Utensili e contenitori – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il Turco, l’automa che giocava a scacchi https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/ https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/#respond Mon, 09 Nov 2020 00:14:46 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4994 Nel 1770, l’inventore ungherese Wolfgang von Kempelen svelò al mondo un prodigio della meccanica: Il Turco, un automa in grado di giocare a scacchi. La macchina di von Kempelen non solo poteva accorgersi delle eventuali irregolarità messe in atto dal giocatore avversario, ma anche competere con i più abili scacchisti della corte di Maria Teresa d’Austria.

Il Turco girò l’Europa e le Americhe per oltre 80 anni, incontrando Napoleone e Franklin, e battendo avversari umani con strategie basate su versatilità e creatività. Per quasi un secolo, il mondo si convinse che un automa e il suo creatore fossero riusciti a riprodurre una sorta di intelligenza evoluta, impensabile per la scienza del XVIII e XIX secolo.

Breve riepilogo degli automi meccanici nella storia

Il concetto di automa meccanico, una realizzazione artificiale in grado di eseguire azioni ed elaborazioni in modo del tutto autonomo, non è recente: il termine deriva dal termine greco automatos (“che agisce di propria volontà”), e già in epoca ellenistica venivano costruiti giocattoli meccanici o attrezzature meccanico-idrauliche.

Ctesibio, Filone di Bisanzio, Archita ed Erone furono i più noti costruttori di automi nell’antica Grecia. Contemporaneamente a loro, nel III secolo a.C., il Libro del Vuoto Perfetto cinese riporta la descrizione dell’automa realizzato dall’ingegnere meccanico Yan Shi:

«Il re rimase stupito alla vista della figura. Camminava rapidamente, muovendo su e giù la testa, e chiunque avrebbe potuto scambiarlo per un essere umano vivo. L’artefice ne toccò il mento e iniziò a cantare perfettamente intonato. Toccò la sua mano e mimò delle posizioni tenendo perfettamente il tempo… Verso la fine della dimostrazione, l’automa ammiccò e fece delle avance ad alcune signore lì presenti, il che fece infuriare il re che avrebbe voluto Yen Shih giustiziato sul posto ed egli, per la paura mortale, istantaneamente ridusse in pezzi l’automa al fine di spiegarne il suo funzionamento. E, in effetti, dimostrò che l’automa era fatto con del cuoio, del legno, della colla e della lacca, bianco, nero, rosso e blu. Esaminandolo più da vicino il re vide che erano presenti tutti gli organi interni: un fegato completo, una cistifellea, un cuore, dei polmoni, una milza, dei reni, lo stomaco ed un intestino. Inoltre vide che era fatto anche di muscoli, ossa, braccia con le relative giunture, pelle, denti, capelli, ma tutto artificiale… Poi il re fece la prova di togliergli il cuore e osservò che la bocca non era più in grado di proferir parola. Gli tolse il fegato e gli occhi non furono più in grado di vedere; gli tolse infine i reni e le gambe non furono più in grado di muoversi. Il re ne fu deliziato.»

Questa macchina straordinaria (se davvero esistita) è l’espressione della costante curiosità umana nei confronti della vita artificiale. Nei secoli successivi non mancarono grandi inventori arabi, cinesi ed europei che, secondo le fonti, furono in grado di realizzare oggetti in grado di muoversi, animali artificiali e automi umanoidi apparentemente in grado di spostarsi secondo il comando del loro creatore.

Lu Ban, uno dei più celebri inventori della storia cinese, e Archita dopo di lui, pare fossero riusciti a costruire automi volanti di legno, come riportano diverse fonti autorevoli dell’epoca. Secondo Aulo Gellio, Archita fu capace di costruire un uccello meccanico in grado di volare per 200 metri (probabilmente grazie alla spinta propulsiva del vapore).

Jabir ibn Hayyan, alchimista del VIII secolo, si dichiarava in grado di costruire serpenti, scorpioni e umanoidi in grado di eseguire operazioni a comando; il Libro dei dispositivi ingegnosi (IX secolo) dei tre fratelli Banū Mūsā, tra i più grandi innovatori e inventori del loro tempo, racconta del primo automa flautista programmabile, basato sui concetti alla base dell’organo ad acqua.

La paternità del primo automa programmabile è stata comunque assegnata ad Al-Jazari, autore dell’opera “Compendio sulla teoria e sulla pratica delle arti meccaniche” e vero innovatore nel campo della meccanica. Realizzò una nave che ospitava 4 automi umanoidi che potevano eseguire diversi brani pre-programmati; ad ogni brano, i quattro musicisti meccanici eseguivano combinazioni espressive composte da oltre 50 movimenti facciali o degli arti.

Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons
Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons

Nel Rinascimento il concetto di automa divenne uno dei temi centrali della meccanica del tempo: Leonardo da Vinci progettò un cavaliere in armatura capace di muoversi sul posto, e i giardini europei si riempirono di congegni semi-automatici pneumatici o idraulici. Ma fu con il meccanicismo cartesiano che gli automi divennero ancora più complessi e bizzarri, come l’ “anatra digeritrice” (1737) di Jacques de Vaucanson, un automa in bronzo che sembrava digerire e defecare il cibo che ingeriva.

Fu proprio in questo periodo, nella seconda metà del 1700, che Wolfgang von Kempelen realizzò il Schachtürke, o più semplicemente “Il Turco”, un automa capace di giocare a scacchi, e risultare abile e competitivo, contro un avversario umano.

Il Turco

L’idea di realizzare un automa complesso e stupefacente nacque da un incontro, avvenuto nel 1769, tra Kempelen e François Pelletier alla corte di Maria Teresa d’Austria. Pelletier era considerato uno dei più abili illusionisti francesi del suo tempo, ed era noto per utilizzare grandi quantità di magneti per eseguire i suoi giochi di prestigio; Kempelen era convinto tuttavia di poter fare meglio, e promise di tornare alla corte con un’invenzione in grado di superare ampiamente tutte le illusioni di Pelletier.

