste che si scatenano nei pomeriggi estivi della Florida sudoccidentale”.

Ancient engineering of fish capture and storage in southwest Florida
Calusa

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Amazzonia abitata durante l’Olocene https://www.vitantica.net/2019/05/03/amazzonia-abitata-durante-olocene/ https://www.vitantica.net/2019/05/03/amazzonia-abitata-durante-olocene/#respond Fri, 03 May 2019 00:10:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4172 L’immagine dell’Amazzonia come luogo incontaminato sta pian piano lasciando il posto all’idea che l’essere umano abbia radicalmente modificato l’ecosistema pluviale sudamericano per millenni (leggi questo post per saperne di più).

In una recente ricerca della Penn State University, si ipotizza che i primi insediamenti a Llanos de Moxos, nel bel mezzo dell’ Amazzonia boliviana, non risalgano a 2.500 anni fa, ma siano databili ad un periodo compreso tra 10.000 e 4.000 anni fa.

Popoli amazzonici dell’ Olocene

“Da molto tempo sapevamo che le società complesse di Llanos de Moxos nell’Amazzonia sud-occidentale, in Bolivia, emersero circa 2.500 anni fa, ma nuove prove suggeriscono che l’essere umano si sia insediato nella regione 10.000 anni fa, durante il primo periodo dell’Olocene” sostiene Jose Capriles, assistente professore di antropologia.

“Questi gruppi” continua Capriles, “erano cacciatori-raccoglitori; tuttavia, i nostri dati mostrano che iniziarono ad esaurire le loro risorse locale e a stabilire comportamenti territoriali, che forse li condussero a domesticare alcune piante come le patate dolci, la cassava, le arachidi e i peperoncini, come metodo per ottenere cibo”.

Il team di Capriles ha condotto scavi archeologici e analisi dei reperti su tre “isole stagionali”: Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo. Queste isole si trovano nella savana di Llanos de Moxos, un territorio che periodicamente, seguendo il ritmo stagionale, viene invaso dalle acque.

Llanos de Moxos, conosciuta anche come “savana di Beni”, è un’area di 126.000 chilometri quadrati che si estende principalmente sul territorio boliviano, sconfinando in Brasile e Perù.

La regione occupa l’angolo sud-occidentale del bacino del Rio delle Amazzoni ed è attraversata da numerosi corsi fluviali che, ogni anno, inondano la pianura sommergendone circa la metà.

Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo
Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo

“Queste isole si ergono sopra la savana che le circonda, per cui non vengono sommerse durante la stagione delle piogge. Crediamo che i popoli locali utilizzassero questi siti di continuo come accampamenti stagionali, in particolare durante le lunghe stagioni umide, quando la maggior parte di Llanos de Moxos viene inondata”.

Transizione da nomadismo a sedentarietà?

E’ ormai assodato che Llanos de Moxos era abitata da popolazioni stanziali almeno 2 millenni prima dell’arrivo degli Europei: i canali, i tumuli e le vie di comunicazione che sono state scoperte fino ad oggi risalgono ad un periodo compreso tra il 1100 a.C. e il 1450 d.C..

Ma nonostante i sospetti sulla presenza di insediamenti ancora più antichi, fino ad ora non esisteva alcuna prova della presenza umana nella regione oltre i 2.000 anni prima di Cristo.

Durante i recenti scavi, gli archeologi hanno scoperto resti umani sepolti intenzionalmente secondo una procedura differente da quella dei cacciatori-raccoglitori ma più simile a quella delle società complesse e stanziali, caratterizzate da una gerarchia politica e dalla produzione di cibo.

“Se si tratta di cacciatori-raccoglitori che si spostavano di frequente, è insolito che seppellissero i loro morti in località specifiche; di solito lasciano le salme vicino al luogo del decesso”. Secondo Capriles, è raro trovare nella regione esseri umani o resti archeologici risalenti a periodi che precedono la lavorazione della terracotta.

“Il terreno tende ad essere molto acido, cosa che spesso rende difficile la conservazione di resti organici. Inoltre, la materia organica si deteriora velocemente in ambienti tropicali e questa regione manca totalmente di ogni tipo di roccia utile a realizzare strumenti di pietra, quindi non abbiamo utensili litici disponibili per le analisi”.

Le modifiche all'ambiente apportate dai primi abitanti di Llanos de Moxos
Le modifiche all’ambiente apportate dai primi abitanti di Llanos de Moxos

Caprile sottolinea il fatto che le ossa umane presenti su queste isole si sono conservate, nonostante le condizioni avverse, grazie alla presenza sul posto di latrine e rifiuti umani contenenti abbondanti frammenti di conchiglie, gusci di lumache, ossa animali e altra materia organica. “Nel corso del tempo, l’acqua ha dissolto il carbonato di calcio delle conchiglie, e i carbonati sono precipitati sulle ossa, fossilizzandole”.

I primi dominatori del fuoco

Non è stato possibile utilizzare la datazione al  carbonio-14 per stimare l’età dei resti umani perché le ossa erano fossilizzate, tecnicamente trasformate in pietra; la datazione al radiocarbonio è stata invece effettuata sui resti di carbone e sui gusci di lumaca, ottenendo una stima sull’arco temporale in cui questi siti furono occupati da esseri umani.

“I resti abbondanti di terra e legno bruciati suggeriscono che questi popoli usassero il fuoco, probabilmente per ripulire il terreno, cucinare e tenersi al caldo durante i giorni di pioggia” sostiene Capriles.

Umberto Lombardo, ricercatore dell’ Università di Berna e uno tra i primi archeologi ad analizzare i siti di Llanos de Moxos, spiega che quando i ricercatori scoprirono questi siti archeologici nel 2013 furono in grado di trarre conclusioni basandosi soltanto su prove indirette, specialmente le analisi geochimiche.

“Data l’assenza di prove dirette, molti archeologi erano scettici nell’accettare le nostre scoperte” spiega Lombardo. “Non erano del tutto convinti che queste isole fossero siti archeologici dell’ Olocene. Questo studio fornisce prove valide e definitive dell’origine antropogenica di questi siti, perché gli scavi hanno rivelato sepolture umane del primo Olocene”.

Rimane tuttavia un buco temporale tra i popoli scoperti dal team di Capriles, vissuti tra i 10.000 e i 4.000 anni fa, e l’emergere di società complesse nella regione boliviana circa 2.500 anni fa. “I popoli che abbiamo trovato sono diretti predecessori delle società complesse che si svilupparono successivamente? Ci sono ancora domande che hanno bisogno di risposte e speriamo di poterle fornire attraverso la ricerca futura”.

