freddo – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il kit di sopravvivenza delle popolazioni dell’Artide https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/ https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/#respond Mon, 08 Jun 2020 00:12:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4905 Per giugno 2020 avevo previsto un breve weekend a Londra per una visita al British Museum in occasione della mostra “Arctic“, un’esposizione incentrata sugli stili di vita tradizionali dei popoli che vivono nei pressi del circolo polare artico. Per ragioni legate al coronavirus questo viaggio è stato rimandato a data indefinita, se non del tutto annullato, ma il sito del British Museum ha reso disponibile una raccolta di foto e informazioni relativi alla mostra, come l’articolo “10 things you need to live in the Arctic“.

Cosa serve per sopravvivere all’ecosistema artico? Le popolazioni che tradizionalmente occupano le regioni più fredde del pianeta sono eccellenti nello sfruttare i pochi materiali naturali a loro disposizione per realizzare oggetti fondamentali per la sopravvivenza nella tundra o tra i ghiacci polari, come indumenti e utensili.

Stivali
Stivali Gwich'in in pelle d'alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.
Stivali Gwich’in in pelle d’alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.

Un buon paio di stivali è fondamentale per la sopravvivenza nell’Artico, non solo per tenere al caldo le estremità inferiori, ma anche per facilitare l’attraversamento di ghiaccio o di spesse coltri di neve.

Il popolo Gwich’in, che vive tra il Canada e l’Alaska, realizza splendidi stivali dalla pelliccia di castoro e di caribù, decorandoli con piccole perline ottenute da piccole pietre, vetro o conchiglie. Le suole degli stivali sono invece realizzate in pelle d’alce affumicata, un trattamento che la rende spessa, resistente e simile al velluto.

Gli Inuit, gli Inupiat e gli Yupic fabbricano da secoli i mukluks (o kamik), stivali soffici in pelle di renna o di foca tenuti insieme da filamenti di tendine animale, un materiale particolarmente resistente e adatto al clima artico.

Questi stivali rappresentavano lo strato intermedio della calzatura: sotto di essi si trovava uno strato di pelliccia, con il pelo rivolto verso l’interno per migliorare l’isolamento termico, mentre il piede veniva rivestito esternamente da una soletta semi-rigida in pelle conciata e affumicata.

Occhiali da neve
Occhiali da neve in poelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.
Occhiali da neve in pelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.

Uno dei pericoli più sottovalutati durante le escursioni tra il ghiaccio o la neve è l’esposizione alla luce solare. La cecità da neve è una patologia che si sviluppa a seguito dell’esposizione prolungata della cornea alla luce ultravioletta riflessa dai cristalli di ghiaccio.

Gli occhi iniziano a lacrimare senza sosta, il dolore nella zona oculare diventa persistente e si può arrivare alla cecità totale momentanea. I sintomi di solito non sono permanenti: dolore e cecità possono svanire entro una o due settimane, a patto di evitare ulteriore esposizione alla luce ultravioletta.

I Dolgan della Russia settentrionale e centrale fabbricano occhiali da neve in pelle di renna. Pur essendo privi di lenti ottiche, offrono una semplice ma efficace protezione per gli occhi: le fessure limitano l’ingresso dei raggi ultravioletti ma garantiscono un buon grado di visibilità.

Parka
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.

L’abbigliamento necessario nelle regioni artiche deve essere resistente all’usura, isolante ma allo stesso tempo traspirante, per evitare che si formi della pericolosa umidità tra gli indumenti e il corpo umano. L’umidità condensata abbassa la temperatura corporea, condizione non ideale in un ecosistema in cui il calore è raro ed estremamente prezioso.

I parka, eskimo o anorak sono originari delle popolazioni Inuit, Inupiat e Yupik e venivano generalmente realizzati con pelli di renna o di foca, materiali che ancora oggi sono competitivi, in quanto a resistenza e isolamento termico, con i tessuti più moderni.

Alcuni parka, anche se non molto efficienti nell’ isolamento termico, erano completamente impermeabili: il materiale con cui venivano realizzati, interiora di foca, è totalmente idrorepellente, offre una buona protezione dall’umidità atmosferica e costituisce una barriera invalicabile per le zanzare che popolano l’estate della tundra.

Slitte
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.

Viaggiare sulla neve o sul ghiaccio è faticoso e pericoloso. Le popolazioni nomadi o seminomadi, inoltre, devono muovere grandi quantità di materiale durante i loro spostamenti stagionali: cibo, tende, utensili e indumenti non possono essere trasportati su lunghe distanze con la sola forza di braccia e gambe.

Dopo aver compreso che più la superficie a contatto con la neve o il ghiaccio è estesa, più si ottiene stabilità e movimento fluido, i popoli dell’Artico iniziarono a realizzare slitte capaci di coprire distanze notevoli scivolando sulle superfici che il piede umano affronta con difficoltà.

Per le loro slitte i popoli artici sfruttavano ogni materiale a loro disposizione: ossa di animali marini o terrestri per il telaio, tendine, cuoio o fibre vegetali per il cordame, e pelle di foca per creare una copertura isolante.

Aghi
Aghi d'avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.
Aghi d’avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.

Gli Inuit e le popolazioni dell’Artico sono abili costruttori di meravigliosi aghi d’osso e di legno, con i quali possono riparare tende, indumenti e oggetti di varia natura. Gli aghi d’osso e di legno, per la natura stesse del materiale da cui vengono realizzati, non hanno le dimensioni e le caratteristiche meccaniche degli aghi moderni, ma sono incredibilmente efficaci.

Gli aghi sono utensili utilissimi per la vita quotidiana dei popoli artici: parka, stivali, canoe e tende (come i tupiq Inuit) richiedevano l’impiego di fibre resistenti (come il tendine) e di strumenti in grado di perforare con facilità cuoio e pelliccia.

Ottenere un ago efficace da un osso è un’operazione lunga e tediosa; gli aghi erano quindi beni preziosi, e venivano conservati in appositi contenitori generalmente portati sulla cintura, per essere pronti all’uso e limitare la possibilità di perderli.

Ulu e coltelli
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.

Per gli Inuit e gli Yupik, l’ ulu non è un semplice coltello, ma un utensile multiuso impiegato per recidere, per la pulizia delle pelli, per il taglio dei capelli o per rifinire blocchi di neve in assenza di un vero e proprio coltello da ghiaccio.

