alimentazione – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Corso di cucina medievale: “Eat Medieval: A Taste of the Past” https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/ https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/#respond Mon, 26 Oct 2020 00:15:38 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5013 A partire dal 2 novembre 2020 la Blackfriars’ Cookery School, in collaborazione con il Durham University’s Institute of Medieval and Early Modern Studies, trasmetterà una serie di corsi culinari a tema medievale, mostrando la preparazione di alcune antiche ricette europee risalenti al XII secolo.

Durante il corso interattivo, della durata di 5 giorni, verranno mostrate 15 ricette medievali raccolte dai monaci del Durham Cathedral Priory, un priorato benedettino fondato nel 1083 come monastero cattolico. Chef professionisti spiegheranno passo passo le tecniche di cucina medievale, accompagnati dalla storia di queste tecniche e da alcune informazioni poco note sulla cucina del XII secolo.

“Sono eccitato ed estasiato da questa nuova partnership” afferma Giles Gasper, professore di Storia Medievale alla Durham University e co-presentatore del corso. “Il cibo medievale apparteneva ad una delle più grandi cucine del mondo: era sofisticato e rappresentava una stupenda miscela di ingredienti locali e spezie provenienti dalle carovane che avevano attraversato le steppe, l’Oceano Indiano e il Mediterraneo.

“Abbiamo lavorato con Giles ed il suo team della Durham University per oltre una decade” dice Andy Hook, proprietario del Blackfriars Restaurant, “esplorando il cibo medievale e riportandolo in vita all’interno di un ristorante moderno attraverso corsi di cucina, banchetti e lezioni”.

EAT MEDIEVAL: A TASTE OF THE PAST | 2-6 NOVEMBER 2020

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Zuppa tascabile degli esploratori del XVIII secolo https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/#comments Tue, 13 Oct 2020 00:10:26 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4981 L’hardtack non era l’unico cibo a disposizione dei marinai che solcavano il mare nei secoli passati: carne e pesce salati, farina, avena, olio, formaggio e alcolici erano comuni nelle stive di mercantili, navi da guerra o vascelli dediti all’esplorazione di mari sconosciuti.

Tra il XVIII e il XIX secolo le navi francesi e britanniche iniziarono ad includere nelle loro stive quella che veniva definita “zuppa portatile”, “zuppa di vitello” o “zuppa tascabile”, un alimento disidratato utile ad insaporire ed arricchire di nutrienti le razioni di cibo disponibili a bordo. La zuppa tascabile era del tutto simile, per impiego culinario, ai dadi da brodo moderni.

L’origine della zuppa portatile

L’esistenza della zuppa portatile viene documentata ben prima del XVIII secolo. Un resoconto del XIV secolo descrive come i cavalieri ungheresi utilizzassero una sorta di zuppa istantanea che veniva prodotta facendo bollire grandi quantità di carne salata per lungo tempo, fino a quando le fibre si staccavano da sole dall’osso, per poi lasciar asciugare e rapprendere questo brodo allo scopo di ottenere un composto rigido da tagliare o sbriciolare quando necessario.

Tra il 1500 e il 1600 Sir Hugh Plat, agricoltore e inventore inglese autore di svariati libri sulle materie più disparate, cita il potenziale militare della zuppa tascabile per l’esercito e la marina inglesi.

Plat suggerisce che l’uso di tavolette di zuppa portatile renderebbe molto più digeribili i pasti dei soldati in marcia, o dei marinai diretti verso lidi lontani; questo alimento disidratato era inoltre ideale per il trasporto: consumava poco spazio rispetto a quello occupato dagli ingredienti necessari per produrlo, un vantaggio per nulla trascurabile specialmente se si considerano gli spazi limitati di una stiva.

L’ideatrice della produzione di massa della zuppa portatile fu Mrs Dubois, che operava da una locanda in Fleet Street, Londra, chiamata “Golden Head“. Nel 1756, insieme all’inventore William Cookworthy e al marito Edward Bennet, ottenne un contratto con la Royal Navy per rifornire ogni equipaggio delle navi militari inglesi con razioni di zuppa tascabile.

Le alte cariche militari dell’epoca ritenevano che la zuppa portatile potesse prevenire lo scorbuto, una malattia tragicamente comune per i marinai durante i lunghi viaggi oceanici: il contratto di fornitura con Mrs Dubois consentì di inserire la zuppa tascabile nelle razioni di ogni marinaio a partire dalla fine degli anni ’50 del 1700.

La zuppa portatile non era esclusivamente un alimento destinato alla vita sul mare: Lewis e Clark, durante la loro spedizione attraverso il continente nordamericano, acquistarono a Philadelphia un carico di quasi 90 kg di zuppa, carico che si rivelò provvidenziale secondo il diario di Patrick Grass, il carpentiere della spedizione:

“Nessuno dei cacciatori ha avuto successo ad eccezione di 2 o 3 fagiani; senza un miracolo era impossibile sfamare 30 uomini affamati. Quindi il capitano Lewis distribuì parte della zuppa tascabile che aveva acquistato in caso di necessità”.

Nel 1815, tuttavia, il medico britannico Gilbert Blane analizzò lo stato di salute dei membri della Royal Navy tra il 1779 e il 1814, scoprendo che la zuppa portatile non era per nulla efficace nella lotta contro lo scorbuto, e non portava evidenti miglioramenti nella salute dei marinai che trascorrevano molto tempo in mare; la marina britannica iniziò a rimuovere la zuppa tascabile dalle razioni standard in favore della carne in scatola, più nutriente e protetta da involucri metallici.

La produzione di zuppa tascabile

La ricetta di base esposta da Plat prevedeva la bollitura di zampe bovine per lungo tempo e a bassa temperatura, fino ad ottenere un brodo saporito e denso. Hannah Glasse e William Gelleroy suggeriscono di bollire le proteine animali fino a quando “la carne ha perso tutte le sue proprietà”, suggerimento che non contribuisce a fornire delle tempistiche esatte; dalla produzione ottocentesca e dalle moderne riproduzioni di zuppa tascabile sappiamo tuttavia che i tempi di bollitura erano compresi tra le 8 e le 12 ore.

La ricetta di Hannah Glasse, riportata nel libro “The Art of Cookery Made Plain and Easy” (1747), elenca tra gli ingredienti: due zampe di vitello, acciughe, chiodi di garofano, pepe bianco e nero, cipolle, maggiorana e timo.

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Il brodo veniva quindi filtrato e ridotto, tramite ulteriore bollitura, ad una gelatina (se già le 12 ore di cottura non avevano ottenuto lo stesso risultato), successivamente esposta a luce solare e vento invernali per perdere la maggior parte dell’acqua che conteneva; il prodotto così ottenuto veniva tagliato in pezzi, e ogni frammento veniva coperto di farina per evitare che si appiccicasse agli altri.

Secondo Plat era necessario non aggiungere sale o zucchero durante la preparazione del brodo, perché durante il procedimento di riduzione i sapori si sarebbero concentrati. Era inoltre fondamentale sgrassare il brodo rimuovendo il più possibile il grasso, per evitare che diventasse rancido e ottenere una consistenza più rigida.

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Il brodo tascabile veniva prodotto durante i primi mesi dell’anno, sfruttando il gelo invernale per far solidificare più agevolmente la gelatina in un unico blocco dalla consistenza uniforme. I frammenti di zuppa tascabile potevano conservarsi per almeno un anno, e venivano generalmente disciolti in acqua per creare in poco tempo un brodo saporito in cui cuocere le razioni di cibo.

Cibo d’emergenza

La zuppa tascabile fu per molto tempo utilizzata per insaporire zuppe, o consumata come alimento d’emergenza. Ingerire frammenti di brodo solidificato era un’eventualità che ogni soldato o marinaio voleva scongiurare a causa del sapore poco appetibile.

Bisogna considerare che le condizioni igieniche dell’epoca non sempre consentivano la produzione di brodo tascabile partendo da ingredienti di prima qualità: la carne impiegata era spesso di seconda o terza scelta, e in buona parte non propriamente conservata.

James Cook, prima del suo viaggio verso l’Australia nel 1772, caricò a bordo circa mezza tonnellata di zuppa portatile nella speranza di poter prevenire eventuali emergenze alimentari e fornire nutrienti ai suoi marinai malati. Dopo aver servito all’equipaggio zuppa tascabile sciolta nell’acqua e mescolata a farina di piselli, alcuni marinai rifiutarono il pasto per via del suo sapore disgustoso, accettando di buon grado la fustigazione pur di non ingerire la brodaglia.

Patrick Grass, subito dopo aver descritto l’impiego di zuppa portatile come cibo d’emergenza durante la spedizione di Lewis e Clark, continua dicendo che “alcuni uomini non apprezzarono questa zuppa e decisero di uccidere un puledro”.

Portable Soup – Wikipedia
Portable Soup
Who Put the Paprika in Goulash…and Other Hungarian Soup Tales
The Luke-Warm, Gluey, History of Portable Soup

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Hardtack, la galletta navale a lunga conservazione https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/ https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/#respond Mon, 07 Sep 2020 00:18:50 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4965 I lunghi viaggi per mare degli antichi esploratori e gli estenuanti spostamenti via terra degli eserciti del passato erano legati a doppio filo alla capacità umana di creare cibo a lunga conservazione. Pur non avendo frigoriferi moderni o e possedendo scarse nozioni di igiene alimentare, i nostri antenati furono in grado di conservare alimenti per lunghi periodi di tempo utilizzando l’ingegno e i materiali a loro disposizione.

