Caccia, pesca e guerra – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Video: costruire un arco da legno di scarsa qualità https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/ https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/#respond Sat, 31 Oct 2020 00:10:04 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4888 La costruzione di un arco funzionale richiede un primo passaggio fondamentale: la selezione del legname. Tasso, quercia, noce, osage, ginepro, frassino e olmo sono generalmente materiali di prima scelta per la fabbricazione di un arco efficace, veloce e duraturo; l’esperienza millenaria accumulata dai costruttori di archi di tutto il mondo insegna che occorre trovare il giusto compromesso tra durezza ed elasticità.

I materiali più adatti alla costruzione di un arco non sono sempre facilmente disponibili: in molte regioni d’Europa, ad esempio, il tasso è un albero protetto; l’osage orange o il noce americano non sono legnami a buon mercato e devono generalmente attraversare l’Atlantico per raggiungere il Vecchio Continente.

E’ possibile fabbricare un arco sufficientemente potente da cacciare animali di media o grossa taglia usando legname di seconda o terza scelta, come quello reperibile nei più comuni centri del “fai da te”?

Per esperienza personale, posso dire che si, è possibile. Occorre prestare attenzione alla direzione delle fibre del legno e spendere un po’ di tempo a cercare la qualità di legno adatta, ma con l’aiuto di un materiale sintetico e molto comune come la fibra di vetro si può ottenere un’arma relativamente veloce e performante.

Il canale YouTube Kramer Ammons ha pubblicato nel dicembre 2019 una guida pratica e chiara per realizzare un arco utilizzando legname comune e fogli di fibra di vetro. La fibra di vetro sostituisce l’applicazione di materiali di origine naturale, come il tendine animale, utilizzati per aumentare la resistenza alla rottura e la potenza degli archi tradizionali.

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Sia chiaro, nulla può sostituire il tipo di legno che da millenni viene impiegato per la costruzione di archi. Il tasso, ad esempio, per quanto non propriamente duro (è considerato il più duro tra i legni morbidi), ha una struttura a strati in cui il durame scuro e l’alburno biancastro sono distintamente separati, e le fibre corrono longitudinalmente per tutto il tronco senza curvature eccessive, aspetti che ne facilitano la lavorazione e non costringono a “seguire gli anelli” come altro legname costringe a fare.

Ma costruire un arco con legno di scarsa qualità è possibile. E’ stato fatto innumerevoli volte (il sottoscritto ne ha realizzati due partendo da materiali non propriamente adatti) e, talvolta, la qualità e l’efficacia di un’arma di questo genere può davvero sorprendere.

BOW WOODS (FROM A MATHEMATICAL PERSPECTIVE)

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La piscicoltura dei nativi americani Calusa https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/ https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/#respond Mon, 22 Jun 2020 00:10:15 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4886 La maggior parte dei lettori di questo blog avrà ormai una certa familiarità con le culture native del Nord America. Molte di queste popolazioni, considerate in passato come primitive e incapaci di sviluppare società ed economie complesse, si stanno rivelando molto più avanzate di quanto sospettato fino a qualche decade fa.

Osservando ciò che è rimasto di Cahokia, l’impatto dei nativi sulle foreste americane, sui grandi mammiferi come il bisonte, e la loro dieta, ci si rende presto conto che siamo ben lontani dalle molte culture primitive, presenti e passate.

La maggior parte delle popolazioni nordamericane basavano la loro economia su prodotti della terra come mais, zucche e fagioli, prodotti che consentivano loro di avere risorse in sovrannumero da poter scambiare con i popoli limitrofi, o tramite le quali poter crescere numericamente; oppure, avevano preservato uno stile di vita incentrato prevalentemente su caccia e raccolta, una scelta che generalmente costringe a mantenere una bassa densità di popolazione per sfamare ogni individuo del proprio gruppo sociale.

La cultura Calusa, invece di sfruttare il mais o i grandi mammiferi, fondò il proprio successo sul pesce, una risorsa preziosa ma difficile da gestire se lo scopo è quello di creare il surplus alimentare necessario alla crescita di un popolo.

Chi erano i Calusa

Il popolo Calusa si è sviluppato lungo la costa sudoccidentale della Florida. All’arrivo dei primi Europei in Florida, tra il XVI e il XVII secolo, la cultura Caloosahatchee occupava la regione delle Everglades, un intricato labirinto di acquitrini e piante acquatiche abitato da un’incredibile varietà di specie animali.

L’esistenza dei Calusa ci viene testimoniata da Hernando de Escalante Fontaneda, uno spagnolo tenuto prigioniero dai nativi nel XVI secolo, e da Juan Rogel, un missionario gesuita che visitò i Calusa negli anni ’60 del 1500.

Gli antenati dei Calusa vivevano in Florida da migliaia di anni prima dell’arrivo degli Europei. Iniziarono a stabilirsi nelle regioni paludose vicino alla costa circa 7.000 anni fa, costruendo cumuli di terra su cui edificare le proprie abitazioni.

Nel loro periodo arcaico delle popolazioni delle Everglades (circa 500 a.C.) iniziarono ad emergere culture regionali distinte, ma tutte basate su un profondo rapporto con il mare e con le paludi: sia i Calusa che i loro antenati erano “mangiatori di molluschi”, ma progressivamente incorporarono sempre più fauna ittica nella loro dieta, diventando abilissimi pescatori e piscicoltori.

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L’analisi dei sedimenti prelevati nei pressi degli insediamenti Calusa ha mostrato un’ alimentazione composta da animali terrestri piccoli e grandi, molluschi, pesci d’acqua dolce e salata come squali e razze, oltre a grandi quantità di crostacei, uccelli acquatici e tartarughe.

I sedimenti degli insediamenti costieri (come il sito di Wightman) lasciano supporre che il 93% delle proteine animali consumate dai Calusa fosse composto da pesce e molluschi, con il rimanente 7% rappresentato da mammiferi, uccelli e rettili. Negli insediamenti più interni, come Platt Island, il 60% delle proteine animali proveniva invece da mammiferi terrestri, ma il consumo di pesce era comunque elevato (circa il 20% sul totale delle proteine).

Ad oggi non ci sono prove che i Calusa coltivassero il mais; anzi, sappiamo che probabilmente rifiutarono di diventare agricoltori quando gli Spagnoli offrirono loro l’opportunità.

“I soldati, i sacerdoti e gli ufficiali spagnoli” spiega Victor Thompson, direttore del Laboratorio di Archeologia alla University of Georgia, “erano abituati ad avere a che fare con culture agricole, come i popoli incontrati nei Caraibi che producevano surplus di mais. Questo non fu possibile con i Calusa. Infatti, in un tentativo dei francescani nel tardo 1600, ai Calusa furono donate delle zappe, ma non appena le videro i nativi replicarono ‘Perchè non hanno anche portato degli schiavi per arare la terra?'”

Secondo l’antropologo George Murdock, mediamente solo il 20% della dieta Calusa era costituita da piante, come bacche selvatiche, frutti, noci, radici e tuberi: circa 2.000 anni fa, nella regione venivano coltivate anche papaya e “zucche bottiglia“, utilizzate come galleggianti per le reti da pesca, ma l’alimentazione locale era già sostanzialmente basata sul pesce.

Potere fondato sul pesce

I Calusa furono tra le culture più rilevanti in Florida per molti secoli, commerciando lungo rotte che si estendevano per centinaia di chilometri oltre la costa, modificando profondamente il territorio per costruire le loro case e creando vere e proprie isole composte dai gusci dei molluschi che consumavano.

Un “impero” che si fonda sul pesce, tuttavia, è costretto ad affrontare la sfida di come conservare l’alimento base della propria dieta in un clima tropicale che favorisce la decomposizione della materia organica morta. I Calusa conoscevano la salagione e l’affumicatura, ma per sfamare circa 10.000 individui (o forse più, come alcuni archeologi hanno ipotizzato) occorre pescare grandi quantità di pesce e affrontare lunghi processi di pulizia e preparazione, con il rischio che parte del pescato vada a male.

Come facevano i Calusa a gestire le loro risorse ittiche e a generare un surplus in grado di metterli nelle condizioni di creare un’economia fiorente strettamente legata al mare?

