ambiente – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il mito dell’equilibrio della natura https://www.vitantica.net/2019/07/03/mito-equilibrio-natura/ https://www.vitantica.net/2019/07/03/mito-equilibrio-natura/#respond Wed, 03 Jul 2019 14:10:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4319 Esiste un’idea molto diffusa sul funzionamento del mondo naturale: gli ecosistemi sono in grado di regolarsi in autonomia perché il loro stato naturale sarebbe quello di equilibrio tra le specie viventi.

Ciò che viene definito “equilibrio della Natura” prevede che ogni alterazione di un ecosistema sia destinata ad essere soppressa perchè la natura stessa, in quanto portatrice di equilibrio, provvederà a riportare la situazione alla normalità.

Questa idea, oltre che non supportata dai dati che gli ecologi hanno raccolto nel corso delle ultime decadi, si basa su presupposti errati, presupposti che talvolta possono rappresentare un ostacolo per la tutela delle risorse ambientali del nostro pianeta. La natura non mai in equilibrio, ma in costante mutamento.

Da dove nasce l’idea di un equilibrio naturale?

Un’idea molto popolare e condivisa sostiene che la natura andrebbe lasciata in pace perché capace di autoregolarsi, e che l’intervento umano sia del tutto inaccettabile e inopportuno in un ecosistema sano. Gli unici a non concordare con l’ipotesi della natura in equilibrio sono gli ecologi.

A partire da Erodoto, il concetto di “equilibrio della natura” ha preso sempre più piede nell’ideale collettivo del mondo naturale e nella gestione delle risorse ambientali.

Erodoto fu probabilmente il primo a descrivere il rapporto tra predatori e prede come un bilanciamento perfetto, sostenendo che i predatori non uccidano mai in eccesso seguendo un equilibrio naturale, cosa che oggi sappiamo non essere vera: donnole, tassi, lupi, orche, volpi, leoni, ragni, gatti e ovviamente esseri umani sono solo alcuni animali che spesso e volentieri uccidono prede in numero superiore alle loro reali esigenze alimentari.

A partire dall’inizio del 1900 iniziarono ad emergere dati e osservazioni in contrasto con l’idea di un equilibrio naturale. Il rapporto tra predatori e prede, ad esempio, viene descritto al meglio da un sistema caotico che si sviluppa all’interno di certi parametri, e non da una sorta di “entità naturale” che cerca di mantenere l’equilibrio a tutti i costi.

Una ricerca pubblicata su Nature nel 2012 ha analizzato la catena alimentare di un ecosistema isolato nel Mar Baltico, scoprendo che “le tecniche matematiche avanzate provano la presenza incontrovertibile del caos in questa catena alimentare…le previsioni a breve termine sono possibili, ma quelle a lungo termine non lo sono”.

La maggior parte degli ecologi del XX secolo non ha mai sottoscritto l’idea di un “equilibrio della natura”. Già nel 1927 Charles Elton, ecologo di Oxford, scriveva nel suo libro Animal Ecology che “l’equilibrio della natura non esiste, e forse non è mai esistito”.

Ma altri ecologi, come Eugene Odum, uno dei padri fondatori dell’ecologia moderna, sostenevano l’idea che ogni ecosistema sarebbe stato in grado di riprendersi, di ritornare ad uno stato di “omeostasi” anche dopo l’introduzione di gravi elementi di squilibrio.

Negli anni ’80 tuttavia Daniel Simberloff pubblicò “A Succession of Paradigms in Ecology: Essentialism to Materialism and Probabilism“, una critica feroce alla visione ecologica di Odum, critica supportata da dati che smembravano l’idea dell’omeostasi naturale. I dati raccolti da Simberloff e da molti altri ricercatori facevano emergere una visione dell’ecologia del tutto opposta a quella di Odum: il mondo naturale è instabile, caotico, in continuo mutamento, con o senza l’intervento umano.

Equilibrio e immutabilità
Evoluzione di Doggerland durante i millenni

Escludiamo per un istante la presenza umana dallo scenario di un pianeta in cui ogni ecosistema è sostanzialmente vergine. Se davvero la natura costituisse un unico, grande sistema in equilibrio, si tratterebbe di un sistema sostanzialmente immutabile una volta raggiunto il suo apice ecologico; ma ogni dato a nostra disposizione ci dice esattamente il contrario.

Il regno naturale è in costante mutamento e ogni ecosistema è perennemente esposto al rischio di squilibrio. Glaciazioni si alternano a intervalli più o meno irregolari, con una durata non predeterminata; deserti prendono il posto delle foreste e delle praterie; ecosistemi marini e terrestri vengono continuamente distrutti o generati dall’innalzamento o l’abbassamento dei mari del pianeta.

Un tempo, l’Antartide era quasi interamente ricoperta da foreste pluviali, ma nell’arco di milioni di anni si è trasformata in un deserto di ghiaccio. Nel Mare del Nord esisteva, oltre 14.000 anni fa, una massa di terra emersa chiamata Doggerland che progressivamente fu inghiottita dal mare e che non ha lasciato traccia evidente della sua esistenza se non sul fondale marino.

Passando ad esempi su scala temporale più breve, i mutamenti della fauna e della flora degli ecosistemi conosciuti, presenti e passati, avvengono con velocità e sotto la spinta di squilibri di risorse, climatici, biologici e di eventi cosmici quasi del tutto imprevedibili.

I dati relativi al Pleistocene raccolti fino ad ora mostrano una rapida estinzione di buona parte della megafauna esistente al tempo, un evento che si verificò in ogni continente ad eccezione dell’Antartide. Anche se alcune di queste estinzioni potrebbero essere attribuibili all’essere umano, altre invece furono certamente causate da un mutamento delle risorse alimentari disponibili, da malattie imprevedibili, da rami evolutivi perdenti e dal clima, elementi che aumentarono le probabilità di sopravvivenza di alcune specie limitando allo stesso tempo quelle di altre.

Dallo squilibrio naturale, quindi, nasce un mutamento, che non può essere considerato assolutamente positivo o negativo, ma deve essere contestualizzato usando ecologia e biologia locali come parametri principali.

Se davvero la natura avesse un equilibrio, o fosse in grado di ripristinare l’equilibrio dopo uno squilibrio, la megafauna non si sarebbe mai estinta ma avrebbe continuato a vivere facendo registrare numeri pressoché costanti per milioni di anni; nulla si sarebbe mai evoluto, nessun disastro naturale si sarebbe mai verificato e la Terra sarebbe diventata una sorta di “palla di vetro cosmica” in cui nulla cambia.

L’ipotesi “Gaia”

Quella che viene definita come “ipotesi di Gaia”, o “principio di Gaia”, è un concetto che prevede che ogni essere vivente interagisca con il resto del pianeta formando un complesso sistema sinergico in grado di auto-regolarsi, in modo tale da preservare la vita sul pianeta Terra.

Il concetto di Gaia (nome derivato dalla personificazione greca della Terra) fu proposto per la prima volta da James Lovelock e Lynn Margulis negli anni ’70 del 1900. Non si tratta di un’idea balzana, nel suo principio: il biota terrestre influenza anche alcuni aspetti del mondo abiotico; animali e piante sono in grado di modificare il clima e l’atmosfera, la disponibilità delle risorse alimentari e avere profonde conseguenze sugli ecosistemi grazie ai loro comportamenti.

Il mito dell'equilibrio della natura

Ciò che diventa più difficile da accettare, in mancanza di prove e, anzi, con dati che supporterebbero un’ipotesi contraria a questa, è che questo sistema raggiunga una fase di omeostasi e riesca a mantenere attivamente un equilibrio costante, riprendendosi dai traumi come un essere senziente.

La microbiologa Lynn Margulis, che si unì a Lovelock nel tentativo di “ripulire” l’ipotesi di Gaia lasciando soltanto concetti scientificamente dimostrati, fu la prima a sostenere che Gaia non era una sorta di super-organismo che tende all’equilibrio, ma una serie di caratteristiche che emergevano dall’interazione degli organismi viventi, definendola una “serie di ecosistemi che interagiscono e che compongono un singolo, enorme ecosistema sulla superficie della Terra”.

Non, quindi, un sistema in costante equilibrio, ma un super-ecosistema caratterizzato dalla continua interazione di ecosistemi locali, in costante mutamento e in perenne fase di squilibrio. Oggi sappiamo inoltre che l’ipotesi di Gaia è incompleta: non è solo la vita che interagisce e cambia il nostro pianeta, ma anche la chimica inorganica.

