piante velenose – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Giulia Tofana, avvelenatrice professionista https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/ https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/#comments Sun, 13 Sep 2020 00:25:56 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4967 Nell’autunno del 1791, Wolfgang Amadeus Mozart iniziò ad ammalarsi seriamente, presentando sintomi che lui stesso attribuiva all’avvelenamento da parte di una delle sostanze tossiche più curiose e subdole della storia recente: l’ acqua tofana.

Anche se le vere cause della morte del celebre compositore sono ancora oggi fonte di dibattito, alcuni ricercatori, come gli esperti di manoscritti antichi Oliver Hahn e Claudia Maurer Zenck, hanno concluso che Mozart fu deliberatamente ucciso utilizzando un particolare veleno ideato da un’avvelenatrice professionista, Giulia Tofana, vissuta oltre un secolo prima.

Veleno leggendario

Le ipotesi sulla morte di Mozart spaziano dalla sifilide alla febbre reumatica; c’è anche chi ha ipotizzato che il musicista fu ucciso da costolette di maiale poco cotte. Ma Hahn e Zencks hanno rilevato tracce di arsenico sui manoscritti del compositore, un elemento utilizzato come ingrediente per la fabbricazione di un veleno incolore, inodore, insapore e che uccideva lentamente, fugando quasi ogni sospetto di avvelenamento da un occhio poco attento.

L’ acqua tofana potrebbe essere il veleno responsabile di centinaia, se non migliaia, delle morti per avvelenamento verificatesi nell’arco degli ultimi quattro secoli. Il suo ingrediente principale era l’arsenico, e solo 4-6 gocce di questo potente veleno era in grado di uccidere un uomo nell’arco di una settimana facendo apparire il decesso come legato ad una malattia difficilmente identificabile.

La ricetta esatta dell’acqua tofana non è nota, anche se conosciamo i suoi ingredienti principali da alcuni scrittori dell’epoca: arsenico, limatura di piombo, limatura di antimonio e probabilmente belladonna. Questo veleno poteva essere facilmente mescolato all’acqua o al vino, essendo totalmente incolore e non alterando i sapori di bevande e pietanze.

Altri autori del XVII-XVIII secolo sostengono invece che il veleno avesse come ingredienti anche la linajola comune (Linaria vulgaris), estratto di “mosca spagnola” (Lytta vesicatoria, un coleottero verde smeraldo), estratto di Antirrhinum majus e arsenico.

L’acqua tofana era un veleno che agiva lentamente e che doveva essere somministrato in più dosi consecutive, alimentando l’idea che a causare la morte della vittima fosse stata una malattia o altre cause naturali. I sintomi di un primo dosaggio erano simili a quelli di un’influenza comune, ma già al secondo dosaggio i sintomi peggioravano sensibilmente: vomito, disidratazione, diarrea e una sensazione di bruciore lungo il tratto digestivo.

La terza o quarta dose generalmente uccidevano la vittima. Si riteneva che i primi dosaggi di acqua tofana potessero essere annullati dalla somministrazione di aceto o succo di limone, ma al quarto dosaggio la quantità di arsenico e piombo accumulata dall’organismo era tale da provocare quasi certamente la morte.

Boccetta di "Manna di San Nicola" ritratta da Pierre Méjanel.
Boccetta di “Manna di San Nicola” ritratta da Pierre Méjanel.
Veleno per mogli

L’acqua tofana fa la sua apparizione nella documentazione storica nel 1632. Commercializzata con il nome “Manna di San Nicola” per nascondere il suo vero utilizzo alle autorità locali, veniva venduta all’interno di fiale come cosmetico o offerta votiva a San Nicola.

A quanto pare l’acqua tofana era considerato il veleno ideale per le mogli che subivano abusi dai mariti ed erano intenzionate a liberarsi definitivamente del consorte. Essendo incolore, inodore e insapore, poteva essere somministrata al marito durante i pasti senza suscitare alcun sospetto.

Anche se l’avvelenamento è certamente un metodo infido e criminale per risolvere un problema coniugale, occorre ricordare che tre secoli fa le donne italiane non erano giuridicamente tutelate dagli abusi, domestici e non, come accade oggi, e il divorzio era un’eventualità nemmeno lontanamente contemplata in molte comunità.

Secondo l’economista campano Ferdinando Gagliani (1728 – 1787), a Napoli non esisteva donna che non fosse provvista di una fiala di acqua tofana disposta accuratamente tra i suoi cosmetici. Solo la proprietaria poteva riconoscere la fiala e distinguerla dalle altre in caso di bisogno.

