nativi americani – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 America e popoli indigeni: le culture native erano pacifiche? https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/ https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/#respond Mon, 23 Nov 2020 00:15:28 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5029 Sotto le carneficine, le epidemie e il saccheggio dei territori dei nativi, l’esplorazione e la conquista delle Americhe hanno innumerevoli aspetti interessanti che un appassionato di storia non può non apprezzare. Si tratta di un’epoca di grandi viaggi oceanici, giochi tra poteri politici, economici e religiosi, scontri e guerre brutali, senza contare le innumerevoli scoperte, e invenzioni ideate per rendere possibile l’incredibile densità di eventi storici avvenuti tra la metà del XV secolo e il XVIII secolo.

Scontri armati, carestie e pestilenze provocarono milioni di vittime quando Vecchio Mondo e Nuovo Mondo vennero a contatto. Milioni di esseri umani indigeni furono sterminati in nome di qualche re, regina o compagnia commerciale; alcune specie animali, come il bisonte, sparirono dal continente nordamericano per la caccia intensiva condotta dalle spedizioni occidentali.

Lo sterminio di interi popoli nativi, violento o provocato da malattie, e i forti cambiamenti ecologici che gli europei apportarono agli ecosistemi americani non devono tuttavia far pensare che le Americhe fossero continenti abitati da popoli pacifici, in armonia con la natura e con i popoli limitrofi.

Prima dell’arrivo dei primi esploratori europei, le Americhe erano un territorio solo parzialmente selvaggio. I nativi erano in grado di modificare profondamente il territorio con incendi controllati e un attento controllo della vegetazione locale; cacciavano animali in grandi numeri, spesso uccidendo molto più di quanto potessero utilizzare e mangiare; la violenza tribale, infine, era relativamente comune, contrariamente all’immagine comune del “buon selvaggio” associata spesso e volentieri alle culture native americane precolombiane.

Un nuovo mondo non violento?

Aztechi, Maya, Inca e popoli dell’ America Centro-meridionale non erano di certo popoli pacifici. La Guerra dei Fiori era un rituale che provocava relativamente poche morti e serviva a scongiurare guerre di portata più grande tra le città-stato azteche, ma si trattava comunque di un rituale estremamente cruento mirato a indebolire militarmente i rivali di Tenochtitlan.

Il regno di Cusco, invece, iniziò ad espandersi a partire dal 1438 sotto la guida di Pachacuti-Cusi Yupanqui, nome dal significato molto poco pacifico di “colui che fa tremare la terra”. Pachacuti creò quello che sarebbe diventato l’impero Inca conquistando col sangue i Chancas, una tribù di guerrieri formidabili ed estremamente abili nel combattimento. Nel 1463 iniziò un’altra campagna di conquista per sconfiggere il vero rivale degli Inca, il regno di Chimor.

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Le tre civiltà americane più famose e potenti degli ultimi 1.000-1.500 anni di storia non erano quindi per nulla pacifiche, avevano aspirazioni imperialistiche e regolavano col sangue molte delle questioni aperte con i rivali locali.

Cosa succedeva invece nelle regioni settentrionali e meridionali delle Americhe, prima che iniziasse l’esplorazione metodica dei continenti americani? Nulla di molto diverso, anche se la maggior parte delle comunità poteva contare su un numero di individui più ridotto.

Nell’estremità settentrionale delle Americhe, gli Inuit canadesi conducevano abitualmente schermaglie contro gruppi locali concorrenti, anche se della stessa cultura: i Nunatamiut del Fiume Mackenzie, ad esempio, si davano battaglia tra loro per il controllo delle risorse ittiche.

La foresta pluviale amazzonica, invece, era popolata da decine di milioni di individui appartenenti a culture molto diverse tra loro, come i Valdivia, i Quimbaya, i Calima e i Tairona, che sicuramente ebbero molte occasioni per entrare in contrasto per questioni di territorialità o risorse.

Tra gli Inuit e le culture amazzoniche, guerre e rivolte spinte da ragioni politiche, economiche o religiose imperversavano, la brutalità era all’ordine del giorno e la vita trascorreva ben diversamente dal quadro idilliaco talvolta dipinto da alcune ricostruzioni poco fedeli alla realtà storica.

Scontri intertribali frequenti

Secondo la storica Diana Muir, la Lega Irochese pre-contatto europeo era caratterizzata da uno spirito espansionistico e imperialista che mirava al possesso dei territori degli Algonchini e di ogni potenziale preda vicina. La confederazione irochese era così assetata di potere da cannibalizzare se stessa, abbattendo anche le comunità della propria cultura che conducevano stili di vita meno belligeranti.

Nel 1649 gli Irochesi distrussero il villaggio di Wendake, facendo sciogliere la nazione degli Uroni e rimuovendo l’ultimo reale avversario alla conquista dei territori delle Nazioni Neutrali, dei Mohicani e di altre tribù irochesi non appartenenti alla Lega, principalmente per una questione di prestigio territoriale e per prendere il controllo del commercio delle pelli.

Facendo un salto indietro nella storia, i resti umani rinvenuti nelle Grandi Pianure e risalenti ad un periodo compreso tra il 250 a.C. e il 900 d.C. mostrano segni occasionali di violenza dovuta a scontri intertribali. A partire dal XIII secolo, tuttavia, scorrerie e guerre iniziarono a diventare sempre più frequenti, e i resti archeologici mostrano segni di incendi, di violenze brutali e di mutilazioni.

La ragione di queste sempre più frequenti aggressioni non è chiara, ma si ipotizza che possa essere stata la fame a scatenare gli scontri tra tribù. Gli scavi nel sito di Crow Creek, un’antica città Arikara sorta nel 1325, ha rivelato i corpi di 486 persone, incluse donne e bambini, massacrate, scalpate e smembrate. I resti ossei mostrano evidenti segni di malnutrizione, suggerendo che il massacro sia stato motivato dalla competizione per le scarse risorse alimentari disponibili.

Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata
Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata

Gli scontri intertribali terminati in massacri sono molti e ben documentati; talvolta si parla di migliaia di vittime in una singola battaglia (molti leghe tribali non superavano le 10-20.000 unità). Il 90% dei resti umani appartenenti al XIII secolo mostrano segni di traumi, spesso alla testa o agli arti.

Nel 1800 Alexander Henry, commerciante per la Northwest Company, esclamò osservando una le Grandi Pianure ricoperte di mandrie di bisonti: “Questo è un paese meraviglioso, e se non fosse per le guerre perpetue, i nativi potrebbero essere le persone più felici della Terra”. Detto da una delle pedine dei poteri che sfruttavano i nativi americani, l’affermazione non sembra avere alcun valore, ma la realtà è che i nativi si dilettavano nell’arte della guerra ben prima dell’arrivo degli Europei.

Cherokee e schiavi

Sui Cherokee esiste parecchia documentazione storica rispetto ad altre culture, documentazione risalente non soltanto agli scontri tra Europei e nativi, ma anche ai primi contatti indiretti con la confederazione.

In cima alla piramide sociale dei clan Cherokee c’erano due figure politiche: “bianco”, amministratore in periodi di pace, e “rosso”, il comandante in caso di guerra. Le decisioni militari venivano prese dal capo “rosso” e dai delegati dei sette clan Cherokee (che includevano le ghigau, donne guerriere).

I Cherokee erano una cultura schiavista, come molte altre nordamericane dalla California al Canada. Gli schiavi potevano essere catturati in guerra, ma esistevano anche schiavi divenuti tali a causa di debiti di gioco. La tribù aveva diritto di vita e di morte sui suoi schiavi, e solo il consiglio tribale poteva concedere loro la libertà.

Generalmente, la cattura di ostaggi durante una razzia o una battaglia poteva finire in due modi: essere risparmiato (nel caso di donne e bambini) e diventare schiavo, o essere ucciso. Alcuni schiavi potevano diventare “parenti” di membri della comunità, entrando a far parte del tessuto sociale tribale, o continuare a rimanere all’esterno di ogni interazione con la comunità.

Per i Cherokee gli schiavi non erano un vero e proprio elemento funzionale per l’economia tribale, ed erano una proprietà collettiva. Le attività di raccolta e quelle di caccia potevano tranquillamente soddisfare i bisogni della comunità (gli schiavi potevano aiutare nei campi o trasportare carichi) senza l’aiuto di altre braccia, per cui il possesso di prigionieri era sostanzialmente una questione di prestigio.