Il Turco fece il suo debutto di fronte a Maria Teresa l’anno successivo, circa sei mesi dopo l’esibizione di Pelletier. Prima di mostrarne il funzionamento, Kempelen mostrò a tutti i presenti che i cassetti e gli sportelli della sua macchina contenevano esclusivamente ingranaggi, lasciando che fosse l’audience stessa ad assicurarsene.

Dopo l’ispezione, Kempelen dichiarò che la sua macchina era pronta a sfidare chiunque nel gioco degli scacchi, usando i pezzi bianchi e riservandosi il “diritto” alla prima mossa sulla scacchiera. La macchina si dimostrò incredibilmente capace, non solo nel gioco ma anche nel rilevare mosse irregolari.

Se l’avversario eseguiva una mossa irregolare, il Turco scuoteva la testa in segno di disapprovazione, muovendo poi il pezzo alla sua posizione originale. Lo scrittore Louis Dutens, presente durante l’esibizione, tentò di ingannare la macchina muovendo la regina come un cavallo, ma si vide rifiutare la mossa e riposizionare il pezzo nella sua casella di partenza.

Volantino dell'esibizione del Turco. Wikimedia Commons
Volantino dell’esibizione del Turco. Wikimedia Commons

Il Turco sconfisse tutti coloro che tentarono di batterlo in un tempo massimo di 30 minuti, compresi coloro con esperienza nel gioco degli scacchi. L’automa fu anche in grado di completare il “percorso del cavallo”, un problema matematico-scacchistico in cui un cavallo deve toccare ogni casella della scacchiera senza passare due volte per lo stesso punto.

La caratteristica più strabiliante del Turco era la sua capacità di conversare in inglese, francese e tedesco con gli spettatori e l’avversario usando una tavoletta. Inutile dire che ogni matematico e ingegnere del tempo furono estremamente colpiti dall’invenzione di Kempelen, alcuni a tal punto da tenere un diario delle conversazioni avute con il Turco, come fece il matematico Carl Friedrich Hindenburg.

Il Turco ebbe meno successo scacchistico in Europa, non per scarso interesse (in molti volevano sfidarlo) ma perché Kempelen, ad ogni occasione utile per esibirlo, escogitava una scusa per non farlo. Tra il 1770 e il 1780 il Turco giocò solo una partita con Sir Robert Murray Keith, e il suo inventore ripeteva in continuazione che la macchina fosse soltanto una sorta di passatempo, niente di così rilevante.

Dopo il match con Murray Keith, Kempelen smontò completamente la sua macchina, ma per ordine imperiale fu costretto a ricostruirla per esibirla durante la visita del Granduca di Russia. La macchina suscitò così tanto interesse da costringere Kempelen ad iniziare un tour europeo nel 1783.

A Versailles il Turco perse la sua prima partita contro Charles Godefroy de La Tour d’Auvergne, e le sconfitte continuarono ad accumularsi una volta giunto a Parigi, dove fu sconfitto da diversi scacchisti locali e da François-André Danican Philidor, considerato il miglior scacchista del suo tempo.

A Londra, il Turco e Kempelen incontrarono Philip Thicknesse, il primo ad avanzare pubblicamente sospetti sul funzionamento della macchina. Thicknesse descrisse il turco come una truffa molto elaborata che sfruttava una macchina complicata per nascondere un bambino capace di giocare a scacchi.

Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons
Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons

Anche Edgard Allan Poe nutrì diversi dubbi sul reale funzionamento automatico della macchina. Se il Turco fosse una macchina pura, obiettò Poe, vincerebbe ogni partita; dopo averci riflettuto, anche lo scrittore giunse alla conclusione che ci fosse un operatore umano all’interno dell’automa.

La scoperta dell’inganno

Dopo la morte di Kempelen, il Turco fu acquistato nel 1805 dal musicista bavarese Johann Nepomuk Mälzel, che proseguì con i tour per l’Europa dopo aver appreso il segreto del funzionamento della macchina ed effettuato alcune riparazioni. Il tour europeo ebbe così successo da spingere Mälzel a preparare un viaggio negli Stati Uniti, viaggio che si rivelò un vero successo.

Gli scettici sul reale funzionamento autonomo del Turco non mancarono, ma le descrizioni che fornirono sul presunto funzionamento della macchina erano incorrette e basate solo su una semplice osservazione esterna del congegno. Fu solo nella seconda metà del 1800 che il segreto del turco fu rivelato in un articolo pubblicato sulla rivista “The Chess Monthly“.

Nel 1854 il Turco bruciò in un incendio scoppiato nel Chinese Museum di Charles Willson Peale, dove era ospitato, e il figlio del suo precedente possessore, Silas Mitchell, ritenne che fosse il momento adatto per svelare il segreto dell’automa.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

L’interno del Turco era composto da meccanismi molto complessi studiati per attirare l’attenzione dell’osservatore e distrarre dal vero funzionamento della macchina. La sezione a sinistra era studiata in modo tale da mostrare l’interno della macchina tenendo segreta la parte destra, in cui risiedeva il giocatore umano che manovrava l’automa.

L’abitacolo era provvisto di un cuscino e consentiva una visuale completa della scacchiera e dell’avversario. Il manichino di un turco ottomano, con tanto di tunica, turbante e pipa nella mano sinistra, nascondeva due porte che ospitavano altri ingranaggi; la macchina era pensata per illudere gli spettatori che non ci fosse alcun trucco, e che la sua capacità di gioco fosse totalmente attribuibile alla meccanica interna.

La scacchiera era sufficientemente sottile da consentire il movimento dei pezzi tramite magneti. Ogni pezzo era dotato di un piccolo magnete alla base che si attaccava ad un magnete sotto la scacchiera corrispondente alla casella in cui era posizionato, in modo tale da dare un quadro completo della partita al giocatore nascosto nella macchina.