L’ipotesi di Gaia suscita ancora un certo scetticismo in molti ambienti scientifici: ci sono esempi a supporto dell’idea che alcune forme di vita (discorso a parte merita l’essere umano) contribuiscano allo squilibrio e al deterioramento dell’ecosistema in cui vivono e non agiscano per regolarlo, ma solo per sfruttarlo a discapito di tutte le altre forme di vita che lo circondano.

L’ “ipotesi Medea”, contrapposta a quella di Gaia, si basa proprio su questi organismi dannosi: la vita multicellulare è sostanzialmente un superorganismo suicida, regolato esclusivamente dall’attività monocellulare nel tentativo di riportare il pianeta nel suo stato naturale: un corpo celeste dominato da vita microscopica.

Che si parli di Gaia, di Medea o di teorie scientificamente dimostrabili con più accuratezza e con abbondanza di dati, il nostro pianeta si trova in costante squilibrio e mutamento. Non esiste un “equilibrio della natura”, ma una serie infinita di cambiamenti, estinzioni e rinascite.

Il concetto di “equilibrio della natura” è controproducente per la conservazione?

I moderni sforzi di conservazione degli ecosistemi si basano spesso sull’assunto che la natura, lasciata a se stessa e lontano dalle mani umane, sarebbe in grado di riportare l’armonia, cancellando ogni situazione di squilibrio causata dall’uomo o generata da episodi distruttivi naturali.

Ma come abbiamo visto non è affatto così. L’ipotesi dell’equilibrio della natura prevede che un ecosistema raggiunga l’apice del suo sviluppo ecologico per poi cambiare poco o nulla se lasciato indisturbato; ma sia un ecosistema sano che uno compromesso non sono mai statici, tendono sempre allo squilibrio e al mutamento.

Anche senza l’intervento umano, singoli organismi e intere specie vengono semplicemente spazzati via dalla natura se non sono in grado di sopravvivere nel loro contesto ecologico. La loro scomparsa può costituire un’opportunità per altre specie, oppure può lasciare un vuoto incolmabile che provocherà uno squilibrio più o meno profondo nell’ambiente.

L’approccio moderno alla conservazione sembra essere orientato alla creazione di una sorta di “bolla isolata” in cui consentire la sopravvivenza di alcune specie animali e vegetali. Se questo approccio ha permesso di salvare molte specie, non è detto che in un futuro più o meno remoto avrà risultati positivi.

Immaginate un bosco che, lentamente e lontano dall’intervento umano, si ripopola di piante dopo la devastazione causata da un fenomeno naturale. Le varie nicchie ecologiche disponibili verranno occupate dalle piante più opportuniste, adattabili o aggressive, e non è affatto detto che si tratti di specie autoctone o che porteranno benefici alla foresta.

Un esempio concreto di pianta opportunista dannosa per molti ecosistemi è la panace gigante di Mantegazza (Heracleum mantegazzianum), una pianta giunta in Europa nel XIX secolo e che si sta diffondendo rapidamente nei luoghi incolti. Questa pianta produce decine di migliaia di semi che colonizzano molto velocemente prati e rive di fiumi, sostituendo alcune specie vegetali locali o riducendo il loro spazio vitale.

La panace gigante inoltre mette a serio rischio la biodiversità faunistica: la sua linfa è estremamente tossica se tocca la pelle o gli occhi di un animale (uomo compreso) e causa ustioni dolorosissime e debilitanti. E’ per questo che in Europa e in Nord America sono iniziate da tempo campagne di segnalazione e rimozione di questa pianta per salvaguardare le specie locali.

L’esempio della panace gigante serve a far comprendere che natura ed essere umano possono convivere, anzi, in alcuni casi devono convivere e “guardarsi le spalle” a vicenda. Ma nulla è immutabile in natura, nulla rimane in equilibrio: ci possono essere situazioni di equilibrio temporanee, ma nel lungo periodo sono destinata a cambiare, avvantaggiando alcune specie e sfavorendone altre.

Una visione molto diffusa tra gli ecologi moderni è il “resilience thinking“: ogni ecosistema prevede squilibri e mutamenti, ma alcuni ecosistemi sono più resistenti al cambiamento distruttivo rispetto ad altri. Quando un ambiente naturale ha un elevato grado di biodiversità, risulta generalmente più resistente a squilibri distruttivi.

Il resilience thinking non si limita a dire che “la natura riporterà l’equilibrio”, ma prevede una conoscenza estesa e accurata delle forze ecologiche che agiscono su un ecosistema e cerca di regolarle per favorire la ripresa, il mantenimento o la scomparsa delle specie che vivono in un determinato ambiente.

L’equilibrio della natura non esiste (e non è mai esistito!)
BELIEF IN ‘BALANCE OF NATURE’ HARD TO SHAKE
The myth of a constant and stable environment
Out of kilter
Earth Day Anniversary and the Balance of Nature Myth
The Balance of Nature: Ecology’s Enduring Myth

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Umani e scimpanzé: sarebbe un mondo migliore se fossimo come loro? https://www.vitantica.net/2019/06/26/umani-scimpanze/ https://www.vitantica.net/2019/06/26/umani-scimpanze/#comments Wed, 26 Jun 2019 00:10:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4312 Una delle frasi più comuni sulla Rete quando si discute di animali ed esseri umani è una versione tra le tante di questo concetto: se gli umani fossero come un qualunque altro esponente del regno animale sarebbe un mondo più pacifico e più giusto.

Sotto alcuni aspetti, l’idea non è affatto sbagliata: apparentemente, gli animali non umani hanno un rapporto con il regno naturale molto più vicino e genuino di quello dell’essere umano moderno, una creatura che si rende perfettamente conto dei danni che sta causando agli ecosistemi che gli consentono di sopravvivere (contrariamente alla maggior parte gli altri animali, non dotati di questo grado di consapevolezza) ma che decide coscientemente di ignorare il problema.

Se si considerano tuttavia altre caratteristiche della vita quotidiana di animali terrestri e marini, la faccenda diventa più complicata e difficile da coniugare con un pianeta pacifico e giusto.

La violenza, immotivata o giustificata da ragioni di dominanza, la stratificazione sociale e lo spreco non sono affatto una prerogativa umana: alcuni esseri viventi molto simili a noi (come le grandi scimmie antropomorfe) e altri estremamente differenti condividono con l’essere umano caratteristiche insospettabili, caratteristiche che potrebbero e dovrebbero far riconsiderare completamente il concetto di pace e giustizia del regno naturale.

In questo post analizzerò superficialmente alcuni aspetti della vita quotidiana degli scimpanzé, animali da un lato estremamente simili all’essere umano, dall’altro del tutto differenti dal punto di vista morfologico e intellettivo.

Mi limiterò esclusivamente a descrivere caratteristiche osservate in scimpanzé che vivono liberi nel loro ecosistema naturale, non animali da laboratorio soggetti a stress e che spesso dimostrano comportamenti tipici della cattività.

Omicidi seriali
Passion, la scimpanzé serial killer
Passion, la scimpanzé serial killer

Nel 1975 Jane Goodall, la celebre primatologa, fu così fortunata da assistere alla nascita di uno scimpanzé che in futuro avrebbe contribuito a modificare radicalmente l’idea comune che questa specie di primati sia composta da creature amorevoli e pacifiche.

Battezzata Passion, nel giro di poco tempo questo scimpanzé iniziò a dimostrarsi una scimmia particolarmente violenta, tanto da dare l’impressione di provare gusto nell’omicidio.

Nel giro di poco tempo Passion fece la sua prima vittima: si trattava del cucciolo di una scimpanzé chiamata Gilka. Dopo aver aggredito la madre colpendola fino a farla fuggire, Passion afferrò il cucciolo, lo uccise sbattendolo ripetutamente contro il terreno e iniziò a cibarsi del suo corpicino, condividendolo con i suoi figli.

I figli di Passion iniziarono ad attaccare in massa gli altri scimpanzé, compreso il secondo figlio di Gilka, ucciso dalla figlia di Passion, Pom. Anche se Jane Goodall fu in grado di osservare di persona solo tre attacchi, in circa due anni nella popolazione locale di scimpanzé solo un cucciolo era stato capace di sopravvivere oltre il mese di vita.

Passion e i suoi figli furono messi sotto stretta sorveglianza da un team della Goodall, addetto a spaventare gli scimpanzé killer ogni volta fosse nato il sospetto di un attacco imminente.

Anche se può apparire un incidente isolato, nel 2007 sono stati osservati altri scimpanzé, del tutto estranei alla popolazione della Tanzania osservata da Goodall, che compivano aggressioni letali e atti di cannibalismo verso i cuccioli della loro comunità.