Gli ulu moderni sono in acciaio, ma la lama veniva anticamente realizzata con corno di renna o avorio di tricheco. Il tipico ulu ha dimensioni che variano in base all’impiego a cui è destinato: gli ulu più piccoli (circa 5 centimetri di lunghezza della lama) sono utilizzati per il taglio dei tendini o per la decorazione della pelle, mentre quelli più grandi trovano molteplici applicazioni nella vita quotidiana degli Inuit.

Nelle regioni artiche in cui veniva praticata la metallurgia, il coltello rappresentava l’utensile di prima scelta per la maggior parte delle attività quotidiane. Gli allevatori di renne lo usavano per castrare o macellare i loro animali, per marchiare le orecchie dei capi di bestiame in modo da riconoscerli, per incidere il legno e, se necessario, per la difesa personale.

Utensili da cucina
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all'inizio del 1900.
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all’inizio del 1900.

Buona parte della dieta dei popoli artici è composta da nutrienti di origine animale. Alcuni possono essere consumati crudi, altri invece necessitano di cottura prima di essere ingeriti. Anche alcune delle poche fonti vegetali di nutrienti, come erbe, tuberi, bacche e alghe necessitano di cottura per risultare commestibili o gradevoli al palato.

La cottura non consisteva esclusivamente nell’esposizione degli alimenti alla fiamma vita: gli Inuit utilizzavano bollitori di roccia metamorfica, blocchi di pietra che venivano scavati con pazienza e perizia per consentire la bollitura di cibo e acqua.

10 things you need to live in the Arctic

Eskimo Lamps and Pots

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Coltello da feci ghiacciate: fantasia o realtà? https://www.vitantica.net/2019/09/17/coltello-da-feci-ghiacciate-fantasia-o-realta/ https://www.vitantica.net/2019/09/17/coltello-da-feci-ghiacciate-fantasia-o-realta/#respond Tue, 17 Sep 2019 00:10:36 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4536 Nel suo libro “Shadows in the Sun” (1998), Wade Davis (autore, tra le altre opere, del libro “The Serpent and the Rainbow“, la fonte d’ispirazione per il film “Il serpente e l’arcobaleno“) descrive uno degli aneddoti etnografici più bizzarri di sempre:

“Esiste un resoconto molto conosciuto che riguarda un anziano inuit che si rifiutò di spostarsi in un nuovo insediamento urbano. Contro le obiezioni della famiglia, decise di rimanere a vivere sul ghiaccio. Per fermarlo, i parenti sottrassero tutti i suoi utensili. Quindi, nel bel mezzo di una tempesta invernale, l’anziano uscì dal suo igloo, defecò e plasmò le sue feci in una lama ghiacciata, che affilò usando la sua saliva. Con quel coltello uccise un cane. Usando la gabbia toracica dell’animale come slitta e la sua pelle per imbrigliare altri cani, sparì nell’oscurità.”

Quanto è realistico fabbricare un coltello dalle proprie feci? E’ possibile ottenere uno strumento funzionale sfruttando materia organica e temperature estreme? Una ricerca pubblicata recentemente sulla rivista Journal of Archaeological Science ha tentato di replicare il “coltello di feci” riportato nel libro di Davis.

L’origine della storia

Secondo Davis, la fonte dell’aneddoto fu un inuit di nome Olayuk Narqitarvik, residente nella British Columbia. Fu proprio il nonno di Olayuk, negli anni ’50 del 1900, a rifiutarsi di stabilirsi in un insediamento urbano. Inizialmente, Davis considerò il racconto come frutto dell’immaginazione locale, ma il resoconto autobiografico di Peter Freuchen, esploratore artico di origine danese, sembrò confermare la possibilità che ci fosse qualcosa di reale nella storia.

Freuchen, dopo essersi ricavato una nicchia nella neve per dormire al riparo dagli agenti atmosferici del circolo polare artico, si svegliò accorgendosi di essere in trappola: non poteva più uscire dal suo rifugio improvvisato a causa della quantità di neve compatta accumulatasi durante la notte.

Ricordandosi di aver osservato le feci dei suoi cani da slitta completamente ghiacciate e dure come la roccia, defecò nella sua mano, modellò le sue deiezioni per ottenere uno scalpello improvvisato e attese che si congelassero. Utilizzando l’utensile di fortuna, riuscì a liberarsi dal ghiaccio che lo intrappolava e fece ritorno alla civiltà.

Sia il racconto di Freuchen che quello riportato da Davis hanno sollevato molteplici dubbi per diverso tempo. Sono i soli testimoni (il primo diretto, il secondo indiretto) di due episodi così curiosi; è per questa ragione che alcuni ricercatori della Kent State University hanno tentato di riprodurre un “coltello di feci” basandosi sui dettagli riportati dall’antropologo canadese.

La prova sul campo
Prova sul campo del coltello di feci (Image: © Eren et al.)
Prova sul campo del coltello di feci (Image: © Eren et al.)

Per poter ottenere il materiale necessario all’esperimento, uno dei ricercatori ha seguito per otto giorni una dieta ricca consistente con l’alimentazione degli Inuit, ricca di proteine e grassi animali. A partire dal quarto giorno sono iniziati i prelievi quotidiani di materiale fecale, in seguito modellato a forma di coltello manualmente o tramite stampi di ceramica e conservato a -20 °C fino al giorno dei test.

Per testare l’efficacia degli utensili, i ricercatori si sono procurati pelle, muscoli e tendini di maiale conservati a -20 °C fino a 2 giorni prima dell’esperimento, lasciandoli quindi scongelare fino a raggiungere la temperatura di 4 °C per simulare il cadavere di un animale ucciso da poco tempo.

Appena prima della prova sul campo, i coltelli sono stati sepolti in uno strato di ghiaccio secco a -50 °C per ottenere la massima durezza possibile in un clima glaciale, per poi essere estratti al momento dell’utilizzo.

L’esperimento è iniziato con i test sulla pelle di maiale. Nessuna delle due tipologie di coltelli (modellati a mano o tramite stampo) sono state in grado di tagliare la pelle animale: il filo della lama si è sciolto a contatto con la superficie del materiale, lasciando strisce di materia fecale e non riuscendo ad incidere il bersaglio.

I tentativi di tagliare il grasso sottocutaneo hanno ottenuto risultati di poco superiori: i ricercatori sono riusciti ad ottenere fettine irregolari e sottili, ma la lama si è velocemente deteriorata diventando presto inservibile.

Coltello di feci poco funzionale

Il risultato degli esperimenti è che un coltello di feci ghiacciate risulta ben poco utile nel gelo dell’ Artico. In condizioni di laboratorio, queste lame hanno ottenuto risultati scarsi o del tutto insoddisfacenti, diventando inefficaci pochi secondi dopo il contatto con il “corpo” relativamente caldo dell’animale.