Nel vano nascosto era presente anche una sorta di pantografo che consentiva di manovrare il braccio sinistro del Turco. Muovendo il pantografo sul una scacchiera interna, il braccio si spostava nella posizione corrispondente della scacchiera esterna. Il braccio poteva muoversi in alto e in basso, e afferrare pezzi sulla scacchiera; durante questi movimenti, alcuni ingranaggi facevano rumore per dare l’impressione che l’automa si stesse muovendo solo grazie alla sua meccanica interna.

Ma chi era lo scacchista nascosto all’interno del Turco? Nessuno lo sa. L’ipotesi ritenuta più credibile è che Kempelen reclutasse giovani scacchisti ad ogni tappa del suo viaggio, istruendoli velocemente sul funzionamento della macchina e lasciando che la meccanica interna li nascondesse da un’attenta ispezione.

The Mechanical Chess Player That Unsettled the World
The Turk
The Turk (Automaton)
Debunking the Mechanical Turk Helped Set Edgar Allan Poe on the Path to Mystery Writing

]]>
https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/feed/ 0
Il nilometro egiziano https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/ https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/#respond Tue, 16 Jun 2020 07:15:45 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4874 Per le antiche popolazioni che vivevano lungo il Nilo, le inondazioni stagionali erano una vera e propria benedizione. Il fiume riempiva d’acqua e limo i terreni nei pressi delle sponde, fertilizzandoli e consentendo il mantenimento di un’economia agricola sufficientemente sviluppata da alimentare faraoni e persone comuni.

Ogni inondazione significava vita: vita per i raccolti, vita per la fauna e la flora che sopravvivevano in un clima arido come quello nordafricano. Inondazioni scarse, tuttavia, si traducevano in raccolti magri e un’economia agricola sensibilmente rallentata; lo stesso valeva per inondazioni dalla portata eccessiva e distruttiva.

Per questo motivo gli Egizi e i popoli che vennero dopo di loro hanno sempre considerato fondamentale il saper prevedere con accuratezza le future inondazioni del Nilo; per farlo, si servirono dei nilometri (noti come miqyas).

Le inondazioni del Nilo

Le inondazioni stagionali del Nilo hanno origine negli altipiani etiopi. Tra giugno e novembre, le abbondanti precipitazioni degli altipiani si riversano nel Nilo Azzurro, uno dei due principali affluenti del Nilo.

Nella stagione delle piogge il Nilo accumula acqua anche grazie ad altri affluenti, come il fiume Atbarah, il Sobat e il Nilo Bianco, riversando più a nord quantità immense di acqua e sedimenti.

Questo complesso sistema di piogge stagionali e affluenti era del tutto sconosciuto agli Egizi, che si limitavano ad osservare il cambiamento del livello del Nilo senza tuttavia conoscerne le vere ragioni. Tramite l’osservazione attenta del fiume, gli Egizi riuscirono comunque ad individuare i segni precursori di un’inondazione.

Il Nilo era così importante per gli Egizi da portarli a dividere l’anno in tre stagioni: Inondazione (Akhet), Crescita (Peret) e Raccolta (Shemu). La stagione delle inondazioni era così stabile e prevedibile che gli Egizi erano in grado di calcolare il suo inizio osservando il moto della stella Sirio.

La prima osservazione sul livello del fiume all’inizio della stagione delle inondazioni avveniva ad Assuan, nei pressi delle cateratte del Nilo, intorno al mese di giugno. Le acque continuavano a salire fino all’inizio di settembre, momento in cui generalmente si mantenevano stabili per circa 2-3 settimane per poi risalire tra ottobre e novembre, mesi che segnavano il picco del volume d’acqua.

Assuan era una sorta di postazione-vedetta che metteva in allerta il resto dell’ Egitto: le inondazioni raggiungevano la città circa una settimana prima del Cairo, alzando il livello delle acque fino a oltre 13 metri; una volta risalita più a nord, l’inondazione perdeva intensità e, giunta al Cairo, aveva un livello medio di 7,5 metri.

Le inondazioni stagionali del Nilo erano ciò che rendeva fertile l’arido terreno egizio, ma potevano anche portare a distruzione o carestie: secondo i resoconti stilati tra l’anno 622 e l’anno 1000, le inondazioni di scarsa intensità si verificavano 1 volta ogni 4 anni, esponendo l’intera popolazione al rischio di fame.

Raccolti e tasse

Una scarsa inondazione del Nilo poteva mettere letteralmente in ginocchio le economie fluviali presenti lungo le sue sponde; lo stesso valeva per un’inondazione particolarmente intensa, capace di devastare i raccolti dell’anno. Prevedere l’intensità delle inondazioni rappresentava quindi un’abilità di importanza strategica per le economie che si erano sviluppate lungo il Nilo.

Essendo una civiltà ben strutturata, anche quella egizia aveva in cima alla piramide sociale alcune classi non produttive dal punto di vista economico, come sacerdoti, governanti locali e faraoni.

Gli esponenti di queste classi privilegiate vivevano letteralmente sulle spalle delle classi produttive grazie ad un sistema di tassazione, meno complesso del nostro ma non per questo meno interessante. Questo sistema si basava principalmente sul calcolo dei tributi in base alla terra posseduta e al raccolto prodotto, due elementi strettamente legati all’attività del Nilo.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Nessuna famiglia contadina il cui campo abbia goduto di un’ottima annata grazie al Nilo è contenta di cedere una parte del raccolto come tributo ai potenti; la stessa famiglia potrebbe reagire in modo spiacevole (e con essa tutte le altre nelle stesse condizioni) se si esige da essa lo stesso tributo anche nelle annate peggiori.