Secondo William Marquardt, curatore della sezione South Florida Archaeology and Ethnography del Florida Museum of Natural History, i Calusa utilizzavano enormi strutture simili a quelle della moderna piscicoltura per conservare vivo il pesce. Queste strutture, che Marquardt definire “watercourts“, avevano fondamenta di gusci di molluschi e venivano realizzate sfruttando porzioni degli estuari.

I watercourts servivano come riserva ittica a breve termine: mantenevano il pesce vivo e in salute fino al momento del consumo, della salagione o dell’affumicatura. La più grande di queste strutture misurava quanto 7 campi da basket e aveva una base profonda 1 metro composta da sedimenti e gusci di molluschi.

“Ciò che rende differenti i Calusa è il fatto che le altre società che raggiungono questi livelli di complessità e potere sono principalmente culture agricole” afferma Marquardt. “Per molto tempo le società che si basavano sulla pesca, sulla caccia o sulla raccolta sono state considerate meno avanzate. Ma il nostro lavoro nel corso di oltre 35 anni ha mostrato che i Calusa svilupparono una società politicamente complessa con architettura, religione, esercito, stratificazione sociale e commercio molti sofisticati, il tutto senza essere agricoltori”.

Thompson, Marquardt e i loro colleghi hanno analizzato due watercourts nei pressi di Mound Key, un’isola artificiale su cui si trovava l’immensa abitazione del sovrano dei Calusa, una struttura così grande da poter accogliere fino a 2.000 persone.

Metodo di pesca non chiaro

I watercourts di Mound Key furono costruiti tra il 1300 e il 1400, qualche decade dopo un calo del livello del mare che potrebbe aver ispirato un periodo di innovazioni volte a preservare lo stile uno stile di vita basato su prodotti ittici.

Non sappiamo ancora come i Calusa catturassero il pesce che allevavano e consumavano, ma le ipotesi sono due: pescandolo tradizionalmente con l’utilizzo di reti, oppure indirizzandolo verso i watercourts tramite canali appositamente realizzati.

“Non possiamo sapere esattamente come funzionasse [il loro metodo di pesca], ma la nostra sensazione è che conservassero il pesce in queste strutture per poco tempo, da poche ore a qualche giorno, non interi mesi” sostiene Michael Savarese, ricercatore che ha collaborato con Thompson e Marquardt.

“Il fatto che i Calusa ottenessero la maggior parte del loro cibo dagli estuari plasmò quasi ogni aspetto delle loro vite” conclude Thompson. “Anche oggi, i popoli che vivono lungo le coste sono un po’ differenti dagli altri, e le loro vite continuano ad essere influenzate dall’acqua, per quanto riguarda il cibo che consumano o per le tempeste che si scatenano nei pomeriggi estivi della Florida sudoccidentale”.

Ancient engineering of fish capture and storage in southwest Florida
Calusa

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Il kit di sopravvivenza delle popolazioni dell’Artide https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/ https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/#respond Mon, 08 Jun 2020 00:12:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4905 Per giugno 2020 avevo previsto un breve weekend a Londra per una visita al British Museum in occasione della mostra “Arctic“, un’esposizione incentrata sugli stili di vita tradizionali dei popoli che vivono nei pressi del circolo polare artico. Per ragioni legate al coronavirus questo viaggio è stato rimandato a data indefinita, se non del tutto annullato, ma il sito del British Museum ha reso disponibile una raccolta di foto e informazioni relativi alla mostra, come l’articolo “10 things you need to live in the Arctic“.

Cosa serve per sopravvivere all’ecosistema artico? Le popolazioni che tradizionalmente occupano le regioni più fredde del pianeta sono eccellenti nello sfruttare i pochi materiali naturali a loro disposizione per realizzare oggetti fondamentali per la sopravvivenza nella tundra o tra i ghiacci polari, come indumenti e utensili.

Stivali
Stivali Gwich'in in pelle d'alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.
Stivali Gwich’in in pelle d’alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.

Un buon paio di stivali è fondamentale per la sopravvivenza nell’Artico, non solo per tenere al caldo le estremità inferiori, ma anche per facilitare l’attraversamento di ghiaccio o di spesse coltri di neve.

Il popolo Gwich’in, che vive tra il Canada e l’Alaska, realizza splendidi stivali dalla pelliccia di castoro e di caribù, decorandoli con piccole perline ottenute da piccole pietre, vetro o conchiglie. Le suole degli stivali sono invece realizzate in pelle d’alce affumicata, un trattamento che la rende spessa, resistente e simile al velluto.

Gli Inuit, gli Inupiat e gli Yupic fabbricano da secoli i mukluks (o kamik), stivali soffici in pelle di renna o di foca tenuti insieme da filamenti di tendine animale, un materiale particolarmente resistente e adatto al clima artico.

Questi stivali rappresentavano lo strato intermedio della calzatura: sotto di essi si trovava uno strato di pelliccia, con il pelo rivolto verso l’interno per migliorare l’isolamento termico, mentre il piede veniva rivestito esternamente da una soletta semi-rigida in pelle conciata e affumicata.

Occhiali da neve
Occhiali da neve in poelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.
Occhiali da neve in pelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.

Uno dei pericoli più sottovalutati durante le escursioni tra il ghiaccio o la neve è l’esposizione alla luce solare. La cecità da neve è una patologia che si sviluppa a seguito dell’esposizione prolungata della cornea alla luce ultravioletta riflessa dai cristalli di ghiaccio.

Gli occhi iniziano a lacrimare senza sosta, il dolore nella zona oculare diventa persistente e si può arrivare alla cecità totale momentanea. I sintomi di solito non sono permanenti: dolore e cecità possono svanire entro una o due settimane, a patto di evitare ulteriore esposizione alla luce ultravioletta.

I Dolgan della Russia settentrionale e centrale fabbricano occhiali da neve in pelle di renna. Pur essendo privi di lenti ottiche, offrono una semplice ma efficace protezione per gli occhi: le fessure limitano l’ingresso dei raggi ultravioletti ma garantiscono un buon grado di visibilità.

Parka
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.

L’abbigliamento necessario nelle regioni artiche deve essere resistente all’usura, isolante ma allo stesso tempo traspirante, per evitare che si formi della pericolosa umidità tra gli indumenti e il corpo umano. L’umidità condensata abbassa la temperatura corporea, condizione non ideale in un ecosistema in cui il calore è raro ed estremamente prezioso.

I parka, eskimo o anorak sono originari delle popolazioni Inuit, Inupiat e Yupik e venivano generalmente realizzati con pelli di renna o di foca, materiali che ancora oggi sono competitivi, in quanto a resistenza e isolamento termico, con i tessuti più moderni.

Alcuni parka, anche se non molto efficienti nell’ isolamento termico, erano completamente impermeabili: il materiale con cui venivano realizzati, interiora di foca, è totalmente idrorepellente, offre una buona protezione dall’umidità atmosferica e costituisce una barriera invalicabile per le zanzare che popolano l’estate della tundra.

Slitte
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.

Viaggiare sulla neve o sul ghiaccio è faticoso e pericoloso. Le popolazioni nomadi o seminomadi, inoltre, devono muovere grandi quantità di materiale durante i loro spostamenti stagionali: cibo, tende, utensili e indumenti non possono essere trasportati su lunghe distanze con la sola forza di braccia e gambe.

Dopo aver compreso che più la superficie a contatto con la neve o il ghiaccio è estesa, più si ottiene stabilità e movimento fluido, i popoli dell’Artico iniziarono a realizzare slitte capaci di coprire distanze notevoli scivolando sulle superfici che il piede umano affronta con difficoltà.

Per le loro slitte i popoli artici sfruttavano ogni materiale a loro disposizione: ossa di animali marini o terrestri per il telaio, tendine, cuoio o fibre vegetali per il cordame, e pelle di foca per creare una copertura isolante.

Aghi
Aghi d'avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.
Aghi d’avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.

Gli Inuit e le popolazioni dell’Artico sono abili costruttori di meravigliosi aghi d’osso e di legno, con i quali possono riparare tende, indumenti e oggetti di varia natura. Gli aghi d’osso e di legno, per la natura stesse del materiale da cui vengono realizzati, non hanno le dimensioni e le caratteristiche meccaniche degli aghi moderni, ma sono incredibilmente efficaci.