Occorre osservare inoltre che l’esperimento è stato condotto su parti di maiale preparate per ottenere un taglio ottimale. In condizioni reali, la carcassa di un animale ucciso da pochi minuti si presenterebbe più calda e ricoperta di pelo, elementi che limiterebbero ulteriormente l’utilità di un coltello di feci ghiacciate.

L’aneddoto di Davis viene spesso utilizzato per dimostrare quanto i cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo si dimostrino pieni di inventiva in situazioni di necessità; ma non esiste alcuna documentazione attendibile sulla praticità di un coltello ottenuto dalle feci, solo resoconti di dubbia autenticità e attendibilità smentiti in modo definitivo dalla ricerca della Kent State University.

Fonti per “Coltello da feci ghiacciate: fantasia o realtà?”

Experimental replication shows knives manufactured from frozen human feces do not work

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Quinzhee, il rifugio di neve https://www.vitantica.net/2019/08/05/quinzhee-rifugio-di-neve/ https://www.vitantica.net/2019/08/05/quinzhee-rifugio-di-neve/#respond Mon, 05 Aug 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4464 L’igloo Inuit non è l’unico rifugio di neve ideato dall’essere umano per proteggersi dal gelo dei climi più estremi. Il quinzhee (o quinzee) è un rifugio di origine canadese meno robusto e resistente di un igloo, ma di più facile realizzazione e in grado di schermare dal freddo e dalle intemperie i suoi occupanti per un periodo limitato di tempo.

Differenze con l’igloo

Un quinzee si distingue dall’igloo per facilità di realizzazione, per l’altezza della struttura e per il tipo di neve utilizzata per la sua costruzione.

L’altezza di un quinzee è generalmente più ridotta rispetto ad un igloo e consente ai suoi occupanti di rimanere sdraiati o seduti, ma non in piedi. Questo aspetto è legato al fatto che questo tipo di rifugio non è costituito da neve solida e compatta, ma da neve fresca e farinosa.

Gli igloo sono concepiti generalmente come abitazioni permanenti o stagionali; necessitano quindi di una struttura solida e robusta in grado di resistere ad ogni condizione atmosferica, specialmente le più feroci tempeste di neve che si manifestano più ci si avvicina al circolo polare artico.

I quinzee invece sono rifugi temporanei, ideati per la sopravvivenza durante situazioni estreme o comunque per brevi periodi. L’estetica e la comodità non sono generalmente elementi di primaria importanza nella costruzione di un quinzhee: si tende a privilegiare la funzionalità e la semplicità costruttiva.

Costruzione di un quinzee

I quinzee vengono solitamente edificati in zone pianeggianti coperte da neve abbondante, a temperature inferiori ai -4 °C. La costruzione di un quinzee in grado di ospitare 3 persone può richiede qualche ora, tempo ripagato dalla protezione dalle intemperie che fornità il rifugio e dalla sua semplicità di costruzione.

Scavo del vano interno di un quinzhee
Scavo del vano interno di un quinzhee

Un quinzee ben costruito è in grado di mantenere una temperatura interna di 0 °C anche quando all’esterno si registrano -40 °C. Realizzando una piccola fossa diretta versa l’uscita del rifugio e ripiani rialzati da utilizzare come letti, l’aria fredda tenderà ad accumularsi nel punto più basso del quinzee, lontana dagli occupanti.

La neve presente sugli strati più superficiali viene polverizzata e mescolata con neve che si trova più in profondità per favorire il processo di sinterizzazione, un trattamento che trasforma materiale polverulento in una massa semi-compatta.

Il primo passo per la costruzione di un quinzee è la creazione di una pila conica di neve, alta 1,5-2 metri e con un diametro alla base di 3-4 metri. L’ammasso di neve viene quindi lasciato compattare per almeno due ore: durante questo periodo, la temperatura e l’umidità della neve faranno in modo che i cristalli di ghiaccio si cementino tra di loro, irrobustendo la struttura.

All’interno della pila di neve verranno successivamente inseriti dei rametti di 30-40 centimetri in modo tale da avere delle guide in grado di indicare dall’interno lo spessore della parete di neve. In questo modo sarà possibile svuotare l’interno della struttura senza assottigliare troppo le pareti: lo spessore minimo per le pareti è di 30 centimetri alla base e 20 centimetri all’estremità superiore.

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Lo scavo del vano interno del quinzee diviene più semplice se si è in grado di rimuovere grossi blocchi di neve facendoli slittare all’esterno attraverso una “porta di scavo” temporanea di dimensioni adeguate, che verrà poi sigillata al termine dei lavori. L’ingresso alla struttura sarà garantito dallo scavo di una piccola apertura semicircolare, di dimensioni più ridotte rispetto alla porta di scavo.

La struttura più solida e resistente prevede uno spazio interno modellato a cupola. Sulla cima della cupola è possibile praticare un foro per favorire la circolazione dell’aria, mentre la porta d’accesso può essere coperta da un lembo di tessuto per evitare che l’aria gelida possa insinuarsi nel rifugio.

Per evitare che lo scioglimento della neve possa causare un fastidioso gocciolamento, le pareti interne vengono solitamente levigate sfruttando il semplice calore corporeo delle mani, o con un qualunque strumento di fortuna dalla superficie adatta allo scopo.

Anche se meno resistente di un igloo, la struttura di un quinzee può avere una forza notevole: un rifugio ben costruito ed esposto a temperature inferiori a -12 °C per almeno 16 ore sarebbe in grado di supportare senza cedimenti 3-4 adulti seduti sulla sua sommità.

Rischi e vantaggi del quinzee

La temperatura ambientale rappresenta un elemento di primaria importanza nella stabilità di un quinzee. Temperature superiori al punto di congelamento rendono più veloce lo scioglimento della neve, che inizierà dall’interno per via della calore corporeo emanato dagli occupanti.

Occorrerebbe evitare di costruire un quinzee se le temperature superano i -4 °C per scongiurare il rischio di collassi strutturali. I più grandi rischi di collasso si corrono durante la fase costruttiva, specialmente quella di scavo: lasciar “riposare” la struttura di neve per almeno 2-3 ore prima di svuotarne l’interno la rende meno propensa a cedimenti.

L'interno di un quinzhee
L’interno di un quinzhee

Un quinzee può cedere anche in condizioni climatiche avverse, come la pioggia o venti troppo forti. Il cedimento strutturale pone a serio rischio gli occupanti del rifugio, che rischiano di rimanere soffocati dalla neve fresca.