Dopo l’incontro-scontro con gli Europei e la schiavitù di migliaia di Cherokee, la cultura schiavista dei nativi iniziò a cambiare in peggio: lo schiavo divenne una proprietà individuale che poteva essere scambiata con gli stranieri per ottenere oggetti che i nativi non erano in grado di produrre.

Scontri per la terra

Come citato in questo post, la maggior parte delle comunità native americane conosceva il concetto di proprietà privata, che veniva tutelata da una serie di leggi tribali tramandate oralmente.

Nelle culture dedite all’agricoltura, esistevano diritti di sfruttamento per le risorse naturali e i terreni diventavano parte del patrimonio di famiglia. Ma un diritto di sfruttamento può essere messo in discussione alla morte del capofamiglia, o con lo sconfinamento continuo da parte di membri della tribù o provenienti da altre culture; le diatribe sui diritti di sfruttamento dei terreni agricoli o di caccia causavano scontri spesso violenti, che potevano sfociare in vere e proprie battaglie.

Nelle regioni degli Stati Uniti Sud-occidentali, gli archeologi hanno ritrovato numerosi scheletri, risalenti al periodo che precede l’arrivo degli Europei, che riportano svariati segni lasciati da armi da lancio e corpi contundenti. In queste regioni le carestie innescavano probabilmente scontri locali tra clan in competizione per le risorse, o per sconfinamenti non autorizzati in territori di caccia e raccolta controllati da altre culture.

I diritti di sfruttamento o il possesso di un terreno potevano quindi subire cambiamenti continui. Un campo di mais posseduto da più generazioni dalla stessa famiglia o clan poteva improvvisamente diventare proprietà di un’altra tribù dopo uno scontro violento o uno sconfinamento in massa, spesso senza lasciare tracce permanenti dei proprietari precedenti.

E’ per questa ragione che il mantra moderno che recita “restituiamo la terra ai nativi” non ha molta logica. “Nativi americani” è un termine ombrello che racchiude un’incredibile varietà di culture, di approcci al potere e di eventi storici locali difficili da ricostruire, specialmente se si scava nella storia precedente all’arrivo degli Europei sul continente.

A chi dovremmo restituire la regione canadese attorno al villaggio di Wendake? Agli Irochesi, che dalla metà del 1600 se ne appropriarono con la forza, o agli Uroni, i precedenti “proprietari” dell’area? O forse ai Petun, il “Popolo del Tabacco”, in competizione per le risorse con gli Uroni da prima che gli Irochesi iniziassero a conquistare i clan minori?

Fonti:

Thanksgiving guilt trip: How warlike were Native Americans before Europeans showed up?
Slaveholding Indians: the Case of the Cherokee Nation  (PDF)
INTERTRIBAL WARFARE
Intertribal Warfare as the Precursor of Indian-White Warfare on the Northern Great Plains (PDF)
The Indians’ Old World: Native Americans and the Coming of Europeans
The Most Violent Era In America Was Before Europeans Arrived

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La piscicoltura dei nativi americani Calusa https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/ https://www.vitantica.net/2020/06/22/piscicoltura-nativi-americani-calusa/#respond Mon, 22 Jun 2020 00:10:15 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4886 La maggior parte dei lettori di questo blog avrà ormai una certa familiarità con le culture native del Nord America. Molte di queste popolazioni, considerate in passato come primitive e incapaci di sviluppare società ed economie complesse, si stanno rivelando molto più avanzate di quanto sospettato fino a qualche decade fa.

Osservando ciò che è rimasto di Cahokia, l’impatto dei nativi sulle foreste americane, sui grandi mammiferi come il bisonte, e la loro dieta, ci si rende presto conto che siamo ben lontani dalle molte culture primitive, presenti e passate.

La maggior parte delle popolazioni nordamericane basavano la loro economia su prodotti della terra come mais, zucche e fagioli, prodotti che consentivano loro di avere risorse in sovrannumero da poter scambiare con i popoli limitrofi, o tramite le quali poter crescere numericamente; oppure, avevano preservato uno stile di vita incentrato prevalentemente su caccia e raccolta, una scelta che generalmente costringe a mantenere una bassa densità di popolazione per sfamare ogni individuo del proprio gruppo sociale.

La cultura Calusa, invece di sfruttare il mais o i grandi mammiferi, fondò il proprio successo sul pesce, una risorsa preziosa ma difficile da gestire se lo scopo è quello di creare il surplus alimentare necessario alla crescita di un popolo.

Chi erano i Calusa

Il popolo Calusa si è sviluppato lungo la costa sudoccidentale della Florida. All’arrivo dei primi Europei in Florida, tra il XVI e il XVII secolo, la cultura Caloosahatchee occupava la regione delle Everglades, un intricato labirinto di acquitrini e piante acquatiche abitato da un’incredibile varietà di specie animali.

L’esistenza dei Calusa ci viene testimoniata da Hernando de Escalante Fontaneda, uno spagnolo tenuto prigioniero dai nativi nel XVI secolo, e da Juan Rogel, un missionario gesuita che visitò i Calusa negli anni ’60 del 1500.

Gli antenati dei Calusa vivevano in Florida da migliaia di anni prima dell’arrivo degli Europei. Iniziarono a stabilirsi nelle regioni paludose vicino alla costa circa 7.000 anni fa, costruendo cumuli di terra su cui edificare le proprie abitazioni.

Nel loro periodo arcaico delle popolazioni delle Everglades (circa 500 a.C.) iniziarono ad emergere culture regionali distinte, ma tutte basate su un profondo rapporto con il mare e con le paludi: sia i Calusa che i loro antenati erano “mangiatori di molluschi”, ma progressivamente incorporarono sempre più fauna ittica nella loro dieta, diventando abilissimi pescatori e piscicoltori.

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L’analisi dei sedimenti prelevati nei pressi degli insediamenti Calusa ha mostrato un’ alimentazione composta da animali terrestri piccoli e grandi, molluschi, pesci d’acqua dolce e salata come squali e razze, oltre a grandi quantità di crostacei, uccelli acquatici e tartarughe.

I sedimenti degli insediamenti costieri (come il sito di Wightman) lasciano supporre che il 93% delle proteine animali consumate dai Calusa fosse composto da pesce e molluschi, con il rimanente 7% rappresentato da mammiferi, uccelli e rettili. Negli insediamenti più interni, come Platt Island, il 60% delle proteine animali proveniva invece da mammiferi terrestri, ma il consumo di pesce era comunque elevato (circa il 20% sul totale delle proteine).

Ad oggi non ci sono prove che i Calusa coltivassero il mais; anzi, sappiamo che probabilmente rifiutarono di diventare agricoltori quando gli Spagnoli offrirono loro l’opportunità.

“I soldati, i sacerdoti e gli ufficiali spagnoli” spiega Victor Thompson, direttore del Laboratorio di Archeologia alla University of Georgia, “erano abituati ad avere a che fare con culture agricole, come i popoli incontrati nei Caraibi che producevano surplus di mais. Questo non fu possibile con i Calusa. Infatti, in un tentativo dei francescani nel tardo 1600, ai Calusa furono donate delle zappe, ma non appena le videro i nativi replicarono ‘Perchè non hanno anche portato degli schiavi per arare la terra?'”

Secondo l’antropologo George Murdock, mediamente solo il 20% della dieta Calusa era costituita da piante, come bacche selvatiche, frutti, noci, radici e tuberi: circa 2.000 anni fa, nella regione venivano coltivate anche papaya e “zucche bottiglia“, utilizzate come galleggianti per le reti da pesca, ma l’alimentazione locale era già sostanzialmente basata sul pesce.

Potere fondato sul pesce

I Calusa furono tra le culture più rilevanti in Florida per molti secoli, commerciando lungo rotte che si estendevano per centinaia di chilometri oltre la costa, modificando profondamente il territorio per costruire le loro case e creando vere e proprie isole composte dai gusci dei molluschi che consumavano.

Un “impero” che si fonda sul pesce, tuttavia, è costretto ad affrontare la sfida di come conservare l’alimento base della propria dieta in un clima tropicale che favorisce la decomposizione della materia organica morta. I Calusa conoscevano la salagione e l’affumicatura, ma per sfamare circa 10.000 individui (o forse più, come alcuni archeologi hanno ipotizzato) occorre pescare grandi quantità di pesce e affrontare lunghi processi di pulizia e preparazione, con il rischio che parte del pescato vada a male.

Come facevano i Calusa a gestire le loro risorse ittiche e a generare un surplus in grado di metterli nelle condizioni di creare un’economia fiorente strettamente legata al mare?

Secondo William Marquardt, curatore della sezione South Florida Archaeology and Ethnography del Florida Museum of Natural History, i Calusa utilizzavano enormi strutture simili a quelle della moderna piscicoltura per conservare vivo il pesce. Queste strutture, che Marquardt definire “watercourts“, avevano fondamenta di gusci di molluschi e venivano realizzate sfruttando porzioni degli estuari.

I watercourts servivano come riserva ittica a breve termine: mantenevano il pesce vivo e in salute fino al momento del consumo, della salagione o dell’affumicatura. La più grande di queste strutture misurava quanto 7 campi da basket e aveva una base profonda 1 metro composta da sedimenti e gusci di molluschi.

“Ciò che rende differenti i Calusa è il fatto che le altre società che raggiungono questi livelli di complessità e potere sono principalmente culture agricole” afferma Marquardt. “Per molto tempo le società che si basavano sulla pesca, sulla caccia o sulla raccolta sono state considerate meno avanzate. Ma il nostro lavoro nel corso di oltre 35 anni ha mostrato che i Calusa svilupparono una società politicamente complessa con architettura, religione, esercito, stratificazione sociale e commercio molti sofisticati, il tutto senza essere agricoltori”.

Thompson, Marquardt e i loro colleghi hanno analizzato due watercourts nei pressi di Mound Key, un’isola artificiale su cui si trovava l’immensa abitazione del sovrano dei Calusa, una struttura così grande da poter accogliere fino a 2.000 persone.

Metodo di pesca non chiaro

I watercourts di Mound Key furono costruiti tra il 1300 e il 1400, qualche decade dopo un calo del livello del mare che potrebbe aver ispirato un periodo di innovazioni volte a preservare lo stile uno stile di vita basato su prodotti ittici.

Non sappiamo ancora come i Calusa catturassero il pesce che allevavano e consumavano, ma le ipotesi sono due: pescandolo tradizionalmente con l’utilizzo di reti, oppure indirizzandolo verso i watercourts tramite canali appositamente realizzati.

“Non possiamo sapere esattamente come funzionasse [il loro metodo di pesca], ma la nostra sensazione è che conservassero il pesce in queste strutture per poco tempo, da poche ore a qualche giorno, non interi mesi” sostiene Michael Savarese, ricercatore che ha collaborato con Thompson e Marquardt.

“Il fatto che i Calusa ottenessero la maggior parte del loro cibo dagli estuari plasmò quasi ogni aspetto delle loro vite” conclude Thompson. “Anche oggi, i popoli che vivono lungo le coste sono un po’ differenti dagli altri, e le loro vite continuano ad essere influenzate dall’acqua, per quanto riguarda il cibo che consumano o per le tempeste che si scatenano nei pomeriggi estivi della Florida sudoccidentale”.

Ancient engineering of fish capture and storage in southwest Florida
Calusa

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Acchiappasogni, l’amuleto della Donna Ragno https://www.vitantica.net/2020/01/13/acchiappasogni-amuleto-donna-ragno/ https://www.vitantica.net/2020/01/13/acchiappasogni-amuleto-donna-ragno/#respond Mon, 13 Jan 2020 00:09:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4739 L’ acchiappasogni è uno oggetto ormai diffuso in molte case, come semplice ornamento o come elemento legato alla sfera spirituale individuale. Ma quanto realmente sappiamo su questo oggetto di origine nordamericana?

Ciò che viene definito “acchiappasogni” viene generalmente interpretato come strumento per allontanare sogni non desiderati, o per scacciare influssi negativi generati da umani di indole malvagia o da entità immateriali senza riposo. Il suo significato, tuttavia, ha subito cambiamenti nell’arco della storia umana, specialmente dopo la sua uscita dal contesto animista dei nativi americani.

L’origine dell’acchiappasogni

L’acchiappasogni è un oggetto legato alle culture tradizionali nordamericane: lo si può tipicamente trovare nelle tribù Cheyenne e Lakota, ma la sua vera origine sembra essere legata al popolo Ojibwe e alla figura della “Donna Ragno”.

L’etnografo francese Frances Densmore registrò nel 1929 una leggenda Ojibwe che narrava il mito della creazione dei primi acchiappasogni: si trattava di ragnatele simboliche realizzate per ingraziarsi Asibikaashi, o Donna Ragno, una divinità di primaria importanza per molte culture nordamericane ed entità che veglia sui bambini e protegge gli esseri umani.

Con la diffusione degli Ojibwe su tutto il territorio nordamericano, dice la leggenda, Asibikaashi iniziò ad incontrare difficoltà nel raggiungere tutti i bambini sotto la sua tutela; per semplificarle il compito, le madri e le nonne Ojibwe iniziarono a realizzare finte ragnatele utilizzando rami di salice, fibre vegetali e tendini per fare in modo che l’influenza positiva della Donna Ragno potesse raggiungere ogni angolo del continente.

Nella cultura Ojibwe, l’acchiappasogni viene chiamato asabikeshiinh, che significa “ragno”, oppure asubakacin (“simile ad una rete”), e il suo scopo principale è quello di fungere da talismano protettivo per i bambini. Come spiega Densmore:

“Ogni neonato viene dotato di talismani protettivi. Un esempio di questi sono le “ragnatele” appese sulle culle. Nei vecchi tempi queste reti venivano realizzate con fibre di ortica. Due ragnatele venivano solitamente intessute nell’anello [dell’acchiappasogni], e si diceva che potessero catturare ogni influsso malvagio presente nell’aria come una ragnatela cattura e trattiene qualunque cosa venga in contatto con essa”.

La Donna Ragno

La figura della Donna Ragno è un elemento comune di molte culture nordamericane, e si presenta con diversi nomi: Kokyangwuti o Gogyeng Sowuhti per gli Hopi, Na’ashjé’ii Asdzáá tra i Navajo, per il popolo Pueblo invece si chiama Tse-che-nako o Sussistanako. Si tratta di un’entità di primaria importanza, come dimostra il mito della creazione della cultura Hopi.

La storia della creazione del mondo inizia con la divinità solare Tawa e la Donna Ragno (Kokyangwuti), identificabile come la divinità della Terra. Le due entità divine si separano per poter dare alla luce divinità minori e creare tutto ciò che esiste sul pianeta.

Dopo qualche tempo, Tawa e Kokyangwuti realizzarono che le creature da loro generate non erano dotate di una vera e propria vita; decisero quindi di donare loro un’anima prima di procedere alla creazione degli esseri umani primordiali. Fatto questo, la Donna Ragno separò gli esseri umani in differenti tribù, guidandoli nelle Quattro Grandi Caverne della tradizione Hopi, spiegando loro quali fossero i ruoli naturali dell’ uomo e della donna e illustrando i rituali sacri da seguire.

Acchiappasogni Ojibwe in salice rosso
Acchiappasogni Ojibwe in salice rosso

In un’altra versione Hopi della creazione, la Donna Ragno, chiamata Gogyeng Sowuhti, è l’assistente di Tawa inviata tra le creature viventi per diffondere la parola del dio. Tawa non era contento del fatto che le sue creazioni non riuscissero a capire come vivere correttamente; inviò quindi la Donna Ragno per insegnare agli esseri umani i riti sacri, la tessitura e la ceramica.

Dopo qualche tempo, gli uomini iniziarono ad allontanarsi da Tawa. La Donna Ragno fu nuovamente inviata tra gli umani per avvisare i pochi rimasti sulla retta via che era il momento di allontanarsi dagli altri per raggiungere il “mondo di sopra”, dove avrebbero condotto un’esistenza illuminata in compagnia di entità divine.

I significati dell’acchiappasogni

Il tipico acchiappasogni Ojibwe ha un telaio in rami di salice, noti per la loro flessibilità, e una tela di fibre vegetali o tendine. Il telaio ha solitamente una forma circolare o a goccia, e ha un diametro tra i 7 e i 12 centimetri; se il telaio è troppo grande, il potere dell’ acchiappasogni potrebbe risentirne.

Al centro dell’ acchiappasogni si trova generalmente una piccola apertura, che consentirebbe ai sogni di natura positiva di passare; i sogni vengono poi “filtrati” dalle penne d’uccello che pendono dall’oggetto fino a raggiungere la mente sognante del bambino protetto dall’amuleto.

Nella realizzazione di un acchiappasogni era rilevante il numero di punti di giunzione tra la ragnatela e il telaio di salice. Nella tradizione Ojibwe, i punti di contatto dovevano essere otto come le zampe di un ragno, mentre in altre tradizioni erano sette come il numero delle “grandi profezie”. In alcune culture i punti di contatto potevano variare da 5 (il numero delle forme del cielo) a 28 (la durata in giorni del mese lunare).

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A partire dagli anni ’60 del 1900, l’ acchiappasogni ha assunto un significato più ampio di quello originale, divenendo un simbolo di unità tra le culture di nativi nordamericani. La popolarità riscossa da questo talismano ha contribuito a snaturarne il suo significato originale: se realizzato per la commercializzazione, spesso contiene materiali o forme che tradizionalmente venivano considerati controproducenti per lo scopo dell’ acchiappasogni, se non addirittura offensivi per le culture native.

Where did the Ojibwe dream catcher come from?
Native American Dream Catchers
Spider Grandmother
Dreamcatcher

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Terra preta, la terra nera dell’Amazzonia https://www.vitantica.net/2019/12/27/terra-preta-nera-amazzonia/ https://www.vitantica.net/2019/12/27/terra-preta-nera-amazzonia/#comments Fri, 27 Dec 2019 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4717 Da qualche anno i ricercatori che si dedicano allo studio degli ecosistemi amazzonici sono giunti alla conclusione che buona parte della foresta pluviale non è affatto immacolata, ma ha subito alterazioni rilevanti operate dall’essere umano allo scopo di rendere più vivibile un ambiente così estremo.

Gli alberi che popolano la giungla sudamericana mostrano una distribuzione per nulla casuale, non semplicemente spinta da normali processi ecologici: nella grande frequenza di alberi di noci, ad esempio, si celerebbe un intervento umano vecchio di secoli, la cui portata è ancora difficile da quantificare.

Sono sempre più gli indizi che ci suggeriscono un passato molto differente per la foresta amazzonica che possiamo osservare oggi. I primi esploratori europei descrissero un ecosistema ricco di comunità umane, anche di grandi dimensioni, ma ad oggi rimane poco o nulla di questi antichi insediamenti se non un elemento dalle proprietà quasi “magiche”, ma fondamentale per la costruzione di comunità sedentarie e popolose: la terra preta.

“Metropoli” amazzoniche e il problema del cibo

La teoria che la moderna foresta amazzonica sia il risultato dell’azione di processi naturali e intervento umano é supportata da alcuni resoconti redatti dai primi esploratori europei, primo tra tutti Francisco de Orellana.

L’esploratore spagnolo, durante la sua spedizione che lo portò a percorrere tutta la lunghezza del Rio delle Amazzoni (inizialmente battezzato come “Rio de Orellana”), si rese conto che le rive del fiume erano sede di numerose comunità di nativi.

Per diverso tempo il resoconto di Orellana fu ritenuto intriso di esagerazioni, giudicando impossibile la presenza di grandi insediamenti umani nel cuore della foresta pluviale. Dopotutto, per quanto denso di specie vegetali e ricco di biodiversità, il terreno del bacino amazzonico non è noto per la sua fertilità; per vivere e prosperare, un insediamento ha bisogno di enormi quantità di cibo, non ottenibile dalla sola caccia o dalle attività di raccolta.

Oggi, invece, siamo sempre più portati a pensare che Orellana non stesse mentendo. Secondo le stime moderne, all’inizio del 1500 l’Amazzonia era popolata da circa 5 milioni di nativi suddivisi tra insediamenti costieri e fluviali, una vasta popolazione che subì un drastico calo numerico a seguito dei primi contatti con le malattie importate dagli Europei.

Abbiamo diversi indizi che suggeriscono una massiccia presenza umana in Amazzonia intorno al XVI secolo: geoglifi, grandi quantità di scarti legati alla presenza umana e un terreno di natura particolare, introvabile in altre regioni amazzoniche e sicuramente creato dall’essere umano.

La terra nera degli indios

Ciò che viene definita “terra preta” (“terra nera”) è un tipo di terreno ben distinguibile dalla “terra mulata“, un suolo amazzonico di colore chiaro, o dalla “terra comum” (“terra comune”), terreno non fertile che ricopre buona parte del bacino amazzonico.

La terra preta copre una superficie pari allo 0,1% – 0,3% dell’ Amazzonia (da 6.000 a 19.000 km quadrati), ma alcune stime hanno elevato la percentuale al 10%, l’equivalente del doppio della superficie della Gran Bretagna. La terra preta si trova generalmente raggruppata in piccoli appezzamenti di circa 20 ettari d’estensione, ma ci sono aree in cui copre una superficie di quasi 400 ettari.

Cos’ha di speciale la terra preta? Come citato precedentemente, il suolo amazzonico non è noto per la sua elevata fertilità. Rispetto a località del pianeta in cui una qualunque coltura può attecchire con facilità e produrre grandi quantitativi di prodotto, in Amazzonia è difficile ottenere i raccolti abbondanti necessari a sostenere una comunità di decine di migliaia di persone.

Tra il 450 a.C. e il 950 d.C., i nativi iniziarono a produrre un tipo di terreno più fertile della terra mulata o della terra comum allo scopo di rendere più produttive le loro colture. Questo tipo di terreno, in realtà nato ben prima della sua produzione attiva da parte dell’essere umano grazie alla mescolanza di rifiuti organici con ceneri e terreno, funge ancora oggi da substrato per colture come la papaya e il mango.

Differenza tra terra preta e terra comum
Differenza tra terra preta e terra comum

Dopo essersi resi conto che gli scarti prodotti dalle attività quotidiane, come la preparazione del cibo, il mantenimento del focolare o la creazione di ceramica, rendevano la terra mulata più fertile, iniziarono a fertilizzare volontariamente il terreno più fertile a loro disposizione.

La terra preta ha un contenuto di carbonio molto alto, pari a circa 150 grammi per kg (contro i 20-30 grammi del suolo circostante), ma rispetto ad altri tipi di terreno ad elevato contenuto di carbonio presenta alcune differenze. In primo luogo, la terra preta incorpora elementi e nutrienti di natura organica provenienti dagli scarti alimentari di una popolazione umana; questi elementi favoriscono la proliferazione batterica, incrementando la fertilità.

Secondariamente, il contenuto di carbonio è così elevato da risultare fino a 70 volte superiore a quello di suoli ferralitici, tipici delle zone tropicali del pianeta e spesso presenti in prossimità di depositi di terra preta.

La terra preta, infine, è propensa ad accumulare e trattenere i nutrienti con cui viene a contatto, ed è molto resistente alla degradazione da parte dell’attività microbica. Tra i nutrienti più diffusi sono il potassio, il fosforo, il calcio, lo zinco e il manganese, un mix che ha dimostrato di poter incrementare la produzione di riso dal 30-40% senza l’utilizzo di fertilizzanti.

Come si produceva la terra preta?

Per produrre la terra preta, le popolazioni indigene aggiungevano alla terra mulata braci di legna o altro materiale organico che bruciavano a bassa temperatura.

La produzione di carbone a bassa temperatura consente l’estrazione di condensati del petrolio che fungono da alimento per i batteri del terreno. L’ossidazione lenta del carbone non solo fornisce terreno fertile per i microrganismi, ma mantiene intatte le caratteristiche del materiale vegetale carbonizzato anche per migliaia di anni.

Il carbone è quindi fondamentale per il mantenimento della terra preta: oggi la maggior parte dei terreni agricoli ha perso in media il 50% del suo originale contenuto di carbonio a causa della coltivazione intensiva e dei danni causati dall’attività umana.

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L’uso di carbone prodotto da materia vegetale estratta da legname e piante con foglie (al contrario della carbonizzazione dell’erba) favorisce anche la diffusione di alcuni funghi che sembrano rappresentare la chiave della fertilità della terra preta e della sua capacità di “contaminare” positivamente il terreno che la circonda.

Le analisi della terra preta amazzonica hanno inoltre evidenziato la presenza di escrementi animali e umani, resti di lavorazioni alimentari come ossa animali, conchiglie e gusci di tartaruga, oltre a compost prodotto da piante terrestri e acquatiche.

Aggiornamento del 05 gennaio 2021

La presenza di artefatti precolombiani in corrispondenza dei siti ricchi di terra preta hanno sempre lasciato supporre che l’origine di questo particolare tipo di terreno fosse artificiale.

Ma la datazione al carbonio eseguita su un bacino fluviale di 210 ettari in Brasile sembra suggerire un’altra versione: secondo Lucas Silva, professore di studi ambientali della University of Oregon, i livelli di calcio e fosforo, più elevati rispetto al terreno circostante, suggerirebbero che siano state inondazioni e incendi a depositare questi nutrienti nel suolo.

“Abbiamo analizzato il carbonio e il gruppo di nutrienti alla luce del contesto antropologico locale per stimare la cronologia della gestione del suolo e la densità di popolazione necessarie per ottenere la fertilità della terra preta amazzonica” afferma Silva. “I nostri risultati mostrano che vaste popolazioni sedentarie avrebbero dovuto gestire il suolo migliaia di anni prima della comparsa dell’agricoltura nella regione”.

Fires, flooding before settlement may have formed the Amazon’s rare patches of fertility

Terra preta da Indio
Terra preta
ScienceDirect: Terra Preta

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Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/ https://www.vitantica.net/2019/10/25/pinole-farina-mais-popoli-mesoamericani/#respond Fri, 25 Oct 2019 00:10:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4623 Il pinole, chiamato anche pinol o pinolillo, è un alimento utilizzato per secoli dai nativi nord e centroamericani come cibo di prima necessità o di sopravvivenza.

Grazie al suo alto valore nutritivo, il pinole fu spesso la prima scelta nelle scorte alimentari di chi doveva intraprendere lunghi viaggi senza la avere la possibilità di trasportare grandi quantità di provviste.

L’origine del pinole

Il termine pinole deriva dalla parola Nahuatl pinolli, che significa “farina di mais”. Ancora oggi è considerata la base per le bevande tradizionali di Nicaragua e Honduras, mentre gli indiani Tarahumara messicani utilizzavano questa polvere a base di mais prima di intraprendere le loro caratteristiche marce su lunghe distanze.

La prima testimonianza scritta del pinole risale ai primi anni del 1700: il comandante spagnolo Don Pedro Fages e la sua truppa, durante l’ esplorazione delle coste californiane, terminano le loro provviste alimentari e si videro costretti a chiedere aiuto ai nativi che risiedevano nell’area oggi chiamata Pinole.

Il cibo che fu loro donato era composto da una mistura di ghiande, semi e cereali selvatici, un mix definito dai locali come “pinole”, dall’antico termine azteco “pinolli”.

I Tarahumara preparano una sorta di "barretta energetica" con il pinole che producono.
I Tarahumara preparano una sorta di “barretta energetica” con il pinole che producono.

Il missionario John Gottlieb Ernestus Heckewelder, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, descrive nel suo “History, Manners and Customs of the Indian Nations” come il popolo dei Lenni Lenape (o Delaware) preparava e utilizzava questo alimento di prima necessità:

“Lo Psindamooan o Tassmanane, come lo chiamano loro, è il cibo più nutriente e durevole realizzato con il mais indiano. Il tipo di mais blu e dolce è quello che preferiscono. Lo arrostiscono su cenere calda fino a quando non esplode, a quel punto viene setacciato, pulito e pestato in un mortaio fino ad ottenere una specie di farina; quando vogliono preparare del pinole davvero buono, lo mescolano con zucchero”.

 

“Quando vogliono utilizzarlo, mettono in bocca un cucchiaio di questa farina, si chinano lungo un fiume o un ruscello e bevono. Se tuttavia hanno a disposizione una tazza o un altro recipiente, vi versano la farina e la mescolano nelle proporzioni di un cucchiaio per ogni pinta d’acqua”.

 

“Con questo cibo il viaggiatore e il guerriero partono per lunghi viaggi e spedizioni […] Le persone non abituate a questa dieta devono essere prudenti a non assumere troppo pinole in una volta sola, e a non essere tentati troppo dal suo sapore; è pericoloso ingerire più di un cucchiaio o due in un solo pasto; [il pinole] si gonfia nello stomaco e nell’intestino, come quando viene cotto sulla fiamma.”

Composizione e preparazione del pinole

Il pinole veniva originariamente prodotto arrostendo semi di mais su ceneri calde, procedendo successivamente a ripulirle prima di macinarle fino ad ottenere una farina grossolana.

Con l’aggiunta di acqua, la farina di mais così preparata diventava una sorta di zuppa d’avena, non particolarmente saporita ma capace di donare una piccola quantità di energia sufficiente per svolgere le attività quotidiane, o di consentire la sopravvivenza durante le stagioni più difficili.

Per renderlo più gradevole al palato, alla farina di mais arrostito venivano talvolta aggiunti cacao, dolcificanti naturali come zucchero di canna o miele, cannella, oppure farine prodotte da altri semi, come ghiande o altri cereali selvatici.

Preparare il pinole secondo metodi tradizionali richiedeva lavoro, specialmente se era prevista l’aggiunta di altri ingredienti oltre alla sola farina di mais: occorreva arrostire e tritare in un mortaio i semi di granturco, fare lo stesso con le fave di cacao, e procurarsi miele selvatico (attività che può risultare pericolosa), zucchero di canna o nettare di agave.

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Un alimento ricco di nutrienti

In base alla tipologia e alla qualità dei suoi ingredienti, il pinole può contenere un’elevata dose di vitamine, proteine, fibre e antiossidanti. L’aggiunta di zucchero e spezie, oltre a rendere più gradevole il sapore, gli può donare proprietà tonificanti ed energizzanti.

Dato il suo alto contenuto di fibre e la lenta digestione del mais, il pinole è in grado di saziare a lungo. Il pinole contiene mediamente 2-4 grammi di carboidrati per cucchiaio, 2 grammi di proteine e circa 20 milligrammi di sodio.

Circa 5 grammi di pinole contengono solo 35 calorie e forniscono un discreto apporto di vitamina A, C, B1, B2, B3, E, calcio, ferro, riboflavina e tiamina.

Fonti per “Pinole, la farina di mais dei popoli mesoamericani”

Pinole
Pinole: The Ultimate Bugout Food

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Funghi del mais e dieta dei nativi americani https://www.vitantica.net/2019/07/26/funghi-mais-dieta-nativi-americani/ https://www.vitantica.net/2019/07/26/funghi-mais-dieta-nativi-americani/#comments Fri, 26 Jul 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4443 I primi agricoltori del Nord America iniziarono a coltivare mais intorno al 400 a.C.; il granoturco diventò velocemente la base della loro dieta, una risorsa così vitale da costituire circa l’80% del loro introito calorico quotidiano.

La questione che solleva un’alimentazione basata per 4/5 sul mais riguarda gli effetti sul’organismo umano di una dieta così prepotentemente fondata sulle granaglie: come facevano i primi agricoltori nordamericani a integrare nel loro regime alimentare tutti i nutrienti necessari a mantenerli in salute?

Il problema di una dieta a base di mais

Secondo una ricerca pubblicata su ScienceDirect.com nel 2013, il mais costituì un alimento di primaria importanza per le culture dello Utah, e più in generale per i popoli Pueblo come Hopi, Zuni, Pima e Tano. La loro dieta veniva integrata in minima parte da piante selvatiche come la yucca, o da proteine animali ottenute da selvaggina come il coniglio selvatico.

I popoli Pueblo mantenevano quindi un regime alimentare povero di nutrienti fondamentali, una dieta che per molto tempo ha lasciato sconcertati gli antropologi: come facevano i nativi nordamericani ad evitare malattie come la pellagra, causata dalla carenza di vitamine del gruppo B tipicamente presenti nel latte e nelle verdure?

La pellagra è infatti una patologia molto frequente nelle popolazioni che fanno uso intensivo di sorgo o mais. Anche se questi cereali forniscono vitamine del gruppo B, le contengono in una forma che non può essere assorbita dall’intestino dei mammiferi non ruminanti.

Ad incuriosire ulteriormente gli antropologi ci sono le prove biologiche dell’assenza di pellagra tra i popoli Pueblo. I nativi, quindi, integravano in qualche modo le vitamine mancanti nella loro dieta ottenendo l’accesso a nutrienti non meglio identificati, o facendo bollire il mais all’interno di recipienti calcarei in modo tale da “sbloccare” alcuni amminoacidi altrimenti impossibili da assimilare per l’organismo umano.

L’antropologa Jenna Battillo della Southern Methodist University è convinta che la chiave per la salute dei popoli Pueblo fosse un fungo che cresce sulle piante di mais, l’ Ustilago maydis.

Il carbone del mais
Ciclo dell' Ustilago maydis. Insights from the genome of the biotrophic fungal plant pathogen Ustilago maydis
Ciclo dell’ Ustilago maydis

La malattia chiamata “carbone del mais” è causata dal fungo Ustilago maydis. I sintomi dell’attacco di questo fungo si manifestano sotto forma di masse tumorali biancastre che possono raggiungere i 15 centimetri di diametro e che aggrediscono molto facilmente le pannocchie.

In tempi moderni l’Ustilago maydis è considerato una piaga agricola in grado di causare notevoi danni alle coltivazioni di mais: ogni anno il 3-4% dei raccolti di mais statunitensi devono essere distrutti a causa della presenza del fungo (il 2% su scala globale), ma nel XIX secolo la percentuale poteva raggiungere l’80%.

Secoli fa, tuttavia, l’Ustilago maydis era considerato una preziosa risorsa alimentare e veniva consumato da Aztechi, Maya, Hopi e altre culture nord e centro americane. Ancora oggi in Messico (sotto il nome di huitlacoche, traducibile in “escrementi di corvo”) viene impiegato come ripieno per le quesadillas o come ingrediente per zuppe.

L’analisi delle feci degli antichi abitanti degli Utah, in particolare quelle rinvenute nei pressi del sito di Turkey Penn Ruin, hanno mostrato una forte presenza di spore di Ustilago maydis, suggerendo che il fungo venisse intenzionalmente incluso nella dieta dei popoli Pueblo.

Integratore alimentare naturale

L’Ustilago maydis è in grado di alterare il contenuto nutrizionale del mais aumentandone le proteine dal 3% al 19%. E’ anche capace di incrementare drasticamente i livelli di lisina e introduce nel mais altri 16 amminoacidi essenziali ad esclusione del triptofano.

Anche se questo fungo diminuisce notevolmente il raccolto di mais riducendo la dimensione delle pannocchie, rendendole meno appetibili e indebolendo la pianta, costituisce una vera e propria risorsa alimentare in grado di equilibrare una dieta sbilanciata basata quasi interamente sulle granaglie.

Il consumo di Ustilago maydis sembra aver avuto origine nella cultura azteca. Veniva raccolto ancora immaturo, dato che una volta raggiunta la maturità risulta troppo secco e ricco di spore; il suo sapore è stato descritto come molto simile a quello dei funghi più tradizionali, con un odore più pungente.

Quesadila a base di huitlacoche
Quesadila a base di huitlacoche. Honeywhatscooking.com

In Messico, la tradizione sostiene che l’ huitlacoche sia un dono della stagione umida e viene consumato da almeno 6 secoli. “Quando gli Europei incontrarono per la prima volta l’huitlacoche” afferma Lydia Zepeda, professoressa del Gaylord Nelson Institute for Environmental Studies, “videro soltanto una malattia e spesero i successivi 500 anni nel tentativo di dimostrare che fosse dannoso e cercando un modo di eradicarlo”.

“Non riuscirono a fare nessuna delle due cose” continua Zepeda. “In realtà, è meno tossico del frumento, i fungicidi sviluppati per ucciderlo non funzionano e sono molto dannosi per l’essere umano”.

Il consumo di Ustilago maydis può avere effetti collaterali. Contenendo ustilagina, un principio attivo dagli effetti simili all’ergotamina prodotta dalla segale cornuta (Claviceps purpurea), può causare in alcuni casi vomito, dolori addominali, vertigini, nausea, crampi e diarrea; ma il dosaggio di ustilagina causato dall’assunzione di huitlacoche è generalmente troppo basso da provocare effetti indesiderati.

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The role of corn fungus in Basketmaker II diet: A paleonutrition perspective on early corn farming adaptations
Professor introduces unusual edible fungus to Madison
Carbone del mais: malattia distruttiva o prelibatezza messicana?

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Cause di morte più comuni tra cacciatori-raccoglitori https://www.vitantica.net/2019/06/05/cause-di-morte-comuni-cacciatori-raccoglitori/ https://www.vitantica.net/2019/06/05/cause-di-morte-comuni-cacciatori-raccoglitori/#comments Wed, 05 Jun 2019 00:03:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4241 Tra i popoli tribali che conducono un’esistenza primitiva o semi-primitiva, uccide di più il leone o la malattia? Causa statisticamente più morti il morso di un serpente o l’attacco di un coccodrillo, oppure a rivelarsi fatali sono più spesso le attività quotidiane necessarie a procurare cibo per la comunità, gli agenti atmosferici o la violenza tra uomini?

E’ difficile determinare con precisione le cause di morte più comuni tre le comunità tribali moderne, ancora più difficile è determinarle per gli antichi cacciatori-raccoglitori.

Sappiamo, ad esempio, che i primi contatti tra una cultura primitiva o semi-primitiva e il mondo industrializzato, o più genericamente con una popolazione “aliena”, provoca quasi sempre la diffusione di malattie che tendono a decimare chi ha vissuto in isolamento per secoli o millenni.

Ciò che si è verificato nelle Americhe e nel Pacifico, nel presente e nel passato, è una palese dimostrazione dei rischi a cui va incontro un popolo tribale quando viene avvicinato per la prima volta dalla civiltà moderna.

Escludendo dalle cause di morte le malattie contratte dai primi contatti con il mondo industrializzato, quali sono le “normali” fonti di mortalità di un popolo tribale che segue uno stile di vita tradizionale?

Non esiste una statistica capillare sui popoli tribali primitivi o semi-primitivi moderni, ma solo dati relativi ad un ristrettissimo numero di comunità, informazioni raccolte grazie alla fatica di alcuni antropologi che hanno dedicato anni del loro lavoro allo studio approfondito dello stile di vita di queste culture.

Le statistiche più corpose riguardano principalmente quattro popoli: gli Aché del Paraguay, i !Kung del Kalahari, i Fayu di Papua e i Kaulong della Nuova Britannia. Per fare un confronto con i dati relativi alle cause di morte del mondo industrializzato, porterò come pietra di paragone ciò che sappiamo sulla mortalità negli Stati Uniti secondo il Center for Disease Control.

Cause di morte più comuni negli Stati Uniti (dati del CDC Report 2017)
  • Problemi cardiovascolari (23%)
  • Cancro (21%)
  • Incidenti (5,9%), che comprendono cadute accidentali, incidenti stradali e avvelenamenti accidentali
  • Problemi respiratori cronici (5,6%)
  • Infarto (5,18%)
  • Alzheimer (4,23%)
  • Diabete (2,9%)
  • Influenza e polmonite (1,88%)
  • Malattie renali (1,8%)
  • Suicidio (1,64%)
  • Setticemia (1,42%)
Aché del Paraguay

Aché del Paraguay

Tra gli Aché del Paraguay un’importante causa di morte è il morso di serpenti velenosi: rettili dal morso avvelenato causano circa il 14% delle morti legate ad incidenti tra uomini adulti, contro l’8% delle morti provocate dall’attacco di un giaguaro.

Il Paraguay ospita decine di specie di serpenti velenosi, tra le quali c’è il serpente corallo e svariate specie di crotalidi come il “testa di lancia”.

Un’altra importante causa di morte da incidente sono proprio i giaguari, insieme ai fulmini e alla perdita dell’orientamento nella foresta, condizioni che portano nella maggior parte dei casi all’ipotermia. Per quanto siano abili nella sopravvivenza all’interno del loro territorio tradizionale, anche per gli Aché è difficile accendere un fuoco in un ambiente umido come la foresta tropicale.

Altri elementi da non sottovalutare sono il crollo di alberi morti (motivo per cui gli Aché esaminano sempre gli alberi circostanti prima di accamparsi), cadute da alberi da frutto e infezioni causate da graffi e punture di insetti.

Le ferite d’ascia costituiscono un’altra importante causa di morte: gli scontri tribali non sono rari e l’arma principale d’offesa è l’ascia. Secondo le statistiche di Hill e Hurtado del 1996, prima del XX secolo il 55% delle morti tra gli Aché erano causate da omicidi.

Anche quando le armi non causavano direttamente il decesso, potevano provocare ferite in grado di infettarsi facilmente nel clima tropicale, o traumi interni difficilmente trattabili lontano da un ospedale.

!Kung del Kalahari

!Kung del Kalahari

Una delle maggiori cause di morte violenta tra !Kung sudafricani sono le frecce avvelenate scagliate da tribù rivali a seguito di sconfinamenti in territori di caccia limitrofi, una delle ragioni principali delle dispute territoriali.

Spesso tuttavia le frecce avvelenate sono le principali responsabili di morte per chi le fabbrica: il veleno utilizzato dai !Kung non ammette errori e una piccola ferita aperta a contatto con la tossina può causare il decesso in brevissimo tempo.

Una posizione rilevante tra le morti causate da incidenti è ricoperta da incendi, cadute dagli alberi e infezioni causate dal morso di grandi e piccoli animali. I !Kung non devono soltanto difendersi da grossi predatori come leoni, leopardi e iene (che, di fatto, causano “solo” 5 morti su mille), ma anche da grandi erbivori come elefanti, bufali e animali da preda più piccoli, per non contare gli insetti.

Come per altri popoli di cacciatori-raccoglitori, anche la perdita dell’orientamento, i fulmini e l’assideramento costituiscono rischi sempre in agguato. Per quanto sopravvivano in un territorio caldo (durante l’estate nel Kalahari si toccano facilmente i 40°C), il rischio di ipotermia è sempre dietro l’angolo anche nei luoghi che registrano le temperature diurne più elevate.

Fayu di Papua

Fayu di Papua

I Fayu vivono nelle pianure della provincia indonesiana di Papua e annoverano tra le principali cause di morte incendi e annegamento. L’isola di Nuova Guinea è percorsa da torrenti che, durante le abbondanti piogge stagionali, possono trasformarsi in pochissimo tempo in fiumi in piena dalla violenza straordinaria.

Vivendo nella foresta, anche i Fayu temono la caduta di alberi morti, un pericolo mai da sottovalutare in zone densamente boschive. Anche tra di loro, come in altre culture del mondo, insetti e parassiti causano numerosi decessi, senza contare serpenti, ragni e scorpioni.

I Fayu temono anche i coccodrilli, particolarmente aggressivi in Nuova Guinea, sia d’acqua dolce che marini, e l’attacco dei maiali selvatici, temibili se messi alle strette durante le battute di caccia (il maiale è una sorta di moneta per molto popoli guineani).

Le morti violente causate da scontri tribali ricoprono un ruolo importante: tra il 10% e il 20% dei decessi violenti è legato a faide e guerre tra clan.

Kaulong della Nuova Britannia

Kaulong della Nuova Britannia

Un’importante causa di morte per i Kaulong è la caduta di alberi morti, giusto a sottolineare quanto questo rischio venga spesso sottovalutato da noi occidentali ma costituisca un pericolo reale per chiunque viva nella foresta.

Cadute da alberi da frutto e annegamento sono letali quanto le ferite da ascia e coltello causate da scontri frequenti con tribù locali legati da dispute per il territorio o faide che possono durare intere generazioni.

Tra i Kaulong troviamo come rilevante causa di morte anche il cedimento di caverne sotterranee. Il sottosuolo della Nuova Britannia è percorso da innumerevoli gallerie e caverne laviche che possono cedere facilmente sotto il peso di un solo uomo, provocando cadute fatali o ferite debilitanti che hanno ripercussioni serie sulla vita futura del malcapitato.

Causes of Death: Hunter Gatherer versus Agrarian Societies
Dati relativi ai 4 popoli tribali citati: Il mondo fino a ieri, di Jared Diamond
CDC: Leading Causes of Death 2017

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Foreste nordamericane alterate dal fuoco dei nativi https://www.vitantica.net/2019/05/27/foreste-nordamericane-fuoco-nativi/ https://www.vitantica.net/2019/05/27/foreste-nordamericane-fuoco-nativi/#respond Mon, 27 May 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4259 Come già espresso su questo blog più e più volte, occorre slegarsi dall’idea che i popoli tradizionali di cacciatori-raccoglitori-orticoltori siano stati in qualche modo “custodi della natura selvaggia”.

In alcuni casi, soprattutto in epoca moderna, è vero che alcuni popoli tribali hanno contribuito a preservare la salute del loro ecosistema tradizionale, ma in passato questa indole ambientalista era quasi del tutto assente: le culture locali tendevano a gestire l’ambiente, non a proteggerlo da qualunque alterazione.

La gestione delle foreste orientali

E’ il caso, ad esempio, dei popoli nativi del Nord America. Da tempo ormai si sospetta che i nativi americani gestissero non solo la fauna del continente, ma anche la flora: secondo alcuni antropologi ed ecologi, le Grandi Pianure sono il risultato di una gestione su vasta scala delle foreste che popolavano il Nord America prima dell’intervento umano.

“Credo che i nativi americani fossero eccellenti gestori della vegetazione, e da loro possiamo imparare molto su come gestire al meglio le foreste americane” sostiene Marc Abrams, professore al College of Agricultural Sciences e autore di una ricerca sulle foreste orientali nordamericane pubblicata su Annals of Forest Science.

Le analisi di Abrams e dei suoi colleghi suggerirebbero che l’intervento dei nativi sugli ecosistemi forestali orientali sia stato più vasto e rilevante di qualunque alterazione climatica verificatasi negli ultimi millenni.

Abrams, che ha studiato per circa 30 anni lo stato delle foreste americane, è convinto che nel corso degli ultimi 2.000 anni i popoli tradizionali del continente abbiano gestito le zone boschive con l’uso massiccio di incendi controllati (slash & burn), fornendo un notevole vantaggio alle specie vegetali più resistenti o resilienti al fuoco come quercia, hickory e pino.

“Il dibattito su cosa abbia determinato la composizione delle foreste, se lo sfruttamento del territorio o il clima, continua, ma un nuovo studio suggerisce con forza che il fuoco antropogenico sia stato un elemento di grande rilevanza nel cambiamento delle foreste orientali”.

Secondo Abrams, l’azione del fuoco sembra essere stata predominante a Oriente, ma non nelle regioni occidentali, dove il cambiamento climatico fu molto più accentuato, con cicli continui di caldo e siccità.

Analisi di pollini e carbone

La ricostruzione della storia delle foreste orientali nordamericane è stata possibile grazie all’analisi di pollini, resti vegetali carbonizzati e un censimento degli alberi, tramite il quale è stato possibile confrontare la composizione delle foreste moderne con quella delle aree boschive del passato.

I ricercatori hanno scoperto che, nelle foreste più settentrionali, i pollini e la tipologia di alberi presenti indicano un declino significativo nella popolazione di faggio, pino e larice; allo stesso tempo, la densità di aceri, pioppi, frassini, querce e abeti sembra essere aumentata.

Foreste e incendi boschivi
Analisi dei pollini, dei resti carbonizzati e distribuzione delle specie vegetali nelle foreste orientali

Nelle foreste meridionali, invece, si è passati da una forte presenza di quercia e pino ad un declino di queste specie dominanti a favore di acero e betulla.

“Le foreste moderne sono dominate da specie che sono sempre più adattate al freddo, tolleranti all’ombra, non capaci di sopportare la siccità e pirofobe (non in grado di riprendersi dopo ripetuti incendi boschivi)”. spiega Abrams.

“Specie come la quercia sono favorite da incendi boschivi che si verificano con poca frequenza. Questo cambiamento nella composizione boschiva sta rendendo le foreste orientali più vulnerabili a incendi e siccità future“.

Incendi boschivi non necessariamente dannosi

Abrams e i suoi colleghi hanno inoltre analizzato i dati relativi alla popolazione umana della regione, scoprendo che almeno 2.000 anni fa iniziò un ciclo di incendi boschivi controllati che rimase stabile fino all’arrivo dei primi Europei, momento in cui gli incendi aumentarono drasticamente.

Per quanto sparsi in comunità tribali relativamente piccole (con le dovute eccezioni, come Cahokia e altri insediamenti di grandi dimensioni che stanno emergendo negli ultimi anni), i nativi erano in grado di dare alle fiamme vaste porzioni di territorio, controllando lo sviluppo degli ecosistemi locali con frequenza costante per favorire le attività agricole, la caccia e la raccolta.

“Le nostre analisi hanno identificato molte occasioni in cui il fuoco e i cambiamenti della vegetazione furono guidati da un cambiamento nella popolazione umana e nello sfruttamento del territorio, oltre ai cambiamenti causati dal solo cambiamento climatico” sostiene Adams.

“Dopo che Smokey Bear [personaggio di fantasia impiegato negli U.S.A. per numerose campagne di prevenzione degli incendi boschivi] fece la sua comparsa, gli incendi boschivi furono soppressi indiscriminatamente in tutti gli Stati Uniti e stiamo pagando un grande prezzo in termini di cambiamento delle foreste. Siamo passati da una quantità moderata di incendi a troppi incendi, finendo con quasi nessun incendio, e dobbiamo tornare ad una via di mezzo per gestire correttamente la vegetazione“.

Eastern forests shaped more by Native Americans’ burning than climate change

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Documentario: Yakoana – La Voce dei Popoli Indigeni https://www.vitantica.net/2019/05/25/documentario-yakoana-la-voce-dei-popoli-indigeni/ https://www.vitantica.net/2019/05/25/documentario-yakoana-la-voce-dei-popoli-indigeni/#respond Sat, 25 May 2019 00:11:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4263 Yakoana – The Voice of Indigenous Peoples è un documentario sulla Conferenza Mondiale dei Popoli Indigeni tenutasi nella giungla brasiliana nell’estate del 1992.

Riunendo quasi 1.000 rappresentanti di 92 nazioni indigene di tutto il pianeta, la conferenza si svolse una settimana prima dello United Nations Earth Summit a Rio de Janeiro.

L’ Earth Summit fu presenziato dai leader dei maggiori Paesi industrializzati per tentare di affrontare la crisi ambientale crescente, ma solo ad un rappresentante delle popolazioni indigene fu concesso di prendere la parola.

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Marcos Terena, rappresentante dei popoli indigeni della Terra (attualmente il World Council of Indigenous Peoples rappresenta oltre 60 milioni di persone appartenenti a popoli indigeni), fu scelto per parlare alle Nazioni Unite: è stato il fondatore del primo movimento politico indigeno in Brasile negli anni ’70 del 1900.

A Marcos fu concesso di parlare per cinque minuti, rompendo un silenzio durato 500 anni sui soprusi sociali e ambientali che i popoli indigeni hanno affrontato e subiscono ancora oggi.

Il documentario non solo mette in evidenza alcuni dei messaggi comunicati da Terena alle Nazioni Unite, ma mostra anche le storie, le culture e le difficoltà dei popoli indigeni del mondo.

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Il morbillo prima dell’era dei vaccini https://www.vitantica.net/2019/05/17/morbillo-prima-dei-vaccini/ https://www.vitantica.net/2019/05/17/morbillo-prima-dei-vaccini/#comments Fri, 17 May 2019 00:10:22 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4124 In epoca moderna e dopo l’introduzione di un vaccino specifico per la malattia, il morbillo viene erroneamente considerato come una malattia trascurabile e dalle conseguenze contenute. In passato, tuttavia, il morbillo è stato responsabile di epidemie cicliche che hanno provocato la morte di centinaia di migliaia di individui.

L’origine e l’identificazione della malattia

Non sappiamo con esattezza quando il morbillo emerse per la prima volta come malattia umana: è difficile distinguere con assoluta certezza i riferimenti storici alla malattia in periodi in cui veniva facilmente confusa con varicella, vaiolo o scarlattina.

Il morbillo, contrariamente al vaiolo, non lascia segni evidenti sui resti umani risalenti a secoli o millenni or sono. Alcune mummie egizie vecchie di oltre 3 millenni mostrano tracce del vaiolo, ma nessun segno dal morbillo, assente anche dai resoconti medici dell’epoca.

Il morbillo emerse probabilmente da 4.000 a 8.000 anni fa tra Medio Oriente e India sviluppandosi dal virus che sta all’origine anche della peste bovina e del cimurro canino. Recenti analisi hanno tuttavia messo in dubbio questa teoria, ipotizzando che la separazione netta del virus del morbillo da quello della peste bovina sia avvenuta in epoche più recenti.

Il primo, solido indizio di una malattia simile al morbillo in Europa risale al V secolo: nei pressi della moderna città di Vienna fu registrata un’epidemia caratterizzata da infezione respiratoria, infiammazione degli occhi e arrossamento della pelle.

Il primo manuale di distinzione e diagnosi di morbillo e varicella viene attribuita ad al-Razi (Muhammad ibn Zakariya al-Razi) intorno al IX-X secolo, autore dell’opera “Il Libro del Vaiolo e del Morbillo”. Secondo i resoconti incredibilmente dettagliati di al-Razi, il morbillo era una malattia “più temuta del vaiolo”.

Intorno all’ XI-XII secolo, grazie alla osservazioni di al-Razi, appare la prima documentazione storica che identifica e registra con una certa precisione la diffusione del morbillo in Europa e in Nord Africa.

morbillo

Nel 1676 il dottor Thomas Sydenham pubblica Observationes medicae circa morborum acutorum historiam et curationem (“Osservazioni mediche sulla storia e sulla cura delle malattie acute”), il primo trattato dopo al-Razi che descrive dettagliatamente l’infezione da morbillo e distingue la malattia da vaiolo e la scarlattina.

Occorre attendere però il 1757 per avere la prima dimostrazione del fatto che il morbillo sia una malattia causata da un agente infettivo presente nel sangue dei pazienti: grazie alle sue ricerche, il medico scozzese Francis Home tenta nel 1758 di vaccinare un paziente, senza tuttavia riuscirci.

Per le prime vaccinazioni funzionanti contro il morbillo occorrerà attendere le prime decadi del XX secolo, mentre le prime campagne di vaccinazione risalgono agli anni ’60 del 1900 grazie al lavoro del team di John Franklin Enders.

Perché il morbillo era così temuto in antichità?

Il virus del morbillo ha bisogno di una popolazione compresa tra le 250.000 e le 500.000 unità per scatenare un’epidemia; lo sviluppo delle città medievali (alcune molto popolose, come descritto in questo articolo) consentì alla malattia di propagarsi e di causare numerosissime vittime in una popolazione impreparata dal punto di vista immunologico e sprovvista di una cura.

Il virus del morbillo è altamente infettivo e si diffonde velocemente, specialmente nelle popolazioni che non hanno mai avuto a che fare con la malattia. Un paziente risulta infettivo a partire dal periodo di incubazione fino al termine della malattia; particolarmente suscettibili sono i bambini.

Verso la fine degli anni ’50 del 1900, la mortalità causata dal morbillo tra le popolazioni native del Brasile era pari al 27% degli infetti. Anche con i progressi medici dell’epoca contemporanea, una popolazione “vergine” può essere decimata dal virus del morbillo con tassi di mortalità incredibilmente elevati per il XXI secolo; nei Paesi in via di sviluppo, ancora oggi la mortalità dovuta alla malattia o alle complicazioni che può provocare è in grado di raggiungere il 10%.

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Le epidemie di morbillo nei secoli passati si scatenavano con una certa ciclicità: in alcuni periodi si verificavano epidemie contenute della malattia ogni 2-5 anni. Sulle isole britanniche, tra il VI e l’ XI secolo, si registrarono per iscritto ben 49 “piaghe”, molte delle quali ritenute epidemie di morbillo: una media di 1 epidemia ogni 10 anni, giusto il tempo di far raggiungere alla popolazione locale un numero tale da consentire la propagazione di una nuova infezione.

Il morbillo può indurre complicazioni come diarrea o encefalite, e gli adulti tendono a sperimentare complicazioni più severe. In secoli ben lontani dalle conquiste della medicina moderna e caratterizzati da un basso livello di igiene, avere un sistema immunitario indebolito esponeva a seri rischi e poteva facilmente minacciare la sopravvivenza di moltissimi pazienti.

L’arrivo del morbillo nelle Americhe

Il morbillo può rivelarsi devastante in una popolazione che non ha sviluppato le difese immunitarie sufficienti a contrastare la malattia: l’epidemia di morbillo di Cuba nel 1529 causò la morte di due terzi della popolazione nativa che si stava riprendendo da un altrettanto letale epidemia di vaiolo (uno tra gli attori principali nello sterminio dei nativi americani, come spiegato in questo post).

Due anni più tardi, nel 1531, il morbillo fu responsabile per la morte di metà della popolazione nativa dell’ Honduras, causando decine di migliaia di morti anche in tutta l’America Centrale fino a colpire la civiltà Inca.

Nel 1533, verso il termine della spedizione di Francisco Pizarro in Perù, scoppiò un’altra epidemia di morbillo in Nicaragua, poco dopo il passaggio di Pizarro. Non fu l’ultimo episodio di contagio di massa della popolazione nativa: per almeno un altro secolo la popolazione nativa verrà letteralmente sterminata dal morbillo, dal vaiolo, dall’influenza e da altre malattie infettive.

All’inizio del 1850 il morbillo fa il suo ingresso su alcune isole del Pacifico, tra le quali le Hawaii e successivamente le Figi: in entrambi i casi, in meno di una decade si registrerà il decesso di un quinto della popolazione locale a causa della malattia.

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Una delle tragedie sfiorate legate alla diffusione del morbillo lungo le coste atlantiche è quella che riguarda la popolazione inuit groenlandese.

Nel 1951, un viaggiatore proveniente dalla Danimarca introdusse il virus in una piccola comunità di 4262 individui, infettandoli tutti ad eccezione di cinque. Grazie all’intervento tempestivo della Danimarca nel fornire gammaglobuline ricche di anticorpi, la mortalità fu ridotta drasticamente al 2%.

Measles in antiquity and the middle ages
Timeline of measles
The History of Vaccines: Timeline
Origin of measles virus: divergence from rinderpest virus between the 11th and 12th centuries

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