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Human settlements in Amazonia much older than previously thought
Human–environment interactions in pre-Columbian Amazonia: The case of the Llanos de Moxos, Bolivia
Los Llanos de Moxos y sus misteriosos conchales

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Breve storia del pomodoro (fino al XVIII secolo) https://www.vitantica.net/2019/01/16/breve-storia-del-pomodoro-fino-al-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2019/01/16/breve-storia-del-pomodoro-fino-al-xviii-secolo/#respond Wed, 16 Jan 2019 00:10:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2957 Il pomodoro (Solanum lycopersicum) è una pianta nativa del Sud America che nel corso dei secoli ha assunto diverse forme, colori e sapori grazie ad una vasta opera di selezione genetica da parte dell’essere umano.

La sua esatta origine è ancora incerta: sappiamo che appartiene alla famiglia delle Solanaceae, ma non sappiamo quando iniziò a separarsi dalle sue “cugine” velenose o quando ebbe inizio la sua domesticazione.

Classificazione del pomodoro: frutta o verdura?

Botanicamente, il pomodoro è un frutto di una pianta da fiore, ma in ambito culinario viene considerato un ortaggio per via del suo basso contenuto di zuccheri rispetto alla frutta tradizionale.

Il pomodoro non è l’unico frutto “ambiguo”: anche i peperoni, i cetrioli, le zucche e le melanzane sono frutta che viene generalmente trattata come verdura a tavola.

Tutte le parti verdi del pomodoro contengono tomatina, un sostanza tossica che non viene eliminata nemmeno tramite la cottura, e piccole quantità di solanina, un alcaloide presente anche nelle foglie di patata.

Anche il frutto della pianta di pomodori contiene tomatina, ma in quantità molto basse. Gli effetti della tomatina sul corpo umano non sono ancora stati studiati a fondo, ma l’avvelenamento da tomatina sembra causare sintomi simili a quelli provocati dalla solanina.

Linneo classificò il pomodoro nel 1753 includendolo nella famiglia delle Solanaceae e definendolo Solanum lycopersicum. Quindici anni dopo, Philip Miller ritenne invece più opportuno classificare il pomodoro in un genere a parte, chiamandolo Lycopersicon esculentum, un nome alternativo considerato scientificamente corretto per coloro che non collocavano la pianta di pomodoro nel genere Solanum.

L’analisi genetica del pomodoro finì per dare ragione a Linneo: è corretto classificare la pianta come solanacea, ma nella letteratura botanica degli ultimi due secoli è possibile trovare sia il nome di Linneo sia quello di Miller.

Il pomodoro mesoamericano
Pomodori selvatici
Pomodori selvatici

La storia del pomodoro ha inizio in Sud America, dove in passato erano diffuse piante selvatiche di pomodoro che producevano frutti piccoli e gialli. Non abbiamo una data certa per la domesticazione del pomodoro ma sappiamo che nel 500 a.C. aveva ormai raggiunto il Messico e veniva coltivata dal popolo Pueblo, che riteneva che ingerire i semi di pomodoro garantisse poteri divinatori.

La varietà di pomodoro rosso, di grosse dimensioni e spesso di forma irregolare sembra essere emersa in Mesoamerica a partire da una mutazione del pomodoro originale sudamericano, mutazione favorita dalla selezione azteca per ottenere frutti più grandi, dolci e rossi.

Non abbiamo la certezza che Colombo, nel 1493, abbia riportato in Europa alcuni esemplari di pomodoro, ma è certo che Cortes, dopo la cattura di Tenochtitlan nel 1521, si appropriò di alcuni semi di pomodoro giallo e li inviò nel Vecchio Continente.

All’arrivo di Cortes il pomodoro, chiamato tomatl o xitomatl in lingua Nahuatl, era ormai parte integrante della dieta azteca e presente in numerose varietà sui mercati di Tenochtitlan, come spiega il missionario spagnolo Bernardino de Sahagún:

Quelli che vendono i pomodori vendono solitamente quelli grandi e quelli molto piccoli, e ne esistono di ogni tipo, in molte varietà differenti, come pomodori gialli, rossi e altri molto soffici e maturi. I venditori disonesti vendono quelli marci o spappolati, o quelli dal sapore ancora aspro. Vendono anche quelli non ancora maturi e verdi, e quelli, quando vengono mangiati, provocano dolori di stomaco, non hanno sapore e provocano catarro.

Il pomodoro arriva in Europa

Il primo riferimento al pomodoro nella letteratura europea appare nel 1544: Pietro Andrea Mattioli, botanico e medico italiano, scrisse nel suo erbario di aver osservato una nuova pianta di melanzana portata nella penisola dalle Americhe: la pianta era rossa o gialla e poteva essere consumata cotta e condita con sale, pepe nero e olio, proprio come una malanzana. Dieci anni dopo, lo stesso Marrioli rinomina questa pianta come “pomo d’oro“.

Qualche anno dopo appare un altro riferimento documentale al pomodoro: il 31 ottobre del 1548 il dispensiere di Cosimo de’ Medici scrisse una lettera al segretario privato del Granduca comunicando che il cesto di pomodori inviato da Torre del Gallo era arrivato sano e salvo.

Inizialmente, i pomodori furono coltivati in Italia a puro scopo ornamentale per via della capacità di questa pianta di mutare in continuazione, creando frutti con forme e colori sempre differenti.

Raffigurazione del pomodoro ("Poma amoris fructu rubro") del 1620
Raffigurazione del pomodoro (“Poma amoris fructu rubro”) del 1620

I pomodori non furono inizialmente considerati una risorsa alimentare per via del loro scarso potere nutritivo (saziano meno di altra frutta) e per la confusione causata dalla coltivazione sia di specie commestibili che tossiche.

A Firenze fu utilizzato solo come pianta ornamentale per la tavola fino al tardo XVII secolo, mentre il primo libro di ricette che prevede l’impiego del pomodoro fu scritto a Napoli nel 1692 (“Lo scalco alla moderna”), circa 150 anni dopo l’arrivo del pomodoro in Italia.

In Inghilterra il pomodoro non fu coltivato fino agli anni ’90 del 1500. Uno dei primi coltivatori fu John Gerard, un barbiere che pubblicò nel 1597 un erbario (copiato quasi interamente dall’erbario The Herball, or Generall Historie of Plantes del naturalista olandese Rembert Dodoens) che rappresenta la prima documentazione storica relativa al pomodoro inglese.

Gerard riteneva che il pomodoro fosse deleterio per la salute e le sue valutazioni sulla pericolosità della pianta bloccarono il consumo di pomodoro sia in Gran Bretagna che nelle colonie inglesi in America almeno fino al termine del XVII secolo.