E’ possibile spendere diverse notti in un quinzee a patto di prendere alcune precauzioni. La superficie interna potrebbe essere lentamente ricoperta da un sottile strato di ghiaccio causato dalle esalazioni emesse dagli occupanti, riducento la ventilazione attraverso le pareti di neve e aumentando il rischio di soffocamento. Una soluzione semplice e comune è quella di rimuovere questo sottile strato di ghiaccio ogni giorno raschiando leggermente la parete interna.

The Quinzhee – How Not to Freeze to Death
How to Build a Quinzhee Snow Shelter

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Località e clima estremi della Terra https://www.vitantica.net/2019/03/06/localita-eclima-estremi-terra/ https://www.vitantica.net/2019/03/06/localita-eclima-estremi-terra/#respond Wed, 06 Mar 2019 00:10:29 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3730 Quando pensiamo che la Terra sia il pianeta ideale per lo sviluppo della vita spesso dimentichiamo quanto possano essere inospitali alcune regioni del nostro pianeta: venti incessanti e velocissimi, temperature estreme sopra e sotto lo zero, precipitazioni abbondantissime o del tutto assenti, altezze che mozzano letteralmente il fiato e località così remote da essere difficilmente raggiungibili con qualunque mezzo di trasporto conosciuto.

Nonostante gli estremi climatici e ostacoli naturali apparentemente insormontabili, l’uomo è spesso riuscito a ricavarsi una nicchia di sopravvivenza nei luoghi più difficili, adattandosi a condizioni avverse spesso per necessità, altre volte per puro interesse scientifico.

La foresta più a nord

La foresta di Lukunsky è la distesa di alberi più a nord del pianeta. Si trova in Russia lungo il fiume Lukuns, ed è una foresta che torna alla vita dopo l’inverno per soli 100 giorni, per poi ritornare ad essere un bosco ghiacciato da Settembre a Giugno.

Il terreno è composto da permafrost profondo fino a 200 metri, le temperature scendono spesso sotto i -40 °C, e il vento raggiunge una velocità di 50 metri al secondo per buona parte dell’anno.

Il bosco di Lukunsky ospita 268 specie di piante, 78 di uccelli e 16 specie di mammiferi, perfettamente adattati al clima della regione.

Il ghiaccio più profondo

Per un record del genere, il primo posto del pianeta che viene alla mente è l’ Antartide. La fossa subglaciale di Bentley è il punto più profondo della Terra non coperto da acqua: è infatti completamente sommersa dal ghiaccio per ben 2.555 metri dal livello del mare e occupa un’area grande quanto l’intero Messico.

Non viene tecnicamente considerato il punto più profondo del pianeta per via della sua copertura di ghiaccio, che lo fa rientrare nella categoria delle località sotterranee.

Stazione Vostok, l’avamposto umano più freddo del pianeta

La stazione russa Vostok si trova al Polo Sud. La temperatura media annua è di circa -55,3 °C, la più bassa temperatura media mai documentata sul nostro pianeta.

Il mese più freddo è agosto, con una media di -68 °C, mentre in dicembre, il mese più caldo, si raggiungono i -32 °C. Nel luglio del 1983, la temperatura alla stazione Vostok è scesa fino a -89,2 °C, la più bassa mai registrata sulla Terra.

Caldo estremo: la più alta temperatura dell’aria mai registrata

La più alta temperatura mai registrata è un record che spetta alla Libia. Il 13 Settembre 1922 il termometro di Al’Aziziyah, località nel deserto del Sahara, segnava 57,8 °C.

Tuttavia il record non è stato unanimamente accettato: ci sono casi in cui le temperature possono alzarsi ulteriormente a seguito di “colpi di calore” causati venti particolarmente caldi.

Ad Abadan, in Iran, nell’estate del 1967 pare che il termometro segnò 87 °C a causa delle condizioni sopra citate; la reale portata dell’evento non è mai stata confermata, per questa ragione non compare nella lista dele temperature record finora registrate.

Il deserto più arido: Atacama
Località e clima estremi della Terra
Deserto di Atacama

Il deserto di Atacama è la località più arida del pianeta. Si affaccia sull’ Oceano Pacifico percorrendo le coste del Cile ad elevate altitudini, sulla catena delle Ande.

La temperatura va da 0 °C a 25 °C ed è la località con meno precipitazioni sulla Terra. E’ possibile trovare modeste quantità d’acqua in alcuni laghi salati, nella neve ad alta quota o nel sottosuolo. La quantità più considerevole di acqua che è possibile trovare nel deserto di Atacama proviene tuttavia dalle nebbie che si sollevano dal Pacifico.

La media di precipitazioni sul deserto di Atacama è pari a circa 1 millimetro all’anno. Alcune stazioni meteorologiche, dal momento della loro costruzione decadi e decadi fa, non hanno ancora visto una sola goccia di pioggia nell’arco del loro periodo di attività.

Le regioni più umide del pianeta

Non è semplice stabilire quale località abbia le precipitazioni più abbondanti. In generale possiamo affermare che i luoghi più umidi del pianeta si trovano di frequente in prossimità di foreste pluviali, come in India o in Sud America.

A Cherrapunji, in India, la media annuale è di 11.430 millimetri, con l’anno 1861 che ha fatto registrare ben 22.987 millimetri di pioggia. La media di pioggia più alta spetta a Mawsynram, sempre in India, con 11.873 millimetri, mentre l’anno più piovoso è un primato di Chocò, Colombia, con 26.303 millimetri durante il 1974.

Il chicco di grandine più grande mai registrato

Giugno 2003: una grossa tempesta si muove sul Nebraska, lasciando cadere grandine in quantità. Ad Aurora, un residente trova un chicco di grandine enorme, lo ripone nel frigorifero e lo lascia esaminare successivamente dal National Climate Extremes Committee. Risultato: il chicco di grandine è il più grosso mai visto, con i suoi 17,8 centimetri di diametro e una circonferenza di 47,6 centimetri.

La più alta parete verticale
Monte Thor
Monte Thor

Il monte Thor canadese si trova nell’isola di Biffin, all’interno dell’ Auyuittuq National Park, e ha una parete verticale di granito puro alta ben 1.250 metri.

E’ una meta celebre per gli scalatori di tutto il mondo, specialmente per il suo grado di difficoltà, e si trova in una località nota per altre pareti verticali vertiginose, tutte di altezza superiore ai 500 metri.

Insediamento umano più elevato

La Riconada è una città delle Ande peruviane nata principalmente attorno all’attività mineraria di estrazione dell’oro. E’ considerata la città più in quota del mondo, con i suoi 5.100 metri sul livello del mare, e ospita circa 30.000 abitanti.