Violenza sessuale

I maschi di scimpanzé non sono capaci di accettare un “no” come risposta: se una potenziale partner non sembra voler acconsentire ad avere un rapporto sessuale, il maschio potrebbe reagire molto violentemente.

Non sono affatto rari i casi in cui un maschio adulto aggredisca una femmina, picchiandola fino a farle perdere i sensi, strappandole i peli, saltando sul suo corpo e calciandola per farle perdere ogni volontà di resistere.

A quel punto si consumerà un atto sessuale violento, un vero e proprio stupro, seguito talvolta dall’uccisione di eventuali cuccioli della vittima per costringerla di fatto a volersi accoppiare nuovamente per generare prole.

Gli scimpanzé non solo attaccano le femmine della loro comunità per ottenere sesso, ma anche le madri, colpendole e violentandole come farebbero con un qualunque altro scimpanzé.

La violenza è particolarmente comune quando vede coinvolti scimpanzé di basso rango sociale: gli individui che vengono respinti tendono a colpire più spesso le femmine per ottenere più probabilità di riprodursi rispetto ai maschi dominanti. Se una delle femmine venisse scoperta da un maschio dominante mentre viene violentata da un individuo di basso rango, sarà violentemente percossa per scoraggiare ogni episodio simile in futuro.

Ubriachezza
Scimpanzé intenti a bere succo di palma fermentato usando foglie masticate
Scimpanzé intenti a bere succo di palma fermentato usando foglie masticate

Gli scimpanzé che vivono nelle foreste vicino a Bossou, Guinea, sono stati osservati nel 2015 mentre ingerivano succo di palma fermentato, prodotto naturalmente dai naturali processi di decomposizione, con il preciso scopo di ubriacarsi.

Nell’arco di 17 anni questi scimpanzé hanno dimostrato più volte di gradire particolarmente questo intossicante naturale, con un contenuto di alcol pari a circa il 3%. Dal 1995 al 2012, i ricercatori hanno assistito a 51 bevute di 13 diversi scimpanzé.

Le “bevute” si verificano anche a distanza di mesi l’una dall’altra, e generalmente di giorno,anche se non si può escludere un comportamento notturno simile; gli scimpanzé assumono fino a 80 ml di liquido alcolico (un cucchiaio da tavola contiene circa 11 ml).

Secondo i primatologi, i dati supportano l’idea che questi primati non abbiano appreso questo comportamento dall’essere umano, ma sia una sorta di “tradizione” nata spontaneamente nella loro comunità.

La scalata verso il comando
Frodo
Frodo

Frodo, uno scimpanzé della Tanzania, fu il primo ad essere osservato durante una “scalata sociale”. Tra gli scimpanzé è quasi sempre necessario usare la violenza per ottenere un rango superiore, e Frodo iniziò fin da piccolo a dimostrarsi violento e competitivo.

Frodo era così aggressivo da arrabbiarsi ogni volta che un altro membro maschio della comunità toccava una roccia: ne afferrava una più grossa e la scagliava contro il suo potenziale contendente al posto di comando, per dimostrare che era in grado di essere più violento e dominante di chiunque altro.

Poco tempo dopo, Frodo attaccò suo fratello per salire di rango, picchiandolo con estrema violenza. L’aggressione era il penultimo gradino da scalare per dominare il branco; l’ultimo, secondo Frodo, era Jane Goodall.

Frodo attaccò la Goodall gettandola a terra, saltandole ripetutamente sul corpo e trascinandola per l’accampamento. Ogni volta che la Goodall cercava di rialzarsi, Frodo la colpiva per impedirle ogni possibilità di fuga.

Lo scimpanzé non aveva ancora finito di dare una lezione agli esseri umani. Dopo l’episodio dell’aggressione alla Goodall, Frodo rapì un bambino umano dalle braccia della madre, trascinandolo nella foresta per poi nutrirsene e abbandonare i resti su un albero.

Caccia al colobo
Scimpanzé che consuma un colobo dopo una caccia di successo
Scimpanzé che consuma un colobo dopo una caccia di successo

Gli scimpanzé sono particolarmente ghiotti di colobi rossi occidentali (Piliocolobus badius), scimmie arboricole di 5-10 kg di peso vhe formano gruppi mediamente composti da 50 individui.

La caccia al colobo rosso è ben organizzata e ragionata: gli scimpanzé scelgono sempre di attaccare quando il territorio di caccia è ricoperto a chiazze dalla foresta, per fornire meno vie di fuga ai colobi.

Gli scimpanzé si dividono i ruoli: alcuni cercheranno di dare una direzione alla preda senza tentare di catturarla, altri invece staranno sul terreno per impedire ai colobi di scendere dagli alberi. Un terzo gruppo, gli inseguitori, si dedicherà all’inseguimento delle prede tentando di afferrarne una, mentre l’ultimo manipolo di scimmie tenderà agguati in posizioni strategiche.

Gli scimpanzé cacciano sia adulti che cuccioli e non è raro che i maschi di colobo tentino una disperata difesa fino ad essere uccisi o costretti a fuggire. Dopo una caccia di successo, gli scimpanzé fanno a pezzi le prede e le distribuiscono ai membri del gruppo, spesso anche se non hanno partecipato attivamente alla battuta.

Guerra delle scimmie

Guerra degli scimpanzé di Gombe

Nel 1974 Jane Goodall e i suoi colleghi osservarono per la prima volta un fenomeno nuovo: una guerra tra scimpanzé. Negli anni ’70 del 1900 la maggior parte dei primatologi li riteneva creature fondamentalmente pacifiche e incapaci di far guerra o di compiere atti particolarmente violenti e cannibalistici.

All’inizio della “Guerra di Gombe”, durata ben 4 anni, un gruppo di scimpanzé (i Kasakela) iniziò a invadere sistematicamente il territorio di un altro gruppo locale (i Kahama), tendendo agguati a scimpanzé solitari fino a distruggere completamente la popolazione rivale.

Un gruppo di kasakela composto da circa 6 individui si infiltrava silenziosamente nei pressi dell’accampamento rivale, attendendo con pazienza che un elemento si distaccasse dal gruppo per aggredirlo e ucciderlo.

Non solo: in un’occasione, dopo aver ucciso uno scimpanzé Kahama, un guerriero Kasakela, battezzato Satan dalla Goodall, unì le mani a coppa per prelevare il sangue che sgorgava dal naso della vittima e berlo.

Al termine della guerra, tutti e sei i maschi Kahama erano morti, una femmina fu uccisa, di altre due si perse ogni traccia e le tre rimanenti, le più giovani, furono picchiate e rapite dai Kasakela.

Quando gli scimpanzé vincono uno scontro letale, che si tratti di una guerra o di episodio isolato, una delle conseguenze più osservate è il cannibalismo: i cuccioli vengono strappati dalle braccia delle loro madri per essere mangiati come “snack”, mentre gli adulti vengono colpiti a morte per poi essere fatti a pezzi e mangiati.

Inizialmente nacque il sospetto che la guerra di Gombe fosse un comportamento appreso osservando i ripetuti scontri armati umani che si verificano localmente, ma una ricerca del 2014 ha smentito questa ipotesi: gli scimpanzé si fanno la guerra per le stesse ragioni per cui la fa l’essere umano, risorse e dominanza.

Female Chimps Kill Infants
Violent Chimps
Do chimpanzee wars prove that violence is innate?
Nature of war: Chimps inherently violent; Study disproves theory that ‘chimpanzee wars’ are sparked by human influence
Chimpanzees found routinely drinking alcohol in wild

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Foreste nordamericane alterate dal fuoco dei nativi https://www.vitantica.net/2019/05/27/foreste-nordamericane-fuoco-nativi/ https://www.vitantica.net/2019/05/27/foreste-nordamericane-fuoco-nativi/#respond Mon, 27 May 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4259 Come già espresso su questo blog più e più volte, occorre slegarsi dall’idea che i popoli tradizionali di cacciatori-raccoglitori-orticoltori siano stati in qualche modo “custodi della natura selvaggia”.

In alcuni casi, soprattutto in epoca moderna, è vero che alcuni popoli tribali hanno contribuito a preservare la salute del loro ecosistema tradizionale, ma in passato questa indole ambientalista era quasi del tutto assente: le culture locali tendevano a gestire l’ambiente, non a proteggerlo da qualunque alterazione.

La gestione delle foreste orientali

E’ il caso, ad esempio, dei popoli nativi del Nord America. Da tempo ormai si sospetta che i nativi americani gestissero non solo la fauna del continente, ma anche la flora: secondo alcuni antropologi ed ecologi, le Grandi Pianure sono il risultato di una gestione su vasta scala delle foreste che popolavano il Nord America prima dell’intervento umano.