Il nilometro era lo strumento utilizzato per calcolare “equamente” i tributi dell’anno corrente. Se il nilometro locale avesse registrato un livello delle acque del Nilo troppo basso, presagio di inondazioni scarse e potenziali carestie, le tasse sarebbero state abbassate rispetto ad una normale stagione d’inondazione.

Lo stesso valeva nel caso di livello delle acque troppo alto: inondazioni troppo intense avrebbero distrutto i raccolti e le strutture fondamentali per la vita quotidiana della gente comune.

Il nilometro

Nel corso della storia sono esistiti tre fondamentali tipologie di nilometro, alcune sopravvissute fino ad oggi come testimonianza dell’ingegno locale. Il primo tipo è sostanzialmente una colonna di pietra o marmo sorretta in verticale da una trave di legno in cima e posizionata all’interno di un pozzo.

La colonna veniva suddivisa in cubiti (un cubito equivale a circa 58 centimetri) incidendo una serie di tacche: l’altezza dell’acqua in cubiti forniva una buona indicazione del livello futuro del Nilo e della portata delle inondazioni in arrivo.

Nilometro di Rawda
Nilometro di Rawda

Il livello ideale delle acque nel nilometro di Rawda, realizzato secondo questo design, era intorno ai 16 cubiti; un livello inferiore poteva indicare un periodo di crisi dovuto a scarse inondazioni, mentre un livello superiore ai 19 cubiti era presagio di inondazioni catastrofiche in grado di distruggere campi e abitazioni.

All’avvicinarsi delle inondazioni, i sacerdoti incaricati di monitorare il flusso del Nilo scendevano sul fondo del nilometro usando una scalinata ed esaminavano la colonna per calcolare la portata delle future inondazioni.

Il nilometro era un luogo ad accesso riservato: solo i governanti locali, i sacerdoti e i faraoni potevano avere accesso alla struttura, spesso collocata all’interno di un tempio. La previsione delle inondazioni del Nilo era un’abilità che la politica sfruttava a suo vantaggio per calcolare la tassazione e impressionare le masse.

Il secondo tipo di nilometro, come quello visibile sull’Isola Elefantina, era costituito invece da una lunga scalinata (52 scalini nel caso di Elefantina) che scendeva direttamente sul fiume e provvista di indicatori che segnalavano il livello delle acque. Il nilometro di Elefantina era spesso uno dei primi a fornire previsioni sulle inondazioni, dato che si trovava presso il confine meridionale.

Nilometro di Kom Ombo
Nilometro di Kom Ombo

Il terzo tipo di nilometro, osservabile nel Tempio di Kom Ombo, era un sistema di canali che prelevava l’acqua dal Nilo e la depositava in una cisterna provvista di tacche. Il riempimento della cisterna forniva una buona indicazione della portata delle future inondazioni.

Diversi nilometri sono decorati da iscrizioni propiziatorie spesso ispirate da versi coranici relativi all’acqua, alla vegetazione e alla prosperità. Dai nilometri iniziavano anche alcune delle più grandi festività dell’ Egitto medievale, come il Fath al-Khalij (“Apertura del Canale”), un festival con cui si celebrava l’apertura del canale che collegava il fiume a campi e giardini.

L’importanza dei nilometri

La popolazione dell’ antico Egitto iniziò a convivere con le inondazioni cicliche del fiume circa 7.000 anni fa, architettando un ingegnoso sistema di fertilizzazione e irrigazione.

Le terre coltivabili, generalmente troppo aride prima delle inondazioni, venivano suddivise in campi circondati da dighe di terra fornite di canali d’ingresso e d’uscita. Quando il Nilo era in piena, si inondavano i campi più in alto rispetto al livello del fiume e li si lasciavano colmi d’acqua per circa 45 giorni, in modo tale da saturare d’acqua il terreno e permettere al limo di depositarsi.

Terminati i 45 giorni, venivano aperte le chiuse e l’acqua defluiva verso i campi più in basso. Al termine di questo ciclo di fertilizzazione, l’acqua tornava nuovamente nel Nilo. I campi appena svuotati venivano immediatamente arati e seminati: il raccolto sarebbe arrivato entro 3-4 mesi dalla semina.

Questo sistema agricolo è indissolubilmente legato ai capricci del Nilo: nei periodi di grandi inondazioni, le dighe venivano distrutte, il limo non riusciva a depositarsi e i campi erano sostanzialmente inutilizzabili; dopo inondazioni scarse o durante la stagione secca, era di fatto impossibile coltivare qualunque cosa. Ogni speranza di mangiare, allevare e commerciare per il resto dell’anno era quindi legata alle inondazioni stagionali e alla loro portata.

Nonostante la ristretta stagione di semina e raccolto, dopo un’inondazione di media intensità, la più frequente e desiderata dagli agricoltori egizi, era possibile sfamare dai 2 ai 12 milioni di abitanti.

Nilometer – Wikipedia
Nilometer
Exploring Nilometers in Egypt
Nilometers: Ancient Egypt’s Ingenious Invention Used Until Modern Times

]]>
https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/feed/ 0
Breve storia della rasatura e del rasoio da barba https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/ https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/#comments Mon, 30 Mar 2020 00:10:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4817 Quando è iniziata l’usanza di radersi la barba? Quale fu il primo utensile usato come rasoio? L’uso di strumenti per rasare barba e i capelli è più antico della storia scritta: nel corso dei millenni, l’essere umano è passato dall’impiego di strumenti rudimentali e poco efficaci, come bronzo e osso, a rasoi metallici sempre più affilati, resistenti ed efficaci.

Mediamente, il viso di un essere umano maschio e adulto è coperto da 25 centimetri quadrati di barba, l’equivalente ci circa 25.000 peli tra mento, guance e collo. La rimozione di questa peluria prevede l’uso di strumenti particolarmente affilati, in grado di scivolare sulla pelle con l’ausilio di acqua, creme o saponi.

