sopravvivenza – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Zuppa tascabile degli esploratori del XVIII secolo https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/#comments Tue, 13 Oct 2020 00:10:26 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4981 L’hardtack non era l’unico cibo a disposizione dei marinai che solcavano il mare nei secoli passati: carne e pesce salati, farina, avena, olio, formaggio e alcolici erano comuni nelle stive di mercantili, navi da guerra o vascelli dediti all’esplorazione di mari sconosciuti.

Tra il XVIII e il XIX secolo le navi francesi e britanniche iniziarono ad includere nelle loro stive quella che veniva definita “zuppa portatile”, “zuppa di vitello” o “zuppa tascabile”, un alimento disidratato utile ad insaporire ed arricchire di nutrienti le razioni di cibo disponibili a bordo. La zuppa tascabile era del tutto simile, per impiego culinario, ai dadi da brodo moderni.

L’origine della zuppa portatile

L’esistenza della zuppa portatile viene documentata ben prima del XVIII secolo. Un resoconto del XIV secolo descrive come i cavalieri ungheresi utilizzassero una sorta di zuppa istantanea che veniva prodotta facendo bollire grandi quantità di carne salata per lungo tempo, fino a quando le fibre si staccavano da sole dall’osso, per poi lasciar asciugare e rapprendere questo brodo allo scopo di ottenere un composto rigido da tagliare o sbriciolare quando necessario.

Tra il 1500 e il 1600 Sir Hugh Plat, agricoltore e inventore inglese autore di svariati libri sulle materie più disparate, cita il potenziale militare della zuppa tascabile per l’esercito e la marina inglesi.

Plat suggerisce che l’uso di tavolette di zuppa portatile renderebbe molto più digeribili i pasti dei soldati in marcia, o dei marinai diretti verso lidi lontani; questo alimento disidratato era inoltre ideale per il trasporto: consumava poco spazio rispetto a quello occupato dagli ingredienti necessari per produrlo, un vantaggio per nulla trascurabile specialmente se si considerano gli spazi limitati di una stiva.

L’ideatrice della produzione di massa della zuppa portatile fu Mrs Dubois, che operava da una locanda in Fleet Street, Londra, chiamata “Golden Head“. Nel 1756, insieme all’inventore William Cookworthy e al marito Edward Bennet, ottenne un contratto con la Royal Navy per rifornire ogni equipaggio delle navi militari inglesi con razioni di zuppa tascabile.

Le alte cariche militari dell’epoca ritenevano che la zuppa portatile potesse prevenire lo scorbuto, una malattia tragicamente comune per i marinai durante i lunghi viaggi oceanici: il contratto di fornitura con Mrs Dubois consentì di inserire la zuppa tascabile nelle razioni di ogni marinaio a partire dalla fine degli anni ’50 del 1700.

La zuppa portatile non era esclusivamente un alimento destinato alla vita sul mare: Lewis e Clark, durante la loro spedizione attraverso il continente nordamericano, acquistarono a Philadelphia un carico di quasi 90 kg di zuppa, carico che si rivelò provvidenziale secondo il diario di Patrick Grass, il carpentiere della spedizione:

“Nessuno dei cacciatori ha avuto successo ad eccezione di 2 o 3 fagiani; senza un miracolo era impossibile sfamare 30 uomini affamati. Quindi il capitano Lewis distribuì parte della zuppa tascabile che aveva acquistato in caso di necessità”.

Nel 1815, tuttavia, il medico britannico Gilbert Blane analizzò lo stato di salute dei membri della Royal Navy tra il 1779 e il 1814, scoprendo che la zuppa portatile non era per nulla efficace nella lotta contro lo scorbuto, e non portava evidenti miglioramenti nella salute dei marinai che trascorrevano molto tempo in mare; la marina britannica iniziò a rimuovere la zuppa tascabile dalle razioni standard in favore della carne in scatola, più nutriente e protetta da involucri metallici.

La produzione di zuppa tascabile

La ricetta di base esposta da Plat prevedeva la bollitura di zampe bovine per lungo tempo e a bassa temperatura, fino ad ottenere un brodo saporito e denso. Hannah Glasse e William Gelleroy suggeriscono di bollire le proteine animali fino a quando “la carne ha perso tutte le sue proprietà”, suggerimento che non contribuisce a fornire delle tempistiche esatte; dalla produzione ottocentesca e dalle moderne riproduzioni di zuppa tascabile sappiamo tuttavia che i tempi di bollitura erano compresi tra le 8 e le 12 ore.

La ricetta di Hannah Glasse, riportata nel libro “The Art of Cookery Made Plain and Easy” (1747), elenca tra gli ingredienti: due zampe di vitello, acciughe, chiodi di garofano, pepe bianco e nero, cipolle, maggiorana e timo.

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Il brodo veniva quindi filtrato e ridotto, tramite ulteriore bollitura, ad una gelatina (se già le 12 ore di cottura non avevano ottenuto lo stesso risultato), successivamente esposta a luce solare e vento invernali per perdere la maggior parte dell’acqua che conteneva; il prodotto così ottenuto veniva tagliato in pezzi, e ogni frammento veniva coperto di farina per evitare che si appiccicasse agli altri.

Secondo Plat era necessario non aggiungere sale o zucchero durante la preparazione del brodo, perché durante il procedimento di riduzione i sapori si sarebbero concentrati. Era inoltre fondamentale sgrassare il brodo rimuovendo il più possibile il grasso, per evitare che diventasse rancido e ottenere una consistenza più rigida.

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Il brodo tascabile veniva prodotto durante i primi mesi dell’anno, sfruttando il gelo invernale per far solidificare più agevolmente la gelatina in un unico blocco dalla consistenza uniforme. I frammenti di zuppa tascabile potevano conservarsi per almeno un anno, e venivano generalmente disciolti in acqua per creare in poco tempo un brodo saporito in cui cuocere le razioni di cibo.

Cibo d’emergenza

La zuppa tascabile fu per molto tempo utilizzata per insaporire zuppe, o consumata come alimento d’emergenza. Ingerire frammenti di brodo solidificato era un’eventualità che ogni soldato o marinaio voleva scongiurare a causa del sapore poco appetibile.

Bisogna considerare che le condizioni igieniche dell’epoca non sempre consentivano la produzione di brodo tascabile partendo da ingredienti di prima qualità: la carne impiegata era spesso di seconda o terza scelta, e in buona parte non propriamente conservata.

James Cook, prima del suo viaggio verso l’Australia nel 1772, caricò a bordo circa mezza tonnellata di zuppa portatile nella speranza di poter prevenire eventuali emergenze alimentari e fornire nutrienti ai suoi marinai malati. Dopo aver servito all’equipaggio zuppa tascabile sciolta nell’acqua e mescolata a farina di piselli, alcuni marinai rifiutarono il pasto per via del suo sapore disgustoso, accettando di buon grado la fustigazione pur di non ingerire la brodaglia.

Patrick Grass, subito dopo aver descritto l’impiego di zuppa portatile come cibo d’emergenza durante la spedizione di Lewis e Clark, continua dicendo che “alcuni uomini non apprezzarono questa zuppa e decisero di uccidere un puledro”.

Portable Soup – Wikipedia
Portable Soup
Who Put the Paprika in Goulash…and Other Hungarian Soup Tales
The Luke-Warm, Gluey, History of Portable Soup

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Hardtack, la galletta navale a lunga conservazione https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/ https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/#respond Mon, 07 Sep 2020 00:18:50 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4965 I lunghi viaggi per mare degli antichi esploratori e gli estenuanti spostamenti via terra degli eserciti del passato erano legati a doppio filo alla capacità umana di creare cibo a lunga conservazione. Pur non avendo frigoriferi moderni o e possedendo scarse nozioni di igiene alimentare, i nostri antenati furono in grado di conservare alimenti per lunghi periodi di tempo utilizzando l’ingegno e i materiali a loro disposizione.

Nel corso della storia gli espedienti utilizzati per conservare gli alimenti furono molti: celle frigorifere come lo yakhchal, salamoie e salagioni, affumicatura e fermentazione potevano garantire mesi o anni di conservazione se si rispettavano poche ma necessarie regole su temperatura o esposizione all’aria. Alcuni prodotti alimentari erano invece pensati per mantenersi pressoché intatti anche anche in condizioni sfavorevoli.

L’ hardtack, ad esempio, era una semplice galletta di farina e acqua in grado di mantenersi commestibile per molto tempo, poco costosa da produrre, resistente a condizioni ambientali avverse e facile da immagazzinare e trasportare.

La storia dell’ hardtack

Dall’introduzione dei cereali nei regimi alimentari di molti popoli antichi, la farina iniziò a ricoprire un ruolo sempre più fondamentale nella cucine di tutto il mondo. Farina e pane, tuttavia, possono essere attaccati da muffe, insetti, o semplicemente accumulare l’umidità atmosferica favorendo i processi di decomposizione.

La necessità di avere alimenti nutrienti e facilmente conservabili portò gli Egizi alla creazione della dhourra, una galletta di miglio in grado di mantenersi intatta per lunghi periodi di tempo. Col tempo la dhourra si trasformò nel “biscotto musulmano”, come lo descrive Re Riccardo I dopo la Terza Crociata (1189-1192): un mix di farina d’orzo, farina di fagioli e farina di segale.

Nell’antica Roma, invece, il Codex Theodosianus prevedeva che ogni soldato coinvolto in una spedizione militare dovesse essere fornito di “bucellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam.”, traducibile come “gallette e pane, anche vino (o posca) e aceto, ma anche lardo e montone”.

Il bucellatum romano era un mix di farina, sale e acqua, cotto a lungo per due volte a bassa temperatura. Veniva consumato dai soldati accompagnandolo con la posca, per due giorni consecutivi; al terzo giorno, la truppa poteva finalmente consumare vino e pane di buona qualità.

L’hardtack è una delle innumerevoli versioni della galletta a lunga conservazione. Il nome  di questo biscotto, entrato nel lessico comune tra il 1700 e il 1800, deriva da “tack”, il termine slang che i marinai britannici usavano per riferirsi al cibo; col tempo iniziò ad assumere altri nomi, come “biscotto di mare”, “pane per cani”, “spaccamolari” o “castello per vermi”.

La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)
La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)

La Royal Navy britannica del XVI secolo forniva ai suoi marinai una razione giornaliera di mezza libbra di hardtack, qualche pezzo di maiale salato e un gallone di birra a bassa gradazione alcolica. Nel tardo XVIII secolo, l’hardtack entrò a far parte anche della dieta dei pescatori del New England: veniva utilizzato come addensante per le zuppe di mare, sbriciolandolo e mescolandolo agli altri ingredienti.

Grazie a John Billingas, soldato della guerra di secessione americana e autore di un libro di memorie intitolato “Hardtack and Coffee” (1887), abbiamo una descrizione dell’hardtack dal punto di vista di un soldato:

Cos’era la galletta? Era un semplice biscotto di farina e acqua. Due di esse, che ho in mio possesso come ricordo, misurano 3 pollici e 1/8 per 2 pollici e 7/8, e sono spesse quasi mezzo pollice. Sebbene questi biscotti venissero venduti a peso, venivano distribuiti agli uomini in numero, nove gallette costituivano una razione in alcuni reggimenti, dieci in altri reggimenti; ma di solito ce n’erano abbastanza per chi ne voleva di più, poiché alcuni non li utilizzavano. Per quanto l’ hardtack fosse nutriente, un uomo affamato poteva mangiare i suoi dieci in breve tempo ed essere ancora affamato.

Le proprietà dell’hardtack

Per quanto poco appetibile, l’hardtack fornisce un discreto quantitativo di calorie in poco spazio e senza la preoccupazione della conservazione. Una galletta da 24 grammi fornisce circa 100 kilocalorie, circa 5-6 grammi di grassi, due grammi di proteine e quasi nessuna fibra; il resto del peso è costituito da carboidrati.

Come tutti i prodotti realizzati con farine di cereali, biscotti e gallette tendono ad assorbire l’umidità ambientale. Per rallentare questo processo, i fornai tentavano di creare biscotti e gallette estremamente duri, cuocendoli da due a quattro volte e preparandoli in anticipo di 6 mesi dal loro effettivo consumo.

Se non viene inumidito, l’hardtack è così solido da risultare sostanzialmente immangiabile; viene descritto da coloro che lo consumarono come “denso a tal punto da essere quasi in grado di fermare una pallottola di moschetto”. Se addentato a secco, prosciuga completamente la bocca di ogni goccia di saliva, rendendo ancora più difficile la masticazione.

Per renderlo più masticabile, il biscotto veniva immerso in salamoia, caffè, alcolici o zuppe; non veniva solo consumato come semplice biscotto da inzuppare in qualche liquido, ma anche sbriciolato e impiegato come addensante per le zuppe.

Un altro modo per consumare l’hardtack era quello di sbriciolarlo il più possibile con il calcio di un fucile, o tramite un oggetto duro e pesante, aggiungendo quindi acqua, zucchero e whiskey per creare una pudding denso e grumoso da cuocere in pentola.

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La secchezza dell’hardtack è una proprietà indispensabile alla  lunga conservazione: se mantenuta intatta e all’asciutto, una galletta di hardtack può rimanere commestibile per anni, sopravvivere a sbalzi di temperatura estremi e resistere ad una manipolazione violenta.

Sulle navi del XVI-XVII secolo, tuttavia, non era semplice mantenere il cibo in condizioni ottimali. L’infestazione delle riserve alimentari da parte di insetti, batteri e muffe erano relativamente comuni durante i lunghi viaggi per mare, ma i marinai britannici escogitarono un semplice espediente per rimuovere i parassiti dal loro hardtack.

Immergendo l’hardtack nel caffè mattutino non solo si rendeva masticabile la galletta, ma si costringeva la maggior parte degli insetti infestanti, come il tonchio, a risalire in superficie per tentare di sopravvivere; dopo essersi liberati di tutti gli insetti galleggianti, i marinai erano finalmente pronti a consumare il loro biscotto accompagnato da caffè caldo.

Preparazione dell’hardtack

Non esiste un’unica ricetta per l’hardtack: ogni regione del pianeta lo chiamava in modo diverso, ma la base comune  era una miscela di farina e acqua, in proporzioni che variano da 3:1 a 5:1.

Per ottenere un hardtack durevole è necessario utilizzare poca acqua, e cercare di eliminarne il più possibile durante la cottura. La pasta, in fase di preparazione, non deve essere troppo dura, ma nemmeno attaccarsi alle mani; prima di cuocerla, occorre modellarla per ottenere gallette o crackers.

Dopo aver steso la pasta fino ad uno spessore di circa 1 centimetro, occorre tagliarla creando pezzi più o meno regolari. I soldati della guerra di secessione americana ricevevano gallette di 3 x 3 pollici (7,5 x 7,5 centimetri), dimensioni che facilitavano la cottura e il trasporto.