Se parliamo invece di piccoli insediamenti, il record non ufficiale spetta al villaggio di Kungi in India, a 5.219 metri sul livello del mare.

Polo oceanico dell’inaccessibilità

I poli dell’inaccessibilità sono punti geografici collocati in posizioni tali da renderli le località più lontane dalla maggior parte delle terre emerse del pianeta.

Ad esempio, il polo oceanico dell’inaccessibilità (noto anche come polo pacifico, o “punto Nemo”) è il punto dell’oceano più lontano da qualunque terra emersa. Si trova ad almeno 2688 km di distanza dalle Isole Pitcairn, le terre emerse più vicine.

L’isola più remota
Posizione di Bouvet Island
Posizione di Bouvet Island

Bouvet Island è una piccola isola al largo dell’Oceano Atlantico e si trova a quasi 1.600 km di distanza dalla terra emersa più vicina, Queen Maud Land in Antartide.

L’isola abitata più vicina è ad oltre 2.260 km di distanza, mentre le coste del Sud Africa sono a 2.580 km in linea d’aria.

La località più ventosa

Commonwealth Bay è considerata ufficialmente la località più ventosa del pianeta. Si trova in Antartide e fa registrare venti costanti che soffiano fino a 240 km/h, con una media annuale di velocità di 80 km/h.

Questi venti catabatici creano tempeste violentissime che possono iniziare improvvisamente, senza nessun segnale d’avvertimento, e durare per settimane intere senza sosta.

Il vento più veloce

Come era facile aspettarsi, il record spetta ad un tornado. Nel maggio 1999, in Oklahoma, un tornado ha fatto registrare una folata di vento della durata di tre secondi che viaggiava a 512 km/h.

Il record precedentemente spettava ad un tornado verificatosi nel 1991 sempre in Oklahoma, un evento che ha fatto registrare una velocità pari a 460 km/h.

Se parliamo di velocità medie, invece, il record spetta a Port Martin, Antartide: nell’arco di 24 ore, nel 1951 il vento ha fatto registrare una velocità media di 174 km/h.

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La più grande inondazione della storia

La Cina è terra di precipitazioni stagionali di grande entità che spesso causano inondazioni di proporzioni ciclopiche. La più grande inondazione mai registrata è stata forse quella del 1931 in Cina, considerata il disastro naturale più mortale della storia con le sue quasi 4 milioni di vittime.

L’inondazione è stata generata da particolari condizioni meteo: dal 1928 al 1930 ci fu una grave siccità nella regione centrale della Cina; nel 1930 sono state registrate nevicate ingenti, nel 1931 le piogge sono state di maggiore entità rispetto al normale, rafforzate dal passaggio di ben 7 cicloni (su una media di 2 all’anno). L’inondazione ha visto coinvolti diversi fiumi: Fiume Giallo, Yangtze e Huai.

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11 miti sulla sopravvivenza che potrebbero costarti la vita https://www.vitantica.net/2018/01/14/11-miti-sulla-sopravvivenza-che-potrebbero-costarti-la-vita/ https://www.vitantica.net/2018/01/14/11-miti-sulla-sopravvivenza-che-potrebbero-costarti-la-vita/#respond Sun, 14 Jan 2018 14:00:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=853 Sopravvivere nella natura selvaggia come facevano i nostri antenati preistorici non è affatto uno scherzo: pericoli mortali sono sempre in agguato, siano essi rappresentati da predatori piccoli o grandi, piante velenose o gli stessi elementi naturali, sufficienti a ridurre chiunque allo sfinimento.

Leggende popolari e Hollywood hanno contribuito a creare molti falsi miti su come agire e sopravvivere in situazioni di grave difficoltà; alcuni di questi miti sono relativamente innocui in alcune circostanze, ma potrebbero diventare velocemente letali in altre situazioni.

Bere alcool riscalda

Nell’immaginario collettivo c’è il classico San Bernardo con la fiaschetta di liquore al collo intento a salvare qualche sprovveduto, ma l’ultima cosa che si dovrebbe fare in situazioni a rischio d’ipotermia è bere alcool.

Dopo l’iniziale rush di calore, l’alcool innesca una vasodilatazione dei capillari superficiali contribuendo a disperdere il calore corporeo; il risultato è che l’organismo si raffredda più rapidamente.

Una vasca calda può curare l’ipotermia

Ovviamente la prima preoccupazione nei casi di ipotermia è quella di riportare la temperatura corporea alla normalità, ma è importante non solo il risultato ma anche la procedura di riscaldamento. Immergere una persona ipotermica in una vasca calda non farà che provocare dolori lancinanti e nei casi più gravi causare un infarto.

Il riscaldamento deve essere graduale: semplici coperte o coperte termiche, bottiglie d’acqua calda sotto le ascelle e tra le gambe, riscaldamento corpo a corpo sono i metodi migliori.

Ciò che mangiano gli animali è commestibile

errori sopravvivenza

Anche se molti degli animali più grandi che popolano la superficie terrestre sono mammiferi come noi, non significa che condividiamo gli stessi tratti biologici o le stesse abitudini alimentari.

Molti animali sono in grado di digerire piante e prede estremamente tossici consumando allo stesso tempo una vasta gamma di piante e prede commestibili anche per l’essere umano; gli scoiattoli, ad esempio, si nutrono di molte varietà di funghi, alcuni commestibili ma altri velenosissimi.

Taglia, succhia e sputa

Hollywood ci ha abituato ad un trattamento per i morsi di serpente abbastanza inaccurato e pericoloso. La tecnica che possiamo definire “taglia e succhia” prevede di incidere la pelle lungo il punto d’ingresso dei denti del serpente e iniziare a succhiare e sputare ripetutamente il veleno che fuoriesce.

Nella realtà, un’incisione di questo tipo esporrebbe la vittima a enormi rischi d’infezione, specialmente se a contatto con la saliva umana che può ospitare moltissime specie batteriche; il trattamento più semplice e efficace in assenza di siero antiveleno è quello di mantenere la calma, coprire la ferita e portare la vittima all’ospedale più vicino.

Il muschio cresce verso Nord

muschio non cresce verso Nord

Purtroppo non è così, non sempre comunque. Esistono innumerevoli specie di muschio, alcune che preferiscono un ambiente fresco e all’ombra e altri che amano il sole e il caldo. Alcune specie cresceranno quindi verso Nord e altre a Sud in base alle loro preferenze.

Il fuoco in una caverna aumenta il calore

E’ vero che un fuoco da campo acceso tra pareti di roccia contribuisce ad aumentare il calore generato. E’ anche vero tuttavia che calore e pietra non vanno spesso d’accordo: il primo favorisce l’espansione della seconda, causando crepe e fratture che possono causare la caduta di enormi rocce sulla vostra testa.

Nel migliore dei casi, si rischia di rimanere murati vivi nella caverna. Questo non significa che è necessario evitare le caverne quando si è in cerca di riparo: basta semplicemente avere buon senso e non accendere fiamme vicino alle pareti di pietra o in grotte piccole e strette.

Bere la propria urina per rimanere idratati

Uno dei più grossi miti è quello dell’urina: la si può bere in situazioni d’emergenza per rimanere idratati?
L’urina è una sostanza di scarto dell’organismo. Oltre all’evidente grande quantitativo d’acqua (95%) contiene varie sostanze di scarto (circa 3.000 composti) che possono causare seri danni ad un organismo in avanzato stato di disidratazione.

La concentrazione di queste sostanze aumenta in base al grado di disidratazione e immettendole nuovamente nell’organismo non si fa altro che sovraccaricare i reni.

Mangiare neve per assumere acqua

Sopravvivenza mangiare neve

In caso di disidratazione, la neve può rappresentare una facile opzione per reintrodurre nell’organismo preziosi liquidi vitali. Mangiare neve in situazioni di difficoltà, specialmente a rischio d’ ipotermia, è una mossa sbagliatissima: la neve è composta da ghiaccio e aria in rapporto 1 a 9 in volume.

Questo significa che dovrete ingerire un sacco di neve per bere mezzo litro d’acqua e ad ogni “sorso” gli organi vitali si raffreddano sempre più, esponendovi maggiormente al rischio di ipotermia. La neve deve essere sempre sciolta prima di essere bevuta se non si vuole rischiare il drastico abbassamento della temperatura corporea.

In presenza o in caso di attacco di un orso, fingersi morti

C’è orso e orso: fingendosi morti, un grizzly potrebbe decidere di ignorarvi e allontanarsi se accompagnato da cuccioli, ma altre specie di orsi, come l’ orso nero o alcuni orsi asiatici, potrebbero ignorare il vostro bluff e attaccarvi.

Se non si dispone di spray anti-orso o di un’arma da fuoco, la soluzione “migliore” è quella di fare un gran baccano nel tentativo di confondere o intimidire l’animale, evitando a tutti i costi il contatto visivo che potrebbe essere interpretato come una sfida.

Non tentate di scappare a meno che non abbiate un rifugio sicuro nelle immediate vicinanze o un piano di fuga realmente efficace: non è possibile battere un orso in velocità e gli orsi neri sono anche buoni arrampicatori di alberi.

Razionare l’acqua

acqua e sopravvivenza

In un deserto dal caldo africano, l’acqua è l’elemento di primaria importanza e deve essere gestita con attenzione per evitare gli sprechi.

Ma bere 2-3 volte al giorno piccole quantità d’acqua rimanendo costantemente a “bassa energia” e sull’orlo della disidratazione non ha molto senso e porta ad affaticamenti e rischi eccessivi; perché non idratarsi per bene, riportando il corpo allo stato di normalità e comportarsi in modo intelligente?

I due elementi fondamentali per utilizzare al meglio l’acqua a nostra disposizione sono il tempismo e l’ombra: trovate un posto protetto dai raggi diretti del sole, bevete la giusta quantità d’acqua per idratarvi al meglio e riservate gli spostamenti o il lavoro alle ore notturne.

Un fuoco è meglio di un riparo

Il fuoco non può proteggervi dal vento, dalla pioggia o dalla neve, tra le peggiori cause di ipotermia. Ma il vero nemico è il terreno: sedendo o dormendo a contatto con il terreno si disperde una quantità immensa di calore.

La chiave di un rifugio improvvisato è “stare lontani dal terreno”: è preferibile una sorta di letto rialzato senza alcun tetto che un riparo che vi costringerà a dormire a contatto con il terreno.

Un tetto degno di tale nome è un’attività che richiede tempo, una risorsa che in situazioni d’emergenza non abbonda: meglio spendere il proprio tempo costruendo un riparo improvvisato sollevato dal terreno, un fuoco, e se avanza tempo dedicarsi alla costruzione di un tetto.

Dead Wrong: 26 Survival Myths That Can Get You Killed

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Come si preparano all’inverno gli animali? https://www.vitantica.net/2017/12/14/sopravvivenza-inverno-animali/ https://www.vitantica.net/2017/12/14/sopravvivenza-inverno-animali/#respond Thu, 14 Dec 2017 21:00:49 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1095 La domanda potrà apparire banale: tutti sappiamo che alcuni animali vanno in letargo mentre altri si spostano in cerca di climi più caldi; la realtà è come sempre più articolata, bizzarra e interessante.

Alcune strategie per la sopravvivenza invernale nate nel regno animale si sono rivelate così efficaci da essere imitate per migliaia di anni anche dall’essere umano:

  • Migrazione: durante la fase da cacciatore-raccoglitore, l’uomo tendeva a compiere regolari spostamenti stagionali per rendere più semplice la vita durante l’inverno;
  • Adattamento: le risorse alimentari invernali sono differenti da quelle estive e generalmente più scarse. I nostri antenati furono costretti quindi a cambiare la loro dieta in base alla stagione;
  • Scorte di cibo: l’accumulo di provviste durante le stagioni più calde consente di superare l’inverno continuando a mantenere la propria dieta, primaverile o estiva

Altre strategie per superare l’inverno sono invece direttamente connesse alla fisiologia di alcuni animali e difficilmente replicabili dall’ uomo: l’organismo umano non è “cablato” per il letargo o la diapausa e per ovvie ragioni non può sopravvivere nel minuscolo ecosistema che si sviluppa tra lo strato nevoso e il terreno.

Adattamento fisico e comportamentale
 pelliccia estiva e invernale
Differenza tra pelliccia estiva e invernale dell’ermellino

Per sopravvivere all’inverno, molti animali si adattano alle condizioni climatiche stagionali modificando la loro dieta o utilizzando altre strategie: alcuni accumulano riserve di grasso o sviluppano una spessa pelliccia per far fronte alle basse temperature invernali, altri invece cambiano totalmente le loro abitudini alimentari basando la loro dieta sulle scarse risorse disponibili; altri ancora modificano le loro tecniche di caccia o cambiano il colore del manto per camuffarsi meglio nell’ambiente che li circonda.