“Credo che i nativi americani fossero eccellenti gestori della vegetazione, e da loro possiamo imparare molto su come gestire al meglio le foreste americane” sostiene Marc Abrams, professore al College of Agricultural Sciences e autore di una ricerca sulle foreste orientali nordamericane pubblicata su Annals of Forest Science.

Le analisi di Abrams e dei suoi colleghi suggerirebbero che l’intervento dei nativi sugli ecosistemi forestali orientali sia stato più vasto e rilevante di qualunque alterazione climatica verificatasi negli ultimi millenni.

Abrams, che ha studiato per circa 30 anni lo stato delle foreste americane, è convinto che nel corso degli ultimi 2.000 anni i popoli tradizionali del continente abbiano gestito le zone boschive con l’uso massiccio di incendi controllati (slash & burn), fornendo un notevole vantaggio alle specie vegetali più resistenti o resilienti al fuoco come quercia, hickory e pino.

“Il dibattito su cosa abbia determinato la composizione delle foreste, se lo sfruttamento del territorio o il clima, continua, ma un nuovo studio suggerisce con forza che il fuoco antropogenico sia stato un elemento di grande rilevanza nel cambiamento delle foreste orientali”.

Secondo Abrams, l’azione del fuoco sembra essere stata predominante a Oriente, ma non nelle regioni occidentali, dove il cambiamento climatico fu molto più accentuato, con cicli continui di caldo e siccità.

Analisi di pollini e carbone

La ricostruzione della storia delle foreste orientali nordamericane è stata possibile grazie all’analisi di pollini, resti vegetali carbonizzati e un censimento degli alberi, tramite il quale è stato possibile confrontare la composizione delle foreste moderne con quella delle aree boschive del passato.

I ricercatori hanno scoperto che, nelle foreste più settentrionali, i pollini e la tipologia di alberi presenti indicano un declino significativo nella popolazione di faggio, pino e larice; allo stesso tempo, la densità di aceri, pioppi, frassini, querce e abeti sembra essere aumentata.

Foreste e incendi boschivi
Analisi dei pollini, dei resti carbonizzati e distribuzione delle specie vegetali nelle foreste orientali

Nelle foreste meridionali, invece, si è passati da una forte presenza di quercia e pino ad un declino di queste specie dominanti a favore di acero e betulla.

“Le foreste moderne sono dominate da specie che sono sempre più adattate al freddo, tolleranti all’ombra, non capaci di sopportare la siccità e pirofobe (non in grado di riprendersi dopo ripetuti incendi boschivi)”. spiega Abrams.

“Specie come la quercia sono favorite da incendi boschivi che si verificano con poca frequenza. Questo cambiamento nella composizione boschiva sta rendendo le foreste orientali più vulnerabili a incendi e siccità future“.

Incendi boschivi non necessariamente dannosi

Abrams e i suoi colleghi hanno inoltre analizzato i dati relativi alla popolazione umana della regione, scoprendo che almeno 2.000 anni fa iniziò un ciclo di incendi boschivi controllati che rimase stabile fino all’arrivo dei primi Europei, momento in cui gli incendi aumentarono drasticamente.

Per quanto sparsi in comunità tribali relativamente piccole (con le dovute eccezioni, come Cahokia e altri insediamenti di grandi dimensioni che stanno emergendo negli ultimi anni), i nativi erano in grado di dare alle fiamme vaste porzioni di territorio, controllando lo sviluppo degli ecosistemi locali con frequenza costante per favorire le attività agricole, la caccia e la raccolta.

“Le nostre analisi hanno identificato molte occasioni in cui il fuoco e i cambiamenti della vegetazione furono guidati da un cambiamento nella popolazione umana e nello sfruttamento del territorio, oltre ai cambiamenti causati dal solo cambiamento climatico” sostiene Adams.

“Dopo che Smokey Bear [personaggio di fantasia impiegato negli U.S.A. per numerose campagne di prevenzione degli incendi boschivi] fece la sua comparsa, gli incendi boschivi furono soppressi indiscriminatamente in tutti gli Stati Uniti e stiamo pagando un grande prezzo in termini di cambiamento delle foreste. Siamo passati da una quantità moderata di incendi a troppi incendi, finendo con quasi nessun incendio, e dobbiamo tornare ad una via di mezzo per gestire correttamente la vegetazione“.

Eastern forests shaped more by Native Americans’ burning than climate change

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Inquinamento da piombo degli antichi Romani https://www.vitantica.net/2019/05/13/inquinamento-piombo-antichi-romani/ https://www.vitantica.net/2019/05/13/inquinamento-piombo-antichi-romani/#comments Mon, 13 May 2019 00:10:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4213 Circa un mese fa ho pubblicato un post sulla deforestazione del verde europeo compiuta in epoche remote. Non ho tralasciato di sottolineare come questo cambiamento negli ecosistemi europei sia stato causato da tre esigenze fondamentali: la necessità di combustibile, l’estrazione di materiali per la costruzione di case e navi, e le attività minerarie.

Le attività minerarie, principalmente quelle legate all’estrazione di piombo, sembrano essere una delle componenti principali dell’inquinamento atmosferico rilevato nei carotaggi effettuati sui ghiacciai del Monte Bianco. I Romani, circa 2.000 anni prima della rivoluzione industriale, inquinarono l’aria europea con metalli pesanti per circa 500 anni.

Uso massiccio del piombo

Anche se le attività di estrazione di metalli risalgono a ben prima delle miniere d’epoca romana, i Romani furono i primi ad estrarre piombo in grandi quantità. Il piombo veniva estratto da diversi siti minerari disseminati in tutta Europa, inclusa la penisola iberica e la Gran Bretagna.

Il piombo era utilizzato per costruire condutture, stoviglie, monete e utensili; ma l’estrazione e la lavorazione di questo metallo causarono il rilascio di sostanze nocive nell’aria e nell’acqua, con conseguenze dirette sulla popolazione europea che quotidianamente si trovava a stretto contatto con il piombo.

E’ ormai noto da tempo che l’estrazione mineraria di metalli d’uso comune, come ferro e piombo, nell’antichità deve aver necessariamente avuto un impatto ambientale, ma fino ad ora nessuno era certo della portata di questo impatto.

Cronologia delle emissioni di piombo in Europa registrate in Groenlandia e appartenenti ad un periodo compreso tra il 1.100 a.C. e l' 800 d.C.
Cronologia delle emissioni di piombo in Europa registrate in Groenlandia e appartenenti ad un periodo compreso tra il 1.100 a.C. e l’ 800 d.C. Pb for Lead

Un indizio sugli effetti atmosferici dell’attività mineraria romana ce lo hanno fornito i ghiacci groenlandesi, che hanno intrappolato i metalli pesanti prodotti anticamente in Europa. Ma la distanza dai siti minerari europei non ha mai reso possibile effettuare stime precise sulle concentrazioni di piombo nell’aria di 2.000 anni fa.

Inquinamento atmosferico durato secoli

Uno studio pubblicato di recente sulla rivista Geophysical Research Letters è il primo a quantificare i metalli pesanti nell’aria europea tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C., concentrandosi particolarmente sul piombo.

Secondo i ricercatori coinvolti nello studio, i Romani provocarono un inquinamento da piombo molto più diffuso e duraturo di quanto si sospettasse in precedenza, circa 100 volte più grande di quello registrato nei ghiacci della Groenlandia.

Nei carotaggi effettuati sul ghiacciaio Col du Dome del Monte Bianco si trovano alte concentrazioni di metalli pesanti all’interno del ghiaccio risalente all’epoca romana. I ricercatori hanno rilevato due picchi: uno intorno al secondo secolo a.C., il secondo nel II secolo a.C., suggerendo che l’inquinamento causato dall’attività mineraria romana sia stato un fenomeno durato circa 500 anni.

Concentrazioni di piombo nell'emisfero settentrionale prima del 1950
Concentrazioni di piombo nell’emisfero settentrionale prima del 1950. Ancient Pollution

“Il nostro studio sull’ inquinamento dell’antichità rilevato nei ghiacci alpini ci consente di valutare più correttamente l’impatto delle emissioni romane su scala europea, e di paragonare questo inquinamento antico con quello recente, connesso all’utilizzo di gasolio contenente piombo in Europa tra il 1950 e il 1985” sostiene Michel Legrand della Université Grenoble Alpes, co-autore della ricerca.

“Questo ghiaccio alpino mostra che le emissioni di piombo durante l’antichità hanno aumentato i livello naturale di piombo di un fattore 10. Come metro di paragone, le attività umane recenti legate all’uso di gasolio contenente piombo in Europa hanno aumentato i livelli naturali di piombo di un fattore 50 o 100″.

“Di conseguenza” continua Legrand, “l’inquinamento causato dai Romani è da 5 a 10 volte meno di quello provocato recentemente dall’uso del gasolio, ma rimase costante per molto tempo, diversi secoli contro i 30 anni del gasolio”.

Il problema dei livelli naturali di piombo

Perché preoccuparsi dell’inquinamento causato dai Romani? Perché l’inquinamento da piombo moderno viene generalmente misurato basandosi sui livelli di piombo registrati prima della rivoluzione industriale, un periodo considerato virtualmente privo di inquinamento atmosferico da piombo.

Ma sempre più ricerche stanno evidenziando il fatto che i livelli di metalli pesanti nell’atmosfera dell’epoca pre-industriale non rappresentano un dato “naturale”; sarebbe quindi più accurato basarsi sui livelli di metalli pesanti presenti prima dell’inizio della metallurgia.

“L’inquinamento atmosferico causato dall’uomo è esistito per molto tempo, e i livelli di base che pensavamo fossero naturali, di fatto, non lo sono” spiega Alex More, storico della Harvard University non coinvolto nella ricerca di Legrand. “Tutti gli standard di inquinamento che si basano sull’assunto di un livello naturale pre-industriale sono sbagliati”.

Il problema della misurazione dei metalli pesanti non riguarda solo il piombo: nella ricerca di Legrand sono stati misurati anche i livelli di antimonio, registrando concentrazioni fino a 6 volte superiori rispetto a quelle presenti in natura.

Lead and Antimony in Basal Ice From Col du Dome (French Alps) Dated With Radiocarbon: A Record of Pollution During Antiquity
Roman mining activities polluted European air more heavily than previously thought

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Quando iniziò la deforestazione europea? https://www.vitantica.net/2019/04/12/deforestazione-europa/ https://www.vitantica.net/2019/04/12/deforestazione-europa/#comments Fri, 12 Apr 2019 00:10:28 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3838 L’Europa è il continente con meno foreste vergini e habitat incontaminati sul pianeta. Africa, Asia, Americhe e Oceania ospitano tutt’ora regioni raramente attraversate dall’essere umano, ricche di ecosistemi sostanzialmente vergini (anche se la loro purezza è stata ultimamente messa in dubbio).

L’Europa, per via della sua estensione più piccola e del denso susseguirsi di vicende storicamente rilevanti e di civiltà che hanno colonizzato il pianeta, è il continente meno forestato della Terra.

Quando iniziò la deforestazione europea? Fino a circa 8.000 anni fa, il pianeta ospitava pochi milioni di persone; anche se l’Europa era uno dei continenti più densamenta popolati, non ospitava civiltà evolute o una quantità tale di Sapiens da mettere in pericolo gli ecosistemi nativi.

La deforestazione europea ha inizio con l’espansione di Roma. Prima di allora nessuna potenza militare era riuscita ad urbanizzare buona parte del continente o a collegarla tramite una fitta rete stradale, attività che richiedono pesanti interventi sugli ecosistemi naturali.

La principale causa di deforestazione fu l’uso intensivo di legname per soddisfare i bisogni economici di Roma e delle regioni sotto il suo controllo, e l’abbattimento di intere foreste per far spazio a colture in grado di alimentare la popolazione europea.

Il legname per le strutture abitative

Anche se alcune culture assimilate da Roma costruivano case con pietra o mattoni, la maggior parte delle abitazioni veniva costruita utilizzando il legname prelevato dalle foreste, comprese le strutture dotate di piani multipli.

Nel periodo di massima espansione, l’impero contava oltre 50 milioni di persone, oltre 1 milione delle quali risiedeva a Roma. Ognuna di queste persone aveva bisogno di un tetto; le famiglie più ricche non solo occupavano case di grandi dimensioni, la cui costruzione richiedeva l’impiego di strutture lignee complesse come gru a contrappeso o impalcature, ma mantenevano anche standard di vita elevati che aumentavano ulteriormente il fabbisogno di legname.

Mappa della deforestazione europea nel corso dei secoli
Mappa della deforestazione europea nel corso dei secoli. Da “The prehistoric and preindustrial deforestation of Europe

Il combustibile principale dell’epoca era il legno: il 90% delle attività che richiedevano fuoco o luce era reso possibile dal calore e dall’illuminazione generati dalla combustione del legno.

Il legname era indispensabile per le attività minerarie, per la fusione dei metalli, per la ceramica e per la produzione di carbone. Il legno era la base del riscaldamento casalingo, dei bagni pubblici e degli edifici commerciali, oltre a costituire la principale fonte di luce durante la notte.

I bagni pubblici erano mantenuti ad una temperatura costante di 54°C; un bagno pubblico di piccole dimensioni poteva arrivare a consumare oltre 100 tonnellate di legname in un solo anno (il consumo per il riscaldamento di grandi ville era addirittura 10 volte superiore).

Un’intera gilda fu istituita per ottenere legname per i bagni pubblici ed fu dotata di 60 navi utilizzate esclusivamente per il trasporto di combustibile.

Legname per le miniere

La maggiore deforestazione iniziò attorno ai centri minerari, noti per consumare enormi quantità di legname sia per il supporto delle pareti rocciose delle miniere sia per fornire luce, calore e riparo ai minatori.

Dopo aver completamente raso al suolo l’area che circondava le miniere, i Romani importavano legname da regioni densamente boschive istituendo rotte del legname talvolta lunghissime e costose.

Quando diventava poco economico trasportare legna lungo distanze sempre maggiori, la miniera veniva semplicemente abbandonata per ricominciare il ciclo estrattivo e di deforestazione da un’altra parte.

Il legname era inoltre indispensabile per la fusione dei metalli estratti dalle miniere: oro, argento e rame potevano essere lavorati grazie al calore prodotto da legname di prima scelta, mentre per l’estrazione del ferro occorreva utilizzare il carbone, il cui ingrediente primario è il legno.

Deforestazione per scopi agricoli

L’agricoltura era la base economica dell’ impero: ripulire la foresta per far spazio ai campi divenne indispensabile per supportare una popolazione in continua crescita e un esercito dislocato in ogni angolo d’Europa.

Deforestazione per scopi agricoli

Una legge emanata nel 111 a.C. consentiva ad ogni cittadino romano di deforestare e occupare suolo pubblico per un’estensione di 20 acri a patto che lo destinasse ad attività agricole. Questa legge fu l’inizio di un’opera massiccia di abbattimento delle foreste europee, con conseguenze devastanti sugli ecosistemi nativi.

La continua aratura e pulitura dei campi non fece altro che impoverire la terra, riducendo progressivamente i raccolti e impedendo la corretta assimilazione dell’acqua piovana da parte del terreno. Iniziarono a formarsi paludi inutilizzabili per l’agricoltura e che fornivano un habitat ideale alle zanzare che trasmettevano la malaria.

Gli animali d’allevamento complicarono ulteriormente un quadro ecologico già compromesso: distruggendo porzioni di territorio non particolarmente adatte all’agricoltura, intaccarono gli habitat selvatici rimasti intatti causando erosione e impoverimento dei terreni circostanti.

Legname per l’esercito

Un esercito come quello romano aveva necessità di legname enormi: costruire accampamenti stabili in grado di ospitare migliaia di soldati richiedeva l’abbattimento di intere foreste; la costruzione di macchine d’assedio e di carri, la fabbricazione di armi e corazze e la posa di strade erano anch’esse attività che facevano uso intensivo di legname.

L’abbattimento delle foreste aveva anche rilevanza bellica: una delle tattiche più utilizzate dai Romani per evitare imboscate prevedeva l’abbattimento di intere foreste per fornire meno copertura agli oppositori dell’impero.

La costruzione di navi fu una delle principali cause di deforestazione. Le navi erano indispensabili per intrattenere rapporti commerciali lungo il Mediterraneo e per dominare il mare interno europeo, e le navi da guerra avevano priorità sul legname rispetto ai vascelli mercantili.

In tempo di guerra i Romani riuscivano a costruire centinaia di navi in un solo mese, disboscando foreste senza la minima preoccupazione sulla sostenibilità dell’abbattimento di alberi.

L’erosione del suolo causata dall’abbattimento di alberi nelle immediate vicinanze dei porti costrinse a spostare i punti d’attracco delle navi, imponendo un ulteriore fardello all’economia romana; molte città costiere furono parzialmente inondate e l’acqua marina si riversò nei sistemi fognari e nelle falde d’acqua potabile.