Creare dei piccoli fori sulle due superfici del cracker impedisce che la farina possa subire una piccola lievitazione, e aiuta cuocere uniformemente l’hardtack. La cottura delle gallette deve essere lunga e a bassa temperatura, cercando di evitare che imbruniscano troppo o si brucino.

La cottura, come suggerisce questa ricetta, dura circa 25-35 minuti a 190°C, e si cerca di ottenere una leggera brunitura della superficie delle gallette. A questo punto occorre rimuovere i biscotti dal forno per farli raffreddare completamente prima di procedere con una seconda cottura o con l’essiccazione all’aria per qualche giorno.

L’hardtack viene prodotto ancora oggi, anche se con un occhio orientato al mercato moderno: pur rispettando la ricetta di base, vengono spesso aggiunti aromi, spezie o altri ingredienti per renderlo più piacevole al palato.

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FOODS OF WAR: HARDTACK
Bucellatum – Roman Army Hardtack
Hardtack – The Ultimate Survival Food
#Hardtack: A Food to Break a Tooth On
Hardtack Described
Bucellatum (Roman hardtack)

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Palma e noce di cocco: il coltellino svizzero del regno vegetale https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/ https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/#comments Mon, 27 Jul 2020 00:10:08 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4939 E’ una delle piante più utili del pianeta, spesso chiamata l’ “albero della vita”. Il suo tronco fornisce ottimo materiale ligneo, i suoi frutti sono avvolti da fibre resistenti, hanno ottime proprietà alimentari e rappresentano l’essenza stessa della sopravvivenza in mare: la palma da cocco (Cocos nucifera) può contendere il titolo di “coltellino svizzero del regno delle piante” ad una pianta straordinaria come il bambù grazie ai suoi innumerevoli utilizzi.

La noce indiana

Nel Ramayana della tradizione sanscrita, e in altre fonti letterarie di origine indiana, ci sono le prime testimonianze della presenza della palma da cocco nel subcontinente indiano già nel I secolo a.C., ma per la prima descrizione dettagliata occorre aspettare circa 6 secoli: la Topographia Christiana di Cosmas Indicopleuste di Alessandria chiama la noce di cocco “la grande noce dell’India”.

Marco Polo, durante la sua visita a Sumatra nel 1280, incontra la sua prima noce di cocco, che chiama nux indica (dal termine arabo “jawz hindī“, traducibile con “noce indiana”), un nome che troverà larga diffusione in Occidente prima dell’utilizzo di “thenga“, termine usato in Malesia e citato da Ludovico di Varthema nel 1510, e “coco“.

Un’altra osservazione diretta della noce di cocco da parte di un occidentale viene trascritta nel 1521 sul diario di Antonio Pigafetta, membro dell’equipaggio di Magellano, una volta giunto a Guam. Secondo Pigafetta, gli abitanti di Guam “mangiano cocchi e ungono il corpo e i capelli con olio di cocco e di sesamo”.

Durante il XVI secolo la noce di cocco assunse il suo nome dalla parola spagnola e portoghese “coco”, che significa “testa” o “cranio”. Ogni noce è infatti dotata di 3 pori, detti anche occhi, che somigliano vagamente ad un viso umano stilizzato.

Non sappiamo con esattezza la regione d’origine della palma da cocco, ma le analisi genetiche sembrano puntare verso il sud-est asiatico, regione in cui le palme mostrano più varietà genetica rispetto ad altre località del mondo. Grazie ai viaggi per mare le palme iniziarono a diffondersi millenni fa verso altri continenti, dall’ Africa al Sud America.

La palma da cocco

La palma da cocco è considerata unanimamente una delle 10 piante più utili del mondo, tanto da meritarsi il termine sanscrito “kalpa vriksha“, traducibile con “l’albero che fornisce tutto ciò che serve nella vita”. In Indonesia, un detto popolare recita che “ci sono tanti impieghi per la palma da cocco quanti sono i giorni dell’anno”. Attualmente sono documentati oltre 80 possibili utilizzi dell’albero del cocco: dalle radici alle noci, dalle foglie ai fiori, ogni parte della pianta è sfruttabile.

L’albero del cocco può raggiungere i 30 metri di altezza e possedere foglie paripennate lunghe fino a 6 metri. Su suolo molto fertile un albero maturo (la maturità viene raggiunta tra i 15 e i 20 anni di vita) può produrre oltre 70 noci in un anno, ma la media si attesta a meno di 30 nell’arco di 12 mesi.

Noce di cocco

La palma da cocco predilige suoli sabbiosi e tollera molto bene alti livelli di salinità. Ha bisogno di precipitazioni costanti e sole abbondante, e un livello di umidità pari al 70-90%. Le palme sono molto sensibili alle temperature: hanno bisogno di temperature superiori ai 20 °C ogni giorno dell’anno per crescere in salute, anche se possono sopravvivere per brevi periodi al freddo non inferiore ai 4 gradi.

Tecnicamente, la noce di cocco non è una noce, ma una drupa, un frutto carnoso con endocarpo legnoso come la ciliegia, la mandorla, l’albicocca, l’oliva e la prugna. Il frutto inizia a formarsi circa 2 settimane dopo la fioritura della pianta e cresce per i successivi 12-13 mesi. Col passare del tempo la noce inizia a stratificarsi, formando un mesocarpo fibroso (fibra di cocco) che può essere utilizzato per creare cordame resistente e garantisce la galleggiabilità del frutto.

Cocco in cucina

Nell’immaginario collettivo, un naufrago sarebbe in grado di sopravvivere su un’ isola deserta nutrendosi prevalentemente di cocco. Anche se un’alimentazione composta per la maggior parte da noci di cocco può avere spiacevoli effetti lassativi nel medio-lungo periodo, la noce ha notevoli proprietà nutrizionali.

Cento grammi di polpa contengono circa 350 calorie, delle quali il 33% è costituito da grassi, con 15 grammi di carboidrati e circa 3 di proteine. Il resto del peso è dato dall’acqua tra le fibre della polpa, fibre ricche di micronutrienti come manganese, rame, ferro, fosforo, selenio e zinco.

L’acqua di cocco contiene invece solo 19 calorie ogni 100 grammi, con uno scarso contenuto di micronutrienti. I frutti maturi contengono meno acqua rispetto alle noci giovani; l’acqua di cocco può essere bevuta fresca (è sterile fino a quando la noce non viene aperta), o fatta fermentare per ottenere aceto di cocco.

Il consumo smodato di acqua o polpa di cocco può portare all’eccesso di potassio nel sangue, che può indurre problemi renali, aritmia e perdita di conoscenza, nei casi più gravi anche la morte. Circa un litro di acqua di cocco può fornire oltre il 50% del fabbisogno giornaliero di potassio, percentuale che varia in base alle dimensioni della noce.

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Ma l’impiego in cucina della palma da cocco non si limita alla sola noce: il cuore di palma è considerato un boccone prelibato, da mangiare fresco o da inserire come ingrediente in insalate ricche di sapore e di nutrienti. Per estrarre il cuore di palma è necessario rimuovere gli strati esterni che ricoprono il tronco di una giovane palma, fino ad incontrare un cilindro fibroso bianco al centro.

La linfa estratta dai fiori della palma da cocco si chiama neera (“nettare di palma”) in India, Sri Lanka, Africa, Indonesia e Malesia. L’estrazione della linfa avviene generalmente prima dell’alba, e si ottiene un liquido chiaro e dolce, propenso a fermentare naturalmente entro poche ore dall’esposizione all’aria.

Se il neera viene lasciato fermentare diventa toddy, una bevanda con il 4% di gradazione alcolica chiamata anche “vino di palma”. Ancora oggi il vino di palma viene prodotto in moltissime abitazioni rurali, dato che la sua vendita è più economicamente vantaggiosa della vendita di legname.

La copra, infine, è la polpa essiccata della noce di cocco. L’essiccazione aumenta il contenuto di grasso dal 33% al 65%, proprietà utile per la creazione di burro e olio di cocco, margarine, detergenti e cosmetici. Occorrono circa 6.000 noci di cocco mature per produrre una tonnellata di copra.

I materiali del cocco

La noce di cocco fornisce fibre forti, sottili e resistenti, chiamate coir. Le fibre coir si possono trovare tra la buccia e il guscio della noce: quelle bianche, più giovani, sono ottime per la fabbricazione di corde; quelle scure, invece, sono resistenti all’abrasione ma meno flessibili di quelle bianche.

Il coir è uno dei materiali naturali più resistenti all’acqua, specialmente quella salata, proprietà che rende queste fibre ideali per la fabbricazione di cordame, contenitori e rivestimenti destinati all’uso in mare; il coir trova impiego anche nell’orticoltura e nella fabbricazione di materassini e sacchi.

Il guscio della noce di cocco è un recipiente naturale estremamente resistente e utile: può essere forato e mantenuto integro per ottenere una sorta di borraccia, o essere spaccato in due metà per ricavare due recipienti più piccoli ma ugualmente utili.

cocco e coir

Il legno della noce di cocco può essere trasformato in carbone attivo: si tratta di uno dei materiali naturali più efficaci nella rimozione delle impurità presenti nell’acqua. Nella medicina tradizionale cambogiana, l’olio emesso dal guscio di noce quando esposto al calore delle braci di un fuoco da campo viene utilizzato per lenire il mal di denti.

Le foglie dell’albero di cocco hanno molteplici usi: in India, Indonesia e nelle Filippine vengono trasformate in scope, in cesti a prova d’acqua o in tetti per le case; possono essere intessute per produrre materassi o piccole sacche utilizzate per cucinare piatti tradizionali come il ketupat.

Il legname dell’albero del cocco è dritto, forte e resistente all’attacco del clima salmastro. Viene spesso impiegato per la costruzione di piccoli ponti o casette. Nelle Hawaii i tronchi svuotati venivano trasformati in contenitori, tamburi o piccole canoe dall’ottima galleggiabilità.

Le radici della palma da cocco vengono sfruttate da secoli per produrre coloranti, collutori e medicamenti tradizionali per la diarrea. I segmenti più sottili delle radici possono essere trasformati in spazzolini da denti.

Tradizioni e curiosità legate alla palma da cocco

La noce di cocco è un elemento essenziale in molti rituali hindu, dalle cerimonie alle offerte agli dei. Indipendentemente dal culto, in India i pescatori spesso gettano noci di cocco in mare, nei fiumi o nei laghi all’inizio della stagione di pesca, per ingraziarsi gli dei e favorire un pescato abbondante.

La divinità hindu Lakshmi, che presiede la buona salute, viene spesso raffigurata con una noce di cocco in mano; nel tempio del dio della guerra Murugan, ogni giorno vendono rotte migliaia di noci di cocco durante le preghiere rituali dei devoti.

Secondo il mito delle origini delle Isole Maluku, il genere umano avrebbe avuto origine da una ragazza emersa da una noce di cocco. Nel folklore delle isole Samoa, l’origine della palma da cocco è legata alla bellissime fanciulla Sina, che un giorno seppellì un’anguilla nel terreno per vederla trasformarsi nel primo albero del cocco.

La tradizione di senilicidio chiamata Thalaikoothal, illegale in India da diverso tempo ma ancora praticata in alcuni distretti, prevede la somministrazione di litri e litri di acqua di cocco nel corso di uno o due giorni, portando al fallimento dell’attività renale o cardiaca.

Coconut – Wikipedia
Deep history of coconuts decoded
Coconut – History, uses, and folklore
Coconut – New World Encyclopedia

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https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/feed/ 1
Oroo’, il linguaggio della giungla malese https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/ https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/#respond Mon, 06 Jul 2020 00:10:11 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4910 In Malesia vivono i Penan, indigeni nomadi che mantengono parzialmente uno stile di vita a diretto contatto con la foresta che li circonda. Anche se una parte dei Penan si è ormai convertita all’Islam ed è diventata stanziale, rimangono piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori (circa il 20% della popolazione totale) che seguono il principio del “molong“: vivere grazie dalla foresta e prendere dall’ecosistema solo lo stretto necessario.

Una peculiarità dei Penan è il linguaggio che utilizzano per scambiare messaggi all’interno della foresta. Il linguaggio Oroo’ nacque dalla necessità di comunicare con compagni di caccia e clan limitrofi senza essere fisicamente vicini, una sorta di “sms della giungla” usato da secoli e impiegato ancora oggi dai Penan durante le battute di caccia.

Il linguaggio della natura

In molte regioni del mondo le popolazioni che basano la propria sopravvivenza sulla caccia e sulla raccolta comunicano sfruttando gli elementi naturali: nell’arcipelago di Vanuatu, ad esempio, era comune l’impiego di disegni sulla sabbia per raccontare storie e per lasciare messaggi interpretabili da cacciatori e pescatori di passaggio.

I nativi americani usavano invece i noti segnali di fumo per scambiare informazioni su grandi distanze, evitando di affrontare lunghi e pericolosi viaggi al solo scopo di trasmettere un semplice messaggio. Sull’isola di la Gomera, infine, il linguaggio Silbo Gomero sfrutta fischi di diversa intensità e melodia per imitare il suono di quattro vocali e quattro consonanti, creando un vocabolario di combinazioni sonore composto da oltre 4.000 parole.

Lo scopo di questi “linguaggi alternativi” è molteplice: comunicare su lunghe distanza (il Silbo Gomero può essere udito fino a 4 chilometri di distanza), mantenere una lingua comune tra clan che parlano idiomi differenti, e trasmettere messaggi senza perturbare eccessivamente l’ecosistema, una capacità utile specialmente durante le battute di caccia.

Il linguaggio Oroo’ dei Penan è nato per le stesse ragioni; e proprio a causa del suo legame con uno stile di vita basato su caccia e raccolta, oggi rischia di sparire. I giovani Penan sono sempre meno attivi all’interno della foresta rispetto ai loro genitori e progenitori, e sempre meno interessati ad apprendere una lingua dei segni dall’utilità pratica pressoché nulla nel mondo moderno.

Lingua di foglie e rami

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Il linguaggio Oroo’ si basa principalmente sulla realizzazione di piccoli messaggi visivi sfruttando foglie e rami. Gli adulti Penan, specialmente i più anziani, possono creare oltre 30 messaggi differenti piegando, rompendo e strappando foglie e rametti.

I messaggi trasmessi dalla lingua Oroo’ prevedono comunicazioni che notificano lo stato di una battuta di caccia, informazioni e istruzioni utili da lasciare ad altri individui di passaggio, e annunci di pubblica utilità.

Il segno chiamato Murut, ad esempio, contiene l’identità di chi lo ha composto e viene collocato in spazi pubblici come una sorta di annuncio. Ma altri segnali possono comunicare la direzione e la composizione del gruppo di caccia, la preda inseguita o uccisa, i rapporti di parentela tra lo scrittore e il lettore, la presenza di elementi come trappole pericolose o oggetti naturali tabù, oppure per comunicare cerimonie di nozze o funerarie.

Chi studia i Penan riconosce in loro una straordinaria capacità di navigazione nella giungla e di interpretazione dei segnali presenti nell’ecosistema. Alcuni messaggi lasciati durante le escursioni nella foresta possono raggiungere insospettabili livelli di complessità per un metodo di comunicazione così semplice.

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Una particolare configurazione di foglie e rametti può comunicare il seguente messaggio: “Il primo gruppo ha aspettato a lungo il secondo per parlare di una cosa urgente. Quindi il secondo gruppo dovrà ora viaggiare durante la notte per raggiungere il primo“.

Non esiste una grammatica per questo linguaggio. I ricercatori che si dedicano allo studio di questo idioma hanno tuttavia rilevato una sorta di complesso di regole, attualmente incompleto, che gestisce le variazioni di ogni messaggio.

Ad esempio, il segno di base chiamato “Batang Oroo” indica generalmente la direzione di marcia dell’autore, ma può essere combinato con foglie e altri rametti per assumere molteplici significati e creare un messaggio completo. In combinazione con il segno “Pelun” (un mucchietto di foglie) assume in significato di “attendi il nostro arrivo”; unito ad un bastoncino a “V” chiamato Tebai invita a seguire la direzione del rametto; in combinazione con due rametti incrociati a X significa invece “non andate in questa direzione”.

Il solo Batang Oroo, se inciso lungo il fusto in determinate posizioni, può comunicare la quantità di individui del gruppo di caccia, il loro stato di salute (affamati o assetati) o lo scopo e la durata della loro escursione.

Linguaggio incompleto in via di estinzione

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Anche se il linguaggio Oroo’ prevede messaggi come annunci di morte differenziati addirittura per sesso ed età, non contempla tuttavia annunci di nascita ben codificati. Gli anziani Penan sono comunque in grado di comunicare la nascita di un bambino e il suo sesso combinando segni destinati ad altri scopi.

Pur non esistendo un simbolo ben codificato e unanimamente condiviso per questo tipo di comunicazione, i Penan che conoscono l’Oroo’ sembrano interpretare allo stesso modo i messaggi che osservano deducendone il significato in base alla logica dei segni che lo compongono.
Per comunicare la nascita di una bambina, ad esempio, si può utilizzare il segno “Atip lutan“, solitamente associato alla creazione del fuoco, attività riservata alle donne.

I linguisti hanno distinto quattro principali categorie di segni Oroo’:

  • Segni legati ad attività, come attesa, pesca, caccia, incontro;
  • Segni di stato: affamato, assetato, in buona salute, ferito;
  • Oggetti come case, alberi, punti di riferimento;
  • Creature viventi: persona, scimmia, cinghiale, amici.

Come ogni linguaggio, anche l’Oroo’ sopravvive solo se sostenuto dall’uso costante. Gli anziani Penan hanno più volte espresso la loro preoccupazione riguardo lo scarso interesse dimostrato dai giovani nell’apprendimento della lingua della foresta: in molte parti della giungla è oggi possibile comunicare tramite la tecnologia, dalle radio ai telefoni cellulari, tecnologia che rende di fatto inutile la conoscenza dell’ Oroo’.

Penan’s Oroo’ Short Message Signs (PO-SMS): Co-design of a Digital Jungle Sign Language Application

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Il kit di sopravvivenza delle popolazioni dell’Artide https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/ https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/#respond Mon, 08 Jun 2020 00:12:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4905 Per giugno 2020 avevo previsto un breve weekend a Londra per una visita al British Museum in occasione della mostra “Arctic“, un’esposizione incentrata sugli stili di vita tradizionali dei popoli che vivono nei pressi del circolo polare artico. Per ragioni legate al coronavirus questo viaggio è stato rimandato a data indefinita, se non del tutto annullato, ma il sito del British Museum ha reso disponibile una raccolta di foto e informazioni relativi alla mostra, come l’articolo “10 things you need to live in the Arctic“.

Cosa serve per sopravvivere all’ecosistema artico? Le popolazioni che tradizionalmente occupano le regioni più fredde del pianeta sono eccellenti nello sfruttare i pochi materiali naturali a loro disposizione per realizzare oggetti fondamentali per la sopravvivenza nella tundra o tra i ghiacci polari, come indumenti e utensili.

Stivali
Stivali Gwich'in in pelle d'alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.
Stivali Gwich’in in pelle d’alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.

Un buon paio di stivali è fondamentale per la sopravvivenza nell’Artico, non solo per tenere al caldo le estremità inferiori, ma anche per facilitare l’attraversamento di ghiaccio o di spesse coltri di neve.

Il popolo Gwich’in, che vive tra il Canada e l’Alaska, realizza splendidi stivali dalla pelliccia di castoro e di caribù, decorandoli con piccole perline ottenute da piccole pietre, vetro o conchiglie. Le suole degli stivali sono invece realizzate in pelle d’alce affumicata, un trattamento che la rende spessa, resistente e simile al velluto.

Gli Inuit, gli Inupiat e gli Yupic fabbricano da secoli i mukluks (o kamik), stivali soffici in pelle di renna o di foca tenuti insieme da filamenti di tendine animale, un materiale particolarmente resistente e adatto al clima artico.

Questi stivali rappresentavano lo strato intermedio della calzatura: sotto di essi si trovava uno strato di pelliccia, con il pelo rivolto verso l’interno per migliorare l’isolamento termico, mentre il piede veniva rivestito esternamente da una soletta semi-rigida in pelle conciata e affumicata.

Occhiali da neve
Occhiali da neve in poelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.
Occhiali da neve in pelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.

Uno dei pericoli più sottovalutati durante le escursioni tra il ghiaccio o la neve è l’esposizione alla luce solare. La cecità da neve è una patologia che si sviluppa a seguito dell’esposizione prolungata della cornea alla luce ultravioletta riflessa dai cristalli di ghiaccio.

Gli occhi iniziano a lacrimare senza sosta, il dolore nella zona oculare diventa persistente e si può arrivare alla cecità totale momentanea. I sintomi di solito non sono permanenti: dolore e cecità possono svanire entro una o due settimane, a patto di evitare ulteriore esposizione alla luce ultravioletta.

I Dolgan della Russia settentrionale e centrale fabbricano occhiali da neve in pelle di renna. Pur essendo privi di lenti ottiche, offrono una semplice ma efficace protezione per gli occhi: le fessure limitano l’ingresso dei raggi ultravioletti ma garantiscono un buon grado di visibilità.

Parka
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.

L’abbigliamento necessario nelle regioni artiche deve essere resistente all’usura, isolante ma allo stesso tempo traspirante, per evitare che si formi della pericolosa umidità tra gli indumenti e il corpo umano. L’umidità condensata abbassa la temperatura corporea, condizione non ideale in un ecosistema in cui il calore è raro ed estremamente prezioso.

I parka, eskimo o anorak sono originari delle popolazioni Inuit, Inupiat e Yupik e venivano generalmente realizzati con pelli di renna o di foca, materiali che ancora oggi sono competitivi, in quanto a resistenza e isolamento termico, con i tessuti più moderni.

Alcuni parka, anche se non molto efficienti nell’ isolamento termico, erano completamente impermeabili: il materiale con cui venivano realizzati, interiora di foca, è totalmente idrorepellente, offre una buona protezione dall’umidità atmosferica e costituisce una barriera invalicabile per le zanzare che popolano l’estate della tundra.

Slitte
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.

Viaggiare sulla neve o sul ghiaccio è faticoso e pericoloso. Le popolazioni nomadi o seminomadi, inoltre, devono muovere grandi quantità di materiale durante i loro spostamenti stagionali: cibo, tende, utensili e indumenti non possono essere trasportati su lunghe distanze con la sola forza di braccia e gambe.

Dopo aver compreso che più la superficie a contatto con la neve o il ghiaccio è estesa, più si ottiene stabilità e movimento fluido, i popoli dell’Artico iniziarono a realizzare slitte capaci di coprire distanze notevoli scivolando sulle superfici che il piede umano affronta con difficoltà.

Per le loro slitte i popoli artici sfruttavano ogni materiale a loro disposizione: ossa di animali marini o terrestri per il telaio, tendine, cuoio o fibre vegetali per il cordame, e pelle di foca per creare una copertura isolante.

Aghi
Aghi d'avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.
Aghi d’avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.

Gli Inuit e le popolazioni dell’Artico sono abili costruttori di meravigliosi aghi d’osso e di legno, con i quali possono riparare tende, indumenti e oggetti di varia natura. Gli aghi d’osso e di legno, per la natura stesse del materiale da cui vengono realizzati, non hanno le dimensioni e le caratteristiche meccaniche degli aghi moderni, ma sono incredibilmente efficaci.

Gli aghi sono utensili utilissimi per la vita quotidiana dei popoli artici: parka, stivali, canoe e tende (come i tupiq Inuit) richiedevano l’impiego di fibre resistenti (come il tendine) e di strumenti in grado di perforare con facilità cuoio e pelliccia.

Ottenere un ago efficace da un osso è un’operazione lunga e tediosa; gli aghi erano quindi beni preziosi, e venivano conservati in appositi contenitori generalmente portati sulla cintura, per essere pronti all’uso e limitare la possibilità di perderli.

Ulu e coltelli
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.

Per gli Inuit e gli Yupik, l’ ulu non è un semplice coltello, ma un utensile multiuso impiegato per recidere, per la pulizia delle pelli, per il taglio dei capelli o per rifinire blocchi di neve in assenza di un vero e proprio coltello da ghiaccio.

Gli ulu moderni sono in acciaio, ma la lama veniva anticamente realizzata con corno di renna o avorio di tricheco. Il tipico ulu ha dimensioni che variano in base all’impiego a cui è destinato: gli ulu più piccoli (circa 5 centimetri di lunghezza della lama) sono utilizzati per il taglio dei tendini o per la decorazione della pelle, mentre quelli più grandi trovano molteplici applicazioni nella vita quotidiana degli Inuit.

Nelle regioni artiche in cui veniva praticata la metallurgia, il coltello rappresentava l’utensile di prima scelta per la maggior parte delle attività quotidiane. Gli allevatori di renne lo usavano per castrare o macellare i loro animali, per marchiare le orecchie dei capi di bestiame in modo da riconoscerli, per incidere il legno e, se necessario, per la difesa personale.

Utensili da cucina
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all'inizio del 1900.
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all’inizio del 1900.

Buona parte della dieta dei popoli artici è composta da nutrienti di origine animale. Alcuni possono essere consumati crudi, altri invece necessitano di cottura prima di essere ingeriti. Anche alcune delle poche fonti vegetali di nutrienti, come erbe, tuberi, bacche e alghe necessitano di cottura per risultare commestibili o gradevoli al palato.

La cottura non consisteva esclusivamente nell’esposizione degli alimenti alla fiamma vita: gli Inuit utilizzavano bollitori di roccia metamorfica, blocchi di pietra che venivano scavati con pazienza e perizia per consentire la bollitura di cibo e acqua.

10 things you need to live in the Arctic

Eskimo Lamps and Pots

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40 anni di isolamento: Faustino Barrientos https://www.vitantica.net/2019/11/13/40-anni-isolamento-faustino-barrientos/ https://www.vitantica.net/2019/11/13/40-anni-isolamento-faustino-barrientos/#respond Wed, 13 Nov 2019 00:10:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4668 A partire dal 1965, Faustino Barrientos ha vissuto in solitudine lungo le rive del lago O’Higgins, tra Cile e Argentina. Come dimora ha costruito una casa usando un vecchio vascello da pesca ormai inutilizzabile.

Faustino ha vissuto di pastorizia per oltre 40 anni, con l’aiuto di ben poche comodità moderne. L’insediamento più vicino, Villa O’Higgins, è una piccola comunità di qualche centinaio di persone a circa 40 chilometri di distanza dalla sua casa.

Per raggiungere Villa O’Higgins, Barrientos deve intraprendere un viaggio di due giorni a dorso di cavallo, viaggio che intraprende solo una volta all’anno per vendere e acquistare bestiame.

Nel 2011, Vice ha girato un breve documentario sulla vita in isolamento di Faustino Barrientos, un uomo ormai ottantenne che si trova ad affrontare forze governative, economia, turismo e cambiamenti climatici che stanno modificando il territorio che ama.

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Il machete, arma bianca multiuso, robusta e affidabile https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/ https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/#respond Mon, 04 Nov 2019 00:10:25 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4639 Chiunque sia stato nella giungla potrà essere testimone dell’estrema utilità e versatilità di un machete. Per molti esperti di survival, un machete di buona qualità è l’unico strumento in grado di garantire la sopravvivenza in una giungla o foresta densamente popolata da vegetazione.

Definizione di machete

Il machete (chiamato cutlass nelle regioni caraibiche anglofone) può vantare numerosissime variazioni regionali e imitazioni, ma tipicamente si tratta di un’arma bianca robusta e potente lunga da 32 a 60 centimetri, dotata di una lama spessa meno di 3 millimetri in corrispondenza del dorso.

La robustezza di un machete è la sua dote primaria. Essendo uno strumento da taglio utilizzato per recidere con potenza liane e piante dal fusto di piccolo-medio diametro, la lama deve essere in grado resistere a numerosi impatti violenti.

L’affilatura di un machete è considerata un aspetto secondario, al contrario dei coltelli di precisione, in quanto la forza dell’impatto con il materiale ligneo è spesso sufficiente a causare tagli profondi.

La maggior parte dei machete vengono temprati fino a raggiungere una buona robustezza e un discreto grado di flessibilità. In questo modo potranno resistere meglio alle fratture e alla scheggiatura, saranno più facili da affilare ma saranno incapaci di trattenere per molto tempo un filo tagliente.

Il produttore di machete storicamente più celebre nell’ America Centrale fu la Collins Company: dal 1845, l’azienda specializzata in asce iniziò a produrre machete di ottima qualità, così robusti e affidabili che ancora oggi una lama di buona qualità viene definita “una Collins”.

Machete collins su invaluable.com
Machete collins su invaluable.com

A metà del 1900 la produzione su larga scala coincise con un declino dei materiali e delle tecniche di fabbricazione del machete. Oggigiorno la maggior parte dei machete fatti in serie vengono realizzati un un’unico pezzo di acciaio di spessore uniforme che viene lavorato con macchinari abrasivi lungo uno dei lati allo scopo di ottenere una lama.

Variazioni del machete

Il machete è molto simile come forma al falcione medievale, una spada corta e tozza divenuta popolare a partire dal XIII secolo. Al contrario del falcione, il machete non possiede una guardia ed è dotato di un’elsa semplice priva di protezione per la mano.

Nelle Filippine si utilizza tradizionalmente il bolo, una sorta di machete dalla lama affusolata che si allarga in corrispondenza della punta per rendere più efficiente il taglio di potenza. Il bolo viene impiegato ancora oggi nella quotidianità rurale, ma fu utilizzato anche come arma per scontri armati, come accadde durante la Rivoluzione Filippina contro le autorità coloniali spagnole.

Il Malesia e in Indonesia si usano rispettivamente il parang e il golok, armi simili al machete ma dalla lama più corta e tozza, adatte per il taglio di vegetazione legnosa.

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Il machete barong, comune nel Sud-est asiatico, ha invece una configurazione più affusolata, con una lama a forma di foglia. La sua punta non consente di concentrare al meglio tutta la potenza del fendente, ma è capace di creare tagli netti e precisi, oltre che perforare efficacemente.

Il kukri nepalese, anche se non viene tecnicamente considerato un machete, riveste spesso il ruolo di “abbattitore” di rami e liane. Il kukri è il coltello tradizionale dei Gurkha e l’arma da taglio d’ordinanza dell’esercito nepalese.

Il taiga è un machete multiuso di origini russe in dotazione alle forze speciali. Può fungere da machete, ascia, coltello, sega e pala grazie alla forma della lama, che si allarga verso la punta per facilitare il taglio.

L’importanza del machete nelle culture rurali

Il machete moderno è un’invenzione abbastanza recente. Prima della metallurgia industriale, fabbricare un’arma da taglio come il machete richiedeva molte ore-lavoro; la costruzione di un machete diventa di gran lunga più semplice se questo utensile viene prodotto su larga scala tramite processi meccanizzati.

Nonostante la sua “breve” vita, il machete moderno ha subito riscosso un grande successo tra i popoli che vivevano negli ambienti più inospitali della Terra, o nelle regioni rurali in cui era necessario l’impiego di uno strumento da taglio robusto e affidabile.

I cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo si adattarono molto velocemente all’uso del machete, arrivando a considerarlo uno strumento indispensabile per la vita nella natura selvaggia.

Il machete semplifica enormemente ogni lavoro che richiede l’impiego di uno strumento da taglio: è utile per il taglio di prodotti alimentari di grandi dimensioni, per sfoltire il sottobosco o per recidere le canne da zucchero. Se manovrato con perizia, può costituire un’arma bianca vera e propria, oltre che un pratico strumento da taglio in sostituzione di un’ascia o una lama da intaglio.

Gli Aka africani, ad esempio, insegnano a maneggiare il machete ai propri figli quando raggiungono questi la tenera età di 8-11 mesi. Imparando a perforare il terreno con bastoni da scavo, a scagliare piccole lance o a tagliare col machete la vegetazione del sottobosco, i piccoli Aka vengono quasi immediatamente immersi nella realtà quotidiana che vivranno durante l’adolescenza e l’età adulta, e iniziano ad affinare le abilità che garantiranno la loro sopravvivenza in futuro.

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Ancora oggi molte persone che vivono nelle regioni rurali di Ecuador, Brasile e Mesoamerica usano quotidianamente il machete per ripulire i campi, tagliare legna, canne da zucchero e liane, o per lavori che richiedono una certa precisione.

Il machete e l’abilità nel manovrarlo sono sempre stati considerati un’accoppiata simbolo di mascolinità e il suo utilizzo non è limitato all’agricoltura: può rivelarsi un’arma da taglio estremamente pericolosa, come testimonia l’uso barbaro del machete durante diversi conflitti bellici e guerre civili accaduti nell’ultimo secolo.

Fonti per: “Il machete, arma bianca multiuso, robusta e affidabile”

What Is a Machete, Anyway?
Give Your Baby a Machete and Other #BabySlatePitches
LIFE HACK: USING THE MACHETE AS AN EFFECTIVE WEAPON
Machete History: The Rise of a Super Tool

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Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/ https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/#respond Fri, 25 Oct 2019 00:10:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4623 Il pinole, chiamato anche pinol o pinolillo, è un alimento utilizzato per secoli dai nativi nord e centroamericani come cibo di prima necessità o di sopravvivenza.

Grazie al suo alto valore nutritivo, il pinole fu spesso la prima scelta nelle scorte alimentari di chi doveva intraprendere lunghi viaggi senza la avere la possibilità di trasportare grandi quantità di provviste.

L’origine del pinole

Il termine pinole deriva dalla parola Nahuatl pinolli, che significa “farina di mais”. Ancora oggi è considerata la base per le bevande tradizionali di Nicaragua e Honduras, mentre gli indiani Tarahumara messicani utilizzavano questa polvere a base di mais prima di intraprendere le loro caratteristiche marce su lunghe distanze.

La prima testimonianza scritta del pinole risale ai primi anni del 1700: il comandante spagnolo Don Pedro Fages e la sua truppa, durante l’ esplorazione delle coste californiane, terminano le loro provviste alimentari e si videro costretti a chiedere aiuto ai nativi che risiedevano nell’area oggi chiamata Pinole.

Il cibo che fu loro donato era composto da una mistura di ghiande, semi e cereali selvatici, un mix definito dai locali come “pinole”, dall’antico termine azteco “pinolli”.

I Tarahumara preparano una sorta di "barretta energetica" con il pinole che producono.
I Tarahumara preparano una sorta di “barretta energetica” con il pinole che producono.

Il missionario John Gottlieb Ernestus Heckewelder, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, descrive nel suo “History, Manners and Customs of the Indian Nations” come il popolo dei Lenni Lenape (o Delaware) preparava e utilizzava questo alimento di prima necessità:

“Lo Psindamooan o Tassmanane, come lo chiamano loro, è il cibo più nutriente e durevole realizzato con il mais indiano. Il tipo di mais blu e dolce è quello che preferiscono. Lo arrostiscono su cenere calda fino a quando non esplode, a quel punto viene setacciato, pulito e pestato in un mortaio fino ad ottenere una specie di farina; quando vogliono preparare del pinole davvero buono, lo mescolano con zucchero”.

 

“Quando vogliono utilizzarlo, mettono in bocca un cucchiaio di questa farina, si chinano lungo un fiume o un ruscello e bevono. Se tuttavia hanno a disposizione una tazza o un altro recipiente, vi versano la farina e la mescolano nelle proporzioni di un cucchiaio per ogni pinta d’acqua”.

 

“Con questo cibo il viaggiatore e il guerriero partono per lunghi viaggi e spedizioni […] Le persone non abituate a questa dieta devono essere prudenti a non assumere troppo pinole in una volta sola, e a non essere tentati troppo dal suo sapore; è pericoloso ingerire più di un cucchiaio o due in un solo pasto; [il pinole] si gonfia nello stomaco e nell’intestino, come quando viene cotto sulla fiamma.”

Composizione e preparazione del pinole

Il pinole veniva originariamente prodotto arrostendo semi di mais su ceneri calde, procedendo successivamente a ripulirle prima di macinarle fino ad ottenere una farina grossolana.

Con l’aggiunta di acqua, la farina di mais così preparata diventava una sorta di zuppa d’avena, non particolarmente saporita ma capace di donare una piccola quantità di energia sufficiente per svolgere le attività quotidiane, o di consentire la sopravvivenza durante le stagioni più difficili.

Per renderlo più gradevole al palato, alla farina di mais arrostito venivano talvolta aggiunti cacao, dolcificanti naturali come zucchero di canna o miele, cannella, oppure farine prodotte da altri semi, come ghiande o altri cereali selvatici.

Preparare il pinole secondo metodi tradizionali richiedeva lavoro, specialmente se era prevista l’aggiunta di altri ingredienti oltre alla sola farina di mais: occorreva arrostire e tritare in un mortaio i semi di granturco, fare lo stesso con le fave di cacao, e procurarsi miele selvatico (attività che può risultare pericolosa), zucchero di canna o nettare di agave.

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Un alimento ricco di nutrienti

In base alla tipologia e alla qualità dei suoi ingredienti, il pinole può contenere un’elevata dose di vitamine, proteine, fibre e antiossidanti. L’aggiunta di zucchero e spezie, oltre a rendere più gradevole il sapore, gli può donare proprietà tonificanti ed energizzanti.

Dato il suo alto contenuto di fibre e la lenta digestione del mais, il pinole è in grado di saziare a lungo. Il pinole contiene mediamente 2-4 grammi di carboidrati per cucchiaio, 2 grammi di proteine e circa 20 milligrammi di sodio.

Circa 5 grammi di pinole contengono solo 35 calorie e forniscono un discreto apporto di vitamina A, C, B1, B2, B3, E, calcio, ferro, riboflavina e tiamina.

Fonti per “Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani”

Pinole
Pinole: The Ultimate Bugout Food

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Coltello da feci ghiacciate: fantasia o realtà? https://www.vitantica.net/2019/09/17/coltello-da-feci-ghiacciate-fantasia-o-realta/ https://www.vitantica.net/2019/09/17/coltello-da-feci-ghiacciate-fantasia-o-realta/#respond Tue, 17 Sep 2019 00:10:36 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4536 Nel suo libro “Shadows in the Sun” (1998), Wade Davis (autore, tra le altre opere, del libro “The Serpent and the Rainbow“, la fonte d’ispirazione per il film “Il serpente e l’arcobaleno“) descrive uno degli aneddoti etnografici più bizzarri di sempre:

“Esiste un resoconto molto conosciuto che riguarda un anziano inuit che si rifiutò di spostarsi in un nuovo insediamento urbano. Contro le obiezioni della famiglia, decise di rimanere a vivere sul ghiaccio. Per fermarlo, i parenti sottrassero tutti i suoi utensili. Quindi, nel bel mezzo di una tempesta invernale, l’anziano uscì dal suo igloo, defecò e plasmò le sue feci in una lama ghiacciata, che affilò usando la sua saliva. Con quel coltello uccise un cane. Usando la gabbia toracica dell’animale come slitta e la sua pelle per imbrigliare altri cani, sparì nell’oscurità.”

Quanto è realistico fabbricare un coltello dalle proprie feci? E’ possibile ottenere uno strumento funzionale sfruttando materia organica e temperature estreme? Una ricerca pubblicata recentemente sulla rivista Journal of Archaeological Science ha tentato di replicare il “coltello di feci” riportato nel libro di Davis.

L’origine della storia

Secondo Davis, la fonte dell’aneddoto fu un inuit di nome Olayuk Narqitarvik, residente nella British Columbia. Fu proprio il nonno di Olayuk, negli anni ’50 del 1900, a rifiutarsi di stabilirsi in un insediamento urbano. Inizialmente, Davis considerò il racconto come frutto dell’immaginazione locale, ma il resoconto autobiografico di Peter Freuchen, esploratore artico di origine danese, sembrò confermare la possibilità che ci fosse qualcosa di reale nella storia.

Freuchen, dopo essersi ricavato una nicchia nella neve per dormire al riparo dagli agenti atmosferici del circolo polare artico, si svegliò accorgendosi di essere in trappola: non poteva più uscire dal suo rifugio improvvisato a causa della quantità di neve compatta accumulatasi durante la notte.

Ricordandosi di aver osservato le feci dei suoi cani da slitta completamente ghiacciate e dure come la roccia, defecò nella sua mano, modellò le sue deiezioni per ottenere uno scalpello improvvisato e attese che si congelassero. Utilizzando l’utensile di fortuna, riuscì a liberarsi dal ghiaccio che lo intrappolava e fece ritorno alla civiltà.

Sia il racconto di Freuchen che quello riportato da Davis hanno sollevato molteplici dubbi per diverso tempo. Sono i soli testimoni (il primo diretto, il secondo indiretto) di due episodi così curiosi; è per questa ragione che alcuni ricercatori della Kent State University hanno tentato di riprodurre un “coltello di feci” basandosi sui dettagli riportati dall’antropologo canadese.

La prova sul campo
Prova sul campo del coltello di feci (Image: © Eren et al.)
Prova sul campo del coltello di feci (Image: © Eren et al.)

Per poter ottenere il materiale necessario all’esperimento, uno dei ricercatori ha seguito per otto giorni una dieta ricca consistente con l’alimentazione degli Inuit, ricca di proteine e grassi animali. A partire dal quarto giorno sono iniziati i prelievi quotidiani di materiale fecale, in seguito modellato a forma di coltello manualmente o tramite stampi di ceramica e conservato a -20 °C fino al giorno dei test.

Per testare l’efficacia degli utensili, i ricercatori si sono procurati pelle, muscoli e tendini di maiale conservati a -20 °C fino a 2 giorni prima dell’esperimento, lasciandoli quindi scongelare fino a raggiungere la temperatura di 4 °C per simulare il cadavere di un animale ucciso da poco tempo.

Appena prima della prova sul campo, i coltelli sono stati sepolti in uno strato di ghiaccio secco a -50 °C per ottenere la massima durezza possibile in un clima glaciale, per poi essere estratti al momento dell’utilizzo.

L’esperimento è iniziato con i test sulla pelle di maiale. Nessuna delle due tipologie di coltelli (modellati a mano o tramite stampo) sono state in grado di tagliare la pelle animale: il filo della lama si è sciolto a contatto con la superficie del materiale, lasciando strisce di materia fecale e non riuscendo ad incidere il bersaglio.

I tentativi di tagliare il grasso sottocutaneo hanno ottenuto risultati di poco superiori: i ricercatori sono riusciti ad ottenere fettine irregolari e sottili, ma la lama si è velocemente deteriorata diventando presto inservibile.

Coltello di feci poco funzionale

Il risultato degli esperimenti è che un coltello di feci ghiacciate risulta ben poco utile nel gelo dell’ Artico. In condizioni di laboratorio, queste lame hanno ottenuto risultati scarsi o del tutto insoddisfacenti, diventando inefficaci pochi secondi dopo il contatto con il “corpo” relativamente caldo dell’animale.

Occorre osservare inoltre che l’esperimento è stato condotto su parti di maiale preparate per ottenere un taglio ottimale. In condizioni reali, la carcassa di un animale ucciso da pochi minuti si presenterebbe più calda e ricoperta di pelo, elementi che limiterebbero ulteriormente l’utilità di un coltello di feci ghiacciate.

L’aneddoto di Davis viene spesso utilizzato per dimostrare quanto i cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo si dimostrino pieni di inventiva in situazioni di necessità; ma non esiste alcuna documentazione attendibile sulla praticità di un coltello ottenuto dalle feci, solo resoconti di dubbia autenticità e attendibilità smentiti in modo definitivo dalla ricerca della Kent State University.

Fonti per “Coltello da feci ghiacciate: fantasia o realtà?”

Experimental replication shows knives manufactured from frozen human feces do not work

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Video: 6 days solo bushcraft https://www.vitantica.net/2019/09/16/video-6-days-solo-bushcraft/ https://www.vitantica.net/2019/09/16/video-6-days-solo-bushcraft/#respond Mon, 16 Sep 2019 00:10:13 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4504 L’utente YouTube Rune Malte Bertram-Nielsen ha pubblicato nel 2018 un filmato della sua esperienza di sopravvivenza in solitario nelle foreste danesi, durata 6 giorni.

Il video è stato girato senza l’aiuto di operatori o altri escursionisti. Lo zaino pesava circa 25 chilogrammi e conteneva anche il cibo cucinato nel filmato attraverso un fuoco da campo accesso con un acciarino moderno.

Tra la dotazione di strumenti da taglio era incluso anche un puukko, un coltello tradizionale finlandese molto versatile e robusto.

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