Nel corso della storia gli espedienti utilizzati per conservare gli alimenti furono molti: celle frigorifere come lo yakhchal, salamoie e salagioni, affumicatura e fermentazione potevano garantire mesi o anni di conservazione se si rispettavano poche ma necessarie regole su temperatura o esposizione all’aria. Alcuni prodotti alimentari erano invece pensati per mantenersi pressoché intatti anche anche in condizioni sfavorevoli.

L’ hardtack, ad esempio, era una semplice galletta di farina e acqua in grado di mantenersi commestibile per molto tempo, poco costosa da produrre, resistente a condizioni ambientali avverse e facile da immagazzinare e trasportare.

La storia dell’ hardtack

Dall’introduzione dei cereali nei regimi alimentari di molti popoli antichi, la farina iniziò a ricoprire un ruolo sempre più fondamentale nella cucine di tutto il mondo. Farina e pane, tuttavia, possono essere attaccati da muffe, insetti, o semplicemente accumulare l’umidità atmosferica favorendo i processi di decomposizione.

La necessità di avere alimenti nutrienti e facilmente conservabili portò gli Egizi alla creazione della dhourra, una galletta di miglio in grado di mantenersi intatta per lunghi periodi di tempo. Col tempo la dhourra si trasformò nel “biscotto musulmano”, come lo descrive Re Riccardo I dopo la Terza Crociata (1189-1192): un mix di farina d’orzo, farina di fagioli e farina di segale.

Nell’antica Roma, invece, il Codex Theodosianus prevedeva che ogni soldato coinvolto in una spedizione militare dovesse essere fornito di “bucellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam.”, traducibile come “gallette e pane, anche vino (o posca) e aceto, ma anche lardo e montone”.

Il bucellatum romano era un mix di farina, sale e acqua, cotto a lungo per due volte a bassa temperatura. Veniva consumato dai soldati accompagnandolo con la posca, per due giorni consecutivi; al terzo giorno, la truppa poteva finalmente consumare vino e pane di buona qualità.

L’hardtack è una delle innumerevoli versioni della galletta a lunga conservazione. Il nome  di questo biscotto, entrato nel lessico comune tra il 1700 e il 1800, deriva da “tack”, il termine slang che i marinai britannici usavano per riferirsi al cibo; col tempo iniziò ad assumere altri nomi, come “biscotto di mare”, “pane per cani”, “spaccamolari” o “castello per vermi”.

La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)
La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)

La Royal Navy britannica del XVI secolo forniva ai suoi marinai una razione giornaliera di mezza libbra di hardtack, qualche pezzo di maiale salato e un gallone di birra a bassa gradazione alcolica. Nel tardo XVIII secolo, l’hardtack entrò a far parte anche della dieta dei pescatori del New England: veniva utilizzato come addensante per le zuppe di mare, sbriciolandolo e mescolandolo agli altri ingredienti.

Grazie a John Billingas, soldato della guerra di secessione americana e autore di un libro di memorie intitolato “Hardtack and Coffee” (1887), abbiamo una descrizione dell’hardtack dal punto di vista di un soldato:

Cos’era la galletta? Era un semplice biscotto di farina e acqua. Due di esse, che ho in mio possesso come ricordo, misurano 3 pollici e 1/8 per 2 pollici e 7/8, e sono spesse quasi mezzo pollice. Sebbene questi biscotti venissero venduti a peso, venivano distribuiti agli uomini in numero, nove gallette costituivano una razione in alcuni reggimenti, dieci in altri reggimenti; ma di solito ce n’erano abbastanza per chi ne voleva di più, poiché alcuni non li utilizzavano. Per quanto l’ hardtack fosse nutriente, un uomo affamato poteva mangiare i suoi dieci in breve tempo ed essere ancora affamato.

Le proprietà dell’hardtack

Per quanto poco appetibile, l’hardtack fornisce un discreto quantitativo di calorie in poco spazio e senza la preoccupazione della conservazione. Una galletta da 24 grammi fornisce circa 100 kilocalorie, circa 5-6 grammi di grassi, due grammi di proteine e quasi nessuna fibra; il resto del peso è costituito da carboidrati.

Come tutti i prodotti realizzati con farine di cereali, biscotti e gallette tendono ad assorbire l’umidità ambientale. Per rallentare questo processo, i fornai tentavano di creare biscotti e gallette estremamente duri, cuocendoli da due a quattro volte e preparandoli in anticipo di 6 mesi dal loro effettivo consumo.

Se non viene inumidito, l’hardtack è così solido da risultare sostanzialmente immangiabile; viene descritto da coloro che lo consumarono come “denso a tal punto da essere quasi in grado di fermare una pallottola di moschetto”. Se addentato a secco, prosciuga completamente la bocca di ogni goccia di saliva, rendendo ancora più difficile la masticazione.

Per renderlo più masticabile, il biscotto veniva immerso in salamoia, caffè, alcolici o zuppe; non veniva solo consumato come semplice biscotto da inzuppare in qualche liquido, ma anche sbriciolato e impiegato come addensante per le zuppe.

Un altro modo per consumare l’hardtack era quello di sbriciolarlo il più possibile con il calcio di un fucile, o tramite un oggetto duro e pesante, aggiungendo quindi acqua, zucchero e whiskey per creare una pudding denso e grumoso da cuocere in pentola.

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La secchezza dell’hardtack è una proprietà indispensabile alla  lunga conservazione: se mantenuta intatta e all’asciutto, una galletta di hardtack può rimanere commestibile per anni, sopravvivere a sbalzi di temperatura estremi e resistere ad una manipolazione violenta.

Sulle navi del XVI-XVII secolo, tuttavia, non era semplice mantenere il cibo in condizioni ottimali. L’infestazione delle riserve alimentari da parte di insetti, batteri e muffe erano relativamente comuni durante i lunghi viaggi per mare, ma i marinai britannici escogitarono un semplice espediente per rimuovere i parassiti dal loro hardtack.

Immergendo l’hardtack nel caffè mattutino non solo si rendeva masticabile la galletta, ma si costringeva la maggior parte degli insetti infestanti, come il tonchio, a risalire in superficie per tentare di sopravvivere; dopo essersi liberati di tutti gli insetti galleggianti, i marinai erano finalmente pronti a consumare il loro biscotto accompagnato da caffè caldo.

Preparazione dell’hardtack

Non esiste un’unica ricetta per l’hardtack: ogni regione del pianeta lo chiamava in modo diverso, ma la base comune  era una miscela di farina e acqua, in proporzioni che variano da 3:1 a 5:1.

Per ottenere un hardtack durevole è necessario utilizzare poca acqua, e cercare di eliminarne il più possibile durante la cottura. La pasta, in fase di preparazione, non deve essere troppo dura, ma nemmeno attaccarsi alle mani; prima di cuocerla, occorre modellarla per ottenere gallette o crackers.

Dopo aver steso la pasta fino ad uno spessore di circa 1 centimetro, occorre tagliarla creando pezzi più o meno regolari. I soldati della guerra di secessione americana ricevevano gallette di 3 x 3 pollici (7,5 x 7,5 centimetri), dimensioni che facilitavano la cottura e il trasporto.

Creare dei piccoli fori sulle due superfici del cracker impedisce che la farina possa subire una piccola lievitazione, e aiuta cuocere uniformemente l’hardtack. La cottura delle gallette deve essere lunga e a bassa temperatura, cercando di evitare che imbruniscano troppo o si brucino.

La cottura, come suggerisce questa ricetta, dura circa 25-35 minuti a 190°C, e si cerca di ottenere una leggera brunitura della superficie delle gallette. A questo punto occorre rimuovere i biscotti dal forno per farli raffreddare completamente prima di procedere con una seconda cottura o con l’essiccazione all’aria per qualche giorno.

L’hardtack viene prodotto ancora oggi, anche se con un occhio orientato al mercato moderno: pur rispettando la ricetta di base, vengono spesso aggiunti aromi, spezie o altri ingredienti per renderlo più piacevole al palato.

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FOODS OF WAR: HARDTACK
Bucellatum – Roman Army Hardtack
Hardtack – The Ultimate Survival Food
#Hardtack: A Food to Break a Tooth On
Hardtack Described
Bucellatum (Roman hardtack)

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Sovrappeso e obesità nel Medioevo https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/ https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/#comments Mon, 24 Aug 2020 00:15:54 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4928 Sovrappeso e obesità sono oggi considerati una piaga tipica dell’epoca moderna. L’abbondanza di cibo nel mondo industrializzato, inizialmente interpretata come un aumento della ricchezza di classi sociali che, in precedenza, avevano un accesso limitato alle risorse alimentari, si è infine rivelata un’arma a doppio taglio: più aumenta il cibo a disposizione, sia in quantità che in varietà, più ne consumiamo.

La concezione di un passato popolato da “persone sottili” a causa di uno scarso accesso alle risorse alimentari più ricche di calorie, in realtà, non è del tutto esatta. Anche se l’Europa affrontò diverse carestie durante il Medioevo, ricchi e privilegiati trovarono spesso il modo di permettersi tavole imbandite o semplicemente pasti regolari.

Nel Medioevo obesità e sovrappeso erano presenti, e l’eccesso di grasso corporeo suscitava opinioni diverse: se la magrezza veniva considerata generalmente un’espressione di frugalità e santità, sovrappeso e obesità erano spesso interpretate come espressione di ricchezza, status sociale, buona salute o scarso controllo delle proprie pulsioni.

Un corpo da guerra

L’Europa medievale ereditò l’immagine del soldato perfetto dall’antica Roma: peso eccessivo e abilità marziale non erano considerati molto compatibili. Secondo Ramon Llull, autore del XIII-XIV secolo, ogni combattente in sovrappeso dimostrava coi fatti di non essere in grado di esercitare sufficiente autocontrollo da poter ottenere il titolo di cavaliere.

Qualunque cavaliere in grado di permettersi una cavalcatura e un intero set di armi e armature disponeva di sufficienti risorse economiche da poter acquistare grandi quantità di cibo; allo stesso tempo, tuttavia, doveva essere in grado di trattenersi dal consumarlo in abbondanza, per mantenersi sano e abile al combattimento.

Durante il XIV secolo l’idea di un corpo atletico e potente si cementò ulteriormente: il corpo perfetto aveva spalle larghe e vita sottile, come mostrano alcuni tipici capi d’abbigliamento dell’epoca, che cercano di dare l’impressione di un petto ampio e di fianchi sottili.

Ritratto di Enrico VIII, di Hans Holbein
Ritratto di Enrico VIII, di Hans Holbein

Geoffroi de Charny, nel suo Libro della Cavalleria (1350 circa), si lamenta dei combattenti che non rispecchiano il canone estetico del guerriero e che cercavano di apparire più sottili di quanto no siano nella realtà, usando fasciature e altri stratagemmi:

Non è sufficiente per loro apparire come Dio li ha creati; non sono contenti di come sono, ma si fasciano a a tal punto da negare l’esistenza delle interiora che Dio ha dato loro: vogliono pretendere di non averle mai avute, ma tutti sanno che in realtà è proprio l’opposto. […] Molti di questi [cavalieri] sono stati catturati velocemente perché non potevano fare ciò che dovevano a causa delle limitazioni imposte da queste fasciature; e molti sono morti all’interno delle loro armature per lo stesso motivo, dato che non potevano minimamente difendersi. Anche senza le loro armature sono così fasciati e immobili da non poter fare nulla, non possono piegarsi o praticare sport che richiedono forza o agilità; possono a malapena sedersi…

I cavalieri erano tenuti a mostrare moderazione in ogni cosa, inclusa l’alimentazione. Alcuni autori medievali forniscono consigli su come determinare fin dalla fanciullezza quale potenziale cavaliere è destinato a diventare grasso in età adulta, per poterlo tenere lontano dalla vita marziale o indirizzarlo verso una serie di esercizi fisici in grado di mantenerlo in forma.

Grasso e privilegio

L’eccesso di peso era tuttavia soggetto a interpretazioni diverse che mutavano in base a posizione sociale, lavoro e sesso. Secondo alcuni autori, il sovrappeso non era incompatibile con la virtù: la nobiltà carolingia era nota per le enormi quantità di cibo consumate durante i banchetti, ma non per questo veniva considerata meno virtuosa.

Al duca Guido di Spoleto fu rifiutato il trono di Francia perché mangiava troppo poco, mentre numerosi manuali redatti per la nobiltà consigliavano di moderare il proprio appetito non per questioni morali, ma per non compromettere la capacità di regnare o amministrare.

In epoca medievale non mancano monarchi in sovrappeso o obesi. Carlomagno ad esempio viene descritto dal suo stesso biografo come una buona forchetta; la salma di Guglielmo il Conquistatore, invece, non fu in grado di entrare nel sarcofago per problemi di dimensioni eccessive, mentre Enrico VIII continuò a mangiare come l’atleta che fu in gioventù anche dopo un torneo in cui subì un grave infortunio, incidente che lo costrinse ad adottare uno stile di vita del tutto sedentario.

Il famoso ritratto di Enrico VIII dipinto da Hans Holbein suggerirebbe che il sovrano avesse raggiunto in tarda età un peso di quasi 200 kg, motivo per cui fu costretto ad essere trasportato su una lettiga anche per i piccoli spostamenti quotidiani.

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Secondo la tradizione di Galeno, sovrappeso e obesità erano associati alla decadenza dei valori morali. Il Secretum Secretorum, composto in lingua araba intorno al X secolo e tradotto in latino durante il XII secolo, contiene opinioni negative nei confronti dell’eccesso di peso.

Re Sancho I di Leon fu deposto dalla carica di regnante a causa della sua obesità, un fattore che limitava la sua vita quotidiana: non poteva cavalcare, maneggiare abilmente una spada, fare sesso con la moglie e nemmeno camminare senza l’aiuto della servitù. Secondo alcuni resoconti, pesava 240 kg e consumava sette pasti al giorno composti da abbondanti pietanze a base di carne.

Sancho fu costretto a fuggire dalla nonna Toda, la quale si affidò al celebre medico arabo Hasdai ibn Shaprut per poter far tornare il nipote in discreta forma fisica. Hasdai sottopose Sancho ad un severo regime alimentare basato su erbe medicinali e oppio, sottoponendolo a massaggi vigorosi e ad esercizio fisico fino a riportarlo sufficientemente in forma da consentirgli di tornare dalla nonna a dorso di cavallo e di ottenere nuovamente il trono nell’anno 960.

Monaci paffuti

Contadini e artigiani non avevano lo stesso accesso alle risorse alimentari che aveva la nobiltà, motivo per cui il grasso corporeo era da loro interpretato come espressione di ricchezza ed elevato status sociale. Le frequenti critiche ai membri più “rotondi” del clero derivavano dal fatto che la loro immagine corporea era un sintomo della decadenza della Chiesa e del peso che esercitava questa istituzione sulle spalle dei meno abbienti.

In una ricerca pubblicata nel 2014 dal titolo “The ‘Obese Medieval Monk’: A multidisciplinary study of a stereotype“, l’autrice Pip Patrick sostiene che l’obesità era relativamente comune tra i monaci medievali inglesi.

Esaminando i resti ossei di 274 monaci e confrontandoli con quelli di persone comuni per determinare l’incidenza di malattie e disturbi legati all’obesità, Patrick ha scoperto che i monaci sviluppavano osteoartriti ad una frequenza 6 volte maggiore rispetto al tipico contadino o artigiano; una frequenza molto simile è stata osservata anche nei disturbi alle articolazioni connessi all’eccesso di peso.

Sancho I di Leon
Sancho I di Leon

I corpi dei monaci inglesi erano sensibilmente più alti e robusti rispetto alla media a causa del regime alimentare che seguivano: pasti ricchi di grassi e proteine da consumare nel più breve tempo possibile, aspetto che potrebbe aver compromesso il loro sistema digestivo rendendolo efficiente.

Il tipico monaco inglese del XII secolo consumava durante la giornata almeno 6 uova, bollite o fritte nel lardo; un ricco porridge vegetale o uno stufato di carne e verdure; carne di maiale, di montone, d’anatra, oppure pesce di fiume o di mare; quasi mezzo chilogrammo di pane e frutta fresca o secca a volontà, il tutto accompagnato da birra.

Il corpo della donna

La rotondità non era un tratto fisico dalla connotazione negativa nella donna medievale. Lo storico francese Georges Vigarello afferma che il sovrappeso femminile era una condizione essenziale per la bellezza delle donne medievali.

Nel “Le Ménagier de Paris“, un manuale del 1393 che contiene informazioni sul corretto comportamento di una donna di casa, si cita il fatto che la donna, come il cavallo, deve possedere quattro qualità fondamentali: una splendida chioma, un bel petto, vita sottile e un grande fondoschiena.

La situazione era invece differente per le donne che conducevano una vita religiosa: il controllo dell’alimentazione e i lunghi digiuni erano parte integrante della strada verso la santità, per gli uomini come per le donne. L’aspetto sottile di una donna rappresentava il suo allontanamento dai piaceri della carne e non la rendeva appetibile come partner riproduttivo per la sua presunta incapacità di essere una buona moglie e madre.

Alcuni trattati medievali analizzarono i corpi femminili e le loro rotondità mettendoli in relazione con la salute e la capacità riproduttiva. Nel Trotula, testo medico del XII secolo, il grasso corporeo viene messo in relazione alla menopausa (che inizierebbe intorno ai 35 anni per i corpi femminili dal moderato contenuto di grasso) e consiglia alcuni trattamenti per la perdita di peso: bagni caldi e sepoltura nella sabbia, per indurre una forte sudorazione (oggi sappiamo che questi trattamenti causano solo una perdita temporanea di liquidi, senza intaccare le riserve di grasso).

Fatness and Thinness in the Middle Ages
Were medieval monks obese?
Bones reveal chubby monks aplenty
Stigmatization of obesity in medieval times: Asia and Europe
The Final Humiliation of William the Conqueror’s Body During his Funeral
Medieval Monks & Their Meals

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Palma e noce di cocco: il coltellino svizzero del regno vegetale https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/ https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/#comments Mon, 27 Jul 2020 00:10:08 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4939 E’ una delle piante più utili del pianeta, spesso chiamata l’ “albero della vita”. Il suo tronco fornisce ottimo materiale ligneo, i suoi frutti sono avvolti da fibre resistenti, hanno ottime proprietà alimentari e rappresentano l’essenza stessa della sopravvivenza in mare: la palma da cocco (Cocos nucifera) può contendere il titolo di “coltellino svizzero del regno delle piante” ad una pianta straordinaria come il bambù grazie ai suoi innumerevoli utilizzi.

La noce indiana

Nel Ramayana della tradizione sanscrita, e in altre fonti letterarie di origine indiana, ci sono le prime testimonianze della presenza della palma da cocco nel subcontinente indiano già nel I secolo a.C., ma per la prima descrizione dettagliata occorre aspettare circa 6 secoli: la Topographia Christiana di Cosmas Indicopleuste di Alessandria chiama la noce di cocco “la grande noce dell’India”.

Marco Polo, durante la sua visita a Sumatra nel 1280, incontra la sua prima noce di cocco, che chiama nux indica (dal termine arabo “jawz hindī“, traducibile con “noce indiana”), un nome che troverà larga diffusione in Occidente prima dell’utilizzo di “thenga“, termine usato in Malesia e citato da Ludovico di Varthema nel 1510, e “coco“.

Un’altra osservazione diretta della noce di cocco da parte di un occidentale viene trascritta nel 1521 sul diario di Antonio Pigafetta, membro dell’equipaggio di Magellano, una volta giunto a Guam. Secondo Pigafetta, gli abitanti di Guam “mangiano cocchi e ungono il corpo e i capelli con olio di cocco e di sesamo”.

Durante il XVI secolo la noce di cocco assunse il suo nome dalla parola spagnola e portoghese “coco”, che significa “testa” o “cranio”. Ogni noce è infatti dotata di 3 pori, detti anche occhi, che somigliano vagamente ad un viso umano stilizzato.

Non sappiamo con esattezza la regione d’origine della palma da cocco, ma le analisi genetiche sembrano puntare verso il sud-est asiatico, regione in cui le palme mostrano più varietà genetica rispetto ad altre località del mondo. Grazie ai viaggi per mare le palme iniziarono a diffondersi millenni fa verso altri continenti, dall’ Africa al Sud America.

La palma da cocco

La palma da cocco è considerata unanimamente una delle 10 piante più utili del mondo, tanto da meritarsi il termine sanscrito “kalpa vriksha“, traducibile con “l’albero che fornisce tutto ciò che serve nella vita”. In Indonesia, un detto popolare recita che “ci sono tanti impieghi per la palma da cocco quanti sono i giorni dell’anno”. Attualmente sono documentati oltre 80 possibili utilizzi dell’albero del cocco: dalle radici alle noci, dalle foglie ai fiori, ogni parte della pianta è sfruttabile.

L’albero del cocco può raggiungere i 30 metri di altezza e possedere foglie paripennate lunghe fino a 6 metri. Su suolo molto fertile un albero maturo (la maturità viene raggiunta tra i 15 e i 20 anni di vita) può produrre oltre 70 noci in un anno, ma la media si attesta a meno di 30 nell’arco di 12 mesi.

Noce di cocco

La palma da cocco predilige suoli sabbiosi e tollera molto bene alti livelli di salinità. Ha bisogno di precipitazioni costanti e sole abbondante, e un livello di umidità pari al 70-90%. Le palme sono molto sensibili alle temperature: hanno bisogno di temperature superiori ai 20 °C ogni giorno dell’anno per crescere in salute, anche se possono sopravvivere per brevi periodi al freddo non inferiore ai 4 gradi.

Tecnicamente, la noce di cocco non è una noce, ma una drupa, un frutto carnoso con endocarpo legnoso come la ciliegia, la mandorla, l’albicocca, l’oliva e la prugna. Il frutto inizia a formarsi circa 2 settimane dopo la fioritura della pianta e cresce per i successivi 12-13 mesi. Col passare del tempo la noce inizia a stratificarsi, formando un mesocarpo fibroso (fibra di cocco) che può essere utilizzato per creare cordame resistente e garantisce la galleggiabilità del frutto.

Cocco in cucina

Nell’immaginario collettivo, un naufrago sarebbe in grado di sopravvivere su un’ isola deserta nutrendosi prevalentemente di cocco. Anche se un’alimentazione composta per la maggior parte da noci di cocco può avere spiacevoli effetti lassativi nel medio-lungo periodo, la noce ha notevoli proprietà nutrizionali.

Cento grammi di polpa contengono circa 350 calorie, delle quali il 33% è costituito da grassi, con 15 grammi di carboidrati e circa 3 di proteine. Il resto del peso è dato dall’acqua tra le fibre della polpa, fibre ricche di micronutrienti come manganese, rame, ferro, fosforo, selenio e zinco.

L’acqua di cocco contiene invece solo 19 calorie ogni 100 grammi, con uno scarso contenuto di micronutrienti. I frutti maturi contengono meno acqua rispetto alle noci giovani; l’acqua di cocco può essere bevuta fresca (è sterile fino a quando la noce non viene aperta), o fatta fermentare per ottenere aceto di cocco.

Il consumo smodato di acqua o polpa di cocco può portare all’eccesso di potassio nel sangue, che può indurre problemi renali, aritmia e perdita di conoscenza, nei casi più gravi anche la morte. Circa un litro di acqua di cocco può fornire oltre il 50% del fabbisogno giornaliero di potassio, percentuale che varia in base alle dimensioni della noce.

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Ma l’impiego in cucina della palma da cocco non si limita alla sola noce: il cuore di palma è considerato un boccone prelibato, da mangiare fresco o da inserire come ingrediente in insalate ricche di sapore e di nutrienti. Per estrarre il cuore di palma è necessario rimuovere gli strati esterni che ricoprono il tronco di una giovane palma, fino ad incontrare un cilindro fibroso bianco al centro.

La linfa estratta dai fiori della palma da cocco si chiama neera (“nettare di palma”) in India, Sri Lanka, Africa, Indonesia e Malesia. L’estrazione della linfa avviene generalmente prima dell’alba, e si ottiene un liquido chiaro e dolce, propenso a fermentare naturalmente entro poche ore dall’esposizione all’aria.

Se il neera viene lasciato fermentare diventa toddy, una bevanda con il 4% di gradazione alcolica chiamata anche “vino di palma”. Ancora oggi il vino di palma viene prodotto in moltissime abitazioni rurali, dato che la sua vendita è più economicamente vantaggiosa della vendita di legname.

La copra, infine, è la polpa essiccata della noce di cocco. L’essiccazione aumenta il contenuto di grasso dal 33% al 65%, proprietà utile per la creazione di burro e olio di cocco, margarine, detergenti e cosmetici. Occorrono circa 6.000 noci di cocco mature per produrre una tonnellata di copra.

I materiali del cocco

La noce di cocco fornisce fibre forti, sottili e resistenti, chiamate coir. Le fibre coir si possono trovare tra la buccia e il guscio della noce: quelle bianche, più giovani, sono ottime per la fabbricazione di corde; quelle scure, invece, sono resistenti all’abrasione ma meno flessibili di quelle bianche.

Il coir è uno dei materiali naturali più resistenti all’acqua, specialmente quella salata, proprietà che rende queste fibre ideali per la fabbricazione di cordame, contenitori e rivestimenti destinati all’uso in mare; il coir trova impiego anche nell’orticoltura e nella fabbricazione di materassini e sacchi.

Il guscio della noce di cocco è un recipiente naturale estremamente resistente e utile: può essere forato e mantenuto integro per ottenere una sorta di borraccia, o essere spaccato in due metà per ricavare due recipienti più piccoli ma ugualmente utili.

cocco e coir

Il legno della noce di cocco può essere trasformato in carbone attivo: si tratta di uno dei materiali naturali più efficaci nella rimozione delle impurità presenti nell’acqua. Nella medicina tradizionale cambogiana, l’olio emesso dal guscio di noce quando esposto al calore delle braci di un fuoco da campo viene utilizzato per lenire il mal di denti.

Le foglie dell’albero di cocco hanno molteplici usi: in India, Indonesia e nelle Filippine vengono trasformate in scope, in cesti a prova d’acqua o in tetti per le case; possono essere intessute per produrre materassi o piccole sacche utilizzate per cucinare piatti tradizionali come il ketupat.

Il legname dell’albero del cocco è dritto, forte e resistente all’attacco del clima salmastro. Viene spesso impiegato per la costruzione di piccoli ponti o casette. Nelle Hawaii i tronchi svuotati venivano trasformati in contenitori, tamburi o piccole canoe dall’ottima galleggiabilità.

Le radici della palma da cocco vengono sfruttate da secoli per produrre coloranti, collutori e medicamenti tradizionali per la diarrea. I segmenti più sottili delle radici possono essere trasformati in spazzolini da denti.

Tradizioni e curiosità legate alla palma da cocco

La noce di cocco è un elemento essenziale in molti rituali hindu, dalle cerimonie alle offerte agli dei. Indipendentemente dal culto, in India i pescatori spesso gettano noci di cocco in mare, nei fiumi o nei laghi all’inizio della stagione di pesca, per ingraziarsi gli dei e favorire un pescato abbondante.

La divinità hindu Lakshmi, che presiede la buona salute, viene spesso raffigurata con una noce di cocco in mano; nel tempio del dio della guerra Murugan, ogni giorno vendono rotte migliaia di noci di cocco durante le preghiere rituali dei devoti.

Secondo il mito delle origini delle Isole Maluku, il genere umano avrebbe avuto origine da una ragazza emersa da una noce di cocco. Nel folklore delle isole Samoa, l’origine della palma da cocco è legata alla bellissime fanciulla Sina, che un giorno seppellì un’anguilla nel terreno per vederla trasformarsi nel primo albero del cocco.

La tradizione di senilicidio chiamata Thalaikoothal, illegale in India da diverso tempo ma ancora praticata in alcuni distretti, prevede la somministrazione di litri e litri di acqua di cocco nel corso di uno o due giorni, portando al fallimento dell’attività renale o cardiaca.

Coconut – Wikipedia
Deep history of coconuts decoded
Coconut – History, uses, and folklore
Coconut – New World Encyclopedia

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Miglio e impero mongolo https://www.vitantica.net/2020/06/01/miglio-impero-mongolo/ https://www.vitantica.net/2020/06/01/miglio-impero-mongolo/#respond Mon, 01 Jun 2020 14:00:24 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4872 Dare alla luce un impero richiede diversi elementi fondamentali: occorre avere un esercito potente, versatile e mobile; è necessario utilizzare un pensiero tattico e strategico, una dote non comune e che va coltivata attraverso sconfitte e vittorie; è indispensabile, inoltre, un’industria metallurgica e un artigianato in grado di produrre su larga scala tutto l’equipaggiamento necessario ai soldati durante le campagne di conquista.

Un altro elemento fondamentale è rappresentato dal cibo: sfamare un esercito richiede enormi risorse alimentari, risorse che in alcune regioni, a causa del clima o delle tecnologie agricole utilizzate, non era possibile produrre in abbondanza o in quantità tale da sostenere un intero esercito durante una lunga campagna militare.

Se analizziamo la nascita e la costruzione dell’impero mongolo di Gengis Khan, una domanda che sorge spontanea, e del tutto lecita, è come sia stato possibile per un popolo di pastori nomadi sostenere una lunga e faticosa campagna militare in una terra tipicamente poco fertile, spazzata da venti estremi, dagli estremi termici brutali, e che offre poche risorse alimentari.

Secondo uno studio condotto dal dottor Shevan Wilkin del Max Planck Institute for the Science of Human History, il segreto delle risorse alimentari mongole durante la costruzione dell’impero di Gengis Khan fu il miglio.

La scarsa fertilità della Mongolia

Il clima mongolo limita fortemente l’attività agricola. Se in tempi moderni la stagione agricola dura da 90 a 110 giorni, in passato era probabilmente più breve; solo l’ 1% del suolo mongolo è effettivamente coltivabile, e ancora oggi l’attività più produttiva in campo agricolo rimane la pastorizia, con il 75% delle terre coltivabili dedicate al pascolo.

In Mongolia si possono oggi coltivare mais, grano, orzo e patate, ma sia mais che patate erano colture del tutto sconosciute in Asia durante la nascita dell’impero mongolo. In corrispondenza di inverni particolarmente severi, ancora oggi (ad esempio, tra il 2009 e il 2010) è possibile perdere una parte consistente del raccolto, con influenze anche sul mercato dei prodotti di origine animale (senza pascoli e mangimi, l’allevamento ne risente).

La Mongolia ai tempi di Gengis Khan

Mobilità esercito mongolo

Alla nascita del celebre condottiero, in Mongolia risiedevano cinque confederazioni tribali, tra le quali la confederazione Khamag Mongol sotto la guida di Khabul Khan, il bisnonno di Gengis. La Mongolia si trovava sotto la costante pressione della dinastia cinese Jin, che non perdeva occasione per mettere le tribù mongole una contro l’altra per trovare l’occasione di occupare una parte dei territori sotto il loro dominio.

Dopo l’esecuzione di Ambaghai Khan, successore di Khabul, per mano della dinastia Jin grazie al tradimento della confederazione dei Tatar (i Tatari), i Khamag Mongol scatenarono un attacco alla frontiera cinese. L’attacco ebbe probabilmente l’effetto sperato: quattro anni dopo, nel 1147, i Jin firmarono un trattato di pace con i Khamag Mongol.

Dopo la firma del trattato, i Khamag attaccarono i Tatar per vendicarsi dell’esecuzione del proprio comandante, aprendo un periodo di ostilità che si concluse con la sconfitta dai Khamag nel 1161 da parte di un esercito composto da Tatar e Jin.

Temüjin nacque l’anno successivo, nel 1162, nel bel mezzo di un cambiamento climatico locale del tutto fortunato per i suoi futuri piani di conquista: le steppe aride e fredde dell’ Asia centrale poterono godere di un clima mite e umido, favorendo le attività agricole e l’allevamento che furono alla base del successo militare di Gengis Khan. In aggiunta, la confederazione Khamag, ormai disgregata, aveva occupato da diverse decadi le zone più fertili della Mongolia, fornendo una buona base di partenza per il futuro supporto all’esercito conquistatore di Gengis Khan.

Il miglio

Wilkin e i suoi colleghi della National University of Mongolia e dell’Istituto di Archeologia di Ulaanbaatar hanno analizzato il contenuto di isotopi di azoto e carbonio nelle ossa e nei denti di 137 individui rinvenuti in alcuni siti archeologici mongoli, ricostruendo la dieta delle popolazioni locali dall’ Età del Bronzo all’epoca della nascita dell’ impero di Gengis Khan.

I ricercatori hanno scoperto una differenza significativa tra gli antichi popoli mongoli e quelli del XII-XIII secolo: la dieta. L’alimentazione tipica dell’ Età del Bronzo era basata su latte e carne, con un piccolo apporto di verdure fornite dalle poche piante spontanee locali; intorno all’epoca della tregua con i Jin, invece, alcuni mantennero la dieta estremamente proteica dei loro antenati, ma molti altri iniziarono a consumare alimenti a base di miglio.

A partire dal IX secolo d.C., i popoli delle steppe mongole iniziarono a modificare la loro dieta includendo miglio e altri cereali: si passò da un contributo calorico da cereali pari al 2,5-5% della dieta al 26% nelle aree centro-settentrionali della Mongolia, un incremento che non può essere spiegato con soli fenomeni naturali senza includere nell’equazione commercio e agricoltura.

Le ossa rinvenute nei pressi di insediamenti più vicini ai confini dell’impero Jin contenevano isotopi di carbonio (riconducibili al consumo di granaglie) in quantità significativamente superiore agli individui vissuti in regioni più remote, suggerendo che alcune aree della Mongolia, specialmente quelle vicine alle regioni cinesi, godessero di una produzione agricola ben strutturata.

Buona parte delle granaglie necessarie ad alimentare le orde mongole provenivano probabilmente da un’economia agricola basata sia sulla produzione locale, sia sugli scambi commerciali o sui saccheggi di prodotti della terra nelle aree limitrofe più fertili.

Non solo pastori

Questo scenario è in contrasto con la concezione tradizionale della storia mongola: un popolo di nomadi dall’economia scarsamente centralizzata, tecnologia agricola quasi inesistente e un’alimentazione quasi interamente basata su proteine animali e derivati del latte.

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In realtà, il contrasto non è così forte: è vero, i Mongoli erano un popolo nomade che non conosceva le tecniche agricole dei regni confinanti, e alimentava il suo esercito con carne di cavallo e derivati del latte, ma è altrettanto vero che la vicinanza con i territori Jin forniva loro l’opportunità di ottenere alimenti non facilmente disponibili nella steppa, alimenti con cui nutrire i propri figli e le proprie mandrie.

La storia tende spesso a semplificare l’economia delle civiltà passate, commettendo l’errore di creare dualismi non storicamente corretti. Un esempio sono le civiltà precolombiane e la loro economia apparentemente basata solo sul granturco: è vero che il mais costituiva la base dell’economia agricola di alcuni imperi americani, ma nei mercati aztechi o nordamericani era possibile trovare una gamma relativamente vasta di prodotti della terra, come tacchini, fagioli, zucche, cassava, patate, pomodori e cacao.

La pastorizia moderna in Mongolia è sempre stata identificata come un residuo del passato e l’indicatore di come un impero potesse fiorire in assenza di un’organizzazione politica, economica e agricola ben strutturata; ma l’esempio mongolo ha sempre rappresentato un’eccezione storica basata sull’analisi parziale dei resti archeologici. Grazie alle moderne tecniche di analisi dei reperti archeologici, stiamo pian piano realizzando, anche nel caso dell’ impero mongolo, che la realtà storica è spesso ben più complessa di semplici generalizzazioni facili da ricordare.

Economic Diversification Supported the Growth of Mongolia’s Nomadic Empires
How Millets Sustained Mongolia’s Empires

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Incubatrici per uova in Egitto https://www.vitantica.net/2020/04/20/incubatrici-uova-egitto/ https://www.vitantica.net/2020/04/20/incubatrici-uova-egitto/#comments Mon, 20 Apr 2020 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4852 Gli Egizi avevano una particolare debolezza per i volatili di ogni tipo: struzzi, oche, anatre, altri uccelli acquatici e non, erano tutti parte integrante della dieta di chiunque potesse permettersi la carne di questi animali.

A partire dal IV secolo a.C., polli e galline iniziarono a soppiantare altri tipi di volatili: erano più semplice da allevare, meno delicati e suscettibili a problemi di salute rispetto ad altri animali, si adattavano bene alla cattività, fornivano buona carne magra e singola gallina poteva produrre una media di 1-2 uova ogni 2-3 giorni, meno frequentemente delle galline moderne ma comunque un gran quantitativo di proteine di ottima qualità.

Produrre pulcini per ottenere carne, tuttavia, presenta alcuni aspetti negativi, specialmente se si ha intenzione di produrli in quantità sufficienti da sfamare una discreta fetta della popolazione. In primo luogo, far schiudere un uovo di gallina richiede normalmente 21 giorni, periodo in cui il volatile che ha dato alla luce le uova è costretto a covarle per svariate ore ogni giorno, prendendosi piccole pause per mangiare.

Questo significa che la gallina deve prima di tutto decidere di restare quasi 24 ore al giorno a covare le uova, decisione che potrebbe richiedere qualche giorno. Quando prevale l’istinto della cova, la gallina rimane sostanzialmente inutilizzabile per tre settimane, non depone altre uova e non può essere utilizzata per la produzione di carne.

Antiche incubatrici

Gli Egizi, ottimi osservatori e straordinari innovatori, iniziarono a incubare artificialmente le uova di volatili usando cumuli di letame in grado di mantenere una temperatura costante per i 21 giorni necessari alla schiusa. Ma questo metodo, raccontato da Aristotele, si rivelò non molto efficiente: il letame si secca col tempo e perde la sua capacità di isolante, oltre al fatto che può contenere solo una quantità limitata di uova e non può essere riutilizzato dopo il primo impiego.

Aristotele e, 200 anni più tardi, Diodoro Siculo, descrissero per la prima volta un nuovo tipo di incubatrice per uova ideato dagli Egizi: un sistema di “forni” di argilla o mattoni di fango progettati per replicare le condizioni di cova di una gallina.

Disegno di un'antica incubatrice per uova egiziana
Disegno di un’antica incubatrice per uova egiziana

Mantenendo stabile il calore e l’umidità, e rigirando le uova a intervalli regolari, una piccola struttura contenente 10 incubatrici era in grado di far schiudere fino a 4.500 uova in 2-3 settimane. Non solo poteva ridurre i tempi di schiusa, ma lasciava libere le galline (e i loro allevatori) di produrre e gestire altre uova.

Secondo Salima Ikram, professoressa di Egittologia alla American University del Cairo, l’incubatrice per uova di gallina egizia è un’invenzione relativamente recente. Le galline non sono native dell’Egitto e giunsero in Africa settentrionale probabilmente 10.000 anni fa attraverso la Mesopotamia; fu solo durante la dinastia Tolemaica che polli e galline diventarono una parte stabile della dieta egizia.

Funzionamento inizialmente misterioso

La base delle incubatrici per uova dell’antico Egitto è il forno di mattoni impiegato anche per la cottura del pane. Disposti solitamente in due file da 5 forni all’interno di un edificio grande quanto un’abitazione multifamiliare, queste strutture erano dotate di ciminiere coniche in corrispondenza del tetto per generare un flusso d’aria costante.

La documentazione storica non ci riporta con esattezza il funzionamento di queste incubatrici, anche se oggi possiamo farci un’idea di come potessero operare. Gli Egizi e i popoli che vennero dopo di essi erano molto gelosi delle loro incubatrici, e secondo gli osservatori europei, sempre ricchi di immaginazione, si trattava di strutture dai poteri soprannaturali.

Il frate inglese Simon Fitzsimons, durante il XIV secolo, descrisse in questo modo le incubatrici osservate in Egitto:

“Al Cairo, fuori dalla Porta e quasi immediatamente sulla destra […] c’è una casa lunga e stretta in cui le galline vengono generate col fuoco da uova di chioccia, senza galli, e in numero così grande da non poterle contare”.

Durante il Medioevo la nozione che in Egitto si producessero uova “tramite il fuoco” e senza l’uso di galli divenne sempre più popolare, e fu solo dopo il Rinascimento che furono condotte osservazioni più approfondite delle incubatrici, osservazioni non viziate da leggende e superstizioni.

Nel 1609 Conelis Drebbel inventò l’ “Athenor“, una incubatrice realizzata a partire da un armadietto alimentato a carbone in cui l’aria calda poteva circolare attorno ad un contenitore per le uova. L’invenzione sembrò funzionare, ma non fu mai portata avanti da Drebbel.

Descrizione del funzionamento di un'antica incubatrice per uova egiziana
Descrizione del funzionamento di un’antica incubatrice per uova egiziana

Nel 1750, René Antoine Ferchault de Réaumur ebbe modo di osservare dall’interno una di queste incubatrici, sciogliendo ogni dubbio sul loro presunta legame con la magia e descrivendone il funzionamento nella seconda edizione del suo libro “Art de faire éclorre et d’élever en toute saison des oiseaux domestiques“.

Secondo Réaumur, queste strutture avevano due ali simmetriche separate da un corridoio centrale; ogni ala conteneva fino a 5 camere su due livelli: le uova fertilizzate venivano posizionate in basso e mantenute al caldo da braci ardenti posizionate sul secondo livello e alimentate da sterco secco, un combustibile molto più facile da recuperare in Egitto rispetto al legname.

La sezione superiore e quella inferiore scambiavano aria tramite un’apertura circolare centrale. Lungo i lati della sezione superiore venivano posizionati blocchi di sterco di vacca o dromedario mescolati con paglia e compressi fino ad ottenere dei mattoncini di combustibile. Il fuoco veniva acceso due volte al giorno, al mattino e alla sera, e solo nei primi 8-10 giorni d’incubazione.

Le uova venivano girate ogni giorno e trasferite in zone più fredde o calde della camera d’incubazione in base alla necessità di esporle a più o meno calore. Quando il fuoco non era acceso potevano essere spostate nella sezione superiore per tenerle al caldo.

Gli addetti all’incubazione

Gli operai di queste incubatrici si occupavano di mantenere le braci costantemente accese, di controllare la temperatura e l’umidità delle camere d’incubazione e di girare le uova 3-5 volte al giorno, un’attività fondamentale per evitare che la membrana dell’embrione si attacchi al guscio e generi deformità nel pulcino.

Gli operai dovevano anche capire il momento adatto per terminare il processo di incubazione: prima della schiusa, i pulcini iniziano a generare sufficiente calore interno da non aver più bisogno della cova. La gallina intuisce il momento adatto per smettere di covare tramite l’istinto, saggiando la temperatura delle uova; gli operai delle incubatrici facevano lo stesso tenendo le uova tra le dita e intuendone lo stato di maturazione appoggiandole contro la palpebra.

Incubatrice per uova egiziana basata sull'antico design
Incubatrice per uova egiziana basata sull’antico design

Il rapporto di Réaumur ci dice che la maggior parte degli operai delle incubatrici proveniva da Berma, sul delta del Nilo. Il termine usato per definire questi lavoratori, bermawy, significherebbe proprio “uomo dal villaggio di Berma”. Gli operai delle incubatrici venivano quasi visti come una casta e il lavoro veniva trasmesso da padre in figlio.

Un solo operaio era sufficiente a far funzionare un’incubatrice a 10 camere d’incubazione. Il periodo di lavoro era di circa sei mesi, per un totale di 8 turni di schiusa. Secondo le statistiche di Réaumur, due terzi delle uova si schiudevano con successo.

Differenze con la produzione di uova europea

Usando le incubatrici, in Egitto era possibile produrre pulcini tutto l’anno. Gli allevatori europei, invece, potevano produrre pulcini solo in primavera e in estate, dato che la maggior parte delle galline non è in grado di generare sufficiente calore durante i mesi più freddi.

Réaumur tentò di replicare le incubatrici nordafricane in Francia, ma senza alcun risultato soddisfacente: richiedevano molto più calore e combustibile di quelle egiziane a causa del clima europeo più rigido. Réaumur sperimentò il letame di cavallo come combustibile, ma non si rivelò sufficientemente efficace, costringendolo ad utilizzare lo stesso legname impiegato dai forni parigini.

L’idea di Réaumur fu successivamente migliorata da Abbé Copineau, sfruttando lo stesso design ma impiegando lampade ad alcol per regolare la temperatura interna delle incubatrici. I tentativi di costruire un’incubatrice efficiente ed economica continuarono nei secoli successivi fino al 1897, anno in cui Lyman Byce, allevatore canadese, inventò l’incubatrice a lampada a carbone, che manteneva costante la temperatura tramite un regolatore elettrico.

Nonostante la modernità, l’incubatrice tradizionale è ancora in uso in Egitto e segue le antiche procedure di incubazione, con una sostanziale differenza: a generare calore non sono più braci prodotte dal letame, ma lampade a gas o kerosene. Secondo un report della FAO stilato da Ali Abdelhakim, presidente dell’ Organizzazione Generale dei Servizi Veterinari in Egitto, ancora oggi ci sono in attività circa 200 incubatrici per uova che seguono il sistema tradizionale.

The Egyptian Egg Ovens Considered More Wondrous Than the Pyramids
I MEGAINCUBATOI DELL’EGITTO
L’incubazione naturale delle uova
The oldest hatcheries are still in use
How the Chicken Conquered the World

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Cosa mangiavano gli Egizi? https://www.vitantica.net/2019/11/25/cosa-mangiavano-gli-egizi/ https://www.vitantica.net/2019/11/25/cosa-mangiavano-gli-egizi/#comments Mon, 25 Nov 2019 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4664 Il cibo egizio era composto prevalentemente da alimenti come cereali, frutta e verdura. Tra i più consumati nella quotidianità c’erano pane, latte, oli vegetali, fagioli, olive, cipolle, aglio e datteri.

Questo non significa che gli Egizi non consumassero carne: pesce di fiume, carne di pollame o uccelli selvatici, bovini, capre e pecore erano relativamente comuni sulle tavole egizie, specialmente nelle diete di chi praticava lavori pesanti.

Operai edili e carne

L’analisi degli insediamenti destinati agli operai addetti alla costruzione delle piramidi ha mostrato una grande presenza di ossa animali appartenenti ad anatre, pecore, capre e maiali; ma le ossa più abbondanti sono quelle di bovini.

In un articolo di Alexander Stille pubblicato sullo Smithsonian Magazine nell’ottobre del 2015 si riporta che:

“[…] giudicando dai resti rinvenuti nel sito, [gli operai] mangiavano una gran quantità di manzo. Il bestiame veniva generalmente cresciuto in zone rurali e forse trasportato tramite barche verso gli insediamenti reali di Menfi e Giza, dove venivano macellati. I maiali, al contrario, venivano consumati prevalentemente da chi produceva cibo. Gli archeologi studiano il rapporto tra bovini e maiali come indicatore dell’ approvvigionamento di cibo degli operai da parte dell’autorità centrale”.

Gli operai che costruirono le piramidi consumavano carne in abbondanza, spesso anche quella riservata alle caste sociali più elevate della loro. La scoperta di ossa di ippopotamo, rami d’ulivo e denti di leopardo sembra confermare l’idea che questi lavoratori fossero trattati bene: si trattava di manodopera specializzata e particolarmente costosa.

Proteine animali nell’alimentazione egizia

Gli antichi Egizi mangiavano principalmente proteine provenienti da carne bovina, di pecora, di capra, di volatili e pesce. Il tipo di carne consumata era anche un indicatore dello status sociale d’appartenenza: le carni d’oca e di vitello erano considerate delizie riservate agli strati più alti della società egizia.

Il maiale veniva considerato meno utile di capre, pecore e bovini in uno stile di vita come quello egizio: non poteva essere allevato e trasportato su lunghe distanze e non è adatto alla pastorizia. Non forniva sottoprodotti alimentari come latte o cuoio e godeva di una pessima reputazione nella società egizia.

Anche se consumato in alcune regioni e periodi storici, il maiale veniva considerato un animale impuro associato al dio Seth. La carne di maiale era riservata principalmente a operai e macellai, e in alcuni contesti sociali il solo atto di toccare un maiale veniva visto come un gesto impuro.

Per quanto riguarda il pesce, alcune specie fluviali venivano pescate e consumate quotidianamente, mentre altre erano considerate intoccabili perché facenti parte del pantheon di creature care alle divinità egizie: il persico del Nilo (Lates niloticus), ad esempio, era venerato in alcune località perché legato al mito di Osiride e considerato sacro.

Pane e cereali
Pane e cereali nell'antico Egitto
Pane e cereali nell’antico Egitto

Gli operai addetti alla costruzione delle piramidi consumavano pane quotidianamente, come tutto il resto della popolazione egizia. Anche se circondati da una natura ostile e prevalentemente desertica, gli Egizi furono in grado di ricavare nicchie ecologiche adatte alla coltivazione dei cereali imparando a gestire l’irrigazione dei campi e le piene stagionali del Nilo.

Il pane veniva prodotto principalmente con farro o orzo. Sappiamo dalla documentazione dell’epoca che esistevano almeno 14 tipi di pane, da quelli non lievitati a pagnotte integrali non molto differenti da quelle moderne.

Le granaglie venivano tritate con macine di granito e gli impasti inseriti in stampi di pietra preriscaldati dalla forma circolare, conica o appuntita. Tra gli oggetti rinvenuti a Umm Mawagir (letteralmente “madre delle forme di pane”), un insediamento egizio fiorito nel deserto circa 3.500 anni fa, è stato trovato un doppio stampo per il pane del peso di circa mezza tonnellata.

Il pane egizio aveva un contenuto di glutine inferiore a quello moderno. Il glutine aiuta a produrre pane più soffice e a riempirlo d’aria; la scarsa presenza di glutine rendeva il pane egizio denso e pesante.

La lievitazione era un processo misterioso per gli Egizi. Non avendo familiarità con la chimica dei lieviti, ritenevano che il pane aumentasse di dimensioni grazie alla “magia”. L’impasto del pane, lasciato tradizionalmente riposare per una settimana, iniziava a fermentare grazie alla presenza in natura di lieviti selvatici.

Dato che il pane veniva preparato utilizzando utensili e macine di pietra, negli impasti venivano involontariamente introdotti micro-cristalli di quarzo, feldspato, mica e minerali ferrosi, frammenti litici che lasciano segni evidenti sulla dentatura dopo un consumo prolungato.

Frutta, verdura e legumi
Frutta, verdura e legumi nell'antico Egitto
Frutta, verdura e legumi nell’antico Egitto

La cipolla era una verdura dominante nell’alimentazione egizia: la sua struttura a strati rappresentava gli innumerevoli livelli dell’universo e la sua rilevanza simbolica era tale da essere utilizzata come simbolo sacro per pronunciare giuramenti solenni.

Anche se a Roma l’aglio veniva considerato un alimento adatto alle classi più povere, in Egitto era comune nella dieta di tutte le classi sociali. Uno schiavo poteva essere acquistato al costo di circa 7 kg di bulbi, e la riduzione della fornitura di aglio era una delle misure più comuni per controllare la popolazione.

Piselli, lenticchie e cetrioli erano altre verdure comuni nella dieta dell’antico Egitto. Il ravanello fece il suo ingresso nei pasti egizi circa 4.000 anni fa, spesso in compagnia di cipolla e aglio; secondo Erodoto, gli Egizi ritenevano che il ravanello fosse un potente afrodisiaco.

I meloni furono tra le prime colture egizie, insieme ad orzo, farro, legumi, uva, mandorle e datteri. Anche se sono nativi dell’Iran e della Turchia, i meloni furono raffigurati nelle tombe egizie fin dal 2.400 a.C. e vennero citati nella documentazione storica greca intorno al III secolo a.C.

Gli Egizi insaporivano le loro pietanze con sale marino, timo, maggiorana ed essenze estratte da frutta e noci, come le mandorle. Anche la liquirizia, considerata un afrodisiaco, era molto apprezzata nella cucina dell’antico Egitto: pare che il faraone Tutankhamon la consumasse prima di un incontro romantico con la consorte.

Nelle regioni meridionali dell’antico Egitto (la Nubia) ci sono prove che testimoniano la presenza di vaste coltivazioni di sorgo e datteri. I datteri furono probabilmente il tipo di frutta più consumato e diffuso, apprezzato per il suo elevato contenuto di zuccheri e proteine; venivano spesso utilizzati in sostituzione del miele per dolcificare le pietanze, o per produrre bevande fermentate.

Dolci e bevande

Dolci e bevande nell'antico Egitto

Le prime testimonianze documentali e artistiche di dolci nell’antico Egitto risalgono al 2.000 a.C.. Alcune raffigurazioni scoperte all’interno di tombe dell’ XI dinastia mostrano la realizzazione di dolciumi all’interno di templi allo scopo di creare offerte agli dei.

Circa 3.000 anni fa gli Egizi producevano caramelle composte da miele, erbe aromatiche, spezie e frutti acidi. Una torta molto comune veniva realizzata con miele e sesamo: all’interno della tomba di Pepionkh, risalente al 4.200 a.C., è stato trovato un esemplare di questo alimento, probabilmente il più antico pezzo di torta mai scoperto.

Uno dei dolci più comuni veniva realizzato utilizzando il cipero (Cyperus esculentus), un tubero commestibile che cresce in paludi e acquitrini. La ricetta dei dolci a base di cipero è stata trovata all’interno di un vaso d’argilla egizio risalente a circa 1.600 anni fa: dopo aver tritato il tubero in piccoli frammenti, si aggiungeva miele, spezie e pezzi di datteri prima di modellare il composto in piccole sfere.

Le bevande costituivano una parte importante nell’alimentazione. I più ricchi potevano permettersi di consumare vino in abbondanza, ma era la birra la stella di ogni pasto. Consumata di fatto da chiunque, la birra veniva prodotta utilizzando pagnotte parzialmente cotte di orzo sbriciolate in una mistura di acqua e orzo.

Le pagnotte servivano ad innescare l’attività dei lieviti necessari a produrre la birra. Trascorso il certo periodo di fermentazione, il composto veniva filtrato e, se necessario, speziato con fichi e datteri.

La birra egizia aveva un contenuto di alcol variabile, anche se la più comune conteneva l’ 8-9% di alcol. Si utilizzavano vasi differenti in base alla gradazione: i vasi rossi indicavano una gradazione alcolica standard, quelli neri erano destinati alla birra più potente, mentre i vasi di altro colore venivano impiegati per la birra aromatizzata.

Fonti per “Cosa mangiavano gli Egizi?”

Food and Drinks in Ancient Egypt
ANCIENT EGYPTIAN FOOD
What Did Ancient Egyptians Really Eat?
The Diet of the Ancient Egyptians

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Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/ https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/#respond Fri, 25 Oct 2019 00:10:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4623 Il pinole, chiamato anche pinol o pinolillo, è un alimento utilizzato per secoli dai nativi nord e centroamericani come cibo di prima necessità o di sopravvivenza.

Grazie al suo alto valore nutritivo, il pinole fu spesso la prima scelta nelle scorte alimentari di chi doveva intraprendere lunghi viaggi senza la avere la possibilità di trasportare grandi quantità di provviste.

L’origine del pinole

Il termine pinole deriva dalla parola Nahuatl pinolli, che significa “farina di mais”. Ancora oggi è considerata la base per le bevande tradizionali di Nicaragua e Honduras, mentre gli indiani Tarahumara messicani utilizzavano questa polvere a base di mais prima di intraprendere le loro caratteristiche marce su lunghe distanze.

La prima testimonianza scritta del pinole risale ai primi anni del 1700: il comandante spagnolo Don Pedro Fages e la sua truppa, durante l’ esplorazione delle coste californiane, terminano le loro provviste alimentari e si videro costretti a chiedere aiuto ai nativi che risiedevano nell’area oggi chiamata Pinole.

Il cibo che fu loro donato era composto da una mistura di ghiande, semi e cereali selvatici, un mix definito dai locali come “pinole”, dall’antico termine azteco “pinolli”.

I Tarahumara preparano una sorta di "barretta energetica" con il pinole che producono.
I Tarahumara preparano una sorta di “barretta energetica” con il pinole che producono.

Il missionario John Gottlieb Ernestus Heckewelder, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, descrive nel suo “History, Manners and Customs of the Indian Nations” come il popolo dei Lenni Lenape (o Delaware) preparava e utilizzava questo alimento di prima necessità:

“Lo Psindamooan o Tassmanane, come lo chiamano loro, è il cibo più nutriente e durevole realizzato con il mais indiano. Il tipo di mais blu e dolce è quello che preferiscono. Lo arrostiscono su cenere calda fino a quando non esplode, a quel punto viene setacciato, pulito e pestato in un mortaio fino ad ottenere una specie di farina; quando vogliono preparare del pinole davvero buono, lo mescolano con zucchero”.

 

“Quando vogliono utilizzarlo, mettono in bocca un cucchiaio di questa farina, si chinano lungo un fiume o un ruscello e bevono. Se tuttavia hanno a disposizione una tazza o un altro recipiente, vi versano la farina e la mescolano nelle proporzioni di un cucchiaio per ogni pinta d’acqua”.

 

“Con questo cibo il viaggiatore e il guerriero partono per lunghi viaggi e spedizioni […] Le persone non abituate a questa dieta devono essere prudenti a non assumere troppo pinole in una volta sola, e a non essere tentati troppo dal suo sapore; è pericoloso ingerire più di un cucchiaio o due in un solo pasto; [il pinole] si gonfia nello stomaco e nell’intestino, come quando viene cotto sulla fiamma.”

Composizione e preparazione del pinole

Il pinole veniva originariamente prodotto arrostendo semi di mais su ceneri calde, procedendo successivamente a ripulirle prima di macinarle fino ad ottenere una farina grossolana.

Con l’aggiunta di acqua, la farina di mais così preparata diventava una sorta di zuppa d’avena, non particolarmente saporita ma capace di donare una piccola quantità di energia sufficiente per svolgere le attività quotidiane, o di consentire la sopravvivenza durante le stagioni più difficili.

Per renderlo più gradevole al palato, alla farina di mais arrostito venivano talvolta aggiunti cacao, dolcificanti naturali come zucchero di canna o miele, cannella, oppure farine prodotte da altri semi, come ghiande o altri cereali selvatici.

Preparare il pinole secondo metodi tradizionali richiedeva lavoro, specialmente se era prevista l’aggiunta di altri ingredienti oltre alla sola farina di mais: occorreva arrostire e tritare in un mortaio i semi di granturco, fare lo stesso con le fave di cacao, e procurarsi miele selvatico (attività che può risultare pericolosa), zucchero di canna o nettare di agave.

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Un alimento ricco di nutrienti

In base alla tipologia e alla qualità dei suoi ingredienti, il pinole può contenere un’elevata dose di vitamine, proteine, fibre e antiossidanti. L’aggiunta di zucchero e spezie, oltre a rendere più gradevole il sapore, gli può donare proprietà tonificanti ed energizzanti.

Dato il suo alto contenuto di fibre e la lenta digestione del mais, il pinole è in grado di saziare a lungo. Il pinole contiene mediamente 2-4 grammi di carboidrati per cucchiaio, 2 grammi di proteine e circa 20 milligrammi di sodio.

Circa 5 grammi di pinole contengono solo 35 calorie e forniscono un discreto apporto di vitamina A, C, B1, B2, B3, E, calcio, ferro, riboflavina e tiamina.

Fonti per “Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani”

Pinole
Pinole: The Ultimate Bugout Food

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Chuño, le patate liofilizzate degli Inca https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/ https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/#comments Tue, 03 Sep 2019 08:00:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4490 Per estendere la durata di alcuni alimenti facilmente deperibili i nostri antenati escogitarono numerose strategie di conservazione: disidratazione, salagione, stanze fredde e ventilate (come lo yakchal) o piccoli contenitori ad evaporazione funzionarono egregiamente per millenni prima dell’avvento dei frigoriferi moderni.

Precedentemente all’incontro con gli Europei, gli abitanti delle Ande, la cui alimentazione era tradizionalmente legata con le patate, escogitarono un sistema del tutto naturale per conservare a lungo i loro tuberi preferiti: il chuño.

Il chuño

Con il termine “chuño” si identificano le patate conservate tramite congelamento e liofilizzazione naturale. La tradizione del chuño ha origine da ben prima della formazione dell’ impero Inca (intorno al XIII secolo); in base ad alcuni ritrovamenti archeologici tra Bolivia e Perù, la produzione di chuño ebbe origine con la cultura Tiwanaku sviluppatasi lungo le sponde del lago Titicaca, circa tre millenni fa.

Il consumo di chuño viene descritto per la prima volta nel 1590 dal missionario gesuita José de Acosta. Si tratta di un cibo a lunga conservazione, facilmente trasportabile per una cultura priva di animali da soma e dotato di un discreto valore nutritivo, un mix di caratteristiche ideali per qualunque alimento di prima necessità.

Se conservato in un luogo fresco e asciutto, il chuño può rimanere commestibile anche per decadi, una proprietà che torna molto utile ad una cultura che vive a quasi 4.000 metri di altezza in un territorio notoriamente ostile, poco fertile e soggetto a siccità periodica.

Preparazione tradizionale del chuño
Preparazione tradizionale del chuño

Arrivando a pesare circa cinque volte meno di una patata, il chuño divenne ben presto un alimento dalla forte leva commerciale: in cambio di patate liofilizzate, la cultura di Tiwanaku otteneva materie prime e prodotti alimentari provenienti da ogni angolo del Sud America.

Ad ogni famiglia veniva assegnata una porzione di chuñochinapampa (in lingua Aymara, “luogo in cui si produce il chuño “) per un periodo compreso tra i 7 e i 10 giorni, in base al clima e alla temperatura notturna. Alla produzione di chuño partecipava tutta la famiglia, ma un ruolo particolarmente attivo veniva svolto da donne e bambini.

Congelamento naturale

Il procedimento necessario alla produzione di chuño è strettamente dipendente dall’escursione termica tra giorno e notte: al calar del sole le temperature crollano sotto lo zero ad altezze comprese tra i 3.500 e i 4.000 metri (il lago Titicaca si trova a 3.812 metri sopra il livello del mare), con un’umidità media prossima al 30%.

Gli antichi abitanti delle Ande impararono a sfruttare le temperature notturne e diurne a loro vantaggio per produrre cibo nutriente e a lunga conservazione. Dopo il raccolto di patate, i tuberi più piccoli vengono selezionati per la produzione di chuño, che si svolgerà tra maggio e luglio (mesi invernali nell’emisfero meridionale).

Le patate selezionate vengono disposte su una zona piatta di terreno, completamente esposte al clima andino. Durante la notte, le temperature scenderanno oltre i -5 °C, congelando l’acqua contenuta nelle patate; all’alba, le patate congelate inizieranno a scaldarsi e a rilasciare acqua, disidratandosi progressivamente sotto i 18 °C del sole invernale.

L’esposizione al gelo andino dura per circa tre notti. Una volta terminato il processo di congelamento naturale, le patate vengono portate nel chuñochinapampas e schiacciate con i piedi per eliminare tutta l’acqua residua e facilitare la rimozione della buccia dal tubero.

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Le patate verranno quindi lasciate sul posto per circa una settimana ed esposte nuovamente al ciclo di raffreddamento e scongelamento. In base al tipo di chuño da produrre, potranno subire un’ulteriore lavorazione:

Chuño bianco (o tunta)

Il chuño bianco si ottiene lavando le patate dopo l’ultima settimana di congelamento. In Bolivia, le patate vengono protette dall’esposizione solare diretta utilizzando coperte o paglia bagnate continuamente con acqua per idratare nuovamente i tuberi; in Perù, invece, le patate vengono portate nei pressi di un fiume e lasciate in acqua per circa una settimana.
Il passaggio finale per la produzione di chuño bianco è la disidratazione al sole.

Chuño nero

Per produrre il chuño nero non è necessaria alcuna lavorazione dopo la rimozione della buccia e l’ultima esposizione al clima andino. Il chuño nero ha meno variazioni regionali rispetto a quello bianco e veniva comunemente consumato dai contadini.

Un alimento alla base della dieta andina

Una patata da 100 grammi è in grado di produrre un chuño del peso approssimativo di 20 grammi, perdendo circa l’80% dell’acqua che conteneva in origine. Nei rimanenti 20 grammi di prodotto si concentrano tutti i valori nutrizionali della patata: si tratta sostanzialmente di un tubero liofilizzato.

Durante il processo di disidratazione, le sostanze idrosolubili (come alcuni minerali, le proteine e l’acido ascorbico) vengono parzialmente espulse dalle patate o decomposti da meccanismi ossidativi. Allo stesso tempo, il contenuto di calcio aumenta di circa due volte e viene ridotta notevolmente la tossicità di alcuni composti che rendono particolarmente amare le patate andine.

Il consumo di 100 grammi di chuño fornisce 375-400 Kcal, principalmente sotto forma di carboidrati. I valori nutrizionali non sono particolarmente alti, ma l’energia fornita dal chuño e la possibilità di conservarlo per lunghi periodi di tempo lo rendono un cibo ideale per riempire lo stomaco e fornire le energie necessarie a lavorare i campi durante le stagioni più difficili.

A Space-Age Food Product Cultivated by the Incas
Chuño and Tunta ; the traditional Andean sun-dried Potatoes.
Chuño
Chuño, el secreto milenario de los Andes para lograr que una papa dure 20 años

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