Nel XVIII secolo, il pomodoro aveva comunque conquistato il gusto inglese e verso la fine del 1700 era diventato un ingrediente comune in zuppe, brodi e contorni, anche se non faceva parte della dieta dell’inglese medio perchè veniva generalmente impiegato nell’alta cucina.

La paura del pomodoro

Come accennato qualche riga più sopra, la paura della velenosità del pomodoro rallentò la diffusione di questo frutto prelibato nel Vecchio Continente. Non era soltanto John Gerald a ritenere che fosse velenoso, ma era una credenza diffusa in molti circoli aristocratici europei.

La presenza di tomatina nel pomodoro è una scoperta relativamente recente; inoltre, la gente comune abbastanza fortunata da aver mangiato pomodori si dimostrò apparentemente immune alla sua velenosità. Quale furono le ragioni che portarono a ritenere tossica questa pianta?

La sua somiglianza con alcune piante considerate velenose o “peccaminose”, come la melanzana, contribuì di certo alla fama negativa del pomodoro, ma la tossicità di questo frutto tra i benestanti dei secoli passati era legata ad un problema molto più pratico: piatti in peltro.

Il peltro è una lega a base di stagno che in antichità veniva prodotta aggiungendo fino al 15% di piombo, anche se generalmente gli oggetti per la tavola prodotti fino al XVIII secolo contenevano circa il 4% di piombo.

I succhi del pomodoro sono noti per la loro acidità: una volta a contatto con i piatti in peltro così comuni sulle tavole di chiunque potesse permetterseli, scioglieva parte del piombo favorendone l’assimilazione nell’organismo e causando un lento ma progressivo avvelenamento.

The History of the Arrival of the Tomato in Europe: An Initial Overview
Why the Tomato Was Feared in Europe for More Than 200 Years

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Trapanazione del cranio: il successo degli Inca https://www.vitantica.net/2018/06/09/trapanazione-del-cranio-inca/ https://www.vitantica.net/2018/06/09/trapanazione-del-cranio-inca/#respond Sat, 09 Jun 2018 14:30:29 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1763 La trapanazione del cranio è una delle pratiche chirurgiche più antiche: la testimonianza materiale più remota di questa pratica appartiene ad un cimitero francese del 6.500 a.C. che ospitava 40 crani perforati in modo metodico.

Molti di questi crani mostrano evidenti segni di guarigione, dimostrando che diversi pazienti riuscirono a sopravvivere alla perforazione in un tempo in cui non esistevano veri e propri anestetici e le pratiche igieniche erano tutt’altro che moderne.

Esperti nelle trapanazioni craniche

Alcune popolazione precolombiane, note anche per le deformazioni craniche rituali, si dimostrarono abili chirurghi ed esperte conoscitrici della scatola cranica. Il popolo Inca, per esempio, praticò per secoli la trapanazione del cranio per le ragioni più disparate, come alleviare i dolori causati da traumi cranici, curare malattie mentali o addirittura espellere demoni insediati nel cervello del paziente.

L’elemento sorprendente è che gli Inca avevano un enorme tasso di successo in questo genere di operazioni, specialmente nel periodo tra l’ XI e il XV secolo: secondo David S. Kushner, autore della ricerca “Trepanation Procedures/Outcomes: Comparison of Prehistoric Peru with Other Ancient, Medieval, and American Civil War Cranial Surgery” pubblicata sulla rivista World Neurosurgery, i pazienti dell’impero sudamericano sottoposti a trapanazione avevano il doppio delle possibilità di sopravvivere all’intervento rispetto ai soldati della guerra di secessione americana, combattuta tra il 1861 e il 1865.

Questo individuo vissuto in Perù tra il 400 e il 200 a.C. ha subito una frattura cranica (freccia bianca) trattata probabilmente con una trapanazione, morendo circa due settimane dopo l'intervento.
Questo individuo vissuto in Perù tra il 400 e il 200 a.C. ha subito una frattura cranica (freccia bianca) trattata probabilmente con una trapanazione, morendo circa due settimane dopo l’intervento. D. KUSHNER ET AL., WORLD NEUROSURGERY 114, 245 (2018).

“Ci sono ancora molte incognite sulla procedura e sugli individui su cui veniva praticata la trapanazione, ma i risultati ottenuti durante la guerra civile americana erano miseri rispetto a quelli riscontrati durante il periodo Inca” spiega Kushner.

“Sotto gli Inca, la mortalità era compresa tra il 17% e il 25%, mentre durante la guerra di secessione si attestava tra il 46% e il 56%. E’ un’enorme differenza. La domanda è questa: come facevano gli antichi chirurghi peruviani ad ottenere risultati che superano abbondantemente quelli dei chirurghi della guerra di secessione?”.

Una lunga storia di trapanazione del cranio

Anche se i metodi di trapanazione peruviani non sono noti, gli Inca ebbero secoli per perfezionarli. Le prime testimonianze materiali di trapanazioni craniche in Perù sono oltre 800 teschi risalenti al 400 a.C., un numero superiore alla somma di tutti i reperti analoghi scoperti nel resto del mondo.

Gli Inca appresero con l’esperienza le tecniche più appropriate per praticare trapanazioni craniche a regola d’arte: impararono ad esempio a non perforare la membrana protettiva che riveste il cervello e a medicare correttamente le ferite.

Nei primi secoli di trapanazioni craniche la probabilità di non sopravvivere all’intervento sembra essere stata mediamente superiore a quella registrata durante la guerra civile americana, con una mortalità pari al 50%.

Ma a partire dall’anno 1000 ci fu un salto di qualità nella chirurgia cranica peruviana, un miglioramento che aumentò drammaticamente la sopravvivenza fino ad un tasso del 75-83%.

Serie di crani di pazienti sottoposti a trapanazione in epoca precolombiana. Museum of Anthropology, Archaeology and History, Lima
Serie di crani di pazienti sottoposti a trapanazione in epoca precolombiana. Museum of Anthropology, Archaeology and History, Lima

“Nel corso del tempo hanno imparato quali tecniche fossero le migliori e con meno rischi di perforare la dura madre [la membrana più esterna che avvolge l’encefalo]” sostiene Kushner. “Sembra che avessero capito l’anatomia del cranio ed evitassero con cura le aree che avrebbero causato grossi sanguinamenti.

Realizzarono anche che le trapanazioni più invasive avevano meno probabilità di ottenere successi rispetto a quelle più localizzate e ristrette. Le prove fisiche dimostrano che questi antichi chirurghi perfezionarono la procedura nel corso del tempo”.

Igiene e anestesia

Escludendo l’efficacia delle tecniche di trapanazione del cranio, un elemento di distinzione tra le trapanazioni craniche peruviane e quelle nordamericane durante guerra civile fu probabilmente l’ igiene.