In un remoto passato, tuttavia, ciò che si aveva a disposizione era pietra, ossa o metalli e leghe oggi considerate troppo “morbide” per la produzione di lame affilate e durature.

L’origine del rasoio da barba

L’atto di radersi è più antico della storia stessa. Ancora prima della nascita del rasoio, i peli facciali venivano probabilmente rimossi utilizzando due conchiglie come pinzette per estirparli, o impiegando frammenti di pietra tagliente (come la selce o l’ossidiana) o d’osso per tagliare la peluria indesiderata.

Rasoi di ossidiana prodotti da culture precolombiane in Messico
Rasoi di ossidiana prodotti da culture precolombiane in Messico

Alcune pitture rupestri raffigurano uomini con e senza barba, suggerendo la possibilità che circa 30.000 anni fa la rasatura o la rimozione della peluria facciale fosse una pratica relativamente comune. Selce e ossidiana (specialmente la seconda) possono consentire una rasatura facciale sorprendentemente efficace, anche se possono esporre al rischio concreto di tagli superficiali o incisioni più profonde della cute.

In alcune regioni asiatiche e in Medio Oriente non si usavano rasoi rudimentali, ma si eseguiva un’estirpazione dei peli corporei e facciali utilizzando fili ritorti che intrappolavano la peluria e la strappavano dalla pelle.

Fu tuttavia in Egitto che si stabilì la pratica regolare della rasatura tra le attività quotidiane di igiene personale. Lo storico greco Erodoto non mancò di far notare l’ossessione degli Egizi per l’igiene: si lavavano diverse volte al giorno e si rasavano volto e testa con regolarità, specialmente in ambito sacerdotale, dove i capelli e la barba erano considerati impuri e motivo di vergogna.

La rimozione dei capelli e della barba non era una pura questione estetica: il clima nordafricano e l’umidità del Nilo erano l’ambiente ideale per provocare irritazioni cutanee o infezioni accentuate dalla presenza di peli corporei, e un corpo glabro era generalmente più fresco di uno peloso.

Pulci e pidocchi erano inoltre molto comuni e molto difficili da combattere senza disporre di saponi specifici. La maggior parte degli Egizi non poteva permettersi unguenti e saponi profumati, e preferiva rimuovere totalmente l’ambiente ideale per i parassiti (capelli e peli) per impedire sul nascere la colonizzazione del proprio cuoio capelluto o di altre regioni del corpo più delicate.

I corredi funebri delle personalità egizie più prominenti prevedevano spesso la presenza di strumenti per la cura delle mani e dei piedi, oltre che cosmetici e rasoi da barba. Solo i contadini, gli schiavi, i criminali e i barbari portavano la barba, spesso considerata un segnale di trascuratezza e di scarsa igiene personale.

Rasoio e specchio egizi in bronzo
Rasoio e specchio egizi in bronzo

Le uniche eccezioni erano rappresentate dagli esponenti di famiglie particolarmente potenti: dato che Osiride aveva la barba, alcuni personaggi di spicco mantenevano i peli facciali come segno di vicinanza con il mondo divino.

I rasoi egizi erano generalmente in bronzo o in rame e avevano una forma ricurva, spesso a mezzaluna o a forma di piccola ascia, ma il loro utilizzo era sostanzialmente identico a quello dei rasoi moderni. Anche se più tenero del ferro o dell’acciaio, il bronzo può essere facilmente modellato per ottenere una lama sottile e tagliente, ideale per il taglio dei peli corporei.

La pietra pomice era un materiale comune per la depilazione: applicando “creme depilatorie” e sfregandola contro la pelle, eliminavano la maggior parte dei peli visibili attraverso un processo di abrasione.

Il rasoio nell’ Europa antica

Alcuni scavi condotti in tumuli funebri scandinavi risalenti al 1500-1200 a.C. hanno riportato alla luce alcuni rasoi di bronzo molto elaborati, con manici a forma di testa di cavallo. Questo suggerirebbe che anche in Europa alcune culture considerassero importante l’atto di radersi, ma questa attenzione per la rimozione dei peli facciali non era affatto condivisa da tutti.

Nella Grecia antica, ad esempio, i cittadini di sesso maschile davano molto valore alla propria barba, considerata simbolo di saggezza e di elevato status sociale. Molte divinità ed eroi greci avevano la barba (come Zeus o Ercole), e il taglio della barba era previsto solo durante periodi di lutto.

Fu durante il IV secolo a.C. che, promossa da Alessandro Magno, la rasatura iniziò a diffondersi in Grecia: secondo il condottiero macedone, la barba poteva essere usata dal nemico per afferrare un soldato durante il combattimento corpo a corpo.

Anche i Romani apprezzavano la barba, ma al contrario dei Greci cercavano di mantenerla costantemente corta e ben curata, oppure optavano per una rasatura completa. Secondo Livio, il rasoio fu introdotto a Roma durante il VI secolo a.C. dal re Tarquinio Prisco, ma ci volle oltre un secolo perché questo strumento diventasse d’uso comune tra la popolazione.

Rasoio romano in ferro datato tra il I e il V secolo d.C.
Rasoio romano in ferro datato tra il I e il V secolo d.C.

Nel III secolo a.C., i giovani romani celebravano il passaggio alla vita adulta sottoponendosi a rasatura della barba. Contrariamente a quanto facevano i Greci, era consentito lasciar crescere incolta la propria barba solo in caso di lutto.

Prima dell’introduzione del rasoio, i Romani erano soliti utilizzare pinzette metalliche, di legno o d’osso per estrarre i peli facciali uno ad uno. La rimozione della barba era una questione relativamente seria: una barba ben curata o una rasatura completa era uno degli elementi fisici che distinguevano un Romano da un barbaro o da un Greco.

I rasoi romani erano generalmente di ferro, ma la disponibilità di ossidiana e selce nei territori sotto il dominio di Roma consentiva di creare lame efficaci per la rasatura anche da pietra vulcanica o da materiale litico in grado di produrre fratture concoidi.