Gli aghi sono utensili utilissimi per la vita quotidiana dei popoli artici: parka, stivali, canoe e tende (come i tupiq Inuit) richiedevano l’impiego di fibre resistenti (come il tendine) e di strumenti in grado di perforare con facilità cuoio e pelliccia.

Ottenere un ago efficace da un osso è un’operazione lunga e tediosa; gli aghi erano quindi beni preziosi, e venivano conservati in appositi contenitori generalmente portati sulla cintura, per essere pronti all’uso e limitare la possibilità di perderli.

Ulu e coltelli
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.

Per gli Inuit e gli Yupik, l’ ulu non è un semplice coltello, ma un utensile multiuso impiegato per recidere, per la pulizia delle pelli, per il taglio dei capelli o per rifinire blocchi di neve in assenza di un vero e proprio coltello da ghiaccio.

Gli ulu moderni sono in acciaio, ma la lama veniva anticamente realizzata con corno di renna o avorio di tricheco. Il tipico ulu ha dimensioni che variano in base all’impiego a cui è destinato: gli ulu più piccoli (circa 5 centimetri di lunghezza della lama) sono utilizzati per il taglio dei tendini o per la decorazione della pelle, mentre quelli più grandi trovano molteplici applicazioni nella vita quotidiana degli Inuit.

Nelle regioni artiche in cui veniva praticata la metallurgia, il coltello rappresentava l’utensile di prima scelta per la maggior parte delle attività quotidiane. Gli allevatori di renne lo usavano per castrare o macellare i loro animali, per marchiare le orecchie dei capi di bestiame in modo da riconoscerli, per incidere il legno e, se necessario, per la difesa personale.

Utensili da cucina
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all'inizio del 1900.
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all’inizio del 1900.

Buona parte della dieta dei popoli artici è composta da nutrienti di origine animale. Alcuni possono essere consumati crudi, altri invece necessitano di cottura prima di essere ingeriti. Anche alcune delle poche fonti vegetali di nutrienti, come erbe, tuberi, bacche e alghe necessitano di cottura per risultare commestibili o gradevoli al palato.

La cottura non consisteva esclusivamente nell’esposizione degli alimenti alla fiamma vita: gli Inuit utilizzavano bollitori di roccia metamorfica, blocchi di pietra che venivano scavati con pazienza e perizia per consentire la bollitura di cibo e acqua.

10 things you need to live in the Arctic

Eskimo Lamps and Pots

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Boomerang e bastoni da lancio https://www.vitantica.net/2020/04/06/boomerang-bastoni-da-lancio/ https://www.vitantica.net/2020/04/06/boomerang-bastoni-da-lancio/#respond Mon, 06 Apr 2020 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4826 Avete mai giocato con un boomerang quando eravate ragazzini? Se vi siete limitati ad acquistare un boomerang giocattolo di scarsa qualità, senza alcuna dedizione alle più comuni tecniche di lancio, potete facilmente immaginare la delusione di un ragazzino che non vede tornare tra le mani un’arma che ha visto volare in cerchio centinaia di volte in televisione, al cinema e nei fumetti.

Potrebbe sorprendervi sapere che l’antico boomerang era, in realtà, un’ arma da caccia discretamente efficace e inizialmente non progettata per seguire una traiettoria aerea quasi circolare. I boomerang moderni, invece, ben poco hanno a che fare con i bastoni da lancio delle culture semi-primitive dedite alla caccia.

L’origine del boomerang

L’origine del termine “boomerang” è incerta: secondo alcune fonti deriverebbe dal termine aborigeno “wo-mur-rang“, riportato in un documento risalente al 1798. La prima osservazione documentata di un boomerang da parte di un europeo risale al 1804, in occasione di una schermaglia tribale nei pressi di Farm Cove.

I Turuwal (o Tharawal) usano il termine “bou-mar-rang” per descrivere i loro bastoni da lancio, specialmente quelli dotati di particolari caratteristiche aerodinamiche che li rendono capaci di tornare verso il lanciatore; il capitano Cook, nel 1770, storpiò il termine Turuwal definendo l’arma come “boomerang”.

L’idea alla base del boomerang non è proprietà esclusiva degli aborigeni australiani. Quasi ogni cultura primitiva e semi-primitiva realizzò una sua personale versione del bastone da lancio, dalle proprietà aerodinamiche specifiche dipendenti dal suo utilizzo pratico.

Le mazze e i bastoni da lancio, ad esempio, vengono generalmente utilizzati per cacciare selvaggina di piccola taglia, come lepri e conigli, da distanze ravvicinate. La traiettoria ideale di queste armi è generalmente orizzontale al terreno: vengono lanciate imprimendo una rotazione attorno all’asse d’equilibrio del bastone, per sfruttare la piccola portanza generata dal movimento circolare e aumentare l’energia cinetica della testa dell’arma.

Evoluzione del boomerang dal bastone da lancio (Bryan Cranstone)
Evoluzione del boomerang dal bastone da lancio (Bryan Cranstone)

Nel caso del boomerang da caccia nella sua morfologia tipica a “L”, si tratta di un’arma dalle particolari proprietà aerodinamiche e destinata ad un uso specifico. Le pitture rupestri nella regione di Kimberly mostrano che gli aborigeni di 50.000 anni fa utilizzavano grandi e pesanti bastoni da lancio per uccidere piccoli canguri, boomerang (o meglio, “kylie“) dalla vaga forma a mezzaluna che molto probabilmente non erano progettati per tornare verso il proprietario.

Gli aborigeni usano il termine “kylie” per indicare un bastone da lancio molto simile al boomerang utilizzato per la caccia e per il combattimento. I kylie volano seguendo una traiettoria rettilinea e sono generalmente molto più grandi rispetto ai boomerang tradizionali: possono raggiungere i 180 centimetri di lunghezza e volare per grandi distanze, ferendo o uccidendo animali ed esseri umani incontrati lungo il suo percorso aereo.

Non sappiamo come sia stata ideata la classica forma ricurva del boomerang, ma i costruttori moderni ritengono che si sia trattata di un’evoluzione del bastone da lancio, arma ancora oggi usata dagli aborigeni australiani e nella caccia tradizionale Navajo.

L’origine del boomerang in grado di seguire un percorso di ritorno potrebbe essere invece legata al perfezionamento dei boomerang da caccia, difficili da bilanciare e da costruire; durante la lavorazione dell’arma, un costruttore potrebbe aver scoperto configurazioni aerodinamiche in grado di farla tornare verso il lanciatore se scagliata con la giusta tecnica.

Boomerang non australiani

Il più antico boomerang australiano è stato scoperto nella Palude Wyrie e risale a circa 12.000 anni fa, ma armi dalla morfologia simile sono state trovate anche in Europa, in Egitto e in Nord America.

Ci sono prove archeologiche che lasciano supporre che i nativi americani di California e Arizona utilizzassero bastoni da lancio del tutto simili ai boomerang australiani per la caccia di piccola selvaggina.

Alcuni esemplari di boomerang egizi (e probabilmente nordamericani) erano progettati per tornare nella direzione del lanciatore. Il faraone Tutankhamun possedeva una collezione di boomerang di diverso tipo, alcuni in grado di seguire una traiettoria rettilinea mentre alti progettati per tornare indietro.

Quattro esemplari di boomerang dalla collezione scoperta nel corredo funebre di Tutankhamon
Quattro esemplari di boomerang dalla collezione scoperta nel corredo funebre di Tutankhamon

Nel 1883 il fondatore del Pitt Rivers Museum, il luogotenente Pitt Rivers, pubblicò sulla rivista Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland una ricerca che analizzava le affinità tra i boomerang australiani e alcuni esemplari egizi risalenti a circa 5.000 anni fa, come un boomerang in zanna d’ippopotamo.

Pitt Rivers concludeva la sua analisi affermando che “il boomerang egizio non è un semplice bastone ricurvo, ma un vero boomerang piatto. E’ ciò che chiamo terzo stadio di sviluppo, e la sua affinità al boomerang australiano è più rilevante di quanto si pensasse“.