E’ ormai noto che durante la guerra di secessione americana le condizione igieniche erano pessime: per ogni soldato morto in battaglia almeno due morivano per malattie contratte principalmente a causa delle pessime condizioni sanitarie in cui vivevano.

Tutti i feriti, anche lievi, sviluppavano infezioni per via della continua esposizione a germi e virus che proliferano in condizioni di scarsa igiene, condizioni tipiche di un accampamento pieno di sangue e liquami.

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I medici della guerra civile americana, insufficientemente impreparati ad affrontare operazioni chirurgiche e fondamentalmente ignoranti per quanto riguardava l’igiene e le pratiche di sanitizzazione, utilizzavano spesso strumenti non sterilizzati o le dita per sondare le ferite craniche profonde o per spezzare i coaguli che impedivano di alleviare la pressione del sangue sul cervello.

“Se c’era un’apertura nel cranio infilavano un dito nella ferita e sondavano l’interno, cercando coaguli o frammenti d’osso” dice Kushner. “Non sappiamo come gli antichi peruviani prevenissero le infezioni, ma sembra che in qualche modo lo facessero. Non sappiamo neppure cosa utilizzassero come anestesia, ma dato che ci sono così tante trapanazioni del cranio devono aver utilizzato qualche sostanza, probabilmente foglie di coca. Forse si tratta d’altro, forse una bevanda fermentata. Non ci sono testimonianze scritte, semplicemente non sappiamo come facessero”.

Trepanation Procedures/Outcomes: Comparison of Prehistoric Peru with Other Ancient, Medieval, and American Civil War Cranial Surgery
Holes in the head

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Il successo dell’ ananas dopo il viaggio di Colombo https://www.vitantica.net/2018/06/01/ananas-viaggio-colombo/ https://www.vitantica.net/2018/06/01/ananas-viaggio-colombo/#respond Fri, 01 Jun 2018 19:00:43 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1724 L’ananas (Ananas comosus) è una pianta originaria delle regioni tra Brasile e Paraguay che fece il suo primo ingresso in Europa nel 1496 con il ritorno di Colombo dal suo secondo viaggio. Il frutto era ben noto ai nativi sudamericani, dal Brasile al Messico, dove veniva coltivato da Maya e Aztechi.

Anche se la storia della domesticazione dell’ananas è sostanzialmente sconosciuta, fu una delle prime piante americane ad affermarsi nel Vecchio Continente e probabilmente quella che inizialmente riscosse più successo tra la nobiltà europea.

Gli Europei scoprono l’ ananas

Colombo si imbatté nell’ananas per la prima volta quando attraccò sull’isola di Guadalupa. Gli indigeni di lingua Tupi chiamavano questo frutto nanas (“frutto eccellente”), come successivamente raccontò l’esploratore André Thevet nel 1555 durante le sue esplorazioni brasiliane.

Dopo averla assaggiata, apprezzata e aver trovato un nome adatto al frutto (piña de Indes, “pigna degli Indiani”), Colombo decise di riportare alcuni esemplari di questo frutto in Spagna nel 1496, al ritorno dal suo secondo viaggio verso le Americhe, assieme a campioni di tabacco e zucche.

Il viaggio di ritorno non fu di breve durata e quasi tutti gli esemplari di frutta e verdura che Colombo tentò di riportare in Europa andarono distrutti. Tutti tranne un esemplare di ananas che raggiunse la tavola di re Ferdinando II di Aragona, l’unica a non essere marcita diventando un ammasso appiccicoso di zuccheri fermentati.

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Ananas: frutto per sovrani e nobiltà

Per Pietro Martire d’Anghiera, il primo incontro del sovrano spagnolo con l’ananas fu un evento da ricordare: “L’invincibile Re Ferdinando riferisce di aver mangiato un altro frutto portato dalle Americhe. Ricorda una pigna nella forma e nel colore, è ricoperto da scaglie ed è più sodo di un melone. Il suo sapore supera quello di tutto il resto della frutta”.

Anche Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdes, inviato a Panama dalla corte di Spagna, rimase stupido dal gusto e dalla forma dell’ananas: “E’ il più bello tra i frutti che ho visto. Non credo esista al mondo un altro frutto di tale squisitezza e apparenza”.

Poco dopo il suo arrivo in Europa, l’ ananas conquistò velocemente il gusto dei più ricchi. Anche se al tempo l’industria dello zucchero iniziava a fiorire grazie alle prime piantagioni di canna da zucchero (specialmente quelle portoghesi in Africa), gli alimenti dolci rimanevano fuori dalla portata della gente comune, che si riforniva di zuccheri dalla frutta europea la cui crescita è subordinata al clima stagionale.

L’ ananas assunse in poco tempo il titolo di “re della frutta”, diventando sia un alimento pregiato sia il simbolo del diritto divino dei regnanti europei; le difficoltà di conservazione durante il lungo viaggio attraverso l’Atlantico e l’offerta estremamente limitata in Europa non fecero altro che aggiungere ulteriore prestigio a questo frutto così raro e prelibato.

Dunmore Pineapple, considerato "l'edificio più bizzarro di Scozia", si trova nel Dunmore Park e la sua costruzione iniziò nel 1761. La struttura centrale con il tetto a forma di ananas fu utilizzata anche per la coltivazione di questo frutto.
Dunmore Pineapple, considerato “l’edificio più bizzarro di Scozia”, si trova nel Dunmore Park e la sua costruzione iniziò nel 1761. La struttura centrale con il tetto a forma di ananas fu utilizzata anche per la coltivazione di questo frutto.
La sfida dell’ ananas in Europa

Le stesse caratteristiche che rendevano l’ananas un frutto così desiderato e pregiato resero di fatto impossibile la sua coltivazione in Europa per quasi due secoli. L’ananas è una pianta erbacea perenne e ha bisogno di un clima stabile, umido e caldo per tutto l’anno; un frutto giunto a fine maturazione può facilmente danneggiarsi, se viene conservato a temperatura ambiente può restare commestibile per solo 3-4 giorni, e ogni pianta è in grado di produrre un singolo frutto ogni 18 mesi circa.

Per garantire una riserva più o meno costante di ananas per la nobiltà europea, i Portoghesi introdussero il frutto in India intorno alla metà del XVI secolo, ma fu solo oltre un secolo dopo che si iniziò a coltivarlo nelle serre del Vecchio Continente.

