Piante utili nell’antichità – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Gotlandsdricka, la bevanda vichinga dell’isola di Gotland https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/ https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/#respond Mon, 16 Nov 2020 00:10:52 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5026 Gotlandsdricka, chiamata anche drikke, drikko o drikku in lingua Gutnish, è una bevanda alcolica prodotta da secoli sull’isola svedese di Gotland, un drink realizzato domesticamente del tutto simile a ciò che consumavano quotidianamente i popoli norreni durante i loro pasti.

Dal colore ambrato o bruno, il drikke (chiamato spesso “birra indigena” o “birra delle Gotland”) è una bevanda torbida consumata “giovane”, all’inizio del processo di fermentazione, aspetto che contribuirà a mutarne il sapore nel corso del tempo.

Storia del drikke

Il termine gotlandsdricka significa “bevanda di Gotland” ed è comunemente utilizzato dagli abitanti dell’isola per distinguere la loro bevanda da quelle provenienti dal continente europeo o da altre regioni scandinave. Essendo una bevanda prodotta tra le mura di casa, ogni regione dell’isola ha la sua personale ricetta, ma la base di ingredienti e il metodo di fermentazione è essenzialmente lo stesso.

Il drikke nasce come bevanda per d’uso comune. Produrre bevande a base di luppolo, considerate le migliori e le più saporite, richiedeva tempo e materie prime relativamente costose per l’abitante di Gotland di circa un millennio fa, prima che il luppolo potesse diventare una delle colture stabili scandinave.

Per non rimanere a bocca asciutta, i primi coloni dell’isola di Gotland escogitarono un metodo di produzione di bevande alcoliche basato sulle materie prime più facilmente reperibili sul posto: malto di cereali locali, ginepro, linfa di betulla e miele.

Non bisogna dimenticare che l’isola di Gotland è relativamente lontana dalla terraferma, posizione che di certo non favorisce i contatti con il continente. Nonostante questo, l’isola era un centro commerciale ben sviluppato già un millennio fa, e i residenti si abituarono a sopravvivere coltivando segale, bruciando kelp e producendo la loro bevanda personale alcolica.

Ricetta di base immutata per secoli

La cultura norrena dell’ epoca vichinga considerava il drikke una bevanda non alcolica, al contrario di birra e idromele, anche se può contenere una percentuale di alcol che varia dal 3 al 12%.

Il drikke veniva tradizionalmente preparato dalle donne tra i confini della propria abitazione, e veniva servito a bambini e adulti durante i pasti. Gli uomini potevano aiutare nel trasporto di acqua, legno e dei materiali necessari alla fermentazione, ma la preparazione della bevanda era affidata alla manualità femminile delle isolane.

La preparazione domestica del drikke nel corso degli ultimi 1.000 anni si è evoluta, ma gli ingredienti e il sapore sono rimasti sostanzialmente del tutto simili: malto, mazzetti di ginepro, acqua, miele e il “mirto di palude” (Myrica gale), una pianta da torbiera che cresce spontanea in Europa settentrionale, mescolati e fatti fermentare per ottenere una bevanda dal sapore unico.

Durante il XIII secolo il sapore del drikke fu arricchito dall’aggiunta delle infiorescenze femminili del luppolo, senza tuttavia sovrastare il sapore tipico del ginepro.

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Pare che, prima della metà del XIII secolo, le bevande a base di luppolo fossero poco diffuse in Scandinavia, probabilmente per un blocco commerciale tra le regioni europee settentrionali e l’Europa centrale. Nel 1283 Re Erik VI di Danimarca proibì a Copenhagen l’importazione e la vendita di birra a base di luppolo proveniente dalla regioni dell’attuale Germania; l’isola di Gotland e la Scandinavia si trovarono tagliate fuori dal traffico di birra a base di luppolo, ritardando di qualche decade l’introduzione e l’impiego su larga scala di questa pianta.

Tra il XIII e il XIV secolo, in Danimarca iniziano a spuntare piccole cittadine dai nomi associati al luppolo, come Humlebaek, Humlebakke e Humledal, segnale che il divieto di Erik VI trovava difficile applicazione nella realtà dei fatti. Nel 1268, infatti, il consiglio della città di Roskilde, a circa 30 km da Copenhagen, aveva già consentito la vendita di birra al luppolo agli agricoltori locali, suggerendo l’ipotesi che il luppolo stava ormai entrando nei gusti danesi da diverso tempo.

Tra il XIX e il XX secolo, il miele fu sostituito dallo zucchero, abbassando i costi di produzione e aumentando allo stesso tempo la resa della fermentazione domestica. Ancora oggi tuttavia molti produttori continuano a seguire la ricetta tradizionale usando il miele.

Produzione del drikke

La produzione del gotlandsdricka inizia dal malto prodotto da orzo (il cereale preferito per questo impiego), frumento, segale o avena, in base alla disponibilità locale. Dopo aver fatto germinare i cereali, il malto veniva essiccato all’aria, oppure in un piccolo capanno chiamato kölna, costruito sulla cima dell’edificio adibito alla fermentazione oppure separato dall’abitazione, grazie al fumo prodotto da un focolare alimentato da legna di ontano, betulla, pino o ginepro.

Il kölna era un capanno multiuso: non veniva impiegato esclusivamente per la produzione di malto, ma poteva essere utilizzato per affumicare carne e pesce o per conservare alcuni tipi di scorte alimentari.

Il malto veniva quindi macinato e mescolato ad un composto ottenuto dalla bollitura in acqua di mazzi di ginepro. La miscela, ispessita dall’aggiunta di malto, veniva lasciata riposare per circa due ore per poi essere trasferita nel rostbunn, la vasca in cui viene innescata la fermentazione.

Rostbunn. Wikimedia Commons
Rostbunn. Wikimedia Commons

La composizione e la stratificazione del rostbunn sono elementi fondamentali per una buona fermentazione del drikke. Gli strati devono essere sufficientemente compatti da lasciar passare un lento ma costante flusso di liquido senza ostruirlo.

Questo genere di stratificazione, tramandata oralmente da secoli, è soggetto a numerosi errori che possono vanificare svariate ore di lavoro e giorni di attesa. Per questa ragione sono nati anche molti tabù legati alle varie fasi di produzione della bevanda: alcuni produttori credono che sia necessario il silenzio più completo durante la stratificazione del rostbunn, altri invece che nella vasta occorra posizionare un pezzo d’acciaio o un’antica ascia di pietra per ottenere una buona fermentazione.

La vasca viene rivestita internamente di paglia prima di stratificarla. Il primo strato del rostbunn è composto da un reticolo di rametti di ginepro privati della loro corteccia, mentre lo strato superiore, il secondo, è composto da paglia pressata; gli strati vengono deposti in modo tale da lasciare uno spazio concavo al centro della vasca, spazio in cui verrà versata la miscela calda a base di malto e ginepro.

Dopo che la miscela versata nel rostbunn ha perso la sua parte liquida, il rubinetto sul fondo della vasca viene aperto per far uscire il wort (o lännu), un liquido zuccherino pronto per la fermentazione, che viene raccolto in un secchio. Il wort ottenuto dalla prima apertura del rubinetto viene talvolta lavorato separatamente per creare bevande più forti e saporite.

Il wort viene quindi bollito aumentarne il livello di dolcezza e arricchito da luppolo, bacche locali, zucchero o miele. Quando viene raggiunto il livello di dolcezza stabilito, il liquido viene fatto raffreddare, viene filtrato e addizionato di lieviti (kveik, il lievito domestico tradizionale scandinavo) per innescare la fermentazione, che durerà fino 14 giorni all’interno di barili di legno (e 5-7 giorni se si utilizza il lievito commerciale moderno).