Il più antico boomerang europeo è stato trovato nelle Caverne di Oblazowa, Polonia: si trattava dell’evoluzione di un tradizionale bastone da lancio in zanne di mammut e si ritiene che possa essere vecchio di 30.000 anni. In Olanda, invece, sono stati riportati alla luce boomerang risalenti al I secolo a.C. nei pressi di Vlaardingen e Velsen.

Il valari è un’arma da lancio metallica simile al boomerang utilizzata nel subcontinente indiano per proteggere le mandrie dai predatori, ma è stata anche impiegata in guerra o come arma da caccia.

Il valari è l’arma preferita nella caccia al cervo e sembra essere ancora più antica del boomerang australiano, anche se condivide con esso alcune caratteristiche. Alcuni valari tornano verso il lanciatore, ma la maggior parte veniva impiegato come semplice arma da lancio.

Il boomerang da caccia

Il boomerang da caccia, o kylie, di molte comunità aborigene australiane non torna indietro. E’ stato progettato per colpire prede di diversa natura, da canguri a piccoli volatili; generalmente è un’arma che pesa circa 1-2 chili o più e che può fratturare ossa alla distanza di quasi 100 metri.

La distanza utile per il lancio è di gran lunga inferiore, ma un boomerang da caccia lanciato orizzontalmente vola per una distanza considerevole seguendo una linea retta e può menomare seriamente un animale di taglia medio-piccola.

Antico boomerang egizio simile ad un kylie australiano
Antico boomerang egizio simile ad un kylie australiano

Alcuni boomerang da caccia sono dotati di speroni o uncini e vengono utilizzati per l’abbattimento di bersagli multipli, scagliandoli nel mezzo di uno stormo di uccelli molto denso.

Non è del tutto esatto affermare che i boomerang da caccia siano esclusivamente armi da lancio che non tornano dal loro proprietario. I boomerang in grado di seguire una traiettoria quasi circolare (più precisamente, “a goccia”) hanno trovato impiego come diversivo utile alle attività di caccia: lanciati appena sopra l’erba alta, spaventano gli uccelli nascosti tra la vegetazione e li indirizzano verso reti da cattura posizionate in punti strategici.

Il volo del boomerang

Cosa rende i boomerang più efficienti nel volo di un semplice bastone da lancio? In primo luogo, il loro profilo: i boomerang a “L” o a mezzaluna sono progettati per avere un profilo aerodinamico che ricorda molto da vicino quello delle ali di un moderno aeroplano.

Il profilo alare di un boomerang genera portanza e gli consente di ruotare attorno ad un asse centrale, rotazione che causa ulteriore portanza e gli consente di mantenere una traiettoria di volo stabile e per lo più prevedibile anche su lunghe distanze.

Le ali di un boomerang sono realizzate in modo tale che le parti più sottili (quelle che fendono l’aria) siano orientate verso la direzione del volo. I boomerang, in effetti, ricordano molto le pale di un elicottero: inclinandole nel modo corretto, possono non solo generare portanza, ma anche una spinta orizzontale che aggiunge velocità ed energia cinetica al velivolo.

Traiettoria di volo del boomerang
Traiettoria di volo del boomerang

Modificando il profilo di una o di entrambe le estremità del boomerang, e giocando sul loro peso, è possibile alterare la sua traiettoria in volo fino ad ottenere un percorso ellittico, o un volo rettilineo e parallelo al terreno nel caso dei boomerang da caccia, per i quali sono necessarie precisione, velocità e potenza.

Un boomerang da ritorno segue generalmente un percorso che inizialmente lo fa viaggiare parallelamente al terreno, per poi iniziare ad ascendere gentilmente mentre la sua traiettoria di volo inizia a curvare. A quel punto, il boomerang inizierà la discesa fino a mantenersi nuovamente parallelo al suolo; se non afferrato, proseguirà il suo volo seguendo un percorso a spirale che lo farà cadere a terra.

Boomerang
How the Throwing Wood and the Boomerang Developed
Aerodynamics of Boomerang
The Non Australian Boomerang
Tutankhamun’s Treasures – Boomerangs

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Video: Combattimento dei Trenta https://www.vitantica.net/2020/03/11/video-combattimento-dei-trenta/ https://www.vitantica.net/2020/03/11/video-combattimento-dei-trenta/#respond Wed, 11 Mar 2020 00:05:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4820 Il Combattimento dei Trenta fu una battaglia-torneo organizzata dalle due grandi potenze europee coinvolte nella guerra di successione bretone, Francia e Inghilterra, svoltasi il 26 marzo 1351.

Lo scontro concordato fu organizzato sotto forma di grande torneo nei pressi di una grande quercia, a metà strada tra Ploërmel e Josselin, con tanto di spettatori e nobiltà locale chiamati ad assistere allo scontro e a godere del grande rinfresco preparato per l’occasione.

Lo schieramento dei Blois, che contava 31 uomini, era capeggiato da Beaumanoir; quello dei Montfort, composto dallo stesso numero di combattenti, aveva come capitano Bemborough. Beaumanoir aveva a disposizione trenta guerrieri bretoni, mentre il suo rivale poteva contare su 20 inglesi, sei mercenari tedeschi e quattro bretoni.

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Il filmato qui sotto mostra una messa in scena del Combattimento dei Trenta.

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Il Combattimento dei Trenta https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/ https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/#respond Mon, 09 Mar 2020 00:30:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4806 La concezione romantica dei cavalieri medievali europei sta ormai decadendo sotto i colpi della realtà storica. Ben lontani dall’essere tutti ligi ai codici d’onore e rispettosi del proprio avversario, le circostanze spesso violente e spietate del Medioevo richiedevano di fare il necessario per sopravvivere: tradimenti, omicidi e massacri di innocenti costituivano una buona parte delle gesta del tipico cavaliere medievale.

Ci sono episodi, tuttavia, che hanno contribuito a diffondere e gonfiare il romanticismo del cavalierato: uno di questi è ciò che viene chiamato Combattimento dei Trenta, una battaglia organizzata dalle due grandi potenze europee coinvolte nella guerra di successione bretone, Francia e Inghilterra, svoltasi il 26 marzo 1351.

La guerra per la successione bretone

Francia e Inghilterra non sono mai state molto amichevoli l’una con l’altra. Durante ciò che viene comunemente definita “Guerra dei cent’anni” le battaglie furono molte, e le casate di Montfort e di Blois furono tra le grandi protagoniste degli scontri.

I Montfort, sostenuti dagli Inglesi, non perdevano occasione per decimare i Blois, spalleggiati dalla Francia, e i loro avversari facevano lo stesso alla prima circostanza utile. Ma durante la conquista del Ducato di Bretagna si raggiunse una posizione di stallo tra le due fazioni: nessuna delle parti coinvolte riusciva ad avere la meglio, motivo per cui fu deciso di comune accordo di organizzare una sorta di torneo, una vera e propria battaglia tra pochi combattenti selezionati che avrebbero lottato per la supremazia del territorio conteso.

Sembra che l’iniziativa del torneo fu presa a seguito di una sfida personale tra due cavalieri: Robert Bemborough, soldato dei Montfort e dislocato a Ploërmel, fu ufficialmente sfidato a duello da Jean de Beaumanoir, che occupava il villaggio di Josselin per conto dei Blois.

Pare che fu lo sfidato, Bemborough, a proporre di allargare la sfida a qualche decina di cavalieri per ciascuna fazione, trasformandola in una sorta di mini-battaglia; la proposta fu accettata con entusiasmo dai Blois.

L’estensione del duello ad altri combattenti, secondo alcuni cronisti dell’epoca, non era motivata dalla convinzione che uno scontro circoscritto avrebbe potuto mettere fine al conflitto. La risposta di Bemborough alla sfida rivoltagli da Jean de Beaumanoir fu che un semplice duello non avrebbe intrattenuto le dame inglesi e francesi quanto una vera battaglia tra 20-30 uomini scelti.

Le Combat des Trente (entre Ploërmel et Josselin), Pierre Le Baud (1480)
Le Combat des Trente (entre Ploërmel et Josselin), Pierre Le Baud (1480)

Secondo i due cronisti Jean Le Bel e Jean Froissart, il torneo era animato da ragioni d’onore, escludendo ogni sorta di conflitto personale tra i combattenti coinvolti. Il problema della proprietà del Ducato di Bretagna viene esposto come una semplice questione di principio, più che un tassello strategico per la supremazia di Francia o Inghilterra.

Non mancano tuttavia storie popolari e documenti che raccontano versioni differenti: quelli francesi sostengono che Bemborough facesse scorrerie tra la popolazione locale uccidendo chiunque senza ragione; in questo caso, Jean de Beaumanoir viene presentato come il liberatore del popolo dalla tirannia inglese.

La battaglia

Lo scontro concordato fu organizzato sotto forma di grande torneo nei pressi di una grande quercia, a metà strada tra Ploërmel e Josselin, con tanto di spettatori e nobiltà locale chiamati ad assistere allo scontro e a godere del grande rinfresco preparato per l’occasione.

Lo schieramento dei Blois, che contava 31 uomini, era capeggiato da Beaumanoir; quello dei Montfort, composto dallo stesso numero di combattenti, aveva come capitano Bemborough. Beaumanoir aveva a disposizione trenta guerrieri bretoni, mentre il suo rivale poteva contare su 20 inglesi, sei mercenari tedeschi e quattro bretoni.

La documentazione storica ci consente di sapere anche i nomi dei guerrieri coinvolti nel torneo, un elenco consultabile a questo link: Combat of the 30: Jean de Beaumanoir v. Robert Bramborough.

La battaglia fu combattuta da cavalieri e fanti armati di spade, daghe, lance e asce. Secondo Froissart, il torneo fu impregnato di gesti di galanteria e azioni eroiche, ma non mancarono i morti e i feriti: dopo diverse ore di combattimento, un totale di sei corpi giacevano senza vita sul campo di battaglia, 4 dello schieramento francese e due appartenenti alle fila inglesi.

Le Combat des Trente (1857)
Le Combat des Trente (1857)

La fatica e i caduti portarono di comune accordo ad un’interruzione, per consentire ai guerrieri di mangiare, abbeverarsi ed essere curati dalle ferite subite. Alla ripresa delle ostilità, il leader inglese Bemborough fu ferito mortalmente da un soldato francese, costringendo i suoi uomini a formare un solido schieramento difensivo attorno al corpo del capitano.

Dopo diversi tentativi, i Francesi riuscirono a sfondare le difese inglesi grazie allo scudiero Guillaume de Montauban, che ruppe le linee difensive effettuando una carica in sella al suo cavallo e mettendo fuori gioco sette cavalieri inglesi, costringendo i rimanenti alla resa.

Il risultato della battaglia fu la vittoria dello schieramento francese. Gli Inglesi contarono nove morti e oltre venti feriti; alcuni di loro furono presi come ostaggi e rilasciati dopo il pagamento di un piccolo riscatto.

Le conseguenze dello scontro

Anche se il torneo non ebbe alcun effetto sul risultato della guerra bretone di successione, fu cantato per molto tempo dai trovieri e preso ad esempio come ideale di scontro cavalleresco. Una pietra commemorativa fu collocata sul luogo dello scontro, a metà strada tra Josselin e Ploermel.

Anche in questo caso non mancarono versioni della vicenda diametralmente opposte: nella versione francese, i Montfort erano i “cattivi”, dipinti come una masnada di mercenari e briganti che tormentavano la povera gente francese.

L’obelisco commemorativo voluto da Napoleone nel 1811 e posizionato sul sito dello scontro afferma che “trenta bretoni i cui nomi sono riportati qui sotto, lottarono per difendere i poveri, i braccianti e gli artigiani e scacciare gli stranieri attratti dal suolo della Contea. Posteri dei Bretoni, imitate i vostri antenati!“.

Gli Inglesi, invece, non esaltarono particolarmente la vicenda, forse per nascondere la sconfitta. La versione inglese sostiene che i Francesi avessero in qualche modo imbrogliato. Edward Smedley (1788–1836), nella sua “Storia di Francia“, afferma che la manovra dello scudiero che sfondò lo schieramento difensivo inglese aveva “le sembianze di un tradimento”.

La battaglia ebbe eco anche nelle decadi successive, con conseguenze durature sullo status della nobiltà inglese e francese: a distanza di vent’anni, Jean Froissar si accorse della presenza di un reduce dello scontro, Yves Charruel, seduto al tavolo di Carlo V grazie alla posizione sociale ottenuta dalla partecipazione al Combattimento dei Trenta.

Combat of the Thirty
A Verse Account of the Combat of the Thirty
Combat of the 30 – 26 March 1351
The Combat of the Thirty: Knightly deeds in a dirty little war

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Come si allenavano i guerrieri medievali? https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/ https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/#respond Mon, 03 Feb 2020 00:03:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4773 Cavalieri e soldati del Basso Medioevo scendevano in battaglia indossando un equipaggiamento ingombrante e pesante. La dotazione da guerra prevedeva, oltre al peso dell’armatura, svariati chilogrammi di armi e oggetti d’utilità quotidiana; tutto questo peso richiedeva necessariamente una buona forma fisica e una discreta dose di forza e resistenza.

Combattere con armi bianche, inoltre, stanca molto velocemente, come spiegato in questo post sulle spade. Brandire una spada, una lancia o una mazza per qualche minuto contro una serie di combattenti motivati ed esperti richiede necessariamente grande resistenza, anche senza l’ingombro dell’armatura.

Per quanto i secoli passati possano essere stati turbolenti, non c’era costantemente una guerra da combattere. Soldati e cavalieri trascorrevano buona parte del loro tempo a riposo, svolgendo mansioni di routine o semplicemente lavorando nei campi o in città. Come facevano i guerrieri medievali a mantenere una robusta forma fisica anche durante i periodi di pace?

Il Castello della Salute

La risposta alla necessità di mantenersi in forma anche durante i periodi più pacifici arrivò da Sir Thomas Elyot, che nel 1537 (forse già nel 1534) pubblicò The Castell of Helth. Chiamato modernamente “The Castle of Health“, si tratta di un volume incentrato sul mantenimento della salute fisica dei guerrieri e indirizzato a chiunque non fosse familiare con il greco, la lingua solitamente impiegata per diffondere la conoscenza scientifica. Anche se tecnicamente la pubblicazione dell’opera non è collocabile nel Basso Medioevo, le fondamenta dei suoi contenuti derivano dalle esperienze e dalle conoscenze maturate durante l’ “età di mezzo”.

Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane
Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane

The Castle of Health riscosse un notevole successo, venendo pubblicato in ben 17 edizioni, ma fu inizialmente sottoposto a censura a causa della critica da parte dei medici del tempo, che temevano la diffusione di conoscenze riservate tra il grande pubblico.

In modo simile ad un moderno personal trainer, Elyot consiglia una serie di esercizi ed attività capaci di mantenere forte e in salute un guerriero, basandosi sul livello di partenza del combattente e collocando gli esercizi in quattro categorie distinte.

Secondo la teoria degli umori in voga al tempo di Elyot, le personalità “flemmatiche” o “sanguigne” tendono ad essere rispettivamente lente e grasse, o grasse e appassionate; per queste personalità, secondo l’autore, sono più indicati esercizi orientati allo sviluppo della forza o della resistenza.

I consigli per il mantenimento di un buono stato di salute prevedevano una dieta equilibrata, riposo, purghe e aria di buona qualità. Enfatizzavano inoltre il valore dell’esercizio fisico regolare, anche se  alcuni suggerimenti potrebbero sembrare bizzarri o privi di fondamenta scientifiche ad un lettore moderno.

The Castle of Health non è l’unica opera a descrivere il regime d’allenamento di un cavaliere: la biografia di Jean II Le Maingre (1409), noto col nome di Boucicaut e celebre combattente del suo tempo, espone alcuni esercizi eseguiti dal cavaliere per mantenersi in forma. Nell’allenamento di Boucicaut sono previsti esercizi contemplati anche nel The Castle of Health, come l’arrampicata, la pratica con armi bianche, il sollevamento di carichi pesanti e la danza.

Copertina del "The Castel of Helth"
Copertina del “The Castel of Helth”
Esercizi forti o violenti

Con “forti e violenti” Elyot intendeva ciò che oggi viene comunemente definito allenamento per la forza, una selezione di esercizi mirati a irrobustire la muscolatura.

Tra questi esercizi erano inclusi:

  • Lotta, “soltanto per i giovani uomini inclini alla guerra”;
  • Scavare terreno pesante, ricco d’argilla;
  • Trasportare o sostenere carichi pesanti;
  • Arrampicarsi o camminare lungo un pendio scosceso;
  • Afferrare una corda e arrampicarsi;
  • Rimanere appeso con le mani su qualunque cosa posizionata sufficientemente in alto da lasciare il corpo in sospensione;
  • Alzare le mani in posizione verticale, stringendo i pugni e mantenendo questa posa per qualche tempo;
  • Tenere salde le braccia sui fianchi mentre un compagno cerca di allontanarle dal corpo.
Esercizi veloci

Questi esercizi non hanno uno scopo ben preciso, ma sono probabilmente poco indicati per le personalità “flemmatiche” o “sanguigne”. Elyot suggerisce che siano più adatti a persone propense alla collera, malinconiche o neurotiche, spesso dalla corporatura esile e dominate da umori come bile gialla e bile nera.

  • Corsa;
  • Esercizi con le armi;
  • Lancio della palla;
  • Camminare sulle punte dei piedi tenendo le mani in alto;
  • Muovere le mani in alto e in basso senza utilizzare pesi.

Prefazione del The Castel of Helth

Esercizi veementi

Gli “esercizi veementi” sono una combinazione di esercizi veloci ed esercizi violenti. Elyot suggerisce che questo tipo di esercizi sia adatto a persone di corporatura normale già abituate a movimenti intensivi e veloci.

  • Ballare danze che prevedano il sollevamento della partner;
  • Lanciare una palla e rincorrerla;
  • Lanciare un giavellotto;
  • Corsa con finimenti, una sorta di allenamento di resistenza dove un compagno d’armi tenta di frenare il movimento tramite un’imbragatura.
Esercizi moderati

Tra gli esercizi moderati rientrano le attività di resistenza, come lunghe camminate o l’allenamento per il combattimento a cavallo. Questi esercizi sono adatti a chiunque, specialmente a chi è ancora stremato da esercizi violenti o veloci e ha bisogno di un training più moderato, o agli anziani.

Isolamento muscolare

Elyot introduce anche un concetto alla base del moderno bodybuilding, l’isolamento di un gruppo muscolare. Questo tipo di allenamento può appianare gli squilibri muscolari presenti in un individuo concentrando lo sforzo su alcune aree specifiche del corpo.

Per le gambe, le braccia e le spalle, Elyot raccomanda stretching e l’uso di pesi, insieme alla pratica con armi bianche come lance o picche. Per il petto e i polmoni, invece, l’autore prescrive una respirazione ritmica come quella praticata durante il canto, allo scopo di espellere l’eccesso di umori.

“Elyot aveva capito chiaramente le differenti necessità d’esercizio per i differenti tipi di corporatura. Anche se i nostri antenati si sbagliavano nel credere che l’esercizio dovrebbe essere contestualizzato nel modello umorale di come corpo e mente funzionano, avevano sicuramente ragione sul fatto che l’esercizio contribuisce alla salute fisica e mentale” afferma Joan Fitzpatrick, autrice di un’ analisi del The Castle of Health.

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How to have a good workout: lessons from the 16th century
10 Workout Tips From a 14th Century Knight
Sir Thomas Elyot
The Castel of helth

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La freccia per arco: evoluzione e caratteristiche delle frecce antiche https://www.vitantica.net/2019/11/18/freccia-arco-evoluzione-caratteristiche-frecce-antiche/ https://www.vitantica.net/2019/11/18/freccia-arco-evoluzione-caratteristiche-frecce-antiche/#respond Mon, 18 Nov 2019 00:10:40 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4682 La freccia ha svolto un ruolo fondamentale nell’innovazione dell’ arcieria. E’ relativamente facile realizzare un semplice arco (molto meno facile è, invece, costruire un’arma adatta all’utilizzo in uno scenario reale), ma senza una freccia degna di tale nome si tratterà di uno strumento relativamente inefficace.

Esistono innumerevoli tipologie di frecce, ciascuna adatta ad un utilizzo specifico o capace di rivelarsi efficace in circostanze multiple. Non si tratta solo della punta: il peso, la lunghezza, la flessibilità e l’impennaggio di una freccia possono modificare enormemente le sue performances durante durante il volo.

La freccia è un oggetto molto delicato, che richiede precisione e cura nella sua fabbricazione. Un arciere molto fortunato potrebbe non essere mai costretto a sostituire il suo arco, ma dovrà necessariamente rimpiazzare una quantità innumerevole di frecce nel corso della sua carriera, specialmente se si dedica alla caccia.

Molte frecce si spezzano, altre vanno perdute nel sottobosco: è incredibilmente semplice mancare il bersaglio con un arco tradizionale. Anche disponendo di un buon arco e di un’ottima freccia, la distanza massima dal bersaglio non supera mai i 30 metri, distanza che tuttavia prevede un ampio margine d’errore nella caccia tradizionale.

La vita di una freccia è breve, intensa e spesso poco fortunata, specialmente se si considerano gli sforzi necessari a realizzare una dardo di ottima qualità, come mostra il video qui sotto.

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Le prime frecce

La storia della freccia è antichissima. I primi dardi adatti al lancio furono piccoli giavellotti di legno duro, probabilmente dalla punta semi-carbonizzata sulla fiamma, privi di impennaggio e dalla scarsa flessibilità.

Con le prime lavorazioni litiche l’essere umano si rese conto che alcune schegge di pietra avevano capacità di taglio e di penetrazione superiori a quelle di una semplice punta di legno.

Aguzzando l’ingegno, escogitarono sistemi anche molto sofisticati per costruire frecce sempre più veloci, potenti e letali. Il più antico esempio di proiettile con punta di pietra, compatibile sia con una freccia da arco che con un dardo di atlatl, risale a 64.000 anni fa ed è stato scoperto nella Caverna di Sibudu.

Per le prime frecce da arco della storia umana occorre però fare un balzo in avanti, a circa 10.000 anni fa: nella valle di Ahrensburg sono state scoperte frecce di legno di pino dotate di cocche, intagli che consentivano una maggiore aderenza alla corda dell’arco. E’ possibile che questi proiettili fossero stati preparati per l’uso in combinazione con un arco simile a quello di Holmegård.

Con l’avvento della lavorazione dei metalli, si susseguirono una serie di innovazioni tecnologiche delle punte di freccia: cuspidi di rame, bronzo, ferro e poi acciaio resero l’arco un’arma sempre più precisa e letale.

Le punte iniziarono a mutare forma, assumendo configurazioni diverse in base all’utilizzo: dalle semplici cuspidi da caccia furono sviluppate punte adatte a penetrare armature, punte contundenti per cacciagione di piccola taglia, cuspidi con barbigli per complicare qualunque manovra di rimozione del dardo una volta conficcatosi nel bersaglio.

Caratteristiche di una freccia per arco

Nel corso della storia si sono viste frecce di ogni tipo. Anche se le frecce moderne sono lunghe da 75 a 96 centimetri, nei vari millenni di conflitti bellici e attività venatoria si sono visti proiettili per arco lunghi dai 45 ai 150 centimetri.

Una freccia è costituita da 4 parti fondamentali: una punta (o cuspide) dal profilo solitamente aerodinamico; un fusto, o asta, che rappresenta il corpo della freccia; una cocca, il punto di collegamento tra la freccia e la corda dell’arco; e un impennaggio, il “sistema di volo” del proiettile.

Il fusto

In passato i fusti di freccia venivano realizzati con diversi tipi di legno, dipendentemente dalle esigenze pratiche. Le frecce “da volo”, ad esempio, avevano fusti più sottili e leggeri rispetto a quelle da guerra o da caccia.

Dato che la costruzione di frecce è un processo lungo e tedioso che termina spesso con la perdita di oltre la metà dei proiettili realizzati, alcuni popoli del pianeta escogitarono sistemi differenti per recuperare le frecce durante e dopo la caccia.