Verso la metà del XVII secolo fu realizzata in Olanda la prima serra di concezione moderna: fin da subito si iniziarono a condurre esperimenti sugli ananas provenienti dal Suriname, colonia olandese dal 1667 sotto il nome di “Guyana olandese”. Pieter de la Court fu il primo in Europa a far crescere ananas in serra, procedimento che nel secolo successivo si diffuse su buona parte del Vecchio Continente rendendo possibile coltivare questo frutto anche sulle isole inglesi.

Escogitare un sistema per far crescere ananas in Europa non fu affatto semplice: per avere un buon raccolto erano necessarie serre costruite su misura, cure costanti e attente per evitare l’attacco dei parassiti e un’ enorme quantità di carbone per mantenere un clima delle serre stabile e caldo per tutto l’anno.

Infine, in natura l’ ananas viene impollinato principalmente dai colibrì, caratteristica che costrinse i botanici europei dei secoli passati ad effettuare meticolosi e faticosi impollinazioni artificiali. Secondo le stime di alcuni storici, ogni singola pianta di ananas richiedeva un investimento equivalente a circa 8.000 dollari moderni, una cifra enorme per il XVII secolo.

Carlo II si è fatto ritrarre in compagnia di un' ananas nel 1677 (Photo: Royal Collection Trust/Her Majesty Queen Elizabeth II)
Carlo II si è fatto ritrarre in compagnia di un’ ananas nel 1675-1677 (Photo: Royal Collection Trust/Her Majesty Queen Elizabeth II)
L’ ananas come ornamento pregiato

In alcuni periodi, come sotto il regno di Carlo II d’Inghilterra, mangiare ananas era considerato uno spreco: il frutto veniva impiegato esclusivamente come costosissimo oggetto ornamentale e riutilizzato nelle occasioni mondane fino alla sua putrefazione quasi totale.

Intorno alla metà del 1700 iniziarono addirittura a fare la loro apparizione negozi che affittavano ananas a chiunque avesse intenzione di ostentare la sua ricchezza (e disponesse dei fondi necessari da noleggiarne uno).

Il grado di status-symbol dell’ananas durante il regno di Carlo II raggiunse il culmine durante l’ accesa trattativa con la Francia per il possesso delle isole di Saint Kitts e Nevis, un piccolo arcipelago nelle Antille: nel 1668, in occasione del banchetto ufficiale con l’ambasciatore francese, Carlo ordinò il recupero di un’ ananas dall’isola Barbados (anch’essa nelle Antille) per poterla posizionare in cima ad una montagna di frutta europea ed esotica che sarebbe stata servita al termine della cena; lo scopo del sovrano era quello di comunicare molto chiaramente che l’Inghilterra si riteneva la legittima proprietaria delle Antille facendo notare al suo commensale francese che “noi riusciamo ad avere degli ananas, voi no“.

Everything You Ever Wanted to Know About Pineapples
The Strange History of the “King-Pine”

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Caccia preistorica al bradipo gigante raccontata dalle orme impresse su una distesa salata https://www.vitantica.net/2018/05/02/caccia-bradipo-gigante-orme/ https://www.vitantica.net/2018/05/02/caccia-bradipo-gigante-orme/#comments Wed, 02 May 2018 02:00:47 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1667 Comprendere nel dettaglio le tecniche di caccia dei nostri antenati del Pleistocene è una questione complessa. Possiamo fare deduzioni plausibili analizzando i cacciatori-raccoglitori moderni (come per la caccia di persistenza), esaminando le antiche armi da caccia oppure usando la logica e il buon senso; ma non è affatto semplice realizzare un quadro completo di come i nostri antenati cacciassero la megafauna, animali di grossa taglia come gli uri o i bradipi giganti.

In qualche occasione, tuttavia, abbiamo la fortuna di avere a disposizione indizi capaci di narrarci chiaramente il racconto della caccia, come nel caso delle orme del White Sands National Monument, un complesso di dune sabbiose a base di cristalli di gesso che in tempi recenti è stato il luogo di nascita del programma spaziale statunitense ma, in un passato preistorico, fu teatro di numerose battute di caccia.

Caccia al bradipo gigante

Una recente ricerca pubblicata sulla rivista Science Advances ha analizzato una serie di tracce rimaste impresse nella distesa salata di White Sands chiamata Alkali Flat, tracce risalenti a circa 10.000 anni fa e che documenterebbero con straordinaria precisione l’inseguimento e la lotta contro un bradipo gigante, un avversario formidabile per uomini che impugnavano armi di legno, osso e pietra.

Tracce del bradipo gigante (Megatherium) e degli esseri umani che lo inseguivano
Tracce del bradipo gigante (Megatherium) e degli esseri umani che lo inseguivano

Alkali Flat era un lago in epoca glaciale, ma con il progressivo riscaldamento climatico iniziò a ridursi fino a diventare una distesa salata che, in occasione delle piogge periodiche, si trasformava in una distesa fangosa, uno strato ideale per conservare le tracce del passaggio di uomini e animali.

Sulla distesa salata di Alkali Flat sono rimaste impresse numerosissime impronte appartenenti alla megafauna del Pleistocene come mastodonti, mammut, cammelli, metalupi e bradipi giganti; le loro “tracce fantasma” sono per lo più visibili solo in determinate condizioni atmosferiche (strato salato non troppo spesso e poco umido) e in alcuni casi sono state scavate ed esaminate nel dettaglio, rivelando informazioni incredibili.

Le tracce più interessanti sembrano essere quelle lasciate da un bradipo gigante: all’interno o intorno alle sue orme sono state trovate quelle di esseri umani, suggerendo che un gruppo di uomini preistorici si fosse messo all’inseguimento dell’animale fino a raggiungerlo, circondarlo e abbatterlo.

Tracce del bradipo gigante (Megatherium) e degli esseri umani che lo inseguivano

Alcune delle tracce umane si trovano all’interno di quelle del bradipo, altre invece sono posizionate attorno ad orme che sembrano indicare che l’animale avesse assunto una posizione difensiva, sollevandosi sulle due zampe posteriori per poter agitare quelle anteriori nel tentativo di colpire gli aggressori.

Agitando le potenti zampe anteriori artigliate, il bradipo gigante tendeva a perdere l’equilibrio finendo per appoggiarsi al terreno su 4 zampe prima di assumere nuovamente la posizione difensiva eretta.

Il bradipo gigante era un avversario temibile

Il Megatherium, comunemente chiamato bradipo gigante, fu uno dei più grandi mammiferi terrestri mai esistiti. Poteva misurare fino a 6 metri da unestremità all’altra ed era grande quanto un elefante moderno. Grazie alla sua coda, di fatto una “terza gamba”, poteva assumere una stazione eretta per raggiungere le fronde degli alberi inaccessibili alla maggior parte degli erbivori del suo tempo.