Una famiglia di avvelenatrici

L’ideatrice dell’acqua tofana fu probabilmente Giulia Tofana, avvelenatrice professionista che prima di essere giustiziata a Roma nel 1659 confessò di essere coinvolta in almeno 600 morti causate a Roma dal suo veleno tra il 1633 e il 1651.

Giulia Tofana nacque nel 1620 a Palermo, probabilmente figlia di Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633 con l’accusa di aver ucciso il marito. Secondo la documentazione dell’epoca, Giulia era una ragazza di bell’aspetto costantemente interessata al lavoro di farmacisti e speziali, spendendo molto tempo nei loro laboratori e apprendendo i segreti delle erbe e dei minerali.

Fu così che Giulia sviluppò la formula dell’acqua tofana. E’ possibile tuttavia che il veleno fosse frutto del lavoro della madre Thofania, e sia stato passato come eredità alla figlia prima della sentenza di morte.

Giulia Tofana iniziò a vendere veleno alle mogli siciliane in difficoltà, aiutata dalla figlia Girolama Spera, nota come “Astrologa della Lungara”. Le voci sull’efficacia dell’acqua tofana uscirono ben presto dalla Sicilia per raggiungere Napoli e Roma, dove madre e figlia riuscirono a creare un mercato di “Manna di San Nicola”.

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Giulia Tofana viene spesso descritta come amica delle donne in difficoltà, spesso intrappolate in matrimoni di convenienza con uomini violenti e pericolosi. Raggiunse una tale popolarità da arrivare ad essere indirettamente protetta dalle autorità locali, ma il suo business tossico fu alla fine scoperto, costringendola alla fuga.

Giulia si rifugiò con la figlia in una chiesa, dove le fu garantito asilo. Ma ben presto l’asilo le venne revocato non appena iniziò a circolare la voce che avesse avvelenato l’acqua di alcuni pozzi di Roma. Le autorità fecero irruzione nella chiesa, catturando Giulia, la figlia Girolama e loro tre aiutanti.

Le affermazioni di Giulia sulle morti provocata dal suo veleno nell’arco di 18 anni, e nella sola città di Roma, sono sconcertanti ma difficili da confermare. Si tratta di dichiarazioni rilasciate sotto tortura, ed è estremamente complesso tenere traccia del suo veleno nel mercato nero romano del XVII secolo; ma considerata l’apparente diffusione dell’acqua tofana riportata da alcuni autori dell’epoca, 600 vittime potrebbe essere un numero più o meno accurato.

L’eredità di Giulia Tofana

Il veleno noto come acqua tofana, e altri veleni sotto il nome di “acquetta” o “liquore arcano d’aceto” circolarono per tutta la penisola italiana per almeno un altro secolo dopo la morte di Giulia.

Una mistura di aceto, vino bianco e arsenico iniziò ad essere venduta a Palermo all’inizio della seconda metà del 1700 da Giovanna Bonanno. Il tipico cliente di Giovanna era una donna che voleva liberarsi del marito per poter stare col proprio amante: la prima dose veniva somministrata al consorte per causare dolori di stomaco, la seconda per mandarlo all’ospedale e la terza per porre fine ai suoi tormenti.

I medici dell’epoca non riuscivano a determinare le cause della morte provocata da questo veleno, ma una lunga serie di decessi registrati a Palermo portarono all’arresto della Bonanno per stregoneria. Alcuni farmacisti che collaboravano con lei furono condotti a testimoniare al suo processo, svoltosi nel 1788, e si giunse alla condanna a morte per impiccagione il 30 luglio 1789.

 

Aqua Tofana: slow-poisoning and husband-killing in 17th century Italy
Aqua Tofana
Giulia Tofana
A Cyclopaedia of Practical Receipts: And Collateral Information in the Arts

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L’ erba del tuono https://www.vitantica.net/2018/08/14/l-erba-del-tuono/ https://www.vitantica.net/2018/08/14/l-erba-del-tuono/#respond Tue, 14 Aug 2018 02:00:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=410 Non tutto ciò che è medicina naturale può essere considerato realmente efficace nel trattamento delle patologie umane. Ma è vero anche il contrario: alcuni rimedi tradizionali e naturali si sono rivelati essere molto efficaci, e sono stati utilizzati per centinaia o migliaia di anni senza che nessuno si preoccupasse di capire perché funzionano.

Sia chiaro: non tutto quello che viene etichettato come “naturale” è anche salutare: la natura ci offre sostanze di ogni tipo, alcune delle quali, se assunte in modo corretto, possono fare solo del bene, altre invece possono nuocere gravemente alla salute, se non addirittura uccidere.

La scienza ultimamente sta sempre più indagando sulla medicina tradizionale perché si è finalmente accorta che alcune terapie basate su sostanze naturali, siano esse di origine animale o vegetale, funzionano davvero, anche se talvolta comportano qualche rischio per nulla trascurabile.

L’erba del tuono: Tripterygium wilfordii

Un esempio è la Lei gong teng (Tripterygium wilfordii), o “erba del tuono“, utilizzata per centinaia di anni nella medicina tradizionale cinese per curare alcune patologie come l’artrite reumatoide.

Secondo uno studio pubblicato su Nature Chemical Biology, questa pianta è in grado di agire a livello genetico sulle cellule, e potrebbe rappresentare un punto di partenza per la realizzazione di nuovi farmaci anticancro.

“Gli estratti di questa pianta medicinale sono stati utilizzati per trattare un numero di patologie, e sono ben note per le loro proprietà anti-infiammatorie, immunosoppressive, contraccettive e antitumorali” afferma Jun O. Liu, professore di farmacologia e scienza molecolare alla Johns Hopkins University. “Fin dal 1972 eravamo a conoscenza del suo composto attivo, la triptolide, che ferma la crescita cellulare, ma solo ora abbiamo scoperto come agisce”.

Speranza per l’artrite reumatoide

La triptolide ha dimostrato sugli animali di avere effetti benefici nella lotta contro il cancro, l’artrite e il rigetto di pelle trapiantata. “Il comportamento della triptolide ha implicazioni importanti per aggirare la resistenza che alcune cellule cancerose sviluppano contro alcune droghe anticancro. Siamo ansiosi di studiarlo più a fondo per vedere cosa possiamo fare per le future terapie anticancro”.

Questa pianta medicinale non è stata sottoposta ad un gran numero di studi scientifici, ma ha dimostrato di possedere diverse caratteristiche utili, specialmente per combattere l’artrite reumatoide.

Uno studio ad ampio spettro condotto dal National Institute of Arthritis and Musculoskeletal and Skin Diseases ha effettuato una comparazione tra l’efficacia di questa pianta e quella di un medicinale, la sulfasalazina, scoprendo che i pazienti rispondevano in modo più significativo all’estratto dell’ erba del tuono rispetto al farmaco.

Tossica oltre la dose consigliata

La pianta lei gong teng è una vite perenne nativa di Cina, Giappone e Corea utilizzata nella medicina tradizionale da oltre 400 anni per trattare infiammazioni, placare un ciclo mestruale eccessivo, curare disordini autoimmuni, l’artrite reumatoide e il lupus.

Per quanto possa avere effetti benefici se utilizzata correttamente, nella medicina tradizionale è conosciuta anche come “qi bu si“, letteralmente “sette passi per la morte”, per indicare la sua tossicità che si manifesta se si superano i 15 grammi di dose giornaliera.

Se consumata secondo la modalità tradizionale, la Tripterygium wilfordii ha un indice terapeutico molto basso, il che significa che la dose efficace media è molto simile alla dose nociva o letale.

Secondo i testi classici, per eliminare le tossine occorre pulire la buccia della radice e metterla bollire per almeno 2 ore per ottenere un decotto dalla tossicità limitata.

Foglie, gambo e fiori devono essere evitati perché sono contengono quantità letali di tossina, tanto che in passato alcuni bambini hanno avuto infiammazioni renali dopo aver consumato miele prodotto da api che avevano raccolto nettare dall’ erba del tuono.

Se assunta non seguendo le dosi e le modalità adatte, questa pianta può avere significativi effetti collaterali come eruzioni cutanee, sintomi gastrointestinali, eventi cardiovascolari e soppressione del sistema immunitario.

Per saperne di più: Thunder God Vine – Ancient Chinese Arthritis Secret Uncovered

 

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L’uso di frecce avvelenate risale alla preistoria https://www.vitantica.net/2017/11/14/uso-frecce-avvelenate-preistoria/ https://www.vitantica.net/2017/11/14/uso-frecce-avvelenate-preistoria/#respond Tue, 14 Nov 2017 02:00:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=809 Moltissimi popoli cacciatori-raccoglitori sopravvissuti fino all’era moderna utilizzano frecce avvelenate allo scopo di aumentare il successo della caccia. Quando è nata questa pratica?

E’ da diverso tempo che gli archeologi sospettano che i cacciatori-raccoglitori della preistoria utilizzassero il veleno estratto da alcune piante per aumentare l’efficacia delle loro armi da caccia. Si tratta di una tecnologia in uso ancora oggi tra molte popolazioni tribali moderne e che ha dimostrato la sua validità innumerevoli volte nella caccia di persistenza.

Veleno debilitante per semplificare la caccia

La caccia di persistenza consiste principalmente nell’inseguire una preda nella speranza di affaticarla a tal punto da impedirle di poter proseguire la sua fuga a causa dell’eccessivo affaticamento. Le armi primitive non hanno le stesse prestazioni di quelle moderne, quindi abbattere un animale in un sol colpo è quasi sempre impossibile.

Alcune prede si affaticano molto facilmente: a differenza dell’essere umano, non hanno sistemi di termoregolazione che consentono loro di dissipare il calore corporeo. Altre, invece, possono percorrere decine di chilometri senza stancarsi eccessivamente.

Utilizzando una sostanza tossica debilitante o letale, tuttavia, i nostri antenati si resero conto che gli inseguimento duravano molto meno e che la combattività della preda si riduceva, rendendo la caccia molto meno faticosa e rischiosa. Alcune delle tossine potevano addirittura uccidere un animale di grossa taglia se dosate accuratamente e lasciate agire per il tempo necessario ad ucciderlo.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

Le oltre 250 piante del genere Aconitum, come l’ aconito napello (Aconitum napellus), sono diffuse in tutto il territorio eurasiatico e la loro tossicità è nota da millenni. Sappiamo che in Europa i Galli e i Germani usavano l’aconito per avvelenare frecce e lance da usare in guerra; se le ferite inferte al nemico non erano sufficienti ad ucciderlo, il veleno inoculato dalle armi avvelenate avrebbe di certo terminato il lavoro.

In Africa, il lattice delle piante del genere Acokanthera è tradizionalmente impiegato per avvelenare le frecce utilizzate dalle popolazioni tribali semi-primitive di Tanzania, Sud Africa e Zimbabwe. Il popolo San della Namibia usa invece il veleno estratto da una larva parassita mescolato con frammenti della corteccia di una pianta di piselli che cresce spontaneamente nella savana africana.

Quando furono ideate le frecce avvelenate?

Il problema nello stabilire la “data di nascita” delle prime armi da caccia avvelenate è sempre stato rappresentato dall’impossibilità di analizzare le tracce di veleno sulle armi rinvenute nei vari siti archeologici dislocati su tutto il pianeta: spesso chi opera sul campo si trova costretto a dover ripulire i reperti dal terreno che li seppelliva utilizzando strumenti archeologici molto comuni (come spazzole e pennelli), che tendono però a cancellare le poche ed eventuali tracce di veleno un tempo presente sui reperti.

Come tutti i materiali di natura organica, inoltre, i veleni vegetali o di origine animale si degradano col tempo e tendono a lasciare tracce chimiche difficilmente analizzabili tramite le tecnologie disponibili fino a qualche anno fa.

Aconito - Aconitum napellus
Aconito – Aconitum napellus

La dottoressa Valentina Borgia del McDonald Institute for Archaeological Research, specializzata in armi da caccia del Paleolitico, ha combinato le sue competenze in campo archeologico con le conoscenze di chimica forense di Michelle Carlin (Northumbria University) allo scopo di rilevare e analizzare eventuali tracce di veleno applicato su armi risalenti a migliaia di anni fa.

Le due ricercatrici hanno elaborato un metodo non distruttivo per prelevare campioni di materiale organico dai reperti e confrontarli con un database di piante tossiche popolato dai dati relativi alle tossine prelevate dalle piante del celebre “Giardino dei Veleni” di Alnwick.

Rilevale il veleno su frecce vecchie di millenni

Borgia e Carlin hanno trascorso gli ultimi tre anni a perfezionare la loro tecnica di prelievo sperimentandola inizialmente con successo su artefatti vecchi di un secolo; nel 2015 hanno iniziato ad analizzare alcune frecce egizie dalla punta di pietra risalenti a circa 6.000 anni fa (ad oggi non è stato pubblicato alcun risultato), nella speranza di ottenere la prima prova sull’ipotesi avanzata da Borgia: l’utilizzo di veleno vegetale sulle punte di freccia è vecchio di millenni e la tecnologia fu ideata probabilmente qualche decina di migliaia di anni fa.

“Sappiamo che i Babilonesi, Greci e Romani usavano veleni di origine vegetale per cacciare animali e in guerra” spiega Borgia. “Oggi rimangono poche società cacciatrici-raccoglitrici ma tutti i gruppi sopravvissuti utilizzano veleni. Gli Yanomami della foresta pluviale amazzonica usano il curaro, un mix di piante del genere Strychnos, per avvelenare le loro frecce. In Africa, vengono utilizzate varietà di piante differenti per creare veleni. Acokanthera, Strophantus e Strychnos sono le più comuni”.

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Il metodo messo a punto da Borgia e Carlin non si basa solo sul riconoscimento delle tossine ma anche sull’ analisi delle particelle di amido: le dimensioni, la forma e la struttura dei granuli di amido variano in base al taxon (unità tassonomica della pianta) e costituiscono una sorta di impronta digitale che può far risalire al tipo di veleno utilizzato.

“Le armi del Paleolitico dotate di punte di pietra potrebbero non essere state sufficientemente letali da immobilizzare o uccidere un animale di grossa taglia come un cervo rosso. Le piante velenose erano abbondanti in passato e le popolazioni preistoriche conoscevano l’ambiente in cui vivevano, sapevano quali piante erano commestibili e il loro potenziale impiego come medicinali o veleni. Fabbricare veleno è facile ed economico e i rischi sono minimi. In aggiunta, la fabbricazione del veleno diventa speso parte della tradizione e dei rituali di caccia”.

L’ipotesi di Borgia sembra essere supportata da diversi artefatti provenienti da tutto il mondo, come punte di freccia africane risalenti a circa 13.000 anni fa. Sebbene non sia stato possibile rilevare tracce di veleno su questi reperti, la forma delle punte e la presenza di resti carbonizzati di alcune piante tossiche  suggerirebbero che i veleni vegetali fossero impiegati comunemente nella caccia verso la fine del Pleistocene.

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Pesca con tossine naturali https://www.vitantica.net/2017/11/08/pesca-con-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2017/11/08/pesca-con-tossine-naturali/#respond Wed, 08 Nov 2017 02:00:36 +0000 https://www.vitantica.net/?p=653 La pesca con il veleno, metodo utilizzato per millenni in svariate regioni del mondo, prevede l’impiego delle sostanze tossiche contenute in alcune piante allo scopo di semplificare la cattura del pesce, spesso solo tramortendolo per il tempo necessario a catturarlo con più facilità.

Brevissima storia sulla pesca col veleno

L’utilizzo di piante velenose per la cattura del pesce ha probabilmente origine nel Neolitico ed è un metodo di pesca sopravvissuto fino ad oggi in molte culture cacciatrici-raccoglitrici ancora esistenti.

L’impiego di tossine naturali per la pesca rappresentò per molto tempo il modo più efficiente per catturare il pesce: era meno faticoso rispetto all’uso di una rete da lancio, otteneva risultati più velocemente di una rete da posta fissa e non richiedeva abilità manuali specifiche o difficili da apprendere.

La pesca con il veleno, sebbene sia oggi praticata principalmente da culture semi-primitive o tribali, era un metodo di pesca relativamente comune in Europa nei secoli passati. Nel 1212, Federico II proibì l’uso di alcune tossine da pesca per porre rimedio ai danni ambientali causati dal vasto utilizzo di queste sostanze; nel XV secolo furono istituite regole molto simili in altre regioni d’Europa, proibendo di fatto l’utilizzo di veleni da immergere in pozze d’acqua o anse fluviali.

Come funziona la pesca col veleno
La pesca col veleno è un'attività che spesso coinvolge un intero villaggio. Nella foto, un gruppo di uomini Kombai intenti nella pesca col veleno ottenuto dalla corteccia di un albero.
La pesca col veleno è un’attività che spesso coinvolge un intero villaggio. Nella foto, un gruppo di uomini Kombai intenti nella pesca col veleno ottenuto dalla corteccia di un albero.

La pesca con il veleno viene di solito praticata in acque stagnanti o a scorrimento lento per favorire la diffusione e l’assorbimento della tossina, ma si presta anche per l’impiego sulla costa o in mare.

I semi della Barringtonia asiatica, ad esempio, sono utilizzati su alcune isole del Pacifico per avvelenare le piccole pozze d’acqua salata che si formano durante la bassa marea: grattugiando i semi sulle rocce laviche degli scogli, la tossina si disperde nell’acqua salmastra avvelenando o uccidendo in breve tempo piccoli pesci, crostacei e molluschi.

La pesca con il veleno è un’attività collettiva che coinvolge l’intera comunità, bambini inclusi: generalmente, la raccolta e la lavorazione delle piante tossiche è affidata alle donne, mentre gli uomini si occupano di costruire dighe di sbarramento con legna, pietra e foglie per evitare che il pesce possa sfuggire all’avvelenamento.

Dopo aver saturato l’acqua di tossine, adulti e bambini iniziano la raccolta del pesce che affiora in superficie utilizzando mani, canestri e piccole reti.

I composti presenti nelle piante tossiche tradizionalmente utilizzate per la pesca sono principalmente due:

Saponine

Di norma, queste sostanze devono subire il processo di digestione per essere assimilate dall’organismo, ma nel caso dei pesci le saponine penetrano direttamente nel flusso sanguigno attraverso le branchie. Queste sostanze bloccano l’apparato respiratorio dei pesci senza compromettere l’ edibilità dell’animale: il loro effetto non è fatale nella maggior parte dei casi, ma stordisce il pesce per un tempo sufficiente a facilitarne il recupero non appena emerge in superficie.

Rotenone

Il rotenone è una tossina incolore e inodore utilizzata fin dall’antichità come insetticida e pesticida. Anche il rotenone penetra nei pesci attraverso le branchie, ma agisce danneggiando i mitocondri e impedendo l’utilizzo dell’ossigeno cellulare. Questa sostanza è presente in qualche decina di piante e liane di Centro e Sud America appartenenti ai generi Lonchocarpus e Derris.

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Le tossine più comuni per la pesca

Le piante utilizzate per questo metodo di pesca nell’arco della storia antica sono molte (la sola Africa ospita almeno 300 specie diverse di piante utili per la pesca col veleno), qui sotto ne elenco alcune:

Aesculus californica

Pianta nativa della California e dell’Oregon. I nativi Pomo e Yokut usavano le noci, la corteccia e le foglie di questa pianta per rendere più facile la pesca. La noce veniva schiacciata e immersa in acqua calda per qualche ora prima di versare il mix nello stagno o nell’insenatura in cui si intendeva pescare.

Pianta del sapone nordamericana

Le pianta del sapone del Nord America è in realtà una definizione generica delle 5 specie del genere Chlorogalum. Queste piante perenni contengono saponine, sostanze che a contatto con l’acqua producono schiuma: dopo aver polverizzato le radici, queste vengono immerse nell’acqua all’interno di cesti a maglie strette e agitate per liberare le saponine. Il pesce, a contatto con la mistura, perde il controllo dei movimenti e della sua capacità natatoria, salendo in superficie privo di sensi.

Madhuca longifolia

Albero indiano che produce semi dai quali si può estrarre olio commestibile. Dopo la spremitura dei semi, il residuo solido viene pressato per creare una “torta” nota come gara-dhep. La torta viene quindi fatta bollire in acqua e quindi riversata nella zona di pesca. Mezzo chilo di noci spremute è sufficiente per avvelenare uno specchio d’acqua di 10 mq (ogni albero produce da 20 a 200 kg di semi).

Groviglio di radici di barbasco
Groviglio di radici di barbasco; 6 di questi sono sufficienti ad avvelenare un piccolo torrente a scorrimento lento
Barbasco

Il termine generico “barbasco” definisce un insieme di piante sudamericane (di solito queste tre: Lonchocarpus urucu, Deguelia utilis o Jacquinia barbasco) che da millenni vengono impiegate per la pesca dalle popolazioni indigene locali per via del loro contenuto di rotenone, una sostanza che causa ipossia cellulare nei pesci. Le radici di piante di oltre 4 anni d’età sono ideali per la pesca: dopo averle battute fino a sfibrarle, vengono immerse nell’acqua per rilasciare la loro azione tossica.

Barringtonia asiatica

Chiamata anche “pianta del veleno per pesci”, vive nelle foreste di mangrovie delle isole polinesiane, in Malesia e nelle Filippine. Ogni parte della pianta contiene grandi dosi di saponine e i suoi frutti ne hanno in quantità tale da essere utilizzabili come veleno per stordire o uccidere i pesci.

Anamirta cocculus

Pianta rampicante asiatica. Il suo frutto, il Cocculus indicus, è ricco di picrotossina, un alcaloide estremamente tossico per pesci ed esseri umani (la dose letale è di 0,357 mg/kg);

Naturally Occurring Fish Poisons from Plants

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Cacciatori di miele allucinogeno (documentario) https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/ https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/#respond Wed, 18 Oct 2017 02:00:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=704 Le graianotossine sono un gruppo di tossine prodotte da rododendri e azalee, piante diffuse in Europa, Asia e America che hanno acquisito nella storia la fama di piante meravigliose ma dal nettare potenzialmente molto tossico.

Il miele prodotto da api che raccolgono nettare da queste piante, infatti, è noto fin dall’antichità per essere tossico e allucinogeno, anche se consumato in piccole quantità.

A citare il miele tossico di rododendro sono Senofonte, Aristotele, Strabone e Plinio il Vecchio: proprio quest’ultimo racconta un episodio, citato più tardi anche da Strabone, che vede l’impiego del miele di rododendro in battaglia.

Nel 69 a.C. le truppe romane di Pompeo si trovavano a combattere in Turchia e furono le tra le prime vittime storiche di un’arma biologica: la milizia nemica disseminò il percorso di marcia dei Romani di alveari selezionati appositamente per la loro vicinanza alle piante di rododendro locali; le truppe di Roma, sfruttando ogni occasione per ingerire calorie preziose, fecero incetta del miele avvelenato mostrando in seguito i sintomi tipici dell’avvelenamento (come gli stati allucinatori tipici del miele di rododendro) e perdendo la battaglia contro il nemico.

I sintomi di avvelenamento da miele di rododendro sono salivazione, sudorazione abbondante, confusione, debolezza e vomito (come vedrete nel documentario), mentre una dose eccessiva può provocare allucinazioni che possono durare anche per 24 ore.

Al giorno d’oggi gli apicoltori conoscono bene quali piante sono adatte al prelievo di nettare da parte delle loro api e quali invece possono rappresentare un rischio per la produzione di miele. In Nepal, tuttavia, la tribù Gurung che vive isolata tra le montagne del Paese è probabilmente l’unica sopravvissuta fino ad oggi ad aver trovato un impiego medicinale per il miele allucinogeno di rododendro.

Conosciuto come “miele pazzo”, questo tipo di miele viene prodotto dalla specie di ape selvatica più grande del mondo (Apis dorsata laboriosa, fino a 3 centimetri di lunghezza) che tende a nidificare sulla cima di una collina che gli abitanti del villaggio scalano ogni anno per raccogliere qualche chilogrammo di prezioso miele allucinogeno.

La raccolta di questo miele non è priva di rischi: l’arrampicata e la raccolta avvengono utilizzando corde di radici e scale di bambù (oltre all’immancabile machete) e il rischio di una caduta rovinosa da una dozzina di metri d’altezza è sempre dietro l’angolo.

Perché tutta questa fatica e un rischio così grande per raccogliere miele tossico? Per i Gurung, l’assunzione quotidiana di una dose minima di miele di rododendro causa un leggero e piacevole senso di inebriamento e rafforzerebbe il sistema immunitario.

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Test Universale di Edibilità: identificare le piante commestibili https://www.vitantica.net/2017/09/03/test-edibilita/ https://www.vitantica.net/2017/09/03/test-edibilita/#comments Sun, 03 Sep 2017 20:33:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1 La natura offre un’incredibile varierà di piante commestibili che hanno rappresentato un’importantissima risorsa alimentare per le  prime comunità di cacciatori-raccoglitori. Ogni ecosistema ospita tuttavia anche una quantità incalcolabile di piante potenzialmente nocive o  letali per l’essere umano, spesso simili a specie totalmente commestibili o dotate di un aspetto apparentemente innocuo.

E’ facile immaginare come una persona inesperta possa incontrare una pianta tossica senza realizzarne la pericolosità; anche un esperto di sopravvivenza non potrà mai conoscere tutte le piante commestibili del pianeta e ciò che sembra commestibile in un ecosistema potrebbe non esserlo in un altro.

Test di commestibilità

Nel corso dell’ultimo secolo è stata ideata e perfezionata una semplice procedura per verificare se una pianta è nociva o potenzialmente commestibile. Il test, definito “Test Universale di Edibilità” (o “Test Universale di Commestibilità”), consiste nell’esporsi in modo controllato ai possibili effetti nocivi di una pianta sconosciuta per controllare se si manifestano i primi sintomi di avvelenamento.

Il metodo non è affatto infallibile ed è consigliato solo in casi estremi, come in assenza di manuali botanici o esperti di piante locali. Se durante il procedimento si verificano reazioni avverse, è necessario buttare la parte della pianta utilizzata e ricominciare il test con un’altra parte, nella speranza che risulti commestibile.

Come verificare se una pianta è potenzialmente commestibile
1 – Una pezzo alla volta

Il test di commestibilità è efficace se lo si utilizza procedendo a piccoli passi. Si consiglia caldamente di effettuarlo utilizzando solo una parte della pianta (foglie, radici, gambi, fiori) per volta, dato che qualunque effetto nocivo può cambiare radicalmente in base alla parte della pianta ingerita.

Nelle pesche, per esempio, la polpa è totalmente commestibile mentre il seme contiene amigdalina, una sostanza che libera acido cianidrico quando entra in contatto con i succhi gastrici. Se recidendo la parte della pianta da sottoporre al test fuoriesce lattice bianco, la pianta è da considerarsi non commestibile: generalmente le specie che contengono lattice bianco hanno foglie e steli estremamente irritanti per le mucose o per la pelle.

Se la pianta in esame presenta queste caratteristiche, generalmente è da considerarsi non commestibile
Se la pianta in esame presenta queste caratteristiche, generalmente è da considerarsi non commestibile
2 – Digiuno

Si consiglia di rimanere a digiuno almeno 8 ore prima di verificare se una pianta è commestibile, perché alcuni composti potrebbero risultare ancora più pericolosi se mescolati ad altri già presenti nel nostro stomaco, o al contrario perdere parte della loro pericolosità.

Potreste non sentire alcun effetto ingerendo a stomaco pieno una pianta  sconosciuta per la prima volta, ma se la pianta venisse consumata da sola sprigionerebbe tutta la sua tossicità all’interno del vostro corpo.

3 – Odori sgradevoli

Il primo passo per analizzare  una pianta potenzialmente commestibile è quello di utilizzare l’olfatto in cerca di odori forti o acidi, odori generalmente legati a qualche sostanza sospetta e potenzialmente nociva. A volte una pianta non sprigiona alcun odore se prima le foglie, le radici o i fiori non vengono incisi o schiacciati.

Qualunque odore simile alle mandorle, ad esempio, è da evitare in quanto è quasi sicuramente legato ad un composto tossico a base di cianuro. Se doveste percepirlo, è quasi certo che la pianta sotto analisi non sia commestibile.

4 – Primo contatto con la pianta potenzialmente commestibile

Se siete a stomaco pieno, si può comunque iniziare a testare la pianta in esame posizionando la materia vegetale selezionata sul polso o tra braccio e avambraccio per 15-20 minuti: il polso e l’incavo del gomito sono zone in cui la pelle è relativamente sottile rispetto ad altre parti del corpo ed è più sensibile alle irritazioni.

Se allo scadere dei 15-20 minuti non si manifesta alcun sintomo come bruciore, prurito o perdita di sensibilità, si può proseguire con gli altri passi del test di commestibilità, anche se è consigliabile attendere la fine delle 8 ore di digiuno per essere assolutamente certi di non avere a che fare con sostanze irritanti per la pelle e le mucose.

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5 – Contatto con le labbra

Dopo il test di contatto e una volta superato il periodo di digiuno, possiamo iniziare ad avvicinare alla bocca la parte da consumare appoggiandola alle labbra. In questa fase, la parte della pianta selezionata può essere cucinata nel modo in cui si desidera consumarla in futuro.

Alcune piante sono tossiche se consumate crude, ma la cottura tende ad eliminare molte delle loro sostanze nocive, rendendole commestibili e relativamente digeribili. L’ ortica ad esempio è molto irritante per la pelle e le mucose se consumata cruda, ma una breve scottatura su fiamma viva o la bollitura annullano completamente gli effetti del suo veleno e la rendono perfettamente commestibile.

Se entro 5-10 minuti dal contatto con le labbra non si manifestano reazioni avverse come bruciore, prurito o perdita di sensibilità, si può continuare il test di commestibilità avvicinando la pianta alla lingua.

6 – Contatto con la lingua

Dopo il test sulle labbra possiamo procedere appoggiando la materia vegetale sulla lingua SENZA INGERIRE la pianta. Anche in questo caso, qualunque reazione non prevista o avversa che dovesse verificarsi entro 15-20 minuti rivelerà la potenziale pericolosità della pianta.

7 – Test di masticazione

Una volta accertato che la lingua non ha risentito negativamente del contatto con la pianta, possiamo masticare un piccolo frammento di pianta e tenerla in bocca per circa 15 minuti SENZA INGERIRLA. Qualunque sapore strano, acido o amaro dovrebbe farvi considerare la pianta come potenzialmente non commestibile.

8 – Ingoiamo la pianta

E’ giunto il momento più pericoloso del nostro test: ingerire la pianta. I passi precedenti sono utili ad escludere una parte della pianta prima di ingerirla, ma non sono in grado di prevedere l’effetto che avrà nel nostro apparato digerente.

Una volta ingerita una piccola parte della pianta, occorre attendere 8 ore per far terminare ogni processo digestivo. Se durante queste 8 ore si verificano reazioni avverse è necessario indurre il vomito per eliminare la maggior parte del materiale ingerito e bere molta acqua allo scopo di diluire il più possibile le sostanze nocive all’interno del nostro corpo.

E’ anche possibile utilizzare carbone di legna sbriciolato aggiunto all’acqua per eliminare più efficacemente le tossine: il carbone infatti tende ad attrarre tossine e particelle nocive favorendone l’espulsione dall’organismo tramite urina o feci.

9 – Sicurezza prima di tutto

Se si vuole essere realmente sicuri della commestibilità della parte della pianta sotto analisi, occorre ripetere il punto 8 con una quantità maggiore di materiale vegetale, per escludere che le eventuali tossine presenti non manifestino i loro effetti nocivi dopo l’assunzione di una porzione più grande della precedente.

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