I Romani erano consapevoli del problema?

I Romani erano consapevoli del problema della deforestazione?

C’è un dibattito ancora aperto sulla reale consapevolezza dei Romani riguardo le loro attività di disboscamento. Lo storico britannico Richard Grove sostiene che i Romani si preoccupassero del degrado ambientale solo quando intaccava direttamente i loro interessi economici in Europa.

Le conseguenze della deforestazione divennero più che evidenti al tempo di Commodo, quando l’imperatore fu costretto ad “alleggerire” le monete del 30% per far fronte alla carenza d’argento: non era più economico estrarre questo metallo dalle miniere spagnole perché costava troppo importare legname per sostenere la produzione.

Esistevano comunque politiche che possiamo definire “ambientali”: il vetro veniva riciclato utilizzando i frammenti per il riscaldamento solare, mentre l’abbattimento delle foreste fu regolamentato in determinati periodi storici per evitare di esaurire le risorse di legname troppo velocemente.

Sembra improbabile che alcuni segmenti della società romana non si fossero accorti del cambiamento ambientale messo in atto dall’economia del tempo.

Già nel V secolo Platone, parlando della Grecia, notò come “la perdita di legname ha spogliato le colline e le pianure che circondano Atene e ha causato un’erosione massiccia del suolo”; gli effetti della deforestazione erano quindi facilmente osservabili anche in epoche e località lontane dal massiccio disboscamento operato dai Romani.

The Role of Deforestation in the Fall of Rome
Deforestation, Mosquitoes, and Ancient Rome: Lessons for Today
Ancient Deforestation Revisited
The Sherwood syndrome

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La foresta amazzonica è stata plasmata dall’essere umano? https://www.vitantica.net/2019/03/27/foresta-amazzonica-incontaminata/ https://www.vitantica.net/2019/03/27/foresta-amazzonica-incontaminata/#respond Wed, 27 Mar 2019 00:10:49 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3816 Quando i primi esploratori europei giunsero in Sud America, l’impressione che ebbero dell’enorme distesa amazzonica fu quella di un luogo incontaminato dalla presenza umana, un’enorme foresta ancora allo stadio primordiale che ospitava popolazioni tribali incapaci di imprimere una traccia profonda del loro passaggio in una regione così ostile e selvaggia.

Fino ai primi anni ’90 del XX secolo, l’idea di un’Amazzonia incontaminata è rimasta pressoché immutata, ma nelle ultime tre decadi l’opinione di antropologi, archeologi e botanici sta mutando. La foresta amazzonica è davvero un luogo incontaminato, o si tratta soltanto di un mito basato sulla scarsa conoscenza di questo mix di ecosistemi pluviali?

Una foresta modellata dall’uomo

Fornire una risposta esaustiva a questa domanda è molto difficile a causa dei problemi che la stessa foresta presenta ai ricercatori. Si tratta di una delle regioni del pianeta più difficili da sondare, sia a causa della componente climatica sia per l’enorme biodiversità che tende a riappropriarsi velocemente di ogni spazio umano non manutenuto con disciplina e costanza.

Secondo una ricerca pubblicata su Science nel 2017, osservando più attentamente la biodiversità della foresta amazzonica sembrano emergere indizi rilevanti di una profonda impronta umana, indizi che indurrebbero a pensare che la foresta non sia quella forza inarrestabile e indomabile ritenuta da molti.

José Iriarte, ricercatore della University of Exeter, sostiene che la foresta amazzonica abbia subito diversi interventi umani, anche su larga scala, negli ultimi 13.000 anni, specialmente con la domesticazione di alcune piante iniziata 8.000 anni fa.

“Gli studi archeologici più recenti, specialmente quelli svolti nelle ultime due decadi, mostrano che la popolazione indigena del passato era più numerosa, più complessa ed ebbe un impatto sulla più grande e diversa foresta tropicale rispetto a quanto si ritenesse in passato” sostiene Iriarte.

L’analisi delle specie vegetali amazzoniche

Le più recenti stime sostengono che la foresta amazzonica sia popolata da circa 390 miliardi di alberi. Nel 2013, un gruppo di ecologi identificò circa 16.000 specie di piante differenti in oltre un migliaio di siti lontani dai centri abitati, scoprendo qualcosa di strano: oltre la metà degli alberi era costituita 227 specie, equivalente a circa l’1% delle specie vegetali identificate.

Pacay, o guaba (Inga feuillei), è una pianta leguminosa sudamericana coltivata fin dai tempi dell'impero Inca.
Pacay, o guaba (Inga feuillei), è una pianta leguminosa sudamericana coltivata fin dai tempi dell’impero Inca.

Venti di queste piante, definite “iperdominanti”, sono specie domestiche come la noce brasiliana o la Inga feuillei, e sono diffuse in numero cinque volte superiore rispetto a quanto i ricercatori si sarebbero aspettati per specie distribuite in modo casuale.

“Nacque l’ipotesi che forse i popoli locali avessero domesticato queste specie a lungo, contribuendo alla loro abbondanza in Amazzonia” spiega Hans ter Steege, a capo del gruppo di ecologi che condusse la ricerca nel 2013.

Per verificare questa ipotesi, ter Steege ha chiesto aiuto ad alcuni archeologi per indagare più nel dettaglio il numero di piante domesticate in prossimità degli insediamenti precolombiani delle Americhe. “La distanza da questi siti archeologici ha un effetto sull’abbondanza e la ricchezza delle specie domesticate dell’Amazzonia”.

Secondo i rilevamenti, il numero di specie domesticate diminuiva in rapporto alla distanza dai siti archeologici precolombiani, contribuendo a sostenere l’ipotesi che gli antichi popoli americani avessero condotto domesticazioni di portata rilevante su alcune specie vegetali oggi molto diffuse.

Specie lontane dai siti d’origine

La ricerca ha anche evidenziato che queste specie si trovavano a grandi distanze dalle regioni in cui si suppone siano emerse per la prima volta, portando a pensare che gli esseri umani le abbiano trasportate per poterle coltivare in altre località.

Il cacao, ad esempio, fu domesticato per la prima volta nelle regioni settentrionali dell’Amazzonia, regioni in cui oggi è possibile osservare una diversità genetica più vasta rispetto al resto delle Americhe.

Oggi, tuttavia, le specie di cacao sono prevalenti nelle regioni meridionali della foresta pluviale, suggerendo che siano state trasportate lungo l’Amazzonia dal loro luogo d’origine.

“Forse, la biodiversità amazzonica che vogliamo preservare non è solo frutto di migliaia di anni di evoluzione naturale, ma anche dell’impronta umana” sostiene Iriarte. “Più facciamo ricerca, più ci sono prove che sia così”.

Dolores Piperno, archeobotanica dello Smithsonian, è invece scettica, sottolineando che tra l’era precolombiana e questa ricerca sono trascorsi oltre 500 anni e che, nel frattempo, l’Amazzonia ha avuto modo di subire influenze da innumerevoli fattori climatici e biologici.

“Per alcune di queste specie ci sono poche o nessuna prova del loro utilizzo in tempi preistorici” spiega Piperno. “Le interpretazioni di questa ricerca sono principalmente basate sull’utilizzo moderno di queste piante ed è poco chiaro, per alcune specie, come siano utilizzate su larga scala ancora oggi”.

Piperno invita alla cautela citando l’esempio dell’ “albero del pane” Artocarpus camansi, coltivato intensivamente dalla civiltà Maya: attorno agli insediamenti di questo popolo precolombiano è possibile trovare grandi quantità di questi alberi, elemento interpretato in passato come un intervento attivo da parte dei Maya nella diffusione della pianta.

Qualche tempo dopo, tuttavia, si scoprì che i semi dell’albero possono essere diffusi facilmente e in grandi quantità dai pipistrelli, e che trovano terreno favorevole per la crescita in presenza del calcare che compone buona parte delle rovine Maya.

Persistent effects of pre-Columbian plant domestication on Amazonian forest composition

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Anche gli antichi modificavano il clima ed estinguevano specie https://www.vitantica.net/2019/02/25/antichi-modificavano-clima/ https://www.vitantica.net/2019/02/25/antichi-modificavano-clima/#respond Mon, 25 Feb 2019 00:10:38 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2246 Molte persone sono portate a ritenere che alcune località della Terra, come la foresta amazzonica, siano luoghi incontaminati, mai toccati o alterati dalla mano umana.

E’ facile intuirne le ragioni: ben pochi esseri umani sarebbero in grado di sopravvivere in una foresta pluviale che cela pericoli dietro ogni albero o sotto ogni roccia, o in deserto privo di acqua, cibo o riparo dagli elementi.