Affrontare in campo aperto un bradipo gigante non è affatto semplice: questo animale poteva superare i 4 metri in posizione eretta e raggiungere le 5 tonnellate di peso. Era inoltre dotato di artigli anteriori lunghi circa 30 centimetri e capaci di difenderlo efficacemente dalla maggior parte dei grandi predatori.

Tutte le armi da lancio disponibili all’epoca non erano in grado di ferire seriamente un bradipo gigante da una distanza di oltre 10 metri, anche perché l’animale disponeva di pelle spessa e resistente in grado di fermare l’impatto di un pesante proiettile di atlatl.

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Per cacciare un bradipo gigante, quindi, era necessario posizionarsi a distanza molto ravvicinata e giocare con la morte ad ogni affondo di lancia. Considerata la lentezza nei movimenti dell’animale e la disposizione delle orme sulla scena dello scontro, il bradipo di Alkali Flat fu probabilmente abbattuto cercando di attirare la sua attenzione verso un “uomo-esca” per consentire agli altri cacciatori di colpire il gigante alle spalle o alle zampe posteriori, indebolendolo fino a farlo crollare.

Le orme animali e umane di Alkali Flat sembrano confermare che i cacciatori-raccoglitori nordamericani conoscessero bene la megafauna che cacciavano e che stessero progressivamente raggiungendo l’apice della catena alimentare.

Il bradipo gigante era solo una delle prede di grandi dimensioni che venivano cacciate e uccise dai nostri antenati, prede di dimensioni tali da poter sfamare per mesi una piccola comunità e rifornirla di preziosissime materie prime come pelliccia, tendini e ossa.

How to hunt a giant sloth—according to ancient human footprints

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Miti sull’esplorazione e la conquista dell’ America https://www.vitantica.net/2018/03/31/miti-esplorazione-conquista-america/ https://www.vitantica.net/2018/03/31/miti-esplorazione-conquista-america/#respond Sat, 31 Mar 2018 02:00:49 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1538 Colombo inaugurò l’epoca delle grandi scoperte e delle grandi conquiste americane. Spagna, Portogallo e altre potenze europee iniziarono a spingersi nel Nuovo Mondo facendo leva sulla loro superiorità tecnologica e strategica, conquistando interi regni con manipoli di soldati e convertendo milioni di indigeni che, prima del contatto con i conquistatori del Vecchio Mondo, vivevano in armonia con la natura e in culture semi-primitive. Questo è generalmente il quadro dipinto per l’ epoca delle grandi esplorazioni americane, ma quanto c’è di vero in tutto questo?

 

Le Americhe furono conquistate grazie alla superiorità tecnologica degli Europei?

L’ Europa ha un’antichissima e raffinata tradizione bellica che potrebbe far pensare ad una sua “superiorità militare assoluta” durante il periodo delle grandi esplorazioni. Per alcuni aspetti non è un’affermazione molto distante dalla realtà, ma è un errore supporre che nel resto del mondo si combattesse senza riguardo per la strategia o la tecnologia disponibile.

Molti popoli nativi americani non conoscevano l’uso dei metalli e leghe superiori, come bronzo, ferro e acciaio, ma questo non significa che le loro armi fossero poco raffinate o efficaci. Le cronache del tempo riportano numerosissimi episodi in cui l’invasore europeo fu ferocemente respinto verso l’oceano con armi di legno o pietra e l’uso di tattiche di guerriglia in grado di rendere controproducente la superiorità tecnologica dei conquistatori.

Uno scenario molto comune era il seguente: avvolti da protezioni metalliche come pettorali o elmi e appesantiti dalla necessità di trasportare provviste, utensili e armi in terra sconosciuta e ostile, i conquistatori europei non potevano muoversi agilmente in territori paludosi o nel fitto della foresta, dando modo ai nativi di compiere manovre veloci e furtive che in breve tempo decimavano gli invasori.

Gli indigeni furono anche molto veloci ad imparare i punti deboli del nemico e ad adottare alcune delle sue armi: un esempio è l’introduzione del cavallo in Nord America, che contribuì ad un cambiamento radicale nelle tecniche di guerriglia dei nativi, fino ad allora limitati negli spostamenti dall’assenza totale di mammiferi cavalcabili.

 

Spagnoli, Portoghesi e Inglesi decimarono la popolazione nativa americana?

Miti sull'esplorazione e la conquista dell' America

Di certo i conquistatori europei non contribuirono alla crescita demografica dei nativi americani durante l’epoca delle grandi esplorazioni. Lo sterminio di interi villaggi non era affatto raro, ma la colpa della scomparsa di intere civiltà non è attribuibile alla sola bellicosità degli invasori europei.

Le malattie furono le vere protagoniste della sparizione dei popoli che da secoli vivevano e prosperavano nelle Americhe, alcune importate dal Vecchio Continente mentre altre già esistenti e attive prima del viaggio di Colombo. Con l’arrivo dei primo stranieri sul suolo americano, diverse epidemie colpirono violentemente la popolazione indigena uccidendo milioni di persone, raggiungendo in alcune regioni una mortalità superiore al 90%.

Tra le malattie più letali si registrano il vaiolo, il tifo, il morbillo, l’influenza, la peste bubbonica, la malaria e la pertosse, malattie ormai croniche in Eurasia al momento della “scoperta” dell’America; i popoli del Vecchio Continente e dell’Asia avevano ormai sviluppato una sorta di resistenza ad alcune di queste malattie grazie alla condivisione degli spazi vitali con i grandi mammiferi domestici (vacche, capre, maiali, ecc…), animali del tutto inesistenti nelle Americhe prima dello sbarco dei primi coloni.

In aggiunta alle “malattie d’importazione”, i cambiamenti climatici in atto già dal XIV secolo provocarono la ricomparsa, in forme particolarmente virulente, di agenti patogeni già esistenti nel Nuovo Mondo, come la sequenza di pestilenze cocoliztli che decimò gli Aztechi nel XVI secolo.

 

Tenochtitlan, la capitale azteca, fu conquistata da una manciata di conquistadores spagnoli alla guida di Cortés?

Anche se è vero che Tenochtitlan cadde dopo 10 settimane di assedio da parte dell’esercito di Cortés, la fase finale della città non corrisponde al primo incontro tra gli spagnoli e l’impero azteco: il primo incontro tra Cortés e gli Aztechi non fu affatto trionfale, e nemmeno un assedio.

Il mito dice che quando Hernán Cortés arrivò per la prima volta a Tenochtitlan riuscì a conquistare una delle città più popolate del mondo con un centinaio di uomini, la superiorità militare e tecnologica spagnola e facendo leva sulla superstizione religiosa dei Mexica: gli abitanti della città scambiarono addirittura gli uomini a cavallo per centauri, adorandoli come creature soprannaturali, e l’imperatore Montezuma II pensò che Cortés fosse l’incarnazione (o un discendente) del dio Quetzalcoatl.

La documentazione storica dice invece che la vicenda si sviluppò diversamente: quando Montezuma II decise finalmente di incontrare Cortés dopo numerosi rifiuti, lo spagnolo si diresse verso Tenochtitlan con 600 soldati, 15 cavalieri, 15 cannoni e quasi un migliaio di portantini e guerrieri indigeni arruolati dalle parti di Veracruz. Durante il percorso verso Tenochtitlan Cortés riuscì a stipulare alleanze con i Totonac, i Nahuas e i Tlaxcalan arruolando almeno altri 3.000-4.000 combattenti.

L’ 8 novembre 1519 Cortés entrò pacificamente nella capitale azteca con tutto il suo esercito e incontrò l’imperatore Montezuma II (che molto probabilmente temeva che lo spagnolo fosse un ambasciatore di un regnante più potente, e non l’incarnazione del dio Quetzalcoatl), ricevendo regali d’oro che non fecero altro che eccitare le truppe spagnole (e i loro alleati nativi) frementi nell’ attesa di saccheggiare ogni prezioso in città.

Hernán Cortés e il suo esercito non conquistarono la città, ma furono accolti pacificamente con un misto di diffidenza e riverenza da parte degli abitanti locali. Ciò che accadde dopo può essere definito, più che un assedio, una barricata destinata a fallire e una delle notti più disastrose per la Spagna del XVI secolo (la “Noche Triste“): gli Aztechi, infuriati per il massacro del Templo Mayor, assediarono Cortés rinchiuso nel palazzo reale costringendolo alla fuga durante la notte.

La fuga andò male: i numeri relativi alle vittime cambiano in base alle fonti, ma qualche centinaio di spagnoli e qualche migliaio di nativi alleati morirono sotto i colpi di lance, propulsorie mazze degli Aztechi. Nessun soldato uscì illeso dalla battaglia.

Quando Cortés ebbe una nuova occasione per cingere d’assedio Tenochtitlan lo fece in grande stile: il 26 maggio del 1521 si presentò di fronte alla città con 86 cavalieri, 700 fanti, 118 tra archibugieri e balestrieri, 16 cannoni e ben 50.000 nativi alleati, contro un esercito di 75-100.000 guerrieri aztechi armati di mazze, lance e archi. Le perdite furono gravissime per entrambe le parti: 20.000 nativi e 400-800 soldati da parte di Cortés e 200.000 tra guerrieri e civili per gli Aztechi.

 

I nativi americani vivevano in armonia con la natura prima dell’arrivo degli Europei?
Cahokia Monks Mound
Rappresentazione di Cahokia, una delle città precolombiane più grandi

Generalizzare la popolazione di un intero continente non può fare altro che creare errori di valutazione e miti che durano per secoli, e i nativi delle Americhe non fanno eccezione. E’ vero che le popolazioni indigene spesso vivevano a contatto più stretto con la natura rispetto agli Europei, ormai abituati ad una vita cittadina o di campagna; è anche vero tuttavia che all’arrivo dei primi esploratori da Oriente i nativi vivevano in culture molto elaborate e spesso organizzate in agglomerati urbani molto popolati e non così diversi dalle città del Vecchio Continente.

La vita delle popolazioni che vivevano negli attuali Stati Uniti era regolata da ritmi naturali alterati dall’attività umana: zucche e mais venivano regolarmente coltivati negli stessi campi, campi ottenuti tramite la tecnica del “taglia e brucia” che fu fondamentale per la creazione delle Grandi Praterie e di foreste facilmente attraversabili e percorse da sentieri battuti.

In Centro America la situazione non era molto differente, anzi: nel Messico dei Maya, ricoperto in buona parte da foreste tropicali, era estremamente difficile vivere in isolamento totale da un insediamento umano. La maggior parte della popolazione viveva in villaggi e cittadine distanti gli uni dalle altre non più di 10 chilometri e animati da un ricco commercio di cibo, preziosi e materie prime.

 

Colombo scoprì per primo l’America nel 1492 perchè solo nel XV secolo gli Europei iniziarono ad essere curiosi sul mondo?

Primo: Colombò non fu il primo a mettere piede sul continente americano e per lungo tempo non si rese nemmeno conto di aver scoperto un nuovo continente; tecnicamente, non sbarcò nemmeno nel continente, essendo giunto nelle Bahamas durante il suo primo viaggio.

Secondo: il primo europeo a sbarcare su suolo americano fu molto probabilmente norreno. Vinland, il nome norreno per il Nord America, fu scoperta da Leif Erikson, che sbarcò nell’area dell’attuale Boston intorno alla fine del X secolo. Vinland viene descritta in diverse saghe ben 500 anni prima che Colombo decidesse di imbarcarsi nel suo viaggio e ospitò anche un insediamento permanente di 100-300 persone per almeno due anni, fino a quando i nativi decisero di averne abbastanza dei norreni e dei loro saccheggi.

Non bisogna inoltre dimenticare che ben prima di Colombo i Portoghesi avevano iniziato da almeno un secolo ad esplorare i confini del mondo conosciuto, navigando ad esempio lungo le coste inesplorate dell’Africa; lo stesso avevano fatto i Cinesi, raggiungendo il Madagascar tra il 1431 e il 1433 con un viaggio così avventuroso da far impallidire le 10 settimane di viaggio di Colombo. L’epoca delle grandi esplorazioni oceaniche sarebbe iniziata con o senza Colombo e il navigatore non fu di certo il primo a sbarcare nelle Americhe.

 

Colombo voleva dimostrare che la Terra era sferica?
Mappa della Terra piatta creata da Orlando Ferguson nel 1893

Questo è un mito che persiste con forza ancora oggi, ma non ha nulla di reale. Come spiegato in questo post sulla teoria (non scientifica) della Terra piatta, nel XV secolo era ormai un fatto ampiamente accettato e dimostrato che il pianeta fosse una sorta di sfera.

Le principali discussioni cosmologiche riguardavano invece suo il posto nell’universo: si trattava di una specie di mela che galleggiava nell’oceano? Era semplicemente sferica e qualche forza impediva alle acque dei mari di cadere verso il basso?

I dotti della corte spagnola che esaminarono i dettagli sul viaggio verso Occidente non lo giudicarono impossibile perché ritenevano che la Terra fosse piatta, ma per un errore matematico ben evidente commesso da Colombo.

Il navigatore intendeva raggiungere il Cipango (Giappone) navigando verso Ovest per circa 68° di longitudine, ma aveva male interpretato la lunghezza di un miglio marino arabo da quello italiano, riducendo enormemente la circonferenza reale del pianeta: secondo Colombo, il Giappone distava dalla Spagna solo 5.000 chilometri, quando in realtà si trattava di ben 20.000 chilometri.

Gli esperti della corte spagnola, pur non sapendo esattamente quanto fosse distante il Giappone, si resero immediatamente conto dell’errore di calcolo di Colombo. Sapevano per certo che navigando ad Ovest prima o poi si sarebbe giunti in Giappone, ma non credevano che una caravella potesse percorrere quell’enorme distanza senza conseguenze fatali per l’equipaggio: una nave così piccola non avrebbe avuto a disposizione sufficienti viveri per attraversare quell’enorme distesa di mare.

Fu esattamente quello che si verificò durante il primo viaggio di Colombo: dopo aver percorso l’Atlantico, i viveri erano quasi esauriti e l’equipaggio era sulla via dell’ammutinamento; Colombo si salvò grazie all’immenso colpo di fortuna di scoprire una terra sconosciuta nel punto esatto in cui aveva calcolato di trovare le coste del Giappone.

Myths about the colonization of Spanish America
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American History Myths Debunked: Columbus Discovered America

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Mais inca e escrementi di lama https://www.vitantica.net/2018/03/29/mais-inca-escrementi-lama/ https://www.vitantica.net/2018/03/29/mais-inca-escrementi-lama/#respond Thu, 29 Mar 2018 02:00:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1500 Come fecero gli Inca, 700 anni prima di Cristo, a coltivare mais in un clima rigido e difficile come quello andino senza poter contare sui grandi mammiferi che alimentarono la rivoluzione agricola nel Vecchio Mondo? Secondo Alex Chepstow-Lusty, paleoecologo del French Institute for Andean Studies di Lima, il segreto del mais inca sono gli escrementi di lama.

Mais sulle Ande

Il mais, coltura chiave nell’evoluzione sociale dell’essere umano nel Centro e Sud America, contribuì al passaggio dall’uomo cacciatore-raccoglitore a quello agricoltore-allevatore, segnando un momento fondamentale nella storia del Nuovo Mondo e in seguito rivoluzionando l’alimentazione del Vecchio dopo lo “Scambio colombiano”.

Ma come sia stato possibile coltivare coltivare mais a oltre 3.000 metri di quota è sempre rimasto un mistero fino alla pubblicazione della ricerca di Chepstow-Lusty sulla rivista scientifica Antiquity.

“Il passaggio al mais si verificò 2.700 anni fa e fu possibile grazie ad una grande disponibilità di escrementi di lama. I fertilizzanti organici hanno consentito di coltivare il granoturco ad elevate altitudini, permettendo agli Inca di insediarsi stabilmente e di fiorire come civiltà” spiega il ricercatore.

Dato che non esistono testimonianze scritte dell’antico linguaggio Inca (questa civiltà non conosceva la scrittura), i dettagli sulle loro abitudini e sulle loro tecnologie sono pochi e spesso confusi.

Lago Marcacocha
Lago Marcacocha

Ma Chepstow-Lusty è riuscito a risalire al momento in cui il mais fu introdotto nella cultura Inca analizzando i sedimenti prelevati dal fondo del Marcacocha, un lago nella regione peruviana di Cuzco che si trova a circa 4.500 metri sul livello del mare.

Come gli anelli di un albero sono in grado di dirci con una certa approssimazione l’età di una pianta e i cambiamenti climatici che ha attraversato, ogni strato di sedimenti ci racconta un pezzo del passato andino: il carotaggio del fondo del lago, un cilindro lungo ben 6,3 metri, contiene tracce di ciò che accadde nella regione fino a 4.200 anni fa.

Un alimento migliore di patate e quinoa

Chepstow-Lusty ha scoperto che i primi pollini di mais sono apparsi sul fondo del lago circa 700 anni prima di Cristo; questo dimostrerebbe che la coltivazione del mais si spinse fino ad oltre 3.000 metri di altezza sul livello del mare, zona generalmente non molto adatta all’agricoltura

Come per moltissime civiltà del passato, anche per gli Inca il mais rappresentò un punto di svolta. Fino all’introduzione di questo cereale il cibo più comune erano patate e quinoa, una pianta ricca di proteine venerata dagli Inca e capace di crescere ad oltre 4.000 metri; ma il mais è più facile da conservare e da trasportare delle patate o della quinoa, oltre a fornire un apporto calorico più alto se paragonato a quello delle altre due piante.

“Questo fa la differenza quando non esistono strade e veicoli con ruote, o quando ogni cosa deve essere trasportata sul dorso di un lama” spiega Graham Thiele, esperto dell’agricoltura andina all’ International Potato Center di Lima.

“In aggiunta” continua Thiele, “il mais era più facile da accumulare in magazzini controllati dall’aristocrazia e avrebbe supportato il prelievo delle tasse da parte delle elite emergenti Inca e Wari. Per queste ragioni, il mais supera le patate per trasportabilità, immagazzinamento e convenienza nel pagamento di un tributo“.

mais inca e escrementi di lama

Acari ed escrementi di lama

I sedimenti del lago hanno anche mostrato la presenza di acari (Cryptostigmata o Oribatida) che si nutrono di escrementi animali: il periodo di maggior abbondanza di questi animali corrisponde con la prima apparizione del mais in Perù, suggerendo che la coltivazione di questo cereale si sia verificata in corrispondenza della comparsa di branchi di grandi mammiferi.

Ma non esistendo al tempo nelle Americhe nessuno dei grandi mammiferi che caratterizzarono la rivoluzione agricola in altri continenti (come bovini e suini), gli escrementi di erbivori più diffusi all’epoca erano quelli di lama.

Questo dimostrerebbe che il mais abbia raggiunto l’inospitale ecosistema delle Ande con l’aiuto degli escrementi di lama. “Generalmente i lama pascolavano vicino al lago in cui defecavano. Le loro feci diventavano cibo per gli acari, ma fornivano anche fertilizzante che si poteva raccogliere facilmente ed utilizzare per far crescere il mais”.

Ad aggiungersi agli escrementi di lama, anche il clima avrebbe giocato un ruolo importante nel favorire l’introduzione del mais. “I campioni estratti dal Marcacocha mostrano una serie di periodi di siccità associati con un aumento delle temperature, dati che coincidono con profondi cambiamenti sociali verificatisi ogni 500 anni a partire dal 700 a.C.” spiega Chepstow-Lusty.

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Llama muck and maize revolution drove Inca success

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