Gotlandsdricke – an overview
Gotlandsdricka
To hop or not to hop: Early medieval beer brewing in Scandinavia and continental Europe
The Goodland island and its ancient beers
Kveik

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Birra di betulla e Medovukha https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/ https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/#respond Mon, 17 Aug 2020 00:09:32 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4955 La linfa di betulla, una bevanda zuccherina apprezzata da millenni come preziosa fonte di vitamine e zuccheri, si presta anche alla produzione di liquidi fermentati se correttamente lavorata.

La birra di betulla è un prodotto dal sapore fresco, sostanzialmente privo di alcol o a bassissima gradazione alcolica (2-4%). La fermentazione non è esclusivamente funzionale all’aumento del contenuto alcolico, ma è un procedimento innescato naturalmente o artificialmente allo scopo di rendere la bevanda leggermente frizzante.

Oggi esistono numerose varietà di birra di betulla, differenti sia per colore che per sapore. Il colore dipende dalla specie di betulla da cui è stata estratta la linfa o dalla presenza di coloranti naturali o artificiali, mentre il sapore è determinato dalla miscela di erbe impiegata per aromatizzare la bevanda.

Birra di betulla e bevande affini

La birra di betulla iniziò ad essere prodotta dai primi esploratori e coloni occidentali in Nord America, spesso come sostituto a liquori dalla più alta gradazione alcolica e più costosi. John Mortimer, nel suo libro “The Whole Art of Husbandry” del 1707, afferma che la birra di betulla veniva prodotta in casa dalla fascia più povera della popolazione, dato che necessitava di ingredienti poco costosi e disponibili in quasi ogni cucina.

Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvania
Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvaniacicib

Una delle più antiche ricette della birra di betulla risale al 1676 e si trova nell’opera Vinetum Britannicum, di John Worlidge:

Ad ogni gallone, aggiungi una libbra di zucchero raffinato e fai bollire per circa un quarto d’ora o mezz’ora; fai raffreddare e aggiungi un po’ di lievito per far fermentare la bevanda e liberarla dalle scorie che il liquore e lo zucchero possono produrre: poi metti la bevanda in un barile e aggiungi un pizzico di cannella e noce moscata, circa una mezza oncia per entrambi ogni dieci galloni; circa un mese dopo il composto va imbottigliato; e in pochi giorni si avrà un vino frizzante molto delicato, dal sapore simile a quello del Reno. […] Questo liquore non è di lunga durata, a meno che non venga conservato al fresco.

Fino alla fine del 1800 in Russia, Ucraina e Bielorussia, fu molto popolare la medovukha, una bevanda simile all’idromele ma più economica e veloce da produrre. I due ingredienti principali sono la linfa di betulla e il miele fermentato. Il miele fermenta naturalmente nell’arco di 15-50 anni, ma oltre 700 anni fa le popolazioni slave escogitarono un metodo per velocizzare la fermentazione del miele sfruttando il calore.

Preparazione della birra di betulla

Il primo passo è quello di ottenere grandi quantità di linfa di betulla, estratta generalmente da metà inverno fino a metà primavera. Ogni albero, dipendentemente dalla specie, può arrivare a produrre oltre 4 litri di linfa ogni giorno, buona parte della quale può essere estratta dal tronco senza rischiare di uccidere la pianta. Per produrre una quantità minima di birra di betulla occorre partire da almeno 4-5 litri di linfa.

L’albero preferito per produrre birra è la “betulla nera” (Betula lenta), chiamata anche “betulla dolce”, una pianta tipicamente nordamericana che può raggiungere i 30 metri di altezza e che produce grandi quantità di linfa molto zuccherina. Sono tuttavia adatte anche altre specie, come la comune betulla bianca (Betula alba o pendula).

La finestra temporale per la raccolta della linfa corrisponde al periodo in cui il liquido zuccherino percorre in grandi quantità i capillari dell’albero. Se raccolta prima della comparsa delle prime foglie verdi, o in tarda primavera, la linfa di betulla può risultare amara.

La linfa deve essere versata in un contenitore capiente, addizionata di zucchero (o miele) e scaldata a fuoco basso. La quantità di zuccheri da aggiungere alla linfa varia in base alla tipologia: occorrono circa 5 litri di miele o 4 kg di zucchero ogni 20 litri di linfa per ottenere una corretta fermentazione.

Portare a ebollizione continuando a mescolare per sciogliere completamente lo zucchero: una volta dissolto tutto lo zucchero, rimuovere dalla fiamma e lasciar raffreddare il composto prima di travasarlo nel contenitore destinato alla fermentazione. A questo punto occorre aggiungere il lievito di birra (17-25 grammi), per poi coprire il recipiente con un panno per proteggerlo da insetti, batteri e muffe.

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Il composto deve riposare e fermentare per una o due settimane, fino a quando si schiarisce; a questo punto è pronto per l’imbottigliamento. Se mantenuta chiusa in un luogo fresco, asciutto e buio, la birra di betulla può conservarsi per circa 3 mesi.

In alternativa alla linfa di betulla è possibile utilizzare rametti e corteccia prelevati dallo stesso albero, immergendoli in acqua e portando il tutto a ebollizione prima di rimuovere la materia vegetale e aggiungere zucchero. La bollitura della corteccia richiede più tempo rispetto alla linfa: lo scopo è quello di ammorbidire il materiale e forzare il rilascio degli olii essenziali che contiene.

Medovukha

La medovukha viene tradizionalmente preparata all’inizio della primavera partendo da contenitori da 20 litri pieni di linfa di betulla mescolata a 3 litri di miele. I contenitori vengono quindi chiusi da panni di cotone e lasciati al buio e al caldo per diverse settimane.

Una volta iniziata la fermentazione la superficie della miscela di linfa e miele inizierà a produrre schiuma, che pian piano diminuirà di volume fino a sparire; a quel punto viene aggiunto un altro litro di miele per innescare nuovamente la fermentazione.

La seconda fermentazione dura 1-2 settimane. Una volta pronta, la medovukha viene versata in piccole bottiglie che verranno sigillate dopo aver aggiunto polline fresco.

La quantità di alcol e il sapore della medovukha variano col tempo: una bevanda “giovane” avrà uno scarso contenuto alcolico e un sapore di limonata; dopo averla lasciata invecchiare per diversi mesi e aggiungendo altro miele, la medovukha può arrivare ad avere un contenuto alcolico pari al 16%.

Birch beer
Vinetum Britannicum
Birch Beer Recipe
Birch Mead Medovukha

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Miglio e impero mongolo https://www.vitantica.net/2020/06/01/miglio-impero-mongolo/ https://www.vitantica.net/2020/06/01/miglio-impero-mongolo/#respond Mon, 01 Jun 2020 14:00:24 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4872 Dare alla luce un impero richiede diversi elementi fondamentali: occorre avere un esercito potente, versatile e mobile; è necessario utilizzare un pensiero tattico e strategico, una dote non comune e che va coltivata attraverso sconfitte e vittorie; è indispensabile, inoltre, un’industria metallurgica e un artigianato in grado di produrre su larga scala tutto l’equipaggiamento necessario ai soldati durante le campagne di conquista.

Un altro elemento fondamentale è rappresentato dal cibo: sfamare un esercito richiede enormi risorse alimentari, risorse che in alcune regioni, a causa del clima o delle tecnologie agricole utilizzate, non era possibile produrre in abbondanza o in quantità tale da sostenere un intero esercito durante una lunga campagna militare.

Se analizziamo la nascita e la costruzione dell’impero mongolo di Gengis Khan, una domanda che sorge spontanea, e del tutto lecita, è come sia stato possibile per un popolo di pastori nomadi sostenere una lunga e faticosa campagna militare in una terra tipicamente poco fertile, spazzata da venti estremi, dagli estremi termici brutali, e che offre poche risorse alimentari.