La realtà è, come spesso accade, più complicata: la recente scoperta nelle foreste messicane di un’antica città dalle proporzioni colossali edificata dall’impero Purépecha ha costretto a rivalutare sia la velocità con cui la natura può cancellare o nascondere gli interventi dell’uomo sul paesaggio, sia il concetto stesso di “ambiente incontaminato”.

I vantaggi dell’alterazione dell’ecosistema

Moltissimi animali alterano il territorio a loro vantaggio: i castori, ad esempio, realizzano dighe che modificano radicalmente il territorio, così radicalmente da creare ecosistemi che permettono la sopravvivenza di numerose specie grazie al mutamento del clima locale.

Su scala più piccola, formiche e termiti sono note per edificare strutture imponenti realizzate con ogni materiale a loro disponibile e senza troppi riguardi per la conservazione ambientale o la salvaguardia delle specie animali o vegetali. Le strutture da loro costruite sono note per avere un microclima interno favorevole alla sopravvivenza di questi insetti e alla conservazione del cibo di cui si nutrono.

L’essere umano fa lo stesso di castori e termiti: modifica il proprio ambiente per trarre vantaggio dalle risorse che offre l’ecosistema.

“E’ semplicemente ciò che ci rende umani” spiega Hans K. Stenøien, professore di biologia alla Norwegian University of Science and Technology’s University Museum e autore, insieme al collega Reidar Andersen, di un libro in cui spiega il rapporto complesso, e spesso conflittuale, che l’uomo ha con la natura fin da tempi preistorici.

La conclusione dei due autori è che l’essere umano tende a prendere e modificare qualunque risorsa naturale possa tornare a suo vantaggio proprio perché il vero punto di forza della nostra specie è la capacità di alterare il territorio.

L’uomo ha esercitato questa sua capacità fin dalla notte dei tempi: “Dobbiamo accettare il fatto che questo comportamento ha una spiegazione biologica. C’è una relazione tra il nostro successo come specie e la crisi ambientale che osserviamo oggi”.

Alcune civiltà furono letteralmente distrutte dal cambiamento climatico locale che innescarono con le loro attività agricole o urbane
Alcune civiltà antiche furono letteralmente distrutte dal cambiamento climatico locale alimentato dalle loro attività agricole o urbane, come la cultura di Harappa
Il mito degli indigeni che non modificano l’ecosistema

I cambiamenti climatici causati dall’intervento umano, ad esempio, non sono un fenomeno moderno. Siamo erroneamente portati a pensare che le popolazioni indigene, che tendono a condurre uno stile di vita legato alle antiche tradizioni, abbiano un impatto minore sull’ecosistema rispetto a quelle industrializzate, ma non è affatto vero e lo dimostra con molta efficacia la storia della colonizzazione umana dell’Australia (anche se gli esempi passati sono molti e spesso ben documentati).

Circa 5-10.000 anni dopo l’arrivo dell’essere umano in Australia, tutta la megafauna del continente (animali dal peso superiore ai 45 kg) iniziò ad estinguersi, lasciando il posto ad altre specie.

23 dei 24 marsupiali che popolavano le praterie e le foreste australiane sparirono completamente e con essi una grande quantità di uccelli e rettili. Prati verdi e alberi secolari lasciarono il posto all’ outback; le specie vegetali più resistenti e adattabili trovarono terreno per sopravvivere soltanto nelle zone più umide.

Oggi sappiamo che l’essere umano svolse un ruolo importante in questa estinzione di massa. La scomparsa così massiccia della fauna australiana ebbe conseguenze gravi, se non addirittura catastrofiche, sugli ecosistemi del continente.

I funghi Sporomiella, ad esempio, crescono spontaneamente nelle feci dei grandi animali; quando i primi esseri umani raggiunsero l’Australia bene o male 50.000 anni fa, questi funghi erano ovunque; ma circa 40.000 anni fa erano totalmente spariti dal continente assieme a piante che sopravvivevano in climi umidi, lasciando il posto a specie adattate ai climi secchi e caldi.

“Se fosse stato il cambiamento climatico a causare le estinzioni, ci si aspetterebbe prima un cambiamento della vegetazione, e poi quello della fauna. Ma accadde l’esatto contrario. L’estinzione ebbe luogo prima che il clima iniziasse a cambiare” spiegano gli autori.

Ci sono sicuramente altri elementi che hanno contribuito all’estinzione della megafauna australiana, ma ormai è quasi certo che fu l’uomo l’attore principale di questo evento.

L’estinzione dell’Olocene iniziò con le culture tribali

La megafauna era un tempo presente in ogni continente del pianeta, comprese isole come il Madagascar e la Nuova Zelanda in cui oggi non esiste alcun animale di grossa taglia se non per qualche fortunatissima specie sopravvissuta a ciò che viene definita “estinzione dell’Olocene”.

L’estinzione dell’Olocene è un fenomeno che inizia nel tardo pleistocene ed è strettamente legata all’attività umana. Secondo una ricerca del 2018 pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, a partire da circa 11.000 anni fa è scomparso l’83% dei mammiferi selvatici, l’80% di quelli marini, il 50% delle piante e il 15% dei pesci; e l’essere umano è responsabile di moltissime di queste estinzioni.

Se consideriamo che oggi la biomassa dei mammiferi sulla Terra è costituita al 60% da animali d’allevamento, e che il 70% della biomassa costituita da uccelli è rappresentata da specie domestiche, possiamo renderci conto dell’enorme impatto umano sull’ecosistema, un impatto che è iniziato ben prima dell’industrializzazione con le società indigene tradizionali che oggi consideriamo “rispettose della natura”.

Fenomeni come deforestazione e caccia su larga scala non sono affatto moderni, e per dimostrarlo citerò tre esempi.

Deforestazione

In base alla questa ricerca The prehistoric and preindustrial deforestation of Europe, intorno al 300 a.C. le aree potenzialmente utili all’agricoltura in Grecia, l’Algeria e la Tunisia erano sfruttate al 90%, con un misero 10% lasciato “selvatico”. In Europa centrale e occidentale esisteva un tasso di deforestazione tra il 10% e il 60%.

In Italia, il 50% del terreno sfruttabile per scopi agricoli era ricoperto da foreste; il rimanente 50% era già stato ripulito dagli alberi e destinato all’agricoltura. Cipro, già nel 1200 a.C., aveva perso la maggior parte dei suoi alberi a causa della lavorazione del rame.

Un episodio più recente legato alla deforestazione è il taglio degli alberi di tasso durante il XVI secolo. Nel 1562 il governo bavarese implorò il Sacro Romano Impero di interrompere il taglio del tasso, principalmente usato per la realizazione di archi, perchè l’estrazione selettiva stava causando una deforestazione senza precedenti; pare che all’inizio del XVII secolo l’area bavarese non avesse più alberi di tasso maturi adatti al taglio.

Caccia

L’arrivo dell’essere umano nei Caraibi circa 6.000 anni fa rappresentò una vera e propria piaga per la fauna locale: la caccia fece sparire diverse specie di bradipi terrestri e arboricoli. Situazione analoga fu quella delle isole del Pacifico: non appena i primi Sapiens misero piede, a partire da 30.000 anni fa, sulle 70 isole finora sondate da archeologi e paleontologi, innescarono l’estinzione di oltre 2.000 specie di uccelli.

In Madagascar, entro i primi 3-4 secoli dall’arrivo dell’uomo circa 2.500 anni fa, la megafauna era quasi completamente estinta. Animali del peso di 150 kg o superiore sparirono nel corso di qualche decade, portando con loro anche 17 specie di lemuri giganti e decine di specie di uccelli.

L’impatto dell’agricoltura

Anche l’inizio dell’agricoltura ebbe un profondo impatto sul clima. Circa 10.000 anni fa le prime società agricole modificarono il territorio a tal punto da dare inizio ad una serie di cambiamenti ambientali, lenti ma costanti, che contribuirono in larga misura alla modifica degli ecosistemi di Europa, Asia e America.

Ancora oggi, le culture primitive o semi-primitive che praticano lo slash & burn alterano la qualità del suolo e il clima locale per ricavare spazi adatti all’agricoltura e alla caccia in zone poco favorevoli, come aree densamente popolate da alberi.

Il cambiamento climatico e ambientale causato dalle società industrializzate, quindi, non è nulla di nuovo: l’uomo ha sempre tentato di modificare l’ambiente e il clima a suo vantaggio.

La vera differenza con il passato è la portata di questi cambiamenti: organizzazione sociale, istruzione e tecnologia hanno migliorato esponenzialmente il consumo e l’alterazione del territorio, velocizzando processi già in atto da secoli o da millenni.

Humans have always caused plant and animal extinctions
Ancient city’s LiDAR scans reveal as many buildings as Manhattan

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I nativi americani erano davvero “ambientalisti”? https://www.vitantica.net/2018/03/05/i-nativi-americani-erano-davvero-ambientalisti/ https://www.vitantica.net/2018/03/05/i-nativi-americani-erano-davvero-ambientalisti/#respond Mon, 05 Mar 2018 02:00:44 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1427 Foreste incontaminate, acque limpide e praterie sterminate su cui pascolava un’infinità di animali: questo era il paesaggio che i primi esploratori occidentali si trovarono di fronte non appena misero piede nelle Americhe. Tutto lasciava supporre che il continente avesse subito ben pochi interventi umani nel corso degli ultimi millenni, suggerendo che le popolazioni locali vivessero a contatto diretto con l’ambiente e nel pieno rispetto della natura.

La realtà, come spesso accade, è ben diversa: i nativi americani non furono i primi “ambientalisti” della storia e la loro relazione con il mondo naturale è stata male interpretata per secoli interi.

Le “metropoli” dei nativi americani

Il problema con questa immagine idilliaca in cui l’essere umano vive in totale immersione e simbiosi con gli elementi è che, per sua stessa natura, l’uomo è portato a combattere o tentare di controllare l’ecosistema a suo vantaggio, e i nativi americani non furono l’eccezione a questa regola.

Al tempo dell’arrivo di Colombo nei Caraibi, nel Nord e Centro America si contavano tra i 50 e i 100 milioni di individui nati e cresciuti nel continente; individui che, come nel resto del mondo, tendevano a formare agglomerati urbani di medie o grandi dimensioni per sfruttare il vantaggio offerto dai numeri.

Il fatto che cacciassero con armi di legno, osso e pietra e che dimostrassero un certo rispetto per gli animali che uccidevano non deve trarre in inganno, inducendo a pensare ad un “ambientalismo ante-litteram“: la socialità è uno degli elementi fondamentali per la strategia di sopravvivenza dell’ Homo sapiens, la sua vera arma di distruzione di massa.

Ricostruzione di Cahokia
Ricostruzione di Cahokia

Tra il 600 a.C. e il 1400 vicino alla moderna città di St. Louis, Missouri, si ergeva Cahokia, una città di oltre 16 km quadrati che includeva circa 120 tumuli di terra utilizzati per attività sociali o scopi rituali (leggi questo post su Cahokia per saperne di più).

Dall’ anno 1050 la popolazione passò da circa 1.000 unità a circa 40.000 individui nell’arco di circa un secolo; nel XIII secolo il numero degli abitanti era probabilmente superiore a quello di Londra.

Città come Cahokia non erano affatto rare: Etzanoa, scoperta nel 2017 in Kansas, era una città composta da oltre 120 case e popolata da almeno 12.000 individui.

Caccia e agricoltura non sostenibili

Grandi insediamenti urbani comportano grandi responsabilità, come procurare cibo e materiale di prima necessità per tutta la popolazione. Come in molte altre culture semi-primitive del resto del mondo, i nativi americani conoscevano perfettamente la tecnica del “taglia e brucia” (slash & burn), che prevede l’incendio controllato di una porzione di foresta per lasciar spazio a colture più produttive e creare un terreno di caccia più favorevole alle tecniche predatorie umane.

Come spesso accade, controllare un incendio con metodologie primitive è un vero lavoraccio e non era raro che si perdesse il controllo delle fiamme, disboscando enormi aree di foresta che offrivano riparo a molte specie animali, come il cervo, il castoro e il bisonte, che erano già all’inizio del loro percorso di estinzione per via della caccia intensiva condotta dai nativi.

Dopo aver coltivato mais e altre colture fino a impoverire il terreno, era molto più comodo spostarsi in nell’area vicina, dar fuoco ad ogni arbusto e albero nella zona e seminare il nuovo appezzamento di terreno.

In qualunque area fossero presenti nativi dediti all’agricoltura sono state rilevate numerose tracce di vasti disboscamenti causati da fuochi controllati: grandi gruppi di nativi americani e deforestazione andavano a braccetto.

Head-Smashed-In Buffalo Jump, formazione rocciosa presso Alberta, Canada, sfruttata per millenni dai Piedi neri per la caccia al bufalo.
Head-Smashed-In Buffalo Jump, formazione rocciosa presso Alberta, Canada, sfruttata per millenni dai Piedi neri per la caccia al bufalo.
La caccia al bisonte come esempio di spreco di risorse

Quando il bisonte americano (Bison bison) percorreva indisturbato il continente settentrionale formando branchi di milioni di esemplari, i nativi americani non si preoccupavano minimamente di uccidere solo l’indispensabile, come spiego in questo post sulla caccia al bisonte.

Uno dei metodi di caccia più comuni tra i Blackfoot (Piedi neri) era il “salto del bisonte” (buffalo jump): spaventando un’intera mandria e controllandone la direzione della fuga (anche tramite “imbuti naturali” composti da pietre e arbusti) era possibile orientarla verso una rupe, causando la morte di decine o centinaia di animali dei quali solo un numero ristretto veniva effettivamente consumato o lavorato per estrarre pelle, ossa o tendini.

Decine di tonnellate di carne rimanevano inutilizzate sul posto del massacro e lasciate a decomporsi a cielo aperto o agli animali opportunisti.

I piccoli gruppi tribali di nativi non rappresentavano un grande problema per l’ecosistema e le risorse che consumavano erano facilmente e velocemente sostituite dal naturale ciclo riproduttivo di animali e piante locali.

Quando tuttavia si formavano vasti insediamenti urbani come Cahokia, l’impoverimento del terreno e la caccia non sostenibile erano elementi che spesso costringevano la popolazione a spostarsi verso aree più fertili e meno colpite dall’attività predatoria umana.

Scontri per le proprietà tribali

Contrariamente alla nozione comune che i nativi americani non conoscessero la proprietà privata, questo concetto era regolarmente messo in pratica nella maggior parte delle comunità di medie dimensioni ed esistevano veri e propri diritti di sfruttamento di fiumi, laghi o foreste.

Gli appezzamenti di terra coltivata erano spesso proprietà di una famiglia e passati in eredità ai figli, insieme ai diritti di sfruttamento delle risorse presenti sul terreno.

Le tribù composte da numerosi nuclei familiari gestivano vasti territori di caccia o pesca con frazioni assegnate ad ogni clan della comunità e sconfinare in territori di caccia sotto una differente “giurisdizione” poteva causare scontri violenti o delicate trattative per risolvere il problema.

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“Sostenere che gli Indiani vivessero senza avere effetti sulla natura è come dire che vivessero senza toccare nulla, che fossero sostanzialmente un popolo senza storia” afferma lo storico Louis S. Warren.

“Gli Indiani spesso manipolavano il loro ambiente locale e anche se avevano solitamente un impatto minore sull’ambiente rispetto ai coloni europei, l’idea di preservare la terra in un qualche stato selvatico sarebbe stata poco pratica e assurda ai loro occhi. Gli Indiani modificavano, spesso profondamente, gli ecosistemi che li circondavano”.

Primitivismo e “buon selvaggio”

Il concetto di “buon selvaggio” da cui ha avuto origine l’immagine ambientalista dei nativi americani è un mito nato intorno al XVIII secolo con la cultura del primitivismo: senza i paletti imposti dalla civilizzazione, la corrente primitivista considerava l’essere umano un animale fondamentalmente buono e pacifico capace di vivere in armonia con il mondo naturale e dotato di un altruismo non riscontrabile nelle società occidentali.

Purtroppo, ogni aspetto della vita primitiva suggerisce il contrario: gli scontri con le tribù rivali erano all’ordine del giorno, uccisioni per necessità, per violazioni del territorio o per l’infrazione di tabù culturali/religiosi erano spesso causa di violenza.

Come disse Stanley Kubrick sulla figura del “buon selvaggio”:

L’uomo non è un nobile selvaggio, è piuttosto un ignobile selvaggio. È irrazionale, brutale, debole, sciocco, incapace di essere obiettivo verso qualunque cosa che coinvolga i propri interessi. Questo, riassumendo. Sono interessato alla brutale e violenta natura dell’uomo perché è una sua vera rappresentazione. E ogni tentativo di creare istituzioni sociali su una visione falsa della natura dell’uomo è probabilmente condannato al fallimento.

Cahokia
Dances With Myths

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