Sia ferro che ossidiana, tuttavia, presentano un problema cruciale: i rasoi di metallo e di pietra vulcanica rispettivamente si ossidano o tendono a frammentarsi a causa della fragilità del materiale, portando alla perdita del filo della lama ed esponendo il volto al rischio di ferite superficiali. I barbieri romani applicavano sui tagli facciali una lozione a base di sostanze profumate e tela di ragno impregnata d’olio d’oliva e aceto.

Dal Medioevo in poi

A partire dalle prime incursioni vichinghe dell’ VIII-IX secolo, la moda della rasatura cambiò di frequente. All’arrivo dei primi norreni sulle coste britanniche, gli invasori furono immediatamente accusati, tra le altre ingiurie, di essere sudici e dall’aspetto poco curato, con barbe e capelli molto lunghi.

Questo ritratto dei Vichinghi, che oggi consideriamo del tutto inaccurato, rilanciò la pratica della rasatura in tutta Europa, per distinguere gli uomini timorati di Dio dagli infedeli figli del demonio.

L’uso del rasoio rimase altalenante per secoli sotto l’influsso delle mode degli strati più elevati della società del tempo: Enrico VII viene annoverato tra i sovrani senza barba, ma Enrico VIII, suo successore, portava una barba corta e ben curata.

A partire dalla protesta di Martin Lutero, invece, alcuni protestanti iniziarono a lasciar da parte il rasoio in favore di una barba in grado di affermare la propria condivisione delle idee luterane.

Durante il Medioevo e oltre, l’uomo comune si rasava a casa con rasoi di ferro o bronzo; il rasoio rimarrà sostanzialmente immutato fino alla seconda metà del 1700. Chi poteva permetterselo, si recava da un barbiere o ne aveva uno tra la servitù domestica, ma la tecnologia a disposizione dei migliori barbieri del tempo rimaneva la stessa che l’uomo comune usava per tenere a bada la barba.

Rasoio in ferro del XV secolo
Rasoio in ferro del XV secolo

Tra il 1769 e il 1772 il barbiere francese Jean-Jacques Perret scrive “La Pogonotomie, ou L’art d’apprendre à se raser soi-même” (“Pogotomia, o l’Arte dell’Apprendere a Radersi”), un testo in cui analizza approfonditamente ogni minuzia della rasatura. Pochi anni prima, Perret aveva sviluppato il design moderno del rasoio a mano libera da barbiere, dotato di una lama estremamente affilata.

Tra i meriti di Perret c’è anche l’aver immaginato e creato il primo rasoio di sicurezza: si trattava di una lama dello stesso acciaio del rasoio a mano libera, ma incastrata in un telaio di legno per tenerla a distanza di sicurezza dalla pelle.

Il segreto dei rasoi di Perret era l’acciaio di Sheffield, un tipo di acciaio particolarmente duro e adatto alla fabbricazione di lame taglienti ideato da Benjamin Huntsman. Questo acciaio riscosse molto successo anche in Francia per la produzione di lame da barbiere.

Ben consapevole di sfondare il limite dell’età preindustriale, mi è impossibile non citare King C. Gillette, l’inventore del primo rasoio di sicurezza a lame rimovibili. Nel 1895, Gillette rivoluzionò il mercato dei rasoi creando un modello di business basato sulla vendita di milioni di lame economiche e sostituibili attaccate ad un manico venduto ad un prezzo pari o inferiore al costo di produzione.

Le vendite nel primo anno (1903) furono terribili: 51 rasoi e 168 lame. Nell’arco del secondo anno, invece, le vendite decollarono superando i 90.000 rasoi e oltre 123.000 lamette. Nel 1908, a sei anni dall’ apertura della Gillette Safety Razor Company, l’azienda possedeva fabbriche negli Stati Uniti, in Canada e in Europa; Nel solo 1915, la Gillette ha venduto 450.000 rasoi e oltre 70 milioni di lamette.

The History of Shaving – From Prehistoric Times to Modern Day
Shaving History
THE HISTORY OF SHAVING AND BEARDS
Razor
How did men in ancient times shave?

]]>
https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/feed/ 1
Experimental Archaeology Lab: il laboratorio di archeologia sperimentale della Kent State University https://www.vitantica.net/2019/11/28/experimental-archaeology-lab-il-laboratorio-di-archeologia-sperimentale-della-kent-state-university/ https://www.vitantica.net/2019/11/28/experimental-archaeology-lab-il-laboratorio-di-archeologia-sperimentale-della-kent-state-university/#respond Thu, 28 Nov 2019 00:13:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4672 I resti archeologici d’osso, di pietra o di ceramica sono risorse per nulla illimitate, spesso fragili e il più delle volte difficili da quantificare economicamente. Si tratta di oggetti che gli archeologi trattano con estremo riguardo per non compromettere la loro stabilità e consentire alle generazioni future di poter effettuare osservazioni e analisi utili a comprenderne l’utilizzo e le società che li hanno creati.

Per ottenere più informazioni da un reperto è spesso necessario, tuttavia, danneggiare queste preziose risorse archeologiche, mandando letteralmente in frantumi gli sforzi di ricerca e conservazione compiuti in precedenza.

Per evitare di rovinare preziosissimi artefatti dal valore incalcolabile, i ricercatori dell’ Experimental Archaeology Lab alla Kent State University si dedicano alla realizzazione di repliche identiche a reperti archeologici rinvenuti in ogni angolo del pianeta, in modo tale da scoprire come venivano realizzati, la loro reale efficacia e le tecnologie che portarono alla loro costruzione.

In questo modo è possibile mettere alla prova la durabilità di contenitori di terracotta, utensili di pietra, comprendere la capacità di penetrazione di proiettili e armi bianche, e ricostruire antiche tecniche ormai perdute.

Gizmodo e Atlas Obscura hanno recentemente visitato la Kent State University per filmare il lavoro dei ricercatori dell’ Experimental Archaeology Lab, un laboratorio noto per il suo lavoro di archeologia sperimentale.

Tra gli esempi di archeologia sperimentale visibili nel filmato è possibile trovare anche il “coltello di feci” menzionato in questo post.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

]]>
https://www.vitantica.net/2019/11/28/experimental-archaeology-lab-il-laboratorio-di-archeologia-sperimentale-della-kent-state-university/feed/ 0
40 anni di isolamento: Faustino Barrientos https://www.vitantica.net/2019/11/13/40-anni-isolamento-faustino-barrientos/ https://www.vitantica.net/2019/11/13/40-anni-isolamento-faustino-barrientos/#respond Wed, 13 Nov 2019 00:10:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4668 A partire dal 1965, Faustino Barrientos ha vissuto in solitudine lungo le rive del lago O’Higgins, tra Cile e Argentina. Come dimora ha costruito una casa usando un vecchio vascello da pesca ormai inutilizzabile.

Faustino ha vissuto di pastorizia per oltre 40 anni, con l’aiuto di ben poche comodità moderne. L’insediamento più vicino, Villa O’Higgins, è una piccola comunità di qualche centinaio di persone a circa 40 chilometri di distanza dalla sua casa.

Per raggiungere Villa O’Higgins, Barrientos deve intraprendere un viaggio di due giorni a dorso di cavallo, viaggio che intraprende solo una volta all’anno per vendere e acquistare bestiame.

Nel 2011, Vice ha girato un breve documentario sulla vita in isolamento di Faustino Barrientos, un uomo ormai ottantenne che si trova ad affrontare forze governative, economia, turismo e cambiamenti climatici che stanno modificando il territorio che ama.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

]]>
https://www.vitantica.net/2019/11/13/40-anni-isolamento-faustino-barrientos/feed/ 0
Il machete, arma bianca multiuso, robusta e affidabile https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/ https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/#respond Mon, 04 Nov 2019 00:10:25 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4639 Chiunque sia stato nella giungla potrà essere testimone dell’estrema utilità e versatilità di un machete. Per molti esperti di survival, un machete di buona qualità è l’unico strumento in grado di garantire la sopravvivenza in una giungla o foresta densamente popolata da vegetazione.

Definizione di machete

Il machete (chiamato cutlass nelle regioni caraibiche anglofone) può vantare numerosissime variazioni regionali e imitazioni, ma tipicamente si tratta di un’arma bianca robusta e potente lunga da 32 a 60 centimetri, dotata di una lama spessa meno di 3 millimetri in corrispondenza del dorso.

La robustezza di un machete è la sua dote primaria. Essendo uno strumento da taglio utilizzato per recidere con potenza liane e piante dal fusto di piccolo-medio diametro, la lama deve essere in grado resistere a numerosi impatti violenti.

L’affilatura di un machete è considerata un aspetto secondario, al contrario dei coltelli di precisione, in quanto la forza dell’impatto con il materiale ligneo è spesso sufficiente a causare tagli profondi.

La maggior parte dei machete vengono temprati fino a raggiungere una buona robustezza e un discreto grado di flessibilità. In questo modo potranno resistere meglio alle fratture e alla scheggiatura, saranno più facili da affilare ma saranno incapaci di trattenere per molto tempo un filo tagliente.

Il produttore di machete storicamente più celebre nell’ America Centrale fu la Collins Company: dal 1845, l’azienda specializzata in asce iniziò a produrre machete di ottima qualità, così robusti e affidabili che ancora oggi una lama di buona qualità viene definita “una Collins”.

Machete collins su invaluable.com
Machete collins su invaluable.com

A metà del 1900 la produzione su larga scala coincise con un declino dei materiali e delle tecniche di fabbricazione del machete. Oggigiorno la maggior parte dei machete fatti in serie vengono realizzati un un’unico pezzo di acciaio di spessore uniforme che viene lavorato con macchinari abrasivi lungo uno dei lati allo scopo di ottenere una lama.

Variazioni del machete

Il machete è molto simile come forma al falcione medievale, una spada corta e tozza divenuta popolare a partire dal XIII secolo. Al contrario del falcione, il machete non possiede una guardia ed è dotato di un’elsa semplice priva di protezione per la mano.

Nelle Filippine si utilizza tradizionalmente il bolo, una sorta di machete dalla lama affusolata che si allarga in corrispondenza della punta per rendere più efficiente il taglio di potenza. Il bolo viene impiegato ancora oggi nella quotidianità rurale, ma fu utilizzato anche come arma per scontri armati, come accadde durante la Rivoluzione Filippina contro le autorità coloniali spagnole.

Il Malesia e in Indonesia si usano rispettivamente il parang e il golok, armi simili al machete ma dalla lama più corta e tozza, adatte per il taglio di vegetazione legnosa.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il machete barong, comune nel Sud-est asiatico, ha invece una configurazione più affusolata, con una lama a forma di foglia. La sua punta non consente di concentrare al meglio tutta la potenza del fendente, ma è capace di creare tagli netti e precisi, oltre che perforare efficacemente.

Il kukri nepalese, anche se non viene tecnicamente considerato un machete, riveste spesso il ruolo di “abbattitore” di rami e liane. Il kukri è il coltello tradizionale dei Gurkha e l’arma da taglio d’ordinanza dell’esercito nepalese.

Il taiga è un machete multiuso di origini russe in dotazione alle forze speciali. Può fungere da machete, ascia, coltello, sega e pala grazie alla forma della lama, che si allarga verso la punta per facilitare il taglio.

L’importanza del machete nelle culture rurali

Il machete moderno è un’invenzione abbastanza recente. Prima della metallurgia industriale, fabbricare un’arma da taglio come il machete richiedeva molte ore-lavoro; la costruzione di un machete diventa di gran lunga più semplice se questo utensile viene prodotto su larga scala tramite processi meccanizzati.

Nonostante la sua “breve” vita, il machete moderno ha subito riscosso un grande successo tra i popoli che vivevano negli ambienti più inospitali della Terra, o nelle regioni rurali in cui era necessario l’impiego di uno strumento da taglio robusto e affidabile.

I cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo si adattarono molto velocemente all’uso del machete, arrivando a considerarlo uno strumento indispensabile per la vita nella natura selvaggia.

Il machete semplifica enormemente ogni lavoro che richiede l’impiego di uno strumento da taglio: è utile per il taglio di prodotti alimentari di grandi dimensioni, per sfoltire il sottobosco o per recidere le canne da zucchero. Se manovrato con perizia, può costituire un’arma bianca vera e propria, oltre che un pratico strumento da taglio in sostituzione di un’ascia o una lama da intaglio.

Gli Aka africani, ad esempio, insegnano a maneggiare il machete ai propri figli quando raggiungono questi la tenera età di 8-11 mesi. Imparando a perforare il terreno con bastoni da scavo, a scagliare piccole lance o a tagliare col machete la vegetazione del sottobosco, i piccoli Aka vengono quasi immediatamente immersi nella realtà quotidiana che vivranno durante l’adolescenza e l’età adulta, e iniziano ad affinare le abilità che garantiranno la loro sopravvivenza in futuro.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Ancora oggi molte persone che vivono nelle regioni rurali di Ecuador, Brasile e Mesoamerica usano quotidianamente il machete per ripulire i campi, tagliare legna, canne da zucchero e liane, o per lavori che richiedono una certa precisione.

Il machete e l’abilità nel manovrarlo sono sempre stati considerati un’accoppiata simbolo di mascolinità e il suo utilizzo non è limitato all’agricoltura: può rivelarsi un’arma da taglio estremamente pericolosa, come testimonia l’uso barbaro del machete durante diversi conflitti bellici e guerre civili accaduti nell’ultimo secolo.

Fonti per: “Il machete, arma bianca multiuso, robusta e affidabile”

What Is a Machete, Anyway?
Give Your Baby a Machete and Other #BabySlatePitches
LIFE HACK: USING THE MACHETE AS AN EFFECTIVE WEAPON
Machete History: The Rise of a Super Tool

]]>
https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/feed/ 0
Calabash, la zucca bottiglia https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/ https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/#respond Mon, 28 Oct 2019 00:25:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4632 La zucca calabash (Lagenaria siceraria), chiamata anche zucca a fiasco, cocozza o zucca bottiglia, è un frutto conosciuto da millenni nelle regioni tropicali e subtropicali del mondo per le sue proprietà, alimentari e non.

Sebbene non compresa nelle diete degli antichi cacciatori-raccoglitori come cibo di largo consumo, la zucca calabash costituì per molto tempo la materia prima per fabbricare ottimi e pratici contenitori per liquidi.

La zucca bottiglia

E’ possibile che l’origine della Lagenaria siceraria sia africana. Nel 2004 una varietà molto antica di calabash è stata osservata in Zimbabwe: è possibile che la domesticazione di questa pianta sia iniziata in Africa qualche migliaio di anni fa allo scopo di selezionare le zucche dalle pareti più spesse e resistenti.

La prima fase di domesticazione sembra essersi verificata 8.000-9.000 anni fa in Africa, seguita da una fase asiatica e una seconda, grande opera di domesticazione in Egitto circa 4.000 anni fa.

Le zucche a fiasco sono state coltivate per millenni in Africa, Asia, Europa e Americhe. Nel Vecchio Continente, il monaco benedettino Walahfrid Strabo inserisce le zucche calabash tra le 23 piante del giardino ideale nella sua opera “Hortulus“.

L’arrivo nelle Americhe potrebbe essere stato del tutto accidentale: alcune zucche potrebbero aver attraversato l’Atlantico sospinte dalle correnti oceaniche oltre 10.000 anni, fa partendo dall’Africa arrivando sulle coste americane settentrionali e meridionali.

Caratteristiche della zucca calabash

La vite della zucca bottiglia preferisce suoli ricchi di nutrienti, umidi e ben drenati. Necessita di molta umidità per crescere a dovere, oltre ad una lunga esposizione alla luce solare al riparo dal vento.

Le zucche calabash crescono molto velocemente: i viticci possono raggiungere la lunghezza di nove metri durante una singola estate. Se fatte crescere sotto un albero, le viti di calabash possono scalarlo completamente fino a raggiungere la vetta.

Per ottenere più zucche, tradizionalmente si tagliava la punta dei viticci una volta raggiunta la lunghezza di 2-3 metri, forzando la pianta a creare ramificazioni in grado di produrre più frutti.

La zucca calabash contiene cucurbitacine che possono risultare tossiche per alcune persone, specialmente se il frutto viene fatto maturare troppo o conservato male. Il sapore amaro della polpa è un buon indicatore della presenza di un’elevata dose di cucurbitacine.

Zucche calabash trasformate in contenitori
Zucche calabash essiccate e decorate. Foto: MelindaChan

Ci sono casi di fatalità causata dall’ingestione dei succhi delle calabash, ma sono pochi e spesso legati alla cattiva conservazione delle zucche, o allo stato di salute del singolo individuo (è sconsigliato il consumo per i diabetici).

Diverse cucine tradizionali asiatiche, africane e americane prevedono ancora oggi l’uso di svariate specie di calabash come ingrediente per piatti gustosi e nutrienti.

Le calabash contengono potassio, magnesio, acido folico, vitamina A e C, ma hanno uno scarso valore calorico e forniscono una discreta dota di carboidrati.

Un frutto dai molteplici utilizzi

Le zucche calabash svuotate della loro polpa costituiscono contenitori per liquