piante – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Birra di betulla e Medovukha https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/ https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/#respond Mon, 17 Aug 2020 00:09:32 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4955 La linfa di betulla, una bevanda zuccherina apprezzata da millenni come preziosa fonte di vitamine e zuccheri, si presta anche alla produzione di liquidi fermentati se correttamente lavorata.

La birra di betulla è un prodotto dal sapore fresco, sostanzialmente privo di alcol o a bassissima gradazione alcolica (2-4%). La fermentazione non è esclusivamente funzionale all’aumento del contenuto alcolico, ma è un procedimento innescato naturalmente o artificialmente allo scopo di rendere la bevanda leggermente frizzante.

Oggi esistono numerose varietà di birra di betulla, differenti sia per colore che per sapore. Il colore dipende dalla specie di betulla da cui è stata estratta la linfa o dalla presenza di coloranti naturali o artificiali, mentre il sapore è determinato dalla miscela di erbe impiegata per aromatizzare la bevanda.

Birra di betulla e bevande affini

La birra di betulla iniziò ad essere prodotta dai primi esploratori e coloni occidentali in Nord America, spesso come sostituto a liquori dalla più alta gradazione alcolica e più costosi. John Mortimer, nel suo libro “The Whole Art of Husbandry” del 1707, afferma che la birra di betulla veniva prodotta in casa dalla fascia più povera della popolazione, dato che necessitava di ingredienti poco costosi e disponibili in quasi ogni cucina.

Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvania
Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvaniacicib

Una delle più antiche ricette della birra di betulla risale al 1676 e si trova nell’opera Vinetum Britannicum, di John Worlidge:

Ad ogni gallone, aggiungi una libbra di zucchero raffinato e fai bollire per circa un quarto d’ora o mezz’ora; fai raffreddare e aggiungi un po’ di lievito per far fermentare la bevanda e liberarla dalle scorie che il liquore e lo zucchero possono produrre: poi metti la bevanda in un barile e aggiungi un pizzico di cannella e noce moscata, circa una mezza oncia per entrambi ogni dieci galloni; circa un mese dopo il composto va imbottigliato; e in pochi giorni si avrà un vino frizzante molto delicato, dal sapore simile a quello del Reno. […] Questo liquore non è di lunga durata, a meno che non venga conservato al fresco.

Fino alla fine del 1800 in Russia, Ucraina e Bielorussia, fu molto popolare la medovukha, una bevanda simile all’idromele ma più economica e veloce da produrre. I due ingredienti principali sono la linfa di betulla e il miele fermentato. Il miele fermenta naturalmente nell’arco di 15-50 anni, ma oltre 700 anni fa le popolazioni slave escogitarono un metodo per velocizzare la fermentazione del miele sfruttando il calore.

Preparazione della birra di betulla

Il primo passo è quello di ottenere grandi quantità di linfa di betulla, estratta generalmente da metà inverno fino a metà primavera. Ogni albero, dipendentemente dalla specie, può arrivare a produrre oltre 4 litri di linfa ogni giorno, buona parte della quale può essere estratta dal tronco senza rischiare di uccidere la pianta. Per produrre una quantità minima di birra di betulla occorre partire da almeno 4-5 litri di linfa.

L’albero preferito per produrre birra è la “betulla nera” (Betula lenta), chiamata anche “betulla dolce”, una pianta tipicamente nordamericana che può raggiungere i 30 metri di altezza e che produce grandi quantità di linfa molto zuccherina. Sono tuttavia adatte anche altre specie, come la comune betulla bianca (Betula alba o pendula).

La finestra temporale per la raccolta della linfa corrisponde al periodo in cui il liquido zuccherino percorre in grandi quantità i capillari dell’albero. Se raccolta prima della comparsa delle prime foglie verdi, o in tarda primavera, la linfa di betulla può risultare amara.

La linfa deve essere versata in un contenitore capiente, addizionata di zucchero (o miele) e scaldata a fuoco basso. La quantità di zuccheri da aggiungere alla linfa varia in base alla tipologia: occorrono circa 5 litri di miele o 4 kg di zucchero ogni 20 litri di linfa per ottenere una corretta fermentazione.

Portare a ebollizione continuando a mescolare per sciogliere completamente lo zucchero: una volta dissolto tutto lo zucchero, rimuovere dalla fiamma e lasciar raffreddare il composto prima di travasarlo nel contenitore destinato alla fermentazione. A questo punto occorre aggiungere il lievito di birra (17-25 grammi), per poi coprire il recipiente con un panno per proteggerlo da insetti, batteri e muffe.

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Il composto deve riposare e fermentare per una o due settimane, fino a quando si schiarisce; a questo punto è pronto per l’imbottigliamento. Se mantenuta chiusa in un luogo fresco, asciutto e buio, la birra di betulla può conservarsi per circa 3 mesi.

In alternativa alla linfa di betulla è possibile utilizzare rametti e corteccia prelevati dallo stesso albero, immergendoli in acqua e portando il tutto a ebollizione prima di rimuovere la materia vegetale e aggiungere zucchero. La bollitura della corteccia richiede più tempo rispetto alla linfa: lo scopo è quello di ammorbidire il materiale e forzare il rilascio degli olii essenziali che contiene.

Medovukha

La medovukha viene tradizionalmente preparata all’inizio della primavera partendo da contenitori da 20 litri pieni di linfa di betulla mescolata a 3 litri di miele. I contenitori vengono quindi chiusi da panni di cotone e lasciati al buio e al caldo per diverse settimane.

Una volta iniziata la fermentazione la superficie della miscela di linfa e miele inizierà a produrre schiuma, che pian piano diminuirà di volume fino a sparire; a quel punto viene aggiunto un altro litro di miele per innescare nuovamente la fermentazione.

La seconda fermentazione dura 1-2 settimane. Una volta pronta, la medovukha viene versata in piccole bottiglie che verranno sigillate dopo aver aggiunto polline fresco.

La quantità di alcol e il sapore della medovukha variano col tempo: una bevanda “giovane” avrà uno scarso contenuto alcolico e un sapore di limonata; dopo averla lasciata invecchiare per diversi mesi e aggiungendo altro miele, la medovukha può arrivare ad avere un contenuto alcolico pari al 16%.

Birch beer
Vinetum Britannicum
Birch Beer Recipe
Birch Mead Medovukha

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Rimedio medievale efficace contro batteri resistenti ad antibiotici https://www.vitantica.net/2020/08/05/rimedio-medievale-efficace-contro-batteri-resistenti-ad-antibiotici/ https://www.vitantica.net/2020/08/05/rimedio-medievale-efficace-contro-batteri-resistenti-ad-antibiotici/#respond Wed, 05 Aug 2020 00:38:27 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4961 Il libro delle ricette mediche di Bald (Bald’s Leechbook) contiene numerosi medicamenti tradizionali risalenti al Medioevo. Tra questi rimedi è presente anche una pomata per gli occhi, una mistura di erbe medicinali e ingredienti di origine animale che, come citato in questo post, si è dimostrata capace di contrastare le infezioni da Staphylococcus aureus.

I ricercatori della School of Life Sciences alla University of Warwick hanno anche trovato un altro potenziale utilizzo per questa antica ricetta medica: combattere la crescente resistenza agli antibiotici sviluppata da alcuni microrganismi nocivi in grado di generare biofilm.

Antibiotici e biofilm

Alcuni microrganismi sono in grado di formare ciò che viene definito “biofilm”, una pellicola protettiva formata dalla secrezione di composti polimerici che garantiscono la sopravvivenza di una o più colonie batteriche. Contrariamente al comportamento “planctonico”, in cui ogni cellula si muove in modo indipendente, nel biofilm i microrganismi si attaccano l’uno all’altro dopo aver concordato chimicamente alla formazione di una pellicola protettiva.

Il biofilm non solo fornisce adesione alla superficie che alimenta i microrganismi, o che consente loro di sopravvivere più agevolmente, ma li protegge dalle aggressioni di agenti per loro nocivi. Secondo le ultime ricerche in campo biomedico, circa l’80% delle infezioni registrate in Occidente è legato alla presenza di biofilm microbici, spesso formati da più specie microscopiche che si aiutano a vicenda per sopravvivere.

Ogni colonia che compone un biofilm eterogeneo, chiamato consorzio batterico, svolge le proprie funzioni metaboliche all’interno di una specifica nicchia, senza entrare in conflitto con le altre specie all’interno del biofilm.

I batteri che vivono sotto la protezione di un biofilm hanno caratteristiche differenti da quelli osservabili in forma planctonica: non solo cooperano senza conflitti, ma aumentano la loro resistenza nei confronti di antibiotici e detergenti.

I biofilm sono estremamente comuni in natura. La placca è un biofilm composto da alcuni batteri che popolano il cavo orale, come lo Streptococcus mutans; lo Pseudomonas aeruginosa e lo Staphylococcus aureus possono generare infiammazioni croniche ai polmoni grazie al biofilm che creano, molto difficile da contrastare per il sistema immunitario umano; nelle infezioni del tratto urinario o vaginali si riscontrano comunemente biofilm batterici sempre più difficili da combattere.

La pomata per gli occhi di Bald

Partendo dai risultati ottenuti dalla University of Nottingham nel contrastare lo Staphylococcus aureus usando rimedi medievali, i ricercatori hanno ricreato la pomata per gli occhi del Bald’s Leechbook.

Il medicamento prevede una mistura di aglio, cipolla (o porro) e secrezioni dello stomaco di mucca, da applicare direttamente sugli occhi. L’aglio contiene allicina, il composto che gli conferisce un odore pungente e che ha dimostrato più volte di avere effetti antibiotici (la pianta usa l’allicina per difendersi dai parassiti), ma non si è dimostrato altrettanto efficace nel contrastare i biofilm.

I ricercatori sono quindi giunti alla conclusione che sia il mix di ingredienti, e non l’azione del singolo, a risultare efficace contro i biofilm batterici. Inoltre, modificando le proporzioni indicate nel Bald’s Leechbook, l’efficacia nei confronti dei biofilm tende a diminuire.

“Abbiamo dimostrato che un rimedio medievale composto da cipolla, aglio, vino o bile può uccidere una gamma di batteri problematici sia sotto forma planctonica sia come biofilm” afferma Freya Harrison, dottoressa della School of Life Sciences. “Dato che la mistura non ha causato molti danni alle cellule umane in laboratorio, o su quelle dei topi, possiamo potenzialmente sviluppare un trattamento antibatterico sicuro ed efficace da questo rimedio”.

Efficacia antibatterica

Il rimedio medievale di Bald si è rivelato efficace contro diverse infezioni batteriche: Stenotrophomonas maltophilia (presente in diverse infezioni respiratorie), Acinetobacter baumanii (comune nelle ferite infette dei soldati in guerra), Staphylococcus aureus, Staphylococcus epidermidis (causa comune di infezioni a cateteri e infezioni chirurgiche) e Streptococcus pyogenes (responsabile della faringite, della tonsillite, della scarlattina e della febbre reumatica).

“La maggior parte degli antibiotici che usiamo oggi” spiega Harrison, “derivano da composti naturali, ma il nostro lavoro rende necessario esplorare non solo singoli composti, ma misture di prodotti naturali per il trattamento delle infezioni da biofilm. Pensiamo che le future scoperte di antibiotici derivati da prodotti naturali aumenteranno grazie allo studio di combinazioni di ingredienti, piuttosto che singole piante o composti”.

“Il nostro lavoro” continua Jassica Furner-Pardoe della Medical School alla University of Warwick, “dimostra l’importanza di utilizzare modelli di laboratorio realistici quando si cercano nuovi antibiotici di origine vegetale. Anche se un singolo componente è sufficiente ad uccidere colture batteriche planctoniche, fallisce contro modelli di infezione più realistici, mentre il rimedio completo funziona”.

Medieval medicine remedy could provide new treatment for modern day infections
Ancientbiotics: Medieval Medicines for Modern Infections

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Palma e noce di cocco: il coltellino svizzero del regno vegetale https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/ https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/#comments Mon, 27 Jul 2020 00:10:08 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4939 E’ una delle piante più utili del pianeta, spesso chiamata l’ “albero della vita”. Il suo tronco fornisce ottimo materiale ligneo, i suoi frutti sono avvolti da fibre resistenti, hanno ottime proprietà alimentari e rappresentano l’essenza stessa della sopravvivenza in mare: la palma da cocco (Cocos nucifera) può contendere il titolo di “coltellino svizzero del regno delle piante” ad una pianta straordinaria come il bambù grazie ai suoi innumerevoli utilizzi.

La noce indiana

Nel Ramayana della tradizione sanscrita, e in altre fonti letterarie di origine indiana, ci sono le prime testimonianze della presenza della palma da cocco nel subcontinente indiano già nel I secolo a.C., ma per la prima descrizione dettagliata occorre aspettare circa 6 secoli: la Topographia Christiana di Cosmas Indicopleuste di Alessandria chiama la noce di cocco “la grande noce dell’India”.

Marco Polo, durante la sua visita a Sumatra nel 1280, incontra la sua prima noce di cocco, che chiama nux indica (dal termine arabo “jawz hindī“, traducibile con “noce indiana”), un nome che troverà larga diffusione in Occidente prima dell’utilizzo di “thenga“, termine usato in Malesia e citato da Ludovico di Varthema nel 1510, e “coco“.

Un’altra osservazione diretta della noce di cocco da parte di un occidentale viene trascritta nel 1521 sul diario di Antonio Pigafetta, membro dell’equipaggio di Magellano, una volta giunto a Guam. Secondo Pigafetta, gli abitanti di Guam “mangiano cocchi e ungono il corpo e i capelli con olio di cocco e di sesamo”.

Durante il XVI secolo la noce di cocco assunse il suo nome dalla parola spagnola e portoghese “coco”, che significa “testa” o “cranio”. Ogni noce è infatti dotata di 3 pori, detti anche occhi, che somigliano vagamente ad un viso umano stilizzato.

Non sappiamo con esattezza la regione d’origine della palma da cocco, ma le analisi genetiche sembrano puntare verso il sud-est asiatico, regione in cui le palme mostrano più varietà genetica rispetto ad altre località del mondo. Grazie ai viaggi per mare le palme iniziarono a diffondersi millenni fa verso altri continenti, dall’ Africa al Sud America.

La palma da cocco

La palma da cocco è considerata unanimamente una delle 10 piante più utili del mondo, tanto da meritarsi il termine sanscrito “kalpa vriksha“, traducibile con “l’albero che fornisce tutto ciò che serve nella vita”. In Indonesia, un detto popolare recita che “ci sono tanti impieghi per la palma da cocco quanti sono i giorni dell’anno”. Attualmente sono documentati oltre 80 possibili utilizzi dell’albero del cocco: dalle radici alle noci, dalle foglie ai fiori, ogni parte della pianta è sfruttabile.

L’albero del cocco può raggiungere i 30 metri di altezza e possedere foglie paripennate lunghe fino a 6 metri. Su suolo molto fertile un albero maturo (la maturità viene raggiunta tra i 15 e i 20 anni di vita) può produrre oltre 70 noci in un anno, ma la media si attesta a meno di 30 nell’arco di 12 mesi.

Noce di cocco

La palma da cocco predilige suoli sabbiosi e tollera molto bene alti livelli di salinità. Ha bisogno di precipitazioni costanti e sole abbondante, e un livello di umidità pari al 70-90%. Le palme sono molto sensibili alle temperature: hanno bisogno di temperature superiori ai 20 °C ogni giorno dell’anno per crescere in salute, anche se possono sopravvivere per brevi periodi al freddo non inferiore ai 4 gradi.

Tecnicamente, la noce di cocco non è una noce, ma una drupa, un frutto carnoso con endocarpo legnoso come la ciliegia, la mandorla, l’albicocca, l’oliva e la prugna. Il frutto inizia a formarsi circa 2 settimane dopo la fioritura della pianta e cresce per i successivi 12-13 mesi. Col passare del tempo la noce inizia a stratificarsi, formando un mesocarpo fibroso (fibra di cocco) che può essere utilizzato per creare cordame resistente e garantisce la galleggiabilità del frutto.

Cocco in cucina

Nell’immaginario collettivo, un naufrago sarebbe in grado di sopravvivere su un’ isola deserta nutrendosi prevalentemente di cocco. Anche se un’alimentazione composta per la maggior parte da noci di cocco può avere spiacevoli effetti lassativi nel medio-lungo periodo, la noce ha notevoli proprietà nutrizionali.

Cento grammi di polpa contengono circa 350 calorie, delle quali il 33% è costituito da grassi, con 15 grammi di carboidrati e circa 3 di proteine. Il resto del peso è dato dall’acqua tra le fibre della polpa, fibre ricche di micronutrienti come manganese, rame, ferro, fosforo, selenio e zinco.

L’acqua di cocco contiene invece solo 19 calorie ogni 100 grammi, con uno scarso contenuto di micronutrienti. I frutti maturi contengono meno acqua rispetto alle noci giovani; l’acqua di cocco può essere bevuta fresca (è sterile fino a quando la noce non viene aperta), o fatta fermentare per ottenere aceto di cocco.

Il consumo smodato di acqua o polpa di cocco può portare all’eccesso di potassio nel sangue, che può indurre problemi renali, aritmia e perdita di conoscenza, nei casi più gravi anche la morte. Circa un litro di acqua di cocco può fornire oltre il 50% del fabbisogno giornaliero di potassio, percentuale che varia in base alle dimensioni della noce.

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Ma l’impiego in cucina della palma da cocco non si limita alla sola noce: il cuore di palma è considerato un boccone prelibato, da mangiare fresco o da inserire come ingrediente in insalate ricche di sapore e di nutrienti. Per estrarre il cuore di palma è necessario rimuovere gli strati esterni che ricoprono il tronco di una giovane palma, fino ad incontrare un cilindro fibroso bianco al centro.

La linfa estratta dai fiori della palma da cocco si chiama neera (“nettare di palma”) in India, Sri Lanka, Africa, Indonesia e Malesia. L’estrazione della linfa avviene generalmente prima dell’alba, e si ottiene un liquido chiaro e dolce, propenso a fermentare naturalmente entro poche ore dall’esposizione all’aria.

Se il neera viene lasciato fermentare diventa toddy, una bevanda con il 4% di gradazione alcolica chiamata anche “vino di palma”. Ancora oggi il vino di palma viene prodotto in moltissime abitazioni rurali, dato che la sua vendita è più economicamente vantaggiosa della vendita di legname.

La copra, infine, è la polpa essiccata della noce di cocco. L’essiccazione aumenta il contenuto di grasso dal 33% al 65%, proprietà utile per la creazione di burro e olio di cocco, margarine, detergenti e cosmetici. Occorrono circa 6.000 noci di cocco mature per produrre una tonnellata di copra.

I materiali del cocco

La noce di cocco fornisce fibre forti, sottili e resistenti, chiamate coir. Le fibre coir si possono trovare tra la buccia e il guscio della noce: quelle bianche, più giovani, sono ottime per la fabbricazione di corde; quelle scure, invece, sono resistenti all’abrasione ma meno flessibili di quelle bianche.

Il coir è uno dei materiali naturali più resistenti all’acqua, specialmente quella salata, proprietà che rende queste fibre ideali per la fabbricazione di cordame, contenitori e rivestimenti destinati all’uso in mare; il coir trova impiego anche nell’orticoltura e nella fabbricazione di materassini e sacchi.

Il guscio della noce di cocco è un recipiente naturale estremamente resistente e utile: può essere forato e mantenuto integro per ottenere una sorta di borraccia, o essere spaccato in due metà per ricavare due recipienti più piccoli ma ugualmente utili.

cocco e coir

Il legno della noce di cocco può essere trasformato in carbone attivo: si tratta di uno dei materiali naturali più efficaci nella rimozione delle impurità presenti nell’acqua. Nella medicina tradizionale cambogiana, l’olio emesso dal guscio di noce quando esposto al calore delle braci di un fuoco da campo viene utilizzato per lenire il mal di denti.

Le foglie dell’albero di cocco hanno molteplici usi: in India, Indonesia e nelle Filippine vengono trasformate in scope, in cesti a prova d’acqua o in tetti per le case; possono essere intessute per produrre materassi o piccole sacche utilizzate per cucinare piatti tradizionali come il ketupat.

Il legname dell’albero del cocco è dritto, forte e resistente all’attacco del clima salmastro. Viene spesso impiegato per la costruzione di piccoli ponti o casette. Nelle Hawaii i tronchi svuotati venivano trasformati in contenitori, tamburi o piccole canoe dall’ottima galleggiabilità.

Le radici della palma da cocco vengono sfruttate da secoli per produrre coloranti, collutori e medicamenti tradizionali per la diarrea. I segmenti più sottili delle radici possono essere trasformati in spazzolini da denti.

Tradizioni e curiosità legate alla palma da cocco

La noce di cocco è un elemento essenziale in molti rituali hindu, dalle cerimonie alle offerte agli dei. Indipendentemente dal culto, in India i pescatori spesso gettano noci di cocco in mare, nei fiumi o nei laghi all’inizio della stagione di pesca, per ingraziarsi gli dei e favorire un pescato abbondante.

La divinità hindu Lakshmi, che presiede la buona salute, viene spesso raffigurata con una noce di cocco in mano; nel tempio del dio della guerra Murugan, ogni giorno vendono rotte migliaia di noci di cocco durante le preghiere rituali dei devoti.

Secondo il mito delle origini delle Isole Maluku, il genere umano avrebbe avuto origine da una ragazza emersa da una noce di cocco. Nel folklore delle isole Samoa, l’origine della palma da cocco è legata alla bellissime fanciulla Sina, che un giorno seppellì un’anguilla nel terreno per vederla trasformarsi nel primo albero del cocco.

La tradizione di senilicidio chiamata Thalaikoothal, illegale in India da diverso tempo ma ancora praticata in alcuni distretti, prevede la somministrazione di litri e litri di acqua di cocco nel corso di uno o due giorni, portando al fallimento dell’attività renale o cardiaca.

Coconut – Wikipedia
Deep history of coconuts decoded
Coconut – History, uses, and folklore
Coconut – New World Encyclopedia

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Irminsul, il Grande Pilastro del paganesimo nordeuropeo https://www.vitantica.net/2020/02/12/irminsul-grande-pilastro-paganesimo-nordeuropeo/ https://www.vitantica.net/2020/02/12/irminsul-grande-pilastro-paganesimo-nordeuropeo/#respond Wed, 12 Feb 2020 11:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4780 Secondo il paganesimo germanico o sassone, alcuni alberi erano creature sacre associate alle divinità che popolavano il pantheon centro e nordeuropeo. Ad essere venerate non erano soltanto singole entità vegetali come grosse querce, betulle o tassi, ma anche intere foreste: i boschi sacri erano diffusissimi e godevano di enorme rispetto nella spiritualità di Celti e popoli norreni.

L’ Irminsul, traducibile con “grande pilastro”, aveva un ruolo centrale nella tradizione pagana nordeuropea: nella regione tedesca di Hess, ad esempio, si venerava la Quercia di Donar (o Quercia di Thor), un albero sacro alle comunità pagane locali fatto abbattere per ordine di San Bonifacio nell’ VIII secolo, come racconta la Vita Bonifatii auctore Willibaldi (“Vita di San Bonifacio”).

Il Grande Pilastro

La parola sassone Irminsul deriva dall’unione di due termini: “irmin” (“grande”, in antico norreno “jörmunr“), uno dei nomi di Odino o di Yggdrasil, l’albero cosmico che connette i Nove Mondi della tradizione nordeuropea; e la parola “sûl“, traducibile con “pilastro” o “colonna” (in antico norreno “sula“).

Alcuni specifici Irminsul vengono citati da numerose fonti storiche: gli Annali del Regno dei Franchi (Annales Regni Francorum), opera che dettaglia il regno dei sovrani Franchi tra il 741 e l’ 828 d.C., afferma che Carlomagno avesse ripetutamente ordinato la distruzione di un importante Irminsul nei pressi di Heresburg, Germania, nel tentativo di debellare il paganesimo dalla regione.

Nel De miraculis sancti Alexandri, del monaco benedettino Rudolf di Fulda (865), viene descritto un Irminsul: si trattava di un enorme colonna di legno eretta nel mezzo di una radura, adorata dai pagani perché rappresentava il pilastro che sostiene l’intero universo.

Anche dopo la diffusione del Cristianesimo, nelle regioni nordeuropee il significato dell’ Irminsul non andò perduto. La cronaca del XII secolo Kaiserchronik menziona il grande pilastro in tre occasioni distinte, tra le quali un passo in cui si accenna l’origine dei nomi dei giorni della settimana.

Infine, la figura di Irmin, nipote del re Tuisto e fondatore della stirpe degli Irminoni, era probabilmente considerata una sorta di semi-divinità dei Sassoni anche per il suo nome che richiamava il pilastro sacro; ma “irmin” era anche un epiteto utilizzato per riferirsi a qualche divinità non meglio precisata ma rilevante nel pantheon germanico, e a Wodan (Odino).

Irminsul e religione

L’ Axis Mundi, il pilastro che sorregge il mondo intero, è un concetto comune non solo nelle culture germaniche, ma in tutta Europa. Rappresenta la connessione tra il cielo e la terra, il punto di giunzione tra i 4 punti cardinali principali e “l’ombelico del mondo”.

In base alla cultura d’appartenenza, il ruolo di axis mundi venne ricoperto da diversi oggetti naturali, come montagne, alberi, scale, torri, pilastri o colonne di fumo. Attorno alle diverse località sacre connesse all’axis mundi furono eretti santuari e strutture di culto di particolare importanza.

Secondo il paganesimo sassone e germanico, l’Irminsul rappresentava il sacro pilastro al centro del mondo; è quindi facile immaginare la sua rilevanza religiosa nei riti stagionali delle culture europee. L’albero cosmico presente in alcuni antichi culti pagani, come Yggdrasil nella cosmologia norrena, rappresentava i tre principali piano dell’esistenza: il cielo (le fronde), la terra (il tronco) e l’aldilà (le radici).

Nelle regioni centro e nordeuropee era tradizione erigere colonne in località particolarmente rilevanti per il paganesimo locale, come nei centri cittadini o sui crocevia. Alcune colonne venivano erette dopo un particolare evento, come racconta Widukind di Corvey: un Irminsul fu collocato nella città di Fulda dopo la vittoria dei Sassoni sui Turingi.

Disegno del rilievo di Externsteine. L'oggetto piegato verso destra a forma di "T" potrebbe essere un Irminsul
Disegno del rilievo di Externsteine. L’oggetto piegato verso destra a forma di “T” potrebbe essere un Irminsul. Wikipedia

Il pilastro che Carlomagno ordinò di distruggere sembra essere stato un Irminsul di particolare rilevanza, adorato da tutte le popolazioni sassoni. Ma diversi altri Irminsul erano presenti sul territorio: gli Irminoni realizzarono un santuario di primaria importanza (poi distrutto e saccheggiato dal sovrano franco) attorno all’ Irminsul delle Externsteine, una formazione rocciosa vicino all’odierna città di Paderborn.

Moltissime cronache contemporanee descrivono la distruzione dell’ Irminsul ordinata da Carlomagno, suggerendo che sia stato un evento di una certa rilevanza anche per i non sassoni; per i popoli germanici, la distruzione del grande pilastro costituì una vera tragedia, tale da scatenare una rappresaglia in territorio franco.

Il mistero dell’Irminsul

Ad oggi non conosciamo precisamente l’aspetto del tipico Irminsul. Non abbiamo alcun pilastro o colonna chiaramente identificabile con questo particolare oggetto di culto, ma abbiamo una possibile raffigurazione a Externsteine.

Si tratta di un’incisione nella roccia che, secondo la tradizione cristiana, riporta la “discesa dalla croce” di Gesù, ma contiene un dettaglio non presente in altre raffigurazioni simili: la figura di Nicodemo (o, secondo alcuni storici, Giuseppe d’Arimatea) non si trova su una scala, ma poggia su una struttura simile ad un albero caduto, un potenziale Irminsul.

In molte raffigurazioni dell’Irminsul il pilastro termina con una sorta di punta o cerchio in corrispondenza dell’estremità più alta. Secondo alcuni storici, questa parte terminale sarebbe identificabile con la stella polare, l’unico punto fisso nella volta celeste dell’emisfero settentrionale e il fulcro attorno a cui ruota il mondo terreno.

Nella tradizione lappone, questi pilastri avevano un volto umano intagliato in modo grezzo in corrispondenza dell’estremità superiore, ma molti storici concordano nell’affermare che gli Irminsul germanici non fossero dotati di questa caratteristica.

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Il simbolo del pilastro è comune in molte culture europee, non solo nei culti pagani. I pilastri e gli archi di alcune chiese del Medioevo hanno aspetti in comune con le possibili  raffigurazioni dell’ Irminsul oggi conosciute, talvolta con somiglianze che fugano quasi ogni dubbio sul simbolismo di quei particolari elementi architettonici.

Il casato svedese dei Vasa ha nel suo stemma un simbolo che ricorda molto l’Irminsul. Non c’è un consenso unanime sul reale significato di questo simbolo: per alcuni è uno strumento da pesca, per altri è una sorta di macchina d’assedio, ma l’unica certezza è che ricorda da vicino il pilastro sacro germanico.

THE IRMINSUL AND THE EXTERNSTEINE: FROM YGGDRASIL TO THE IRMINSUL
Re-Examining Irmin and the Irminsul
Irminsul – The Cosmic Pillar
OF IRMINSULS AND WORLD TREES

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Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/ https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/#respond Fri, 25 Oct 2019 00:10:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4623 Il pinole, chiamato anche pinol o pinolillo, è un alimento utilizzato per secoli dai nativi nord e centroamericani come cibo di prima necessità o di sopravvivenza.

Grazie al suo alto valore nutritivo, il pinole fu spesso la prima scelta nelle scorte alimentari di chi doveva intraprendere lunghi viaggi senza la avere la possibilità di trasportare grandi quantità di provviste.

L’origine del pinole

Il termine pinole deriva dalla parola Nahuatl pinolli, che significa “farina di mais”. Ancora oggi è considerata la base per le bevande tradizionali di Nicaragua e Honduras, mentre gli indiani Tarahumara messicani utilizzavano questa polvere a base di mais prima di intraprendere le loro caratteristiche marce su lunghe distanze.

La prima testimonianza scritta del pinole risale ai primi anni del 1700: il comandante spagnolo Don Pedro Fages e la sua truppa, durante l’ esplorazione delle coste californiane, terminano le loro provviste alimentari e si videro costretti a chiedere aiuto ai nativi che risiedevano nell’area oggi chiamata Pinole.

Il cibo che fu loro donato era composto da una mistura di ghiande, semi e cereali selvatici, un mix definito dai locali come “pinole”, dall’antico termine azteco “pinolli”.

I Tarahumara preparano una sorta di "barretta energetica" con il pinole che producono.
I Tarahumara preparano una sorta di “barretta energetica” con il pinole che producono.

Il missionario John Gottlieb Ernestus Heckewelder, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, descrive nel suo “History, Manners and Customs of the Indian Nations” come il popolo dei Lenni Lenape (o Delaware) preparava e utilizzava questo alimento di prima necessità:

“Lo Psindamooan o Tassmanane, come lo chiamano loro, è il cibo più nutriente e durevole realizzato con il mais indiano. Il tipo di mais blu e dolce è quello che preferiscono. Lo arrostiscono su cenere calda fino a quando non esplode, a quel punto viene setacciato, pulito e pestato in un mortaio fino ad ottenere una specie di farina; quando vogliono preparare del pinole davvero buono, lo mescolano con zucchero”.

 

“Quando vogliono utilizzarlo, mettono in bocca un cucchiaio di questa farina, si chinano lungo un fiume o un ruscello e bevono. Se tuttavia hanno a disposizione una tazza o un altro recipiente, vi versano la farina e la mescolano nelle proporzioni di un cucchiaio per ogni pinta d’acqua”.

 

“Con questo cibo il viaggiatore e il guerriero partono per lunghi viaggi e spedizioni […] Le persone non abituate a questa dieta devono essere prudenti a non assumere troppo pinole in una volta sola, e a non essere tentati troppo dal suo sapore; è pericoloso ingerire più di un cucchiaio o due in un solo pasto; [il pinole] si gonfia nello stomaco e nell’intestino, come quando viene cotto sulla fiamma.”

Composizione e preparazione del pinole

Il pinole veniva originariamente prodotto arrostendo semi di mais su ceneri calde, procedendo successivamente a ripulirle prima di macinarle fino ad ottenere una farina grossolana.

Con l’aggiunta di acqua, la farina di mais così preparata diventava una sorta di zuppa d’avena, non particolarmente saporita ma capace di donare una piccola quantità di energia sufficiente per svolgere le attività quotidiane, o di consentire la sopravvivenza durante le stagioni più difficili.

Per renderlo più gradevole al palato, alla farina di mais arrostito venivano talvolta aggiunti cacao, dolcificanti naturali come zucchero di canna o miele, cannella, oppure farine prodotte da altri semi, come ghiande o altri cereali selvatici.

Preparare il pinole secondo metodi tradizionali richiedeva lavoro, specialmente se era prevista l’aggiunta di altri ingredienti oltre alla sola farina di mais: occorreva arrostire e tritare in un mortaio i semi di granturco, fare lo stesso con le fave di cacao, e procurarsi miele selvatico (attività che può risultare pericolosa), zucchero di canna o nettare di agave.

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Un alimento ricco di nutrienti

In base alla tipologia e alla qualità dei suoi ingredienti, il pinole può contenere un’elevata dose di vitamine, proteine, fibre e antiossidanti. L’aggiunta di zucchero e spezie, oltre a rendere più gradevole il sapore, gli può donare proprietà tonificanti ed energizzanti.

Dato il suo alto contenuto di fibre e la lenta digestione del mais, il pinole è in grado di saziare a lungo. Il pinole contiene mediamente 2-4 grammi di carboidrati per cucchiaio, 2 grammi di proteine e circa 20 milligrammi di sodio.

Circa 5 grammi di pinole contengono solo 35 calorie e forniscono un discreto apporto di vitamina A, C, B1, B2, B3, E, calcio, ferro, riboflavina e tiamina.

Fonti per “Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani”

Pinole
Pinole: The Ultimate Bugout Food

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Rushlight, le luci di giunco https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/ https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/#respond Mon, 07 Oct 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4563 I nostri antenati disponevano di ben poche fonti d’illuminazione rispetto alle civiltà moderne. Le lampade ad olio furono oggetti d’uso comune per interi millenni, ma richiedevano un rifornimento costante di combustibile; le torce imbevute di grasso animale, vegetale o di olio minerale non erano il massimo della praticità; le candele di cera costituirono per molto tempo un’alternativa funzionale ma molto costosa rispetto alle lampade ad olio, mentre quelle di sego, più economiche, emanavano un odore ben poco gradevole per via del materiale che consumavano come combustibile.

Il focolare fu per lungo tempo la principale fonte di luce nell’ ambiente domestico. In realtà, esistevano anche altre alternative, meno note in tempi moderni ma molto utilizzate nei secoli passati, perché rappresentavano fonti di luce a buon mercato e facilmente realizzabili.

Una di queste alternative era la “luce di giunco” (o rushlight in inglese), una piccola torcia realizzata con materia vegetale e imbevuta di grasso o olio.

La luce di giunco

La prima citazione di una luce di giunco risale al XVII secolo: l’antiquario inglese John Aubrey fu probabilmente il primo a descrivere questo metodo d’illuminazione, mentre Gilbert White fornì un resoconto accurato del procedimento costruttivo.

Le luci di giunco furono in uso sulle isole britanniche fino alla fine del XIX secolo, tornando ad essere utilizzate temporaneamente durante la Seconda Guerra Mondiale come luci d’emergenza.
Sappiamo tuttavia che il midollo di giunco fu utilizzato fin dall’ antica Roma come stoppino per candele e lampade ad olio; è del tutto possibile, quindi, che questo metodo di illuminazione sia molto più antico di quanto lascino supporre le prime testimonianze scritte relative al suo utilizzo.

Il giunco è una pianta acquatica cresce nelle zone paludose di Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America. Si tratta di una pianta strutturalmente molto semplice, ma dotata di un nucleo di materia vegetale spugnosa e facilmente infiammabile.

Juncus effusus
Juncus effusus

Per realizzare una luce di giunco si raccoglieva il gambo maturo della pianta (principalmente il giunco comune, Juncus effusus, oppure Juncus maritimus e Juncus acutus) durante l’estate o l’autunno, attività generalmente svolta da donne e bambini almeno fino alla metà del 1800.

Per produrre una luce di giunco era necessario rimuovere l’epidermide verde del gambo per esporre il midollo spugnoso, avendo cura di lasciare una singola striscia di “pelle” esterna come supporto strutturale.

Dopo aver lasciato essiccare il gambo così preparato, il giunco veniva immerso una o due volte in una scodella di grasso fuso; per molto tempo fu pratica comune utilizzare grasso di maiale o di montone, perché diventano più solidi man mano che si rapprendono e hanno una consistenza che ne facilita la lavorazione.

Durata delle luci di giunco

Le fonti storiche sono discordanti sulla reale durata e qualità della fiamma prodotta da una luce di giunco. Nel “The Book of English trades, and library of the useful arts” (1827) si sostiene che una rushlight fosse mediamente lunga circa 30 centimetri e potesse bruciare per 10-15 minuti.

Secondo Gilbert White, una luce di giunco era lunga circa 72 centimetri e bruciava per quasi un’ ora ininterrottamente, producendo una luce chiara e relativamente potente.

La qualità della luce e la durata della combustione delle rushlight dipendevano ovviamente dall’abilità dell’artigiano che le produceva e dalla qualità dei materiali impiegati.

Era possibile prolungare la combustione di una luce di giunco utilizzando una fascina di rushlight, oppure producendo quelle che venivano definite “rushcandles“, candele di giunco in cui il midollo spugnoso del fusto veniva immerso più e più volte in cera o sego per ricoprirlo da più strati di materiale combustibile.

In alcune località britanniche si usava aggiungere una piccola quantità di cera prelevata da alveari selvatici o domestici, allo scopo di prolungare la durata della combustione e renderla più gradevole all’olfatto.

Nel video qui sotto, la riproduzione imperfetta di una luce di giunco sembra apparentemente produrre una fiamma pari a quella della candela utilizzata per accenderla. E’ possibile che le rushlight di buona qualità potessero illuminare quanto una candela di sego, anche se generalmente duravano meno di una candela di scarsa qualità.

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Vantaggi delle luci di giunco

Il grosso vantaggio delle luci di giunco non era la qualità della luce prodotta o la sua durata, ma il costo pressoché nullo per realizzarle. Chiunque poteva fabbricare piccole sorgenti di luce semplicemente raccogliendo giunchi e riutilizzando grasso animale o vegetale a buon mercato o di scarsa qualità.

Gilbert White sostiene che luci di giunco in grado di garantire luce per circa cinque ore fossero disponibili alla vendita nei mercati inglesi al costo di solo un quarto di penny (un farthing). Anche se una singola rushlight produceva una luce molto flebile, 3 o 4 luci di giunco accese insieme potevano fornire un’illuminazione sufficiente a condurre agevolmente le tipiche attività notturne di una casa contadina.

Fonti per “Rushlight, le luci di giunco”

Rush dips, rushlight and splint holders, nips
Rushlight: How the Country Poor Lit Their Homes (1904)
Rushlight

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The American Frontier: cordame di corteccia d’albero https://www.vitantica.net/2019/10/02/cordame-di-corteccia/ https://www.vitantica.net/2019/10/02/cordame-di-corteccia/#respond Wed, 02 Oct 2019 00:03:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4571 Cordame di buona qualità può semplificare notevolmente un’esistenza in piena immersione nella natura. Spesso, tuttavia, non è necessario avere a disposizione funi professionali di qualità eccelsa, ma è sufficiente realizzare corde e legacci sfruttando i materiali a disposizione nell’ecosistema in cui ci si trova.

E’ possibile realizzare del buon cordame sfruttando la corteccia interna o esterna di alcuni alberi, come il faggio, l’olmo o il salice, e qualunque altra corteccia sia in grado di offrire discrete proprietà meccaniche. La miglior corteccia per cordame si estrae generalmente da rametti di piccolo diametro: tende ad essere sottile e non causa gravi danni all’albero.

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La rimozione della corteccia risulta generalmente più semplice durante la primavera e l’estate, quando la linfa circola in abbondanza nell’albero selezionato. Durante l’autunno o l’inverno è possibile usare il calore di un fuoco da campo per separare la corteccia da un ramo.

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Chuño, le patate liofilizzate degli Inca https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/ https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/#comments Tue, 03 Sep 2019 08:00:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4490 Per estendere la durata di alcuni alimenti facilmente deperibili i nostri antenati escogitarono numerose strategie di conservazione: disidratazione, salagione, stanze fredde e ventilate (come lo yakchal) o piccoli contenitori ad evaporazione funzionarono egregiamente per millenni prima dell’avvento dei frigoriferi moderni.

Precedentemente all’incontro con gli Europei, gli abitanti delle Ande, la cui alimentazione era tradizionalmente legata con le patate, escogitarono un sistema del tutto naturale per conservare a lungo i loro tuberi preferiti: il chuño.

Il chuño

Con il termine “chuño” si identificano le patate conservate tramite congelamento e liofilizzazione naturale. La tradizione del chuño ha origine da ben prima della formazione dell’ impero Inca (intorno al XIII secolo); in base ad alcuni ritrovamenti archeologici tra Bolivia e Perù, la produzione di chuño ebbe origine con la cultura Tiwanaku sviluppatasi lungo le sponde del lago Titicaca, circa tre millenni fa.

Il consumo di chuño viene descritto per la prima volta nel 1590 dal missionario gesuita José de Acosta. Si tratta di un cibo a lunga conservazione, facilmente trasportabile per una cultura priva di animali da soma e dotato di un discreto valore nutritivo, un mix di caratteristiche ideali per qualunque alimento di prima necessità.

Se conservato in un luogo fresco e asciutto, il chuño può rimanere commestibile anche per decadi, una proprietà che torna molto utile ad una cultura che vive a quasi 4.000 metri di altezza in un territorio notoriamente ostile, poco fertile e soggetto a siccità periodica.

Preparazione tradizionale del chuño
Preparazione tradizionale del chuño

Arrivando a pesare circa cinque volte meno di una patata, il chuño divenne ben presto un alimento dalla forte leva commerciale: in cambio di patate liofilizzate, la cultura di Tiwanaku otteneva materie prime e prodotti alimentari provenienti da ogni angolo del Sud America.

Ad ogni famiglia veniva assegnata una porzione di chuñochinapampa (in lingua Aymara, “luogo in cui si produce il chuño “) per un periodo compreso tra i 7 e i 10 giorni, in base al clima e alla temperatura notturna. Alla produzione di chuño partecipava tutta la famiglia, ma un ruolo particolarmente attivo veniva svolto da donne e bambini.

Congelamento naturale

Il procedimento necessario alla produzione di chuño è strettamente dipendente dall’escursione termica tra giorno e notte: al calar del sole le temperature crollano sotto lo zero ad altezze comprese tra i 3.500 e i 4.000 metri (il lago Titicaca si trova a 3.812 metri sopra il livello del mare), con un’umidità media prossima al 30%.

Gli antichi abitanti delle Ande impararono a sfruttare le temperature notturne e diurne a loro vantaggio per produrre cibo nutriente e a lunga conservazione. Dopo il raccolto di patate, i tuberi più piccoli vengono selezionati per la produzione di chuño, che si svolgerà tra maggio e luglio (mesi invernali nell’emisfero meridionale).

Le patate selezionate vengono disposte su una zona piatta di terreno, completamente esposte al clima andino. Durante la notte, le temperature scenderanno oltre i -5 °C, congelando l’acqua contenuta nelle patate; all’alba, le patate congelate inizieranno a scaldarsi e a rilasciare acqua, disidratandosi progressivamente sotto i 18 °C del sole invernale.

L’esposizione al gelo andino dura per circa tre notti. Una volta terminato il processo di congelamento naturale, le patate vengono portate nel chuñochinapampas e schiacciate con i piedi per eliminare tutta l’acqua residua e facilitare la rimozione della buccia dal tubero.

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Le patate verranno quindi lasciate sul posto per circa una settimana ed esposte nuovamente al ciclo di raffreddamento e scongelamento. In base al tipo di chuño da produrre, potranno subire un’ulteriore lavorazione:

Chuño bianco (o tunta)

Il chuño bianco si ottiene lavando le patate dopo l’ultima settimana di congelamento. In Bolivia, le patate vengono protette dall’esposizione solare diretta utilizzando coperte o paglia bagnate continuamente con acqua per idratare nuovamente i tuberi; in Perù, invece, le patate vengono portate nei pressi di un fiume e lasciate in acqua per circa una settimana.
Il passaggio finale per la produzione di chuño bianco è la disidratazione al sole.

Chuño nero

Per produrre il chuño nero non è necessaria alcuna lavorazione dopo la rimozione della buccia e l’ultima esposizione al clima andino. Il chuño nero ha meno variazioni regionali rispetto a quello bianco e veniva comunemente consumato dai contadini.

Un alimento alla base della dieta andina

Una patata da 100 grammi è in grado di produrre un chuño del peso approssimativo di 20 grammi, perdendo circa l’80% dell’acqua che conteneva in origine. Nei rimanenti 20 grammi di prodotto si concentrano tutti i valori nutrizionali della patata: si tratta sostanzialmente di un tubero liofilizzato.

Durante il processo di disidratazione, le sostanze idrosolubili (come alcuni minerali, le proteine e l’acido ascorbico) vengono parzialmente espulse dalle patate o decomposti da meccanismi ossidativi. Allo stesso tempo, il contenuto di calcio aumenta di circa due volte e viene ridotta notevolmente la tossicità di alcuni composti che rendono particolarmente amare le patate andine.

Il consumo di 100 grammi di chuño fornisce 375-400 Kcal, principalmente sotto forma di carboidrati. I valori nutrizionali non sono particolarmente alti, ma l’energia fornita dal chuño e la possibilità di conservarlo per lunghi periodi di tempo lo rendono un cibo ideale per riempire lo stomaco e fornire le energie necessarie a lavorare i campi durante le stagioni più difficili.

A Space-Age Food Product Cultivated by the Incas
Chuño and Tunta ; the traditional Andean sun-dried Potatoes.
Chuño
Chuño, el secreto milenario de los Andes para lograr que una papa dure 20 años

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Funghi del mais e dieta dei nativi americani https://www.vitantica.net/2019/07/26/funghi-mais-dieta-nativi-americani/ https://www.vitantica.net/2019/07/26/funghi-mais-dieta-nativi-americani/#comments Fri, 26 Jul 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4443 I primi agricoltori del Nord America iniziarono a coltivare mais intorno al 400 a.C.; il granoturco diventò velocemente la base della loro dieta, una risorsa così vitale da costituire circa l’80% del loro introito calorico quotidiano.

La questione che solleva un’alimentazione basata per 4/5 sul mais riguarda gli effetti sul’organismo umano di una dieta così prepotentemente fondata sulle granaglie: come facevano i primi agricoltori nordamericani a integrare nel loro regime alimentare tutti i nutrienti necessari a mantenerli in salute?

Il problema di una dieta a base di mais

Secondo una ricerca pubblicata su ScienceDirect.com nel 2013, il mais costituì un alimento di primaria importanza per le culture dello Utah, e più in generale per i popoli Pueblo come Hopi, Zuni, Pima e Tano. La loro dieta veniva integrata in minima parte da piante selvatiche come la yucca, o da proteine animali ottenute da selvaggina come il coniglio selvatico.

I popoli Pueblo mantenevano quindi un regime alimentare povero di nutrienti fondamentali, una dieta che per molto tempo ha lasciato sconcertati gli antropologi: come facevano i nativi nordamericani ad evitare malattie come la pellagra, causata dalla carenza di vitamine del gruppo B tipicamente presenti nel latte e nelle verdure?

La pellagra è infatti una patologia molto frequente nelle popolazioni che fanno uso intensivo di sorgo o mais. Anche se questi cereali forniscono vitamine del gruppo B, le contengono in una forma che non può essere assorbita dall’intestino dei mammiferi non ruminanti.

Ad incuriosire ulteriormente gli antropologi ci sono le prove biologiche dell’assenza di pellagra tra i popoli Pueblo. I nativi, quindi, integravano in qualche modo le vitamine mancanti nella loro dieta ottenendo l’accesso a nutrienti non meglio identificati, o facendo bollire il mais all’interno di recipienti calcarei in modo tale da “sbloccare” alcuni amminoacidi altrimenti impossibili da assimilare per l’organismo umano.

L’antropologa Jenna Battillo della Southern Methodist University è convinta che la chiave per la salute dei popoli Pueblo fosse un fungo che cresce sulle piante di mais, l’ Ustilago maydis.

Il carbone del mais
Ciclo dell' Ustilago maydis. Insights from the genome of the biotrophic fungal plant pathogen Ustilago maydis
Ciclo dell’ Ustilago maydis

La malattia chiamata “carbone del mais” è causata dal fungo Ustilago maydis. I sintomi dell’attacco di questo fungo si manifestano sotto forma di masse tumorali biancastre che possono raggiungere i 15 centimetri di diametro e che aggrediscono molto facilmente le pannocchie.

In tempi moderni l’Ustilago maydis è considerato una piaga agricola in grado di causare notevoi danni alle coltivazioni di mais: ogni anno il 3-4% dei raccolti di mais statunitensi devono essere distrutti a causa della presenza del fungo (il 2% su scala globale), ma nel XIX secolo la percentuale poteva raggiungere l’80%.

Secoli fa, tuttavia, l’Ustilago maydis era considerato una preziosa risorsa alimentare e veniva consumato da Aztechi, Maya, Hopi e altre culture nord e centro americane. Ancora oggi in Messico (sotto il nome di huitlacoche, traducibile in “escrementi di corvo”) viene impiegato come ripieno per le quesadillas o come ingrediente per zuppe.

L’analisi delle feci degli antichi abitanti degli Utah, in particolare quelle rinvenute nei pressi del sito di Turkey Penn Ruin, hanno mostrato una forte presenza di spore di Ustilago maydis, suggerendo che il fungo venisse intenzionalmente incluso nella dieta dei popoli Pueblo.

Integratore alimentare naturale

L’Ustilago maydis è in grado di alterare il contenuto nutrizionale del mais aumentandone le proteine dal 3% al 19%. E’ anche capace di incrementare drasticamente i livelli di lisina e introduce nel mais altri 16 amminoacidi essenziali ad esclusione del triptofano.

Anche se questo fungo diminuisce notevolmente il raccolto di mais riducendo la dimensione delle pannocchie, rendendole meno appetibili e indebolendo la pianta, costituisce una vera e propria risorsa alimentare in grado di equilibrare una dieta sbilanciata basata quasi interamente sulle granaglie.

Il consumo di Ustilago maydis sembra aver avuto origine nella cultura azteca. Veniva raccolto ancora immaturo, dato che una volta raggiunta la maturità risulta troppo secco e ricco di spore; il suo sapore è stato descritto come molto simile a quello dei funghi più tradizionali, con un odore più pungente.

Quesadila a base di huitlacoche
Quesadila a base di huitlacoche. Honeywhatscooking.com

In Messico, la tradizione sostiene che l’ huitlacoche sia un dono della stagione umida e viene consumato da almeno 6 secoli. “Quando gli Europei incontrarono per la prima volta l’huitlacoche” afferma Lydia Zepeda, professoressa del Gaylord Nelson Institute for Environmental Studies, “videro soltanto una malattia e spesero i successivi 500 anni nel tentativo di dimostrare che fosse dannoso e cercando un modo di eradicarlo”.

“Non riuscirono a fare nessuna delle due cose” continua Zepeda. “In realtà, è meno tossico del frumento, i fungicidi sviluppati per ucciderlo non funzionano e sono molto dannosi per l’essere umano”.

Il consumo di Ustilago maydis può avere effetti collaterali. Contenendo ustilagina, un principio attivo dagli effetti simili all’ergotamina prodotta dalla segale cornuta (Claviceps purpurea), può causare in alcuni casi vomito, dolori addominali, vertigini, nausea, crampi e diarrea; ma il dosaggio di ustilagina causato dall’assunzione di huitlacoche è generalmente troppo basso da provocare effetti indesiderati.

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The role of corn fungus in Basketmaker II diet: A paleonutrition perspective on early corn farming adaptations
Professor introduces unusual edible fungus to Madison
Carbone del mais: malattia distruttiva o prelibatezza messicana?

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De Materia Medica di Dioscoride Pedanio https://www.vitantica.net/2019/07/22/de-materia-medica-di-dioscoride-pedanio/ https://www.vitantica.net/2019/07/22/de-materia-medica-di-dioscoride-pedanio/#respond Mon, 22 Jul 2019 00:10:30 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4428 Il De Materia Medica è un compendio di medicina e botanica scritto da Dioscoride Pedanio. In esso è racchiusa una conoscenza così vasta in materia di piante medicinali da renderlo un’opera medica di assoluto successo nel bacino del Mediterraneo tra il I secolo d.C. e il 1500.

L’origine e il successo dell’opera

Il medico greco Dioscoride Pedanio scrisse tra il 50 e il 70 d.C. un’opera in cinque volumi conosciuta in tutta Europa con il titolo di “De Materia Medica”. Dioscoride nativo di Anazarbus e studiò presso la scuola farmacologica di Tarsus, probabilmente sotto il medico locale Laecanius Arius, a cui fu dedicato il De Materia Medica.

Il libro nacque dall’esperienza farmacologica e botanica acquisita da Dioscoride durante i suoi studi in Anatolia, e dalla sua pratica botanica volta a individuare e utilizzare le piante medicinali per la cura delle patologie più diffuse nel suo tempo.

Il De Materia Medica è una raccolta di informazioni utilizzate in campo medico da Greci, Romani e altre culture antiche che vivevano sulle coste del Mediterraneo. Il libro contribuì alla formazione delle rinomate scuole di medicina arabe assieme alle opere di altri autori greci, come Galeno e Ippocrate.

Il De Materia Medica restò in uso per almeno 1500 anni dopo la sua pubblicazione. Durante il Medioevo fu tradotto in latino e in arabo, mentre nel Rinascimento furono effettuate traduzioni anche in italiano, in spagnolo, in tedesco e in francese.

De Materia Medica di Dioscoride Pedanio
La raffigurazione di una Artemisia absinthium in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)

Il commentario del medico e botanico arabo Ibn al-Baitar, vissuto nel XII secolo, fu uno dei più completi lavori di analisi del De Materia Medica; grazie ad esso, gli studiosi moderni sono stati in grado di identificare molte piante, radici e bacche descritte nell’opera di Dioscoride.

Fino al XVI secolo gli erboristi di tutta Europa basarono il loro lavoro sull’opera di Dioscoride e sugli scritti di Teofrasto. GLi erbari di Leonhart Fuchs, Valerius Cordus, Lobelius, Rembert Dodoens, Carolus Clusius, John Gerard e William Turner furono a tutti gli effetti indirizzati dal De Materia Medica e dall’esperienza botanica del suo autore.

Oggi sopravvivono diversi manoscritti del De Materia Medica, alcuni corredati di commenti e note minori, altri forniti di illustrazioni aggiunte da fonti arabe e indiane. Una di queste versioni è il Juliana Anicia Codex, redatto a Costantinopoli intorno al 512-513 d.C.; altre copie del manoscritto sopravvivono nei monasteri del Monte Athos o nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

Un’opera farmacologica e botanica dall’approccio moderno

Ogni pianta o sostanza all’interno del De Materia Medica viene descritta in modo dettagliato, concentrando l’attenzione sul suo uso medicinale e allegando talvolta alcuni consigli su come identificarla. Ad esempio, descrivendo le proprietà medicinali dei papaveri Dioscoride fornisce un aiuto sull’identificazione delle specie allegando una descrizione sul differente aspetto dei loro semi.

Dopo queste utili informazioni per distinguere le diverse specie, Dioscoride passa all’aspetto farmacologico, indicando che l’estratto di alcuni papaveri causa sonnolenza, mentre gli estratti di altre specie possono trattare infiammazioni o, se mescolati con miele, creare uno sciroppo per la tosse.

La raffigurazione di un ciclamino in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)
La raffigurazione di una Artemisia absinthium in una delle copie illustrate delDe Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)

Il De Materia Medica contiene quindi sia il riconoscimento delle piante medicinali, sia il loro effetto farmacologico, oltre ad indicazioni e ricette per preparare i medicamenti con gli ingredienti indicati.

L’opera di Dioscoride contiene anche informazioni utili a distinguere un preparato medicinale autentico da uno contraffatto. Menzionando le raccomandazioni di altri medici, come Diagoras, Andrea e Mnesidemus, non manca di far notare che i loro consigli non provengono dall’esperienza diretta e che sono quindi da considerarsi non autentici.

Fino al periodo dei Tudor, gli erbari maggiormente diffusi in Gran Bretagna continuarono a classificare le piante secondo lo schema indicato da Dioscoride e da altri autori classici: non tramite l’analisi della loro struttura o delle loro somiglianze, ma al profumo e al sapore, alla loro edibilità e all’impiego medicinale.

Il contenuto del De Materia Medica

L’opera contiene la descrizione di circa 600 piante e di diverse sostanze di origine animale (35 in totale) e minerale (90), oltre che la formulazione di quasi 1.000 medicinali ottenibili con questi ingredienti.

La raffigurazione di una pianta di cannabis in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)
La raffigurazione di una pianta di cannabis in una delle copie illustrate del De Materia Medica di Dioscoride Pedanio (Juliana Anicia Codex)

Il libro è diviso in cinque volumi, ognuno dei quali è incentrato su determinate tipologie di piante dalle proprietà organolettiche e medicinali comuni.

Volume I: piante aromatiche. Descrizione delle piante in grado di produrre olio aromatico, come il nardo, la valeriana, la cannella, la resina di pino, la mela, la pesca, il limone e l’albicocca;

Volume II: animali ed erbe. Questo volume contiene informazioni su sostanze di origine animale, incluse creature marine, rettili e anfibi, oltre a dettagli sull’impiego di cereali e vegetali come l’asparago, la bietola, la cipolla e l’aglio;

Volume III: radici, semi ed erbe. Primo dei due volumi incentrati sulle radici, sui semi e sulle erbe. Vengono descritte le proprietà medicinali di liquirizia, cumino, prezzemolo e genziana;

Volume IV: radici, semi ed erbe. Secondo volume dedicato a radici e tuberi, semi ed erbe spontanee dall’uso medicinale;

Volume V: viti, vini e minerali. Proprietà medicinali e informazioni per identificare i diversi tipi di vite e d’uva, oltre a contenuti dedicati alle sostanze di origine minerale come ossido di zinco, ossido di ferro e verderame.

Il De Materia Medica è uno dei primi testi ad avere un approccio metodico e approfondito all’utilizzo delle piante medicinali. Descrive con dovizia di particolari alcuni antidolorifici, come la corteccia di salice, l’oppio e il colchico d’autunno (“falso zafferano”); tratta l’impiego di piante in grado di causare aborti, trattare infezioni del tratto urinario, lenire il mal di denti o i dolori intestinali.

Molte delle piante e delle sostanze descritte nel De Materia Medica trovano ancora impiego nella farmacopea moderna come medicine naturali, diluenti, aromi ed emollienti. Altre invece sono cadute in disuso per via delle pratiche superstiziose indicate da Dioscoride: le piante del genere Echium servivano a fabbricare amuleti contro il morso dei serpenti, mentre il Polemonium caeruleum trovava impiego contro le punture di scorpione.

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The 1500th Anniversary (512-2012) of the Juliana Anicia Codex: An Illustrated Dioscoridean Recension

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