Uno di questi metodi era il fusto composito: una sezione di legno duro e rigido in corrispondenza della punta unito ad un fusto di legno più leggero e flessibile. In questo modo la freccia ha meno probabilità di spezzarsi irrimediabilmente durante la fuga della preda, il fusto tende a staccarsi facilmente al primo impatto mentre la punta potrà essere recuperata, se ancora integra e attaccata al bersaglio, una volta uccisa la preda.

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La caratteristica primaria di una freccia è il suo spine, il livello di rigidità del fusto. Quando si rilascia la corda di un arco, nelle fasi iniziali l’accelerazione della coda creerà una compressione nell’asta della freccia: il dardo inizierà a flettersi e continuerà a farlo anche durante il volo, un fenomeno definito “paradosso dell’arciere”.

Per evitare che il proiettile inizi a deviare dalla traiettoria desiderata a causa della flessione del fusto, lo spine deve essere adeguato alla potenza dell’arco e all’allungo dell’arciere. E per mantenere la necessaria stabilità in volo, specialmente nei metri iniziali, occorre che la freccia sia dotata di un buon impennaggio.

Impennaggio

Con il termine “impennaggio” si intende la parte stabilizzatrice del volo di una freccia. Anche se alcuni tipi di frecce non necessitano di impennaggio (come quelle utilizzate ancora oggi in alcune popolazioni della Nuova Guinea), l’aggiunta di appendici stabilizzatrici contribuisce a migliorare la precisione.

Tradizionalmente l’impennaggio viene realizzato con penne d’oca o di tacchino ancorate all’estremità opposta alla punta tramite fibre, colla o una combinazione di questi due elementi.

E’ fondamentale che le componenti dell’impennaggio abbiano una resistenza aerodinamica molto simile tra loro. Per ottenere una resistenza uniforme, i costruttori di frecce tagliano o bruciano le penne per modellarle e uniformarle, ottimizzandone la capacità stabilizzatrice.

Se si utilizzano penne naturali, ogni freccia avrà penne estratte dalla stessa ala. Le penne di tacchino estratte dall’ala destra, ad esempio, hanno una curvatura naturale che forza ad effettuare l’ impennaggio con una torsione verso destra.

Un impennaggio particolare, chiamato flu-flu, utilizza le sezioni lunghe delle penne di tacchino per creare sei o più appendici alari o una sorta di spirale in grado di esercitare maggiore resistenza all’aria, favorendo la caccia di prede aeree.

La cocca

La cocca è un incavo all’estremità opposta della punta che aiuta a mantenere corretta la rotazione della freccia prima del lancio e riduce la possibilità di farla cadere durante la trazione o il rilascio dell’arco.

La cocca serve inoltre a massimizzare l’energia trasferita dall’arco alla freccia: mantiene il proiettile saldo in corrispondenza del punto della corda che si muove più velocemente dopo il rilascio, il centro della corda.

Senza la cocca, la compressione di una freccia al momento del lancio potrebbe colpire l’arco, causando una perdita di precisione. Ogni fusto ha un piano di compressione “preferito”, specialmente se si tratta di legno: durante l’intaglio della cocca si dovrà quindi tenere in considerazione la direzione di flessione dell’asta.

La cocca deve resistere a diverse sollecitazioni meccaniche e viene spesso rinforzata con colla, fibre, legno duro o corno.

Cuspidi
Diversi tipi di cuspide utilizzati  nella storia
Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia

La punta, o cuspide, è l’estremità letale di una freccia. Ha subito moltissime evoluzioni nel corso di millenni passati per rispondere alle necessità di cacciatori e guerrieri sempre più esigenti: lacerare, penetrare, menomare il proprio obiettivo o semplicemente stordirlo.

Le punte di freccia hanno innumerevoli forme, pesi e funzioni, ma possono essere raggruppate in 5 categorie principali:

Punta Bodkin: si tratta di una cuspide rigida affusolata, generalmente in ferro battuto. Fu probabilmente creata per prolungare la gittata o creare frecce efficaci ed economiche su larga scala. Le punte Bodkin in acciaio si sono dimostrate capaci di penetrare maglie di ferro, ma non armature a piastre.

Cuspidi contundenti: Possono essere semplici rinforzi rigidi al fusto della freccia, o veri e propri pesi metallici in corrispondenza della punta. Le cuspidi contundenti tornano utili nella caccia di piccole prede, stordendole per facilitare la cattura ed evitare di danneggiare carne o pelle.

Broadhead: nell’immaginario collettivo, la classica punta di freccia è la broadhead dal profilo triangolare. Queste cuspidi hanno tipicamente 2 o 4 lame che causano emorragie nel bersaglio e velocizzano l’uccisione recidendo i vasi sanguigni principali. Sono punte ideali per la guerra o la caccia, ma costose da realizzare e mai utilizzate per l’allenamento.

Punte barbigliate: se si unisce il potere distruttivo di una broadhead con una serie di barbigli metallici, si ottiene una cuspide in grado di causare gravi danni e rendere particolarmente difficile l’estrazione dal bersaglio.

Punte d’allenamento: si tratta di cuspidi appuntite e robuste simili a proiettili, in grado di conficcarsi nel bersaglio con facilità senza tuttavia causare danni eccessivi.

Fonti per “La freccia per arco: evoluzione e caratteristiche delle frecce antiche”

Arrowheads
Everything You Need to Know About Medieval Arrows
Manchu war arrows
Arrow Shaft Design and Performance

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Salnitro, zolfo e carbone: la polvere nera nell’antichità https://www.vitantica.net/2019/09/23/salnitro-zolfo-carbone-polvere-nera/ https://www.vitantica.net/2019/09/23/salnitro-zolfo-carbone-polvere-nera/#respond Mon, 23 Sep 2019 00:10:33 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4528 La polvere pirica viene considerata una delle Quattro Grandi Invenzioni cinesi. Creata quasi per caso durante l’elaborazione di farmaci tradizionali e le più disparate sperimentazioni alchemiche, rivelò ben presto il suo potenziale deflagrante, ma il suo utilizzo in campo bellico ebbe inizio secoli dopo la sua scoperta.

Ottenere polvere nera è un procedimento relativamente semplice oggi; ma in epoche in cui la chimica industriale doveva ancora vedere la luce, come fecero i nostri antenati ad ottenere la prima, rudimentale formula della povere nera e gli ingredienti necessari per implementarla?

Esplosivo a tre ingredienti

Ciò che viene definita genericamente “polvere da sparo”, “polvere nera” o “polvere pirica” non è altro che un mix di tre ingredienti: zolfo, carbone vegetale e salnitro (nitrato di potassio). Questa miscela fornisce alla polvere tutto il necessario per bruciare: il nitrato di potassio è l’agente ossidante che fornisce l’ossigeno necessario alla combustione, il carbone costituisce il combustibile primario, mentre lo zolfo, oltre a svolgere il ruolo di combustibile secondario, abbassa la temperatura di ignizione.

La polvere nera è un esplosivo deflagrante: quando viene innescata, si propaga dai granuli più caldi ai più freddi tramite conduzione, generando un’onda di pressione subsonica (al contrario di una detonazione, che si propaga a velocità supersoniche).

Il nitrato di potassio è l’elemento chiave della violenta reazione della polvere nera quando entra in contatto con una fiamma: il processo di combustione fa in modo che il salnitro rilasci ossigeno, alimentando ulteriormente la deflagrazione e accelerandola.

Per ottimizzare la violenta combustione della polvere pirica, occorre combinare nelle giuste proporzioni i tre diversi elementi che la compongono. Nel corso della storia molti alchimisti si sono cimentati nella ricerca della formula perfetta per ottenere una polvere da sparo adatta allo scopo, ma uno dei primi a documentare per iscritto la ricetta dell’esplosivo fu Qing Xuzi nel IX secolo d.C.: la formula prevedeva sei parti di salnitro, sei di zolfo e una di piante essiccate del genere Aristolochia, utilizzate per secoli nella medicina tradizionale cinese.

Secondo la tradizione taoista, la prima formula della polvere da sparo fu ottenuta come sottoprodotto delle sperimentazioni cinesi condotte durante l’VIII – IX secolo nel tentativo di realizzare un elisir dell’immortalità. Inizialmente utilizzata come medicinale sperimentale con il nome di huoyao (“medicina di fuoco”), la polvere nera trovò applicazioni belliche all’inizio del X secolo.

L’attuale composizione della polvere nera è riconducibile ad una formula elaborata durante gli ultimi anni del XVIII secolo: 70-75% di nitrato di potassio, 15% di carbone di legna e 10-15% di zolfo. Per il carbone si prediligeva legname di salice o di ontano.

Ad eccezione del carbone (la cui realizzazione fu elevata ad arte fin dall’antichità, come spiegato in questo post), come fu possibile ottenere gli ingredienti necessari alla realizzazione della polvere da sparo senza l’ausilio della chimica moderna?

Zolfo
lo zolfo, oltre a svolgere il ruolo di combustibile secondario, abbassa la temperatura di ignizione
Lo zolfo, oltre a svolgere il ruolo di combustibile secondario, abbassa la temperatura di ignizione. Foto di Johannes ‘volty’ Hemmerlein

Lo zolfo è uno degli elementi chimici più abbondanti in natura, classificandosi al decimo posto tra i più diffusi nell’intero universo e al quinto per quanto riguarda gli elementi presenti sul nostro pianeta.

Lo zolfo è un minerale conosciuto fin dall’antichità: la Bibbia lo menziona in 15 occasioni separate, mentre nella medicina tradizionale di molti popoli antichi veniva mescolato ad incenso o ad erbe aromatiche per ripulire case e i luoghi sacri dagli “influssi malvagi”.

Lo zolfo era noto in Cina almeno dal I secolo a.C.: chiamato shiliuhuang, veniva estratto in forma nativa ad Hanzhong ed utilizzato nella medicina tradizionale cinese per il trattamento della scabbia, della psoriasi e dell’eczema, benché la sua reattività a contatto con alcuni metalli fosse ben nota e avesse suscitato l’interesse di alcuni alchimisti cinesi.

Il Papiro di Ebers, uno dei documenti medici più antichi della storia, menziona un unguento base di zolfo impiegato per il trattamento di alcune patologie oculari, mentre Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, cita questo elemento come ingrediente per realizzare medicinali o decoloranti per tessuti.

Oltre alla possibilità di estrarlo dalla pirite, lo zolfo si trova comunemente in forma nativa. Nelle regioni vulcaniche come la Sicilia, lo zolfo veniva tradizionalmente estratto da depositi di superficie e fatto cuocere all’interno di forni di terracotta per purificarlo.

Salnitro

Con il termine “salnitro” si intende generalmente il nitrato di potassio, ma verso la fine del XIX secolo fu utilizzato anche per definire il nitrato di sodio (chiamato anche “salnitro cileno”).

Il salnitro è noto in Cina fin dal I secolo a.C.: i testi dell’epoca documentano l’utilizzo di salnitro e zolfo in alcune preparazioni medicinali, mentre un documento alchemico dell’anno 492 evidenzia come il salnitro bruci generando una fiamma viola, un metodo molto utile per distinguerlo da altri sali inorganici.

Il nitrato di potassio è altamente solubile in acqua e si può quindi trovare sotto forma di formazioni cristalline in ambienti aridi, o in prossimità di altri minerali solubili. Si tratta di un minerale cristallino bianco o privo di colorazione che si accumula comunemente sulle pareti delle caverne o nei depositi di guano e altri materiali organici.

Una fonte primaria di nitrato di potassio prima dell’ epoca moderna furono i depositi cristallini che si generano all’interno delle caverne, depositi la cui origine è legata al guano dei pipistrelli. Gli escrementi animali e umani sono stati utilizzati fin dall’antichità per produrre attivamente salnitro, dato che promuovono la formazione di nitrati.

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I primi processi di purificazione del nitrato di potassio furono documentati in forma scritta dall’alchimista arabo Hasan al-Rammah nel 1270: la procedura da lui descritta richiedeva la bollitura di minerali grezzi contenenti salnitro (chiamati barud) seguita dall’uso di carbonato di potassio ottenuto da ceneri di legna per rimuovere il calcio e il magnesio tramite precipitazione.

Il metodo tradizionale di produzione del salnitro prevede la creazione di un letto di terreno argilloso riempito con materia organica vegetale (come semplice paglia) ed escrementi animali. La mistura deve essere bagnata con urina (umana o bovina) e mescolata a intervalli regolari, in modo tale da mantenerla sempre umida (ma non bagnata) e consentire ai nitrati di formarsi in ogni parte del mix.

La mistura deve essere protetta dall’acqua piovana per evitare che la solubilità del nitrato di potassio svuoti il letto del prezioso minerale. Sulla superficie del deposito si formerà uno strato di cristalli di salnitro spesso da 6 a 10 centimetri che dovrà essere prelevato solo parzialmente per consentire la generazione di altre formazioni cristalline.

Verso la metà del 1800 fu ideato il “metodo Francese”, che prevedeva l’impiego di un contenitore impermeabile in grado di contenere sufficiente compost da produrre il salnitro necessario alle esigenze belliche dell’epoca. Il procedimento richiedeva da sette mesi ad un anno per essere completato (la formazione di salnitro è dipendente dalla temperatura ambientale) e il salnitro doveva essere lavato con acqua bollente diverse volte prima di essere lasciato ad essiccare al sole.

Una preparazione pericolosa

Produrre polvere nera non è un procedimento complesso, ma richiede molta attenzione per evitare combustioni accidentali potenzialmente devastanti. In origine i tre ingredienti venivano tritati con mortaio e pestello fino ad ottenere una polvere sottile, un procedimento non esente da rischi; per evitare inneschi accidentali si utilizzavano materiali, metalli e leghe che non producono scintille, come pietra, bronzo o piombo.

Durante la preparazione, la mistura veniva bagnata con alcol o acqua per limitare al minimo l’innesco fortuito del composto, ridurre la produzione di polveri e sciogliere il salnitro, in modo tale che la polvere di nitrato di potassio aderisse completamente alle particelle di carbone.

Una volta tritata, la polvere nera bagnata veniva modellata in panetti e lasciata a seccare. Giunto al giusto grado di umidità, l’esplosivo poteva essere facilmente trasportato e utilizzato semplicemente sbriciolando i panetti per ridurli nuovamente in polvere.

Se lasciata in forma di polvere (pratica comune nel Medioevo europeo), durante il trasporto i tre ingredienti potevano separarsi e richiedevano una nuova mescolatura non appena giunti a destinazione. La polvere inoltre ha proprietà igroscopiche superiori a quelle dei panetti e accumulava facilmente umidità dall’ambiente, forzando i suoi utilizzatori ad asciugarla al sole.

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Anche se la polvere da sparo rilascia meno energia del TNT (3 megajoule per kg contro 4,7 megajoule), si tratta comunque di un esplosivo e doveva essere maneggiato con cura. Le esplosioni accidentali accadevano non di rado; gli addetti alla lavorazione della polvere nera dovevano evitare di indossare qualunque oggetto metallico e utilizzare lampade o candele protette da involucri di vetro.

Le conseguenze della mancata osservazione delle misure di sicurezza minime per maneggiare la polvere nera potevano essere fatali: in un edificio di Tower Hill si verificò nel 1522 un’esplosione causata da una minuscola scintilla venuta a contatto con la polvere da sparo immagazzinata nello stabile: sette londinesi furono uccisi e altri otto subirono gravi ferite.

Pochi anni dopo, nel 1560, un colpo esploso da un’arma da fuoco a Crooked Lane, a nord del London Bridge, causò la detonazione di due barili di polvere nera, distruggendo quattro case, danneggiandone molte altre e uccidendo 11 persone.

Fonti per “Salnitro, zolfo e carbone: la polvere nera nell’antichità”

Gunpowder: Composition and characteristics
Timeline of the gunpowder age
Sulfur
How To Make Saltpeter
Accidental explosions: gunpowder in Tudor and Stuart London

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https://www.vitantica.net/2019/09/23/salnitro-zolfo-carbone-polvere-nera/feed/ 0