Gli animali che rimangono attivi durante l’inverno sono spesso forniti di sistemi di conservazione del calore: alcuni uccelli e mammiferi sono dotati di un meccanismo interno che riduce il sangue diretto verso le estremità allo scopo di diminuire il calore disperso.

Più ci si sposta verso Nord, più la pelliccia invernale di molti mammiferi tende ad allungarsi e a disporsi a strati isolanti di diversa lunghezza che trattengono l’aria riscaldata dal calore corporeo, limitando il rischio di ipotermia.

Come l’essere umano, l’arrivo dell’inverno costringe molto animali che non vanno in letargo a svolgere alcune opere di ristrutturazione della loro tana invernale: alcuni scavano nuove camere sotterranee specificamente progettate per mantenere stabile la temperatura, altri riempiono le loro residenze di materiali isolanti come muschio o foglie.

Migrazione invernale

Animali migratori inverno

Quando la temperatura inizia ad abbassarsi e i primi segni del gelo invernale fanno la loro comparsa, alcuni animali decidono di intraprendere una migrazione nella speranza di raggiungere climi più caldi dove trascorrere i mesi invernali, talvolta superando ostacoli potenzialmente letali e superando enormi distanze.

Molti uccelli sono noti per le loro migrazioni, come il rondone maggiore (Tachymarptis melba) che trova una compagna e si riproduce in Svizzera durante l’estate per poi migrare verso l’Africa occidentale prima che sopraggiunga l’inverno.

Una delle migrazioni più spettacolari è invece quella della farfalla monarca nordamericana (Danaus plexippus): durante la migrazione che precede l’inverno, oltre 14 milioni di farfalle monarca migrano verso una piccola valle messicana a 3.000 metri di altitudine per trascorrere l’inverno lontane dai rigori invernali del Nord America.

Tra gli animali migratori ci sono innumerevoli specie di insetti, pesci, uccelli e mammiferi. I grandi mammiferi del Serengeti compiono regolarmente una migrazione stagionale in cerca di pascoli verdi e climi meno torridi: ogni anno, quasi 2 milioni di gnu si spostano in massa accompagnati da centinaia di migliaia di gazzelle, antilopi e zebre.

Nascondersi sotto la neve

subnivium invernale

Animali ed esseri umani nativi delle regioni temperate notarono velocemente che la neve non è soltanto un ostacolo, ma può essere sfruttata per convivere con la durezza del gelo invernale: la neve può essere utilizzata per realizzare uno strato isolante, come dimostrano gli igloo degli Inuit canadesi.

In natura, tra la neve e il terreno sottostante esiste in realtà un vero e proprio ecosistema chiamato subnivium in cui sopravvivono o prosperano invertebrati, piccoli mammiferi e addirittura animali a sangue freddo come alcuni rettili e anfibi.

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Il subnivium è un microclima relativamente caldo e isolato tutt’altro che immobile: oltre ai piccoli animali che vanno il letargo o in ibernazione, decine e decine di altre specie cacciano e socializzano in questo ambiente protetto dal gelo invernale.

Alcuni predatori invernali di taglia media o piccola come i gufi o le volpi possono percepire il movimento dei piccoli mammiferi che si spostano nel subnivium, mentre l’ermellino caccia attivamente penetrando in questo ecosistema e seguendo le tracce odorose lasciate dalle sue prede.

Antigelo naturale
rana lignea antigelo invernale
Rana sylvatica. Photo by Drew R. Davis.

La rana lignea (Rana sylvatica) è comune in tutta l’ America settentrionale. Le sottospecie dell’ Alaska devono tuttavia affrontare temperature molto più rigide delle loro cugine che vivono più a Sud, specialmente durante l’inverno quando il termometro rimane quasi costantemente sotto i -20°C.

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Anche se le rane lignee si rifugiano in buchi nel terreno o nel subnivium per superare all’inverno, spesso questa strategia non è sufficiente per sopravvivere al gelo dell’Alaska: le rane lignee sono quindi costrette ad utilizzare urea e glucosio per creare una sorta di antigelo naturale che consente a questi anfibi di sopravvivere fino alla primavera anche se il 65% della loro acqua corporea dovesse congelare.

Fare provviste
Scoiattolo rosso e scoiattolo grigio nordamericano (Sciurus carolinensis)

Questa strategia è di solito adottata da tutti gli animali che non entrano in uno stato di quiescenza, ma che sopravvivono grazie a fonti di cibo non più disponibili durante l’inverno.

L’esempio perfetto di questa strategia di sopravvivenza all’inverno è lo scoiattolo: questo animale non è capace di digerire la cellulosa e si è quindi adattato a nutrirsi principalmente di proteine, carboidrati e grassi contenuti in ghiande, noci, funghi, bacche e frutta, alimenti non disponibili durante la stagione più fredda. Non andando in letargo, lo scoiattolo deve quindi fare provviste di cibo nei mesi temperati per poter superare l’inverno.

Vita latente

ghiro in letargo

Lo stato di vita latente è una condizione in cui un animale riduce al minimo ogni processo metabolico allo scopo di preservare energie. La vita latente si presenta sotto varie forme, dal sonno profondo e ininterrotto lungo mesi interi fino all’ibernazione dei vertebrati a sangue freddo.

Il letargo, tipico dei mammiferi, prevede l’immobilità quasi totale e nessuna assunzione di cibo o liquidi. Il battito cardiaco si riduce fino a 1-2 pulsazioni al minuto, il grasso corporeo viene utilizzato per rifornire l’organismo di nutrienti e liquidi e il metabolismo rallenta ad una frazione del suo ritmo normale.

In base alla specie d’appartenenza, l’animale in letargo può rimanere immerso in un sonno profondo per tutto l’arco dell’inverno oppure svegliarsi a intervalli irregolari per poi tornare a dormire (come l’ orso bruno).

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L’ ibernazionesvernamento è invece un meccanismo spesso sfruttato dai vertebrati a sangue freddo come rettili, anfibi e pesci. Non si tratta di un sonno profondo, ma di un intorpidimento duraturo dovuto all’abbassamento della temperatura corporea.

Nel mondo degli insetti è comune la diapausa, una specie di letargo tipica anche di alcune specie di crostacei e lumache. Durante la diapausa l’animale non si alimenta e rimane in assoluta immobilità, una condizione simile alla quiescenza dei mammiferi ma in cui l’organismo blocca ogni tipo di crescita cellulare.