Secondo uno studio condotto dal dottor Shevan Wilkin del Max Planck Institute for the Science of Human History, il segreto delle risorse alimentari mongole durante la costruzione dell’impero di Gengis Khan fu il miglio.

La scarsa fertilità della Mongolia

Il clima mongolo limita fortemente l’attività agricola. Se in tempi moderni la stagione agricola dura da 90 a 110 giorni, in passato era probabilmente più breve; solo l’ 1% del suolo mongolo è effettivamente coltivabile, e ancora oggi l’attività più produttiva in campo agricolo rimane la pastorizia, con il 75% delle terre coltivabili dedicate al pascolo.

In Mongolia si possono oggi coltivare mais, grano, orzo e patate, ma sia mais che patate erano colture del tutto sconosciute in Asia durante la nascita dell’impero mongolo. In corrispondenza di inverni particolarmente severi, ancora oggi (ad esempio, tra il 2009 e il 2010) è possibile perdere una parte consistente del raccolto, con influenze anche sul mercato dei prodotti di origine animale (senza pascoli e mangimi, l’allevamento ne risente).

La Mongolia ai tempi di Gengis Khan

Mobilità esercito mongolo

Alla nascita del celebre condottiero, in Mongolia risiedevano cinque confederazioni tribali, tra le quali la confederazione Khamag Mongol sotto la guida di Khabul Khan, il bisnonno di Gengis. La Mongolia si trovava sotto la costante pressione della dinastia cinese Jin, che non perdeva occasione per mettere le tribù mongole una contro l’altra per trovare l’occasione di occupare una parte dei territori sotto il loro dominio.

Dopo l’esecuzione di Ambaghai Khan, successore di Khabul, per mano della dinastia Jin grazie al tradimento della confederazione dei Tatar (i Tatari), i Khamag Mongol scatenarono un attacco alla frontiera cinese. L’attacco ebbe probabilmente l’effetto sperato: quattro anni dopo, nel 1147, i Jin firmarono un trattato di pace con i Khamag Mongol.

Dopo la firma del trattato, i Khamag attaccarono i Tatar per vendicarsi dell’esecuzione del proprio comandante, aprendo un periodo di ostilità che si concluse con la sconfitta dai Khamag nel 1161 da parte di un esercito composto da Tatar e Jin.

Temüjin nacque l’anno successivo, nel 1162, nel bel mezzo di un cambiamento climatico locale del tutto fortunato per i suoi futuri piani di conquista: le steppe aride e fredde dell’ Asia centrale poterono godere di un clima mite e umido, favorendo le attività agricole e l’allevamento che furono alla base del successo militare di Gengis Khan. In aggiunta, la confederazione Khamag, ormai disgregata, aveva occupato da diverse decadi le zone più fertili della Mongolia, fornendo una buona base di partenza per il futuro supporto all’esercito conquistatore di Gengis Khan.

Il miglio

Wilkin e i suoi colleghi della National University of Mongolia e dell’Istituto di Archeologia di Ulaanbaatar hanno analizzato il contenuto di isotopi di azoto e carbonio nelle ossa e nei denti di 137 individui rinvenuti in alcuni siti archeologici mongoli, ricostruendo la dieta delle popolazioni locali dall’ Età del Bronzo all’epoca della nascita dell’ impero di Gengis Khan.

I ricercatori hanno scoperto una differenza significativa tra gli antichi popoli mongoli e quelli del XII-XIII secolo: la dieta. L’alimentazione tipica dell’ Età del Bronzo era basata su latte e carne, con un piccolo apporto di verdure fornite dalle poche piante spontanee locali; intorno all’epoca della tregua con i Jin, invece, alcuni mantennero la dieta estremamente proteica dei loro antenati, ma molti altri iniziarono a consumare alimenti a base di miglio.

A partire dal IX secolo d.C., i popoli delle steppe mongole iniziarono a modificare la loro dieta includendo miglio e altri cereali: si passò da un contributo calorico da cereali pari al 2,5-5% della dieta al 26% nelle aree centro-settentrionali della Mongolia, un incremento che non può essere spiegato con soli fenomeni naturali senza includere nell’equazione commercio e agricoltura.

Le ossa rinvenute nei pressi di insediamenti più vicini ai confini dell’impero Jin contenevano isotopi di carbonio (riconducibili al consumo di granaglie) in quantità significativamente superiore agli individui vissuti in regioni più remote, suggerendo che alcune aree della Mongolia, specialmente quelle vicine alle regioni cinesi, godessero di una produzione agricola ben strutturata.

Buona parte delle granaglie necessarie ad alimentare le orde mongole provenivano probabilmente da un’economia agricola basata sia sulla produzione locale, sia sugli scambi commerciali o sui saccheggi di prodotti della terra nelle aree limitrofe più fertili.

Non solo pastori

Questo scenario è in contrasto con la concezione tradizionale della storia mongola: un popolo di nomadi dall’economia scarsamente centralizzata, tecnologia agricola quasi inesistente e un’alimentazione quasi interamente basata su proteine animali e derivati del latte.

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In realtà, il contrasto non è così forte: è vero, i Mongoli erano un popolo nomade che non conosceva le tecniche agricole dei regni confinanti, e alimentava il suo esercito con carne di cavallo e derivati del latte, ma è altrettanto vero che la vicinanza con i territori Jin forniva loro l’opportunità di ottenere alimenti non facilmente disponibili nella steppa, alimenti con cui nutrire i propri figli e le proprie mandrie.

La storia tende spesso a semplificare l’economia delle civiltà passate, commettendo l’errore di creare dualismi non storicamente corretti. Un esempio sono le civiltà precolombiane e la loro economia apparentemente basata solo sul granturco: è vero che il mais costituiva la base dell’economia agricola di alcuni imperi americani, ma nei mercati aztechi o nordamericani era possibile trovare una gamma relativamente vasta di prodotti della terra, come tacchini, fagioli, zucche, cassava, patate, pomodori e cacao.

La pastorizia moderna in Mongolia è sempre stata identificata come un residuo del passato e l’indicatore di come un impero potesse fiorire in assenza di un’organizzazione politica, economica e agricola ben strutturata; ma l’esempio mongolo ha sempre rappresentato un’eccezione storica basata sull’analisi parziale dei resti archeologici. Grazie alle moderne tecniche di analisi dei reperti archeologici, stiamo pian piano realizzando, anche nel caso dell’ impero mongolo, che la realtà storica è spesso ben più complessa di semplici generalizzazioni facili da ricordare.

Economic Diversification Supported the Growth of Mongolia’s Nomadic Empires
How Millets Sustained Mongolia’s Empires

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Marijuana e hashish nel medioevo arabo https://www.vitantica.net/2020/03/16/marijuana-hashish-medioevo-arabo/ https://www.vitantica.net/2020/03/16/marijuana-hashish-medioevo-arabo/#respond Mon, 16 Mar 2020 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4808 Il problema di uso e abuso di sostanze psicotrope, siano esse droghe leggere o pesanti, non è un fenomeno moderno. Anche se nell’antichità era molto più facile trovare sostanze (oggi illegali) nei mercati cittadini o dal proprio speziale di fiducia, la loro legalità e i comportamenti originati dal loro abuso furono per secoli oggetto di dibattito.

La marijuana, nel XXI secolo come in passato, ha conosciuto oppositori e sostenitori incalliti. Nel mondo medievale arabo era conosciuta sotto diversi nomi, primo tra tutti “l’ Erba”; la si poteva trovare nei mercati egiziani medievali e veniva impiegata per produrre hashish, consumato quotidianamente da una fetta di popolazione locale tra il XIII e il XV secolo.

Nel suo libro “The Herb: Hashish versus Medieval Muslim Society” (1971), Franz Rosenthal esamina l’uso della marijuana nella società medievale islamica, mostrando un quadro sociale e giuridico non molto differente da quello moderno.

Le droghe nell’ Egitto medievale

I reperti archeologici suggerirebbero che la cannabis fosse presente in Egitto già 5.000 anni fa, ma non si ha alcuna prova del suo utilizzo psicoattivo o ricreativo. La divinità egizia Seshat, dea della saggezza, della scrittura, delle scienze e dell’architettura, viene quasi sempre raffigurata con un emblema a sette punte sopra la testa, un emblema che per alcuni sarebbe riconducibile alla foglia di cannabis.

Secondo H. Peter Aleff, nell’articolo “Seshat and her tools” in cui sostiene che l’emblema della dea sia in realtà una foglia di cannabis:

“Molti egittologi hanno speculato a lungo sull’emblema che Seshat indossa sulla testa. Sir Alan Gardiner lo descrisse nel suo libro ‘Egyptian Grammar’ come un ‘fiore stilizzato (?) sormontato da corna’. Il suo punto interrogativo dopo ‘fiore’ riflette il fatto che non c’è alcun fiore che somiglia a quello. Altri lo hanno chiamato ‘stella sormontata da un arco’, ma le stelle nell’antica iconografia egizia avevano cinque punte, non sette come l’emblema di Seshat. Questo numero era così importante che portò il faraone Tutmosi III a chiamare questa dea ‘Sefkhet-Abwy’, o ‘Quella dalle sette punte'”.

Sappiamo per certo, invece, che l’Egitto iniziò a produrre hashish dalla canapa almeno 9 secoli fa. La prima testimonianza della parola “hashish” appare in un opuscolo pubblicato al Cairo nel 1123 d.C.. Il documento accusava i musulmani del ramo Nizaris, attualmente il più grande gruppo di ismailiti sciiti, di essere dei “mangiatori di hashish”. Il consumo di hashish tramite la combustione, infatti, non divenne comune fino all’introduzione del tabacco nel Vecchio Mondo: fino al 1500 l’hashish prodotto nel mondo islamico veniva ingerito e non fumato.

Storia dell'hashish
Storia dell’hashish

Nel 1596 Jan Huyghen van Linschoten usa tre pagine della sua opera “Reys-gheschrift vande navigatien der Portugaloysers in Orienten” (“Resoconti di viaggio della navigazione portoghese in Oriente”) per descrivere la “bangue” (bhang, una preparazione commestibile della cannabis in uso nel subcontinente indiano).

“Come in India, la bangue è usata anche in Turchia e in Egitto, e viene prodotta in tre qualità chiamate con altrettanti nomi. La prima varietà è quella chiamata Assis (hashish) dagli Egiziani, fatta di polvere o foglie di canapa con l’aggiunta di acqua per ottenere una pasta o un impasto; ne mangiano cinque pezzi, ciascuno grande quanto una noce. L’hashish è usato dalla gente comune per via del suo prezzo basso”

Nell’arco dei secoli i governanti d’Egitto e gli ufficiali locali hanno spesso cambiato idea sul livello di tolleranza da applicare alla marijuana e all’hashish, specialmente per i sottoprodotti della canapa chiamata “canapa indiana”, la più coltivata nei giardini privati egiziani.

In alcuni periodi storici si decise di seguire una linea molto dura, dalla pena di morte per il possesso di hashish ad una procedura estremamente violenta e dolorosa prevista per i consumatori: la rimozione di tutti i molari (su editto dell’ emiro Sudun Sheikuni, anno 1378).

Durante l’epidemia di peste del 1419, invece, gli ispettori dei mercati locali si dimostrarono più tolleranti, ritenendo accettabile la vendita di hashish a patto che le transazioni fossero condotte privatamente a porte chiuse, lontano dai luoghi pubblici e dai mercati.

Il consumo di hashish, tuttavia, divenne sempre più frequente e comune nonostante le policy di controllo imposte dalle autorità: nel XV secolo era possibile consumarlo ovunque, nei bagni pubblici o durante feste private.

Gli oppositori dell’hashish

Anche se i medici medievali erano consapevoli degli effetti positivi della cannabis (la somministravano, ad esempio, per curare l’inappetenza o come diuretico), conoscevano altrettanto bene gli aspetti negativi causati dal consumo abituale, anche se spesso descrivevano le problematiche dell’utilizzo dei prodotti della canapa con esagerazioni prive di alcuna base scientifica o empirica.

Il medico Ibn Wahshiyah, vissuto nel X secolo, consigliò nella sua opera “Il Libro dei Veleni” di usare cautela nella somministrazione di hashish, dato che l’estratto di canapa potrebbe causare la morte se combinato ad altri farmaci.

Az-Zarkashi, medico egiziano del XIV secolo, fornisce una lista completa dei potenziali problemi legati all’uso di hashish:

“Distrugge la mente, riduce la capacità riproduttiva, produce elefantiasi, trasmette la lebbra, attrae malattie, produce tremori, fa puzzare la bocca, secca il seme, causa la caduta delle sopracciglia, brucia il sangue, provoca la carie, fa emergere malattie nascoste, danneggia gli intestini, rende gli arti inattivi, causa fiato corto, genera forti illusioni, diminuisce il potere dell’anima”.

Pensavate fosse finita la lista? Az-Zarkashi aggiunge molto altro:

“Riduce la modestia, rende la carnagione gialla, annerisce i denti, perfora il fegato, infiamma lo stomaco [..] L’hashish genera in coloro che la mangiano pigrizia e indolenza. Trasforma un leone in uno scarabeo e rende umile un uomo orgoglioso, e malato un uomo sano. Se la si mangia, non se ne ha mai abbastanza. Rende sciocche persone dotate di una buona parlantina, e stupidi gli intelligenti. Sottrae ogni virtù maschile e fa terminare la prodezza giovanile. Distrugge la mente, arresta lo sviluppo dei talenti naturali”

Le discussioni sull’hashish in ambito accademico e religioso non mancarono: c’era chi sosteneva che dovesse essere proibito come il vino, dato che si trattava di una sostanza intossicante; altri invece indicavano che il Corano e Maometto non menzionano mai (e di conseguenza non sanzionano) l’uso di marijuana.

Gli studiosi arabi tentarono anche di capire come comportarsi in determinate circostanze legali relative al consumo di cannabis: un uomo può chiedere il divorzio sotto l’effetto di hashish? (La risposta è si) Può alimentare i propri animali con cannabis? (No, a meno che non avesse intenzione di farli ingrassare)

Lo storico arabo al-Maqrizi descrisse il consumo di hashish durante il XV secolo, non mancando di condannare i consumatori abituali che contribuivano a rovinare la società del suo tempo:

“Il carattere e il morale sono diventati incredibilmente vili, il velo di timidezza e vergogna è stato sollevato, la gente usa un linguaggio volgare, si vanta dei propri difetti, ha perso ogni nobiltà e virtù, ha adottato ogni sorta di brutta qualità e vizio. Se non fosse per la loro forma umana, nessuno li considererebbe umani. Se non fosse per la loro percezione dei sensi, nessuno giudicherebbe loro gli esseri viventi”

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Il “movimento Pro-hashish”

Nonostante le condanne dei più severi studiosi e governanti arabi, erano in molti a considerare i prodotti della canapa come vere e proprie medicine, e l’uso ricreativo era molto comune.

I consumatori egiziani del Medioevo, in particolari i dotti che hanno ci hanno lasciato documentazione storica, riportarono spesso gli effetti dell’uso di hashish: letargia, fame, talvolta allucinazioni generalmente positive; c’era anche chi sosteneva che la musica avesse un suono migliore sotto gli effetti della cannabis.

Al-Ukbari, scrittore del XIII secolo apparentemente a favore del consumo di hashish, descrive gli effetti in questo modo:

“Solo le persone intelligenti e buone usano hashish. Quando la si prende, si dovrebbe consumare solo i cibi più leggeri e i migliori dei dolci. Occorre sedersi nei posti più piacevoli e circondarsi degli amici più cari.”

Secondo lo storico Takiy Eddin Makrizy, vissuto nella prima metà del XV secolo, la cannabis (che chiama kounab, hashish o kif) non era una buona abitudine, ma il suo consumo era così diffuso che alcuni contemporanei non esitavano a definirla come “un’istituzione sacra”.

Il testo medico del XVI secolo Makhzan-El-Adwiya celebra invece le virtù mediche dell’hashish:

“Le foglie, tritate fino a polverizzarle e inalate, purificano il cervello; la linfa delle foglie applicata sulla testa elimina la forfora e i parassiti; alcune gocce di succo introdotte nelle orecchie alleviano il dolore e distruggono vermi e insetti. E’ utile contro la diarrea e la gonorrea, limita le emissioni seminali ed è un diuretico. La polvere è raccomandata per applicazioni esterne sulle ferite: le radici o le foglie, bollite e schiacciate, sono eccellenti contro le infiammazioni e neuralgie”

Cannabis in the Islamic Middle Ages
HASHISH IN ISLAM 9TH TO 18TH CENTURY
Getting High in the Middle Ages: Hashish in Medieval Egypt

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Terra preta, la terra nera dell’Amazzonia https://www.vitantica.net/2019/12/27/terra-preta-nera-amazzonia/ https://www.vitantica.net/2019/12/27/terra-preta-nera-amazzonia/#comments Fri, 27 Dec 2019 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4717 Da qualche anno i ricercatori che si dedicano allo studio degli ecosistemi amazzonici sono giunti alla conclusione che buona parte della foresta pluviale non è affatto immacolata, ma ha subito alterazioni rilevanti operate dall’essere umano allo scopo di rendere più vivibile un ambiente così estremo.

Gli alberi che popolano la giungla sudamericana mostrano una distribuzione per nulla casuale, non semplicemente spinta da normali processi ecologici: nella grande frequenza di alberi di noci, ad esempio, si celerebbe un intervento umano vecchio di secoli, la cui portata è ancora difficile da quantificare.

Sono sempre più gli indizi che ci suggeriscono un passato molto differente per la foresta amazzonica che possiamo osservare oggi. I primi esploratori europei descrissero un ecosistema ricco di comunità umane, anche di grandi dimensioni, ma ad oggi rimane poco o nulla di questi antichi insediamenti se non un elemento dalle proprietà quasi “magiche”, ma fondamentale per la costruzione di comunità sedentarie e popolose: la terra preta.

“Metropoli” amazzoniche e il problema del cibo

La teoria che la moderna foresta amazzonica sia il risultato dell’azione di processi naturali e intervento umano é supportata da alcuni resoconti redatti dai primi esploratori europei, primo tra tutti Francisco de Orellana.

L’esploratore spagnolo, durante la sua spedizione che lo portò a percorrere tutta la lunghezza del Rio delle Amazzoni (inizialmente battezzato come “Rio de Orellana”), si rese conto che le rive del fiume erano sede di numerose comunità di nativi.

Per diverso tempo il resoconto di Orellana fu ritenuto intriso di esagerazioni, giudicando impossibile la presenza di grandi insediamenti umani nel cuore della foresta pluviale. Dopotutto, per quanto denso di specie vegetali e ricco di biodiversità, il terreno del bacino amazzonico non è noto per la sua fertilità; per vivere e prosperare, un insediamento ha bisogno di enormi quantità di cibo, non ottenibile dalla sola caccia o dalle attività di raccolta.

Oggi, invece, siamo sempre più portati a pensare che Orellana non stesse mentendo. Secondo le stime moderne, all’inizio del 1500 l’Amazzonia era popolata da circa 5 milioni di nativi suddivisi tra insediamenti costieri e fluviali, una vasta popolazione che subì un drastico calo numerico a seguito dei primi contatti con le malattie importate dagli Europei.

Abbiamo diversi indizi che suggeriscono una massiccia presenza umana in Amazzonia intorno al XVI secolo: geoglifi, grandi quantità di scarti legati alla presenza umana e un terreno di natura particolare, introvabile in altre regioni amazzoniche e sicuramente creato dall’essere umano.

La terra nera degli indios

Ciò che viene definita “terra preta” (“terra nera”) è un tipo di terreno ben distinguibile dalla “terra mulata“, un suolo amazzonico di colore chiaro, o dalla “terra comum” (“terra comune”), terreno non fertile che ricopre buona parte del bacino amazzonico.

La terra preta copre una superficie pari allo 0,1% – 0,3% dell’ Amazzonia (da 6.000 a 19.000 km quadrati), ma alcune stime hanno elevato la percentuale al 10%, l’equivalente del doppio della superficie della Gran Bretagna. La terra preta si trova generalmente raggruppata in piccoli appezzamenti di circa 20 ettari d’estensione, ma ci sono aree in cui copre una superficie di quasi 400 ettari.

Cos’ha di speciale la terra preta? Come citato precedentemente, il suolo amazzonico non è noto per la sua elevata fertilità. Rispetto a località del pianeta in cui una qualunque coltura può attecchire con facilità e produrre grandi quantitativi di prodotto, in Amazzonia è difficile ottenere i raccolti abbondanti necessari a sostenere una comunità di decine di migliaia di persone.

Tra il 450 a.C. e il 950 d.C., i nativi iniziarono a produrre un tipo di terreno più fertile della terra mulata o della terra comum allo scopo di rendere più produttive le loro colture. Questo tipo di terreno, in realtà nato ben prima della sua produzione attiva da parte dell’essere umano grazie alla mescolanza di rifiuti organici con ceneri e terreno, funge ancora oggi da substrato per colture come la papaya e il mango.

Differenza tra terra preta e terra comum
Differenza tra terra preta e terra comum

Dopo essersi resi conto che gli scarti prodotti dalle attività quotidiane, come la preparazione del cibo, il mantenimento del focolare o la creazione di ceramica, rendevano la terra mulata più fertile, iniziarono a fertilizzare volontariamente il terreno più fertile a loro disposizione.

La terra preta ha un contenuto di carbonio molto alto, pari a circa 150 grammi per kg (contro i 20-30 grammi del suolo circostante), ma rispetto ad altri tipi di terreno ad elevato contenuto di carbonio presenta alcune differenze. In primo luogo, la terra preta incorpora elementi e nutrienti di natura organica provenienti dagli scarti alimentari di una popolazione umana; questi elementi favoriscono la proliferazione batterica, incrementando la fertilità.

Secondariamente, il contenuto di carbonio è così elevato da risultare fino a 70 volte superiore a quello di suoli ferralitici, tipici delle zone tropicali del pianeta e spesso presenti in prossimità di depositi di terra preta.

La terra preta, infine, è propensa ad accumulare e trattenere i nutrienti con cui viene a contatto, ed è molto resistente alla degradazione da parte dell’attività microbica. Tra i nutrienti più diffusi sono il potassio, il fosforo, il calcio, lo zinco e il manganese, un mix che ha dimostrato di poter incrementare la produzione di riso dal 30-40% senza l’utilizzo di fertilizzanti.

Come si produceva la terra preta?

Per produrre la terra preta, le popolazioni indigene aggiungevano alla terra mulata braci di legna o altro materiale organico che bruciavano a bassa temperatura.

La produzione di carbone a bassa temperatura consente l’estrazione di condensati del petrolio che fungono da alimento per i batteri del terreno. L’ossidazione lenta del carbone non solo fornisce terreno fertile per i microrganismi, ma mantiene intatte le caratteristiche del materiale vegetale carbonizzato anche per migliaia di anni.

Il carbone è quindi fondamentale per il mantenimento della terra preta: oggi la maggior parte dei terreni agricoli ha perso in media il 50% del suo originale contenuto di carbonio a causa della coltivazione intensiva e dei danni causati dall’attività umana.

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L’uso di carbone prodotto da materia vegetale estratta da legname e piante con foglie (al contrario della carbonizzazione dell’erba) favorisce anche la diffusione di alcuni funghi che sembrano rappresentare la chiave della fertilità della terra preta e della sua capacità di “contaminare” positivamente il terreno che la circonda.

Le analisi della terra preta amazzonica hanno inoltre evidenziato la presenza di escrementi animali e umani, resti di lavorazioni alimentari come ossa animali, conchiglie e gusci di tartaruga, oltre a compost prodotto da piante terrestri e acquatiche.

Aggiornamento del 05 gennaio 2021

La presenza di artefatti precolombiani in corrispondenza dei siti ricchi di terra preta hanno sempre lasciato supporre che l’origine di questo particolare tipo di terreno fosse artificiale.

Ma la datazione al carbonio eseguita su un bacino fluviale di 210 ettari in Brasile sembra suggerire un’altra versione: secondo Lucas Silva, professore di studi ambientali della University of Oregon, i livelli di calcio e fosforo, più elevati rispetto al terreno circostante, suggerirebbero che siano state inondazioni e incendi a depositare questi nutrienti nel suolo.

“Abbiamo analizzato il carbonio e il gruppo di nutrienti alla luce del contesto antropologico locale per stimare la cronologia della gestione del suolo e la densità di popolazione necessarie per ottenere la fertilità della terra preta amazzonica” afferma Silva. “I nostri risultati mostrano che vaste popolazioni sedentarie avrebbero dovuto gestire il suolo migliaia di anni prima della comparsa dell’agricoltura nella regione”.

Fires, flooding before settlement may have formed the Amazon’s rare patches of fertility

Terra preta da Indio
Terra preta
ScienceDirect: Terra Preta

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Cosa mangiavano gli Egizi? https://www.vitantica.net/2019/11/25/cosa-mangiavano-gli-egizi/ https://www.vitantica.net/2019/11/25/cosa-mangiavano-gli-egizi/#comments Mon, 25 Nov 2019 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4664 Il cibo egizio era composto prevalentemente da alimenti come cereali, frutta e verdura. Tra i più consumati nella quotidianità c’erano pane, latte, oli vegetali, fagioli, olive, cipolle, aglio e datteri.

Questo non significa che gli Egizi non consumassero carne: pesce di fiume, carne di pollame o uccelli selvatici, bovini, capre e pecore erano relativamente comuni sulle tavole egizie, specialmente nelle diete di chi praticava lavori pesanti.

Operai edili e carne

L’analisi degli insediamenti destinati agli operai addetti alla costruzione delle piramidi ha mostrato una grande presenza di ossa animali appartenenti ad anatre, pecore, capre e maiali; ma le ossa più abbondanti sono quelle di bovini.

In un articolo di Alexander Stille pubblicato sullo Smithsonian Magazine nell’ottobre del 2015 si riporta che:

“[…] giudicando dai resti rinvenuti nel sito, [gli operai] mangiavano una gran quantità di manzo. Il bestiame veniva generalmente cresciuto in zone rurali e forse trasportato tramite barche verso gli insediamenti reali di Menfi e Giza, dove venivano macellati. I maiali, al contrario, venivano consumati prevalentemente da chi produceva cibo. Gli archeologi studiano il rapporto tra bovini e maiali come indicatore dell’ approvvigionamento di cibo degli operai da parte dell’autorità centrale”.

Gli operai che costruirono le piramidi consumavano carne in abbondanza, spesso anche quella riservata alle caste sociali più elevate della loro. La scoperta di ossa di ippopotamo, rami d’ulivo e denti di leopardo sembra confermare l’idea che questi lavoratori fossero trattati bene: si trattava di manodopera specializzata e particolarmente costosa.

Proteine animali nell’alimentazione egizia

Gli antichi Egizi mangiavano principalmente proteine provenienti da carne bovina, di pecora, di capra, di volatili e pesce. Il tipo di carne consumata era anche un indicatore dello status sociale d’appartenenza: le carni d’oca e di vitello erano considerate delizie riservate agli strati più alti della società egizia.

Il maiale veniva considerato meno utile di capre, pecore e bovini in uno stile di vita come quello egizio: non poteva essere allevato e trasportato su lunghe distanze e non è adatto alla pastorizia. Non forniva sottoprodotti alimentari come latte o cuoio e godeva di una pessima reputazione nella società egizia.

Anche se consumato in alcune regioni e periodi storici, il maiale veniva considerato un animale impuro associato al dio Seth. La carne di maiale era riservata principalmente a operai e macellai, e in alcuni contesti sociali il solo atto di toccare un maiale veniva visto come un gesto impuro.

Per quanto riguarda il pesce, alcune specie fluviali venivano pescate e consumate quotidianamente, mentre altre erano considerate intoccabili perché facenti parte del pantheon di creature care alle divinità egizie: il persico del Nilo (Lates niloticus), ad esempio, era venerato in alcune località perché legato al mito di Osiride e considerato sacro.

Pane e cereali
Pane e cereali nell'antico Egitto
Pane e cereali nell’antico Egitto

Gli operai addetti alla costruzione delle piramidi consumavano pane quotidianamente, come tutto il resto della popolazione egizia. Anche se circondati da una natura ostile e prevalentemente desertica, gli Egizi furono in grado di ricavare nicchie ecologiche adatte alla coltivazione dei cereali imparando a gestire l’irrigazione dei campi e le piene stagionali del Nilo.

Il pane veniva prodotto principalmente con farro o orzo. Sappiamo dalla documentazione dell’epoca che esistevano almeno 14 tipi di pane, da quelli non lievitati a pagnotte integrali non molto differenti da quelle moderne.

Le granaglie venivano tritate con macine di granito e gli impasti inseriti in stampi di pietra preriscaldati dalla forma circolare, conica o appuntita. Tra gli oggetti rinvenuti a Umm Mawagir (letteralmente “madre delle forme di pane”), un insediamento egizio fiorito nel deserto circa 3.500 anni fa, è stato trovato un doppio stampo per il pane del peso di circa mezza tonnellata.

Il pane egizio aveva un contenuto di glutine inferiore a quello moderno. Il glutine aiuta a produrre pane più soffice e a riempirlo d’aria; la scarsa presenza di glutine rendeva il pane egizio denso e pesante.

La lievitazione era un processo misterioso per gli Egizi. Non avendo familiarità con la chimica dei lieviti, ritenevano che il pane aumentasse di dimensioni grazie alla “magia”. L’impasto del pane, lasciato tradizionalmente riposare per una settimana, iniziava a fermentare grazie alla presenza in natura di lieviti selvatici.

Dato che il pane veniva preparato utilizzando utensili e macine di pietra, negli impasti venivano involontariamente introdotti micro-cristalli di quarzo, feldspato, mica e minerali ferrosi, frammenti litici che lasciano segni evidenti sulla dentatura dopo un consumo prolungato.

Frutta, verdura e legumi
Frutta, verdura e legumi nell'antico Egitto
Frutta, verdura e legumi nell’antico Egitto

La cipolla era una verdura dominante nell’alimentazione egizia: la sua struttura a strati rappresentava gli innumerevoli livelli dell’universo e la sua rilevanza simbolica era tale da essere utilizzata come simbolo sacro per pronunciare giuramenti solenni.

Anche se a Roma l’aglio veniva considerato un alimento adatto alle classi più povere, in Egitto era comune nella dieta di tutte le classi sociali. Uno schiavo poteva essere acquistato al costo di circa 7 kg di bulbi, e la riduzione della fornitura di aglio era una delle misure più comuni per controllare la popolazione.

Piselli, lenticchie e cetrioli erano altre verdure comuni nella dieta dell’antico Egitto. Il ravanello fece il suo ingresso nei pasti egizi circa 4.000 anni fa, spesso in compagnia di cipolla e aglio; secondo Erodoto, gli Egizi ritenevano che il ravanello fosse un potente afrodisiaco.

I meloni furono tra le prime colture egizie, insieme ad orzo, farro, legumi, uva, mandorle e datteri. Anche se sono nativi dell’Iran e della Turchia, i meloni furono raffigurati nelle tombe egizie fin dal 2.400 a.C. e vennero citati nella documentazione storica greca intorno al III secolo a.C.

Gli Egizi insaporivano le loro pietanze con sale marino, timo, maggiorana ed essenze estratte da frutta e noci, come le mandorle. Anche la liquirizia, considerata un afrodisiaco, era molto apprezzata nella cucina dell’antico Egitto: pare che il faraone Tutankhamon la consumasse prima di un incontro romantico con la consorte.

Nelle regioni meridionali dell’antico Egitto (la Nubia) ci sono prove che testimoniano la presenza di vaste coltivazioni di sorgo e datteri. I datteri furono probabilmente il tipo di frutta più consumato e diffuso, apprezzato per il suo elevato contenuto di zuccheri e proteine; venivano spesso utilizzati in sostituzione del miele per dolcificare le pietanze, o per produrre bevande fermentate.

Dolci e bevande

Dolci e bevande nell'antico Egitto

Le prime testimonianze documentali e artistiche di dolci nell’antico Egitto risalgono al 2.000 a.C.. Alcune raffigurazioni scoperte all’interno di tombe dell’ XI dinastia mostrano la realizzazione di dolciumi all’interno di templi allo scopo di creare offerte agli dei.

Circa 3.000 anni fa gli Egizi producevano caramelle composte da miele, erbe aromatiche, spezie e frutti acidi. Una torta molto comune veniva realizzata con miele e sesamo: all’interno della tomba di Pepionkh, risalente al 4.200 a.C., è stato trovato un esemplare di questo alimento, probabilmente il più antico pezzo di torta mai scoperto.

Uno dei dolci più comuni veniva realizzato utilizzando il cipero (Cyperus esculentus), un tubero commestibile che cresce in paludi e acquitrini. La ricetta dei dolci a base di cipero è stata trovata all’interno di un vaso d’argilla egizio risalente a circa 1.600 anni fa: dopo aver tritato il tubero in piccoli frammenti, si aggiungeva miele, spezie e pezzi di datteri prima di modellare il composto in piccole sfere.

Le bevande costituivano una parte importante nell’alimentazione. I più ricchi potevano permettersi di consumare vino in abbondanza, ma era la birra la stella di ogni pasto. Consumata di fatto da chiunque, la birra veniva prodotta utilizzando pagnotte parzialmente cotte di orzo sbriciolate in una mistura di acqua e orzo.

Le pagnotte servivano ad innescare l’attività dei lieviti necessari a produrre la birra. Trascorso il certo periodo di fermentazione, il composto veniva filtrato e, se necessario, speziato con fichi e datteri.

La birra egizia aveva un contenuto di alcol variabile, anche se la più comune conteneva l’ 8-9% di alcol. Si utilizzavano vasi differenti in base alla gradazione: i vasi rossi indicavano una gradazione alcolica standard, quelli neri erano destinati alla birra più potente, mentre i vasi di altro colore venivano impiegati per la birra aromatizzata.

Fonti per “Cosa mangiavano gli Egizi?”

Food and Drinks in Ancient Egypt
ANCIENT EGYPTIAN FOOD
What Did Ancient Egyptians Really Eat?
The Diet of the Ancient Egyptians

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Raccogliere e cucinare la tifa https://www.vitantica.net/2019/10/30/raccogliere-e-cucinare-la-tifa/ https://www.vitantica.net/2019/10/30/raccogliere-e-cucinare-la-tifa/#respond Wed, 30 Oct 2019 00:20:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4620 Come spiegato in questo post, la tifa (o stiancia) è una pianta acquatica utilizzata per millenni come fonte di carboidrati. Decine di migliaia di anni fa, i nostri antenati scoprirono che il fusto e i rizomi della pianta possono essere sfruttati per ottenere fibre o cibo.

Il fusto e le foglie della tifa si prestano alla creazione di buon cordame: si possono ottenere fibre lunghe diversi metri e utilizzabili come materiale per creare cesti o oggetti intrecciati.

In questo video sul canale YouTube “The Outsider” viene spiegato come identificare le piante di tifa, come raccogliere e come prepararle per cucinare una sorta di spaghettini bolliti.

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Calabash, la zucca bottiglia https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/ https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/#respond Mon, 28 Oct 2019 00:25:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4632 La zucca calabash (Lagenaria siceraria), chiamata anche zucca a fiasco, cocozza o zucca bottiglia, è un frutto conosciuto da millenni nelle regioni tropicali e subtropicali del mondo per le sue proprietà, alimentari e non.

Sebbene non compresa nelle diete degli antichi cacciatori-raccoglitori come cibo di largo consumo, la zucca calabash costituì per molto tempo la materia prima per fabbricare ottimi e pratici contenitori per liquidi.

La zucca bottiglia

E’ possibile che l’origine della Lagenaria siceraria sia africana. Nel 2004 una varietà molto antica di calabash è stata osservata in Zimbabwe: è possibile che la domesticazione di questa pianta sia iniziata in Africa qualche migliaio di anni fa allo scopo di selezionare le zucche dalle pareti più spesse e resistenti.

La prima fase di domesticazione sembra essersi verificata 8.000-9.000 anni fa in Africa, seguita da una fase asiatica e una seconda, grande opera di domesticazione in Egitto circa 4.000 anni fa.

Le zucche a fiasco sono state coltivate per millenni in Africa, Asia, Europa e Americhe. Nel Vecchio Continente, il monaco benedettino Walahfrid Strabo inserisce le zucche calabash tra le 23 piante del giardino ideale nella sua opera “Hortulus“.

L’arrivo nelle Americhe potrebbe essere stato del tutto accidentale: alcune zucche potrebbero aver attraversato l’Atlantico sospinte dalle correnti oceaniche oltre 10.000 anni, fa partendo dall’Africa arrivando sulle coste americane settentrionali e meridionali.

Caratteristiche della zucca calabash

La vite della zucca bottiglia preferisce suoli ricchi di nutrienti, umidi e ben drenati. Necessita di molta umidità per crescere a dovere, oltre ad una lunga esposizione alla luce solare al riparo dal vento.

Le zucche calabash crescono molto velocemente: i viticci possono raggiungere la lunghezza di nove metri durante una singola estate. Se fatte crescere sotto un albero, le viti di calabash possono scalarlo completamente fino a raggiungere la vetta.

Per ottenere più zucche, tradizionalmente si tagliava la punta dei viticci una volta raggiunta la lunghezza di 2-3 metri, forzando la pianta a creare ramificazioni in grado di produrre più frutti.

La zucca calabash contiene cucurbitacine che possono risultare tossiche per alcune persone, specialmente se il frutto viene fatto maturare troppo o conservato male. Il sapore amaro della polpa è un buon indicatore della presenza di un’elevata dose di cucurbitacine.

Zucche calabash trasformate in contenitori
Zucche calabash essiccate e decorate. Foto: MelindaChan

Ci sono casi di fatalità causata dall’ingestione dei succhi delle calabash, ma sono pochi e spesso legati alla cattiva conservazione delle zucche, o allo stato di salute del singolo individuo (è sconsigliato il consumo per i diabetici).

Diverse cucine tradizionali asiatiche, africane e americane prevedono ancora oggi l’uso di svariate specie di calabash come ingrediente per piatti gustosi e nutrienti.

Le calabash contengono potassio, magnesio, acido folico, vitamina A e C, ma hanno uno scarso valore calorico e forniscono una discreta dota di carboidrati.

Un frutto dai molteplici utilizzi

Le zucche calabash svuotate della loro polpa costituiscono contenitori per liquidi molto comuni in Africa. Le più piccole vengono generalmente usate per sorseggiare vino di palma, le più grandi invece per conservare acqua e alimenti liquidi o macinati.

I Sepedi e IsiZuku sudafricani usano quotidianamente le zucche-bottiglia per trasportare l’acqua sufficiente a dissetare intere tribù e per fabbricare utensili come coppe, ciotole, cappelli parasole e come zainetti.

In Cina le zucche a fiasco sono chiamate hulu e hanno assunto da molto tempo il valore simbolico di portatrici di buona salute. Fino a tempi relativamente recenti, i praticanti di medicina tradizionale utilizzavano le zucche bottiglia per conservare medicinali e liquidi.

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Tra le credenze popolari cinesi c’è quella che vede le hulu come trappole per gli spiriti maligni: queste zucche avrebbero il potere di catturare il qi negativo, in grado di alterare in negativo lo stato di salute.

In India le calabash sono utilizzati come risonatori per alcuni strumenti musicali, come il sitar, il surbahar e il tanpure. Gli asceti hindu usano tradizionalmente le zucche a fiasco (chiamate kamandalu) per consumare succhi considerati medicinali; in alcune regioni rurali, invece, questi frutti sono utilizzati come galleggianti per insegnare a nuotare.

In Sudamerica le zucche calabash vengono fatte essiccare per produrre contenitori di mate, una bevanda popolare tra le comunità tradizionali di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay e Paraguay.
In Brasile inoltre le calabash vengono impiegate per realizzare i berimbau, tipici strumenti musicali che accompagnano i movimenti della capoeira.

Fonti per “Calabash, la zucca bottiglia”

Transoceanic drift and the domestication of African bottle gourds in the Americas
Discovery and genetic assessment of wild bottle Gourd [Lagenaria siceraria (Mol.) Standley; Cucurbitaceae] from Zimbabwe
Calabash

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Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/ https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/#respond Fri, 25 Oct 2019 00:10:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4623 Il pinole, chiamato anche pinol o pinolillo, è un alimento utilizzato per secoli dai nativi nord e centroamericani come cibo di prima necessità o di sopravvivenza.

Grazie al suo alto valore nutritivo, il pinole fu spesso la prima scelta nelle scorte alimentari di chi doveva intraprendere lunghi viaggi senza la avere la possibilità di trasportare grandi quantità di provviste.

L’origine del pinole

Il termine pinole deriva dalla parola Nahuatl pinolli, che significa “farina di mais”. Ancora oggi è considerata la base per le bevande tradizionali di Nicaragua e Honduras, mentre gli indiani Tarahumara messicani utilizzavano questa polvere a base di mais prima di intraprendere le loro caratteristiche marce su lunghe distanze.

La prima testimonianza scritta del pinole risale ai primi anni del 1700: il comandante spagnolo Don Pedro Fages e la sua truppa, durante l’ esplorazione delle coste californiane, terminano le loro provviste alimentari e si videro costretti a chiedere aiuto ai nativi che risiedevano nell’area oggi chiamata Pinole.

Il cibo che fu loro donato era composto da una mistura di ghiande, semi e cereali selvatici, un mix definito dai locali come “pinole”, dall’antico termine azteco “pinolli”.

I Tarahumara preparano una sorta di "barretta energetica" con il pinole che producono.
I Tarahumara preparano una sorta di “barretta energetica” con il pinole che producono.

Il missionario John Gottlieb Ernestus Heckewelder, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, descrive nel suo “History, Manners and Customs of the Indian Nations” come il popolo dei Lenni Lenape (o Delaware) preparava e utilizzava questo alimento di prima necessità:

“Lo Psindamooan o Tassmanane, come lo chiamano loro, è il cibo più nutriente e durevole realizzato con il mais indiano. Il tipo di mais blu e dolce è quello che preferiscono. Lo arrostiscono su cenere calda fino a quando non esplode, a quel punto viene setacciato, pulito e pestato in un mortaio fino ad ottenere una specie di farina; quando vogliono preparare del pinole davvero buono, lo mescolano con zucchero”.

 

“Quando vogliono utilizzarlo, mettono in bocca un cucchiaio di questa farina, si chinano lungo un fiume o un ruscello e bevono. Se tuttavia hanno a disposizione una tazza o un altro recipiente, vi versano la farina e la mescolano nelle proporzioni di un cucchiaio per ogni pinta d’acqua”.

 

“Con questo cibo il viaggiatore e il guerriero partono per lunghi viaggi e spedizioni […] Le persone non abituate a questa dieta devono essere prudenti a non assumere troppo pinole in una volta sola, e a non essere tentati troppo dal suo sapore; è pericoloso ingerire più di un cucchiaio o due in un solo pasto; [il pinole] si gonfia nello stomaco e nell’intestino, come quando viene cotto sulla fiamma.”

Composizione e preparazione del pinole

Il pinole veniva originariamente prodotto arrostendo semi di mais su ceneri calde, procedendo successivamente a ripulirle prima di macinarle fino ad ottenere una farina grossolana.

Con l’aggiunta di acqua, la farina di mais così preparata diventava una sorta di zuppa d’avena, non particolarmente saporita ma capace di donare una piccola quantità di energia sufficiente per svolgere le attività quotidiane, o di consentire la sopravvivenza durante le stagioni più difficili.

Per renderlo più gradevole al palato, alla farina di mais arrostito venivano talvolta aggiunti cacao, dolcificanti naturali come zucchero di canna o miele, cannella, oppure farine prodotte da altri semi, come ghiande o altri cereali selvatici.

Preparare il pinole secondo metodi tradizionali richiedeva lavoro, specialmente se era prevista l’aggiunta di altri ingredienti oltre alla sola farina di mais: occorreva arrostire e tritare in un mortaio i semi di granturco, fare lo stesso con le fave di cacao, e procurarsi miele selvatico (attività che può risultare pericolosa), zucchero di canna o nettare di agave.

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Un alimento ricco di nutrienti

In base alla tipologia e alla qualità dei suoi ingredienti, il pinole può contenere un’elevata dose di vitamine, proteine, fibre e antiossidanti. L’aggiunta di zucchero e spezie, oltre a rendere più gradevole il sapore, gli può donare proprietà tonificanti ed energizzanti.

Dato il suo alto contenuto di fibre e la lenta digestione del mais, il pinole è in grado di saziare a lungo. Il pinole contiene mediamente 2-4 grammi di carboidrati per cucchiaio, 2 grammi di proteine e circa 20 milligrammi di sodio.

Circa 5 grammi di pinole contengono solo 35 calorie e forniscono un discreto apporto di vitamina A, C, B1, B2, B3, E, calcio, ferro, riboflavina e tiamina.

Fonti per “Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani”

Pinole
Pinole: The Ultimate Bugout Food

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