Letargo e Vita Latente

Eight ways that animals survive the winter

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Freddo e ipotermia https://www.vitantica.net/2017/09/07/freddo-ipotermia/ https://www.vitantica.net/2017/09/07/freddo-ipotermia/#respond Thu, 07 Sep 2017 17:55:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=211 Quali sono gli effetti del freddo sul corpo umano? Niente di piacevole, a meno che non siate nell’ultimo stadio dell’ipotermia, quando il vostro corpo vorrebbe soltanto abbandonarsi ad un sonno senza risveglio e ogni sensazione tattile o dolore sono svaniti.

Reazioni comuni al basse temperature

La riduzione della temperatura corporea di base, che normalmente va dai 36,5 ai 37,5°C, comporta un rallentamento delle funzioni metaboliche e muscolari. Provate ad allacciarvi le scarpe a -26°C e vi renderete conto che anche la più semplice delle operazioni risulterà essere difficile, se non addirittura tragicomica (sempre che abbiate lo spirito necessario per ridere).

Un’altra reazione molto comune all’esposizione a temperature rigide è la necessità di urinare. Il freddo riduce il flusso di sangue nella pelle, restringendo i vasi sanguigni superficiali per evitare di disperdere calore e per proteggere gli organi interni. Questo si traduce con un aumento della pressione sanguigna, che porta il vostro organismo a volersi liberare dei fluidi corporali.

L’ ipotermia

Una volta che la vostra temperatura corporea scende sotto i 35°C, ecco che subentra l’ ipotermia, generalmente suddivisa in tre diversi stadi:

35-32°C: leggera ipotermia. Il corpo inizia a tremare, la sensazione di freddo inizia a farsi fastidiosa (specialmente per mani e piedi, che sembrano trafitti da minuscoli aghi), si ha difficoltà ad eseguire azioni complesse con le mani e la coordinazione motoria generale si riduce.

32-30°C: moderata ipotermia. Il corpo trema intensamente, la coordinazione dei movimenti diminuisce ulteriormente, si inizia ad essere confusi, si ha difficoltà a parlare e a pensare lucidamente, usare le mani diventa un’impresa ardua. Dita, orecchie e labbra possono diventare blu.

Sotto i 30°C: severa ipotermia. Non si trema più, ma la pelle si gonfia e assume una colorazione blu. La coordinazione nei movimenti è quasi totalmente assente, non si riesce a camminare, si è confusi e irrazionali, il battito cardiaco e il ritmo respiratorio rallentano sempre più fino ai limiti della sopravvivenza.

Man mano che si procede verso i 28°C, il battito cardiaco e il respiro sono così irregolari che può essere difficile percepire le pulsazioni. Il vostro corpo vuole soltanto morire, e probabilmente siete già quasi morti, dato che se scendete a 25°C c’è ben poca speranza che possiate sopravvivere, anche con un tempestivo e adeguato trattamento.

Effetti dell'ipotermia a varie temperature
Effetti dell’ipotermia a varie temperature e consigli sul trattamento
Dispersione di calore

La perdita di calore è accelerata da diversi fattori:

  • Acqua: l’acqua contribuisce a raffreddare il corpo umano molto più velocemente di quanto non faccia la sola aria. L’acqua raffredda l’organismo 25 volte più velocemente di quanto possa fare un ambiente asciutto. Rimanere asciutti, quindi, equivale a rimanere vivi: indossare vestiti bagnati accelera di cinque volte la dispersione di calore.
  • Vento: il vento complica ulteriormente le cose. Ad una temperatura di 0°C, un flusso d’aria a 16 km/h vi farà percepire una temperatura di 5 gradi più bassa. Man mano che la velocità del vento aumenta, la temperatura diminuisce: con un vento a 50 km/h e una temperatura di ambientale di 0°C, il vostro corpo si raffredderà come se si trovasse a -8°C. (utilizzate il calcolatore che trovate qui: Wind Chill Chart)
  • Sudorazione: la sudorazione è un meccanismo che il corpo umano ha sviluppato per ridurre la temperatura interna ed evitare danni irreparabili all’organismo in caso di surriscaldamento. Il problema è che, a basse temperature, la sudorazione contribuisce a disperdere il calore corporeo e si aggiunge agli altri fattori che portano all’ipotermia.
Ulteriori fattori che contribuiscono all’ipotermia

Sfatiamo un mito: “l’alcool contribuisce a scaldarsi“. Se vi trovate in ambienti freddi, l’ultima cosa che vorrete fare è bere alcool. Anche se l’effetto degli alcolici fornisce un’illusoria sensazione di caldo temporaneo, in realtà non fa altro che contribuire alla dilatazione dei vasi sanguigni e favorire l’afflusso di sangue verso la pelle, accelerando il raffreddamento del vostro corpo.

Ogni anno, nei soli Stati Uniti, muoiono circa 600 persone per ipotermia. Di questi centinaia di casi, dal 33% al 73% sono legati all’assunzione di alcool.

Altra cosa da evitare in situazioni a rischio di ipotermia è l’assunzione di caffeina, perché ha un effetto diuretico e favorisce la disidratazione. Meno siete idratati, più il vostro corpo risentirà degli effetti del gelo. Se poi vi mettete a sudare, ricoprirete la vostra pelle di gocce d’acqua che accelereranno il raffreddamento.

Volete vedere in azione i sintomi di un’ ipotermia al primo stadio? Guardate il video qui sotto: un uomo si mette di proposito in uno stato di leggera ipotermia, per dimostrarne gli effetti.

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I geloni

Freddo non vuol dire soltanto ipotermia. Un altro serio rischio è rappresentato dai geloni, un congelamento della pelle e dei tessuti sottostanti che si verifica specialmente nelle estremità (naso, orecchie, mani e piedi).

La pelle inizia a farsi pallida a causa della vasocostrizione provocata dalle basse temperature. Meno sangue a pelle e tessuti si traduce progressivamente in morte cellulare: la pelle si desquama, si spacca e necrotizza.

I geloni, come per le ustioni, vengono classificati in gradi:

Primo grado: congelamento superficiale della pelle. Durante il primo stadio si percepisce dolore, alcune zone della pelle diventano bianche, rosse o gialle. I geloni di primo grado non provocano danni permanenti.

Secondo grado: necrosi dell’epidermide e formazione di bolle. La pelle diventa dura e iniziano a svilupparsi vesciche 1-2 giorni dopo l’inizio del congelamento. La guarigione avviene in circa un mese, ma le zone interessate potrebbero diventare permanentemente insensibili al caldo e al freddo.

Terzo e quarto grado: piaghe nere e necrosi profonda del derma. Muscoli e tendini vengono colpiti dal congelamento, e iniziano a morire. I nervi subiscono danni permanenti, e può essere necessario procedere con l’amputazione per arrestare la cancrena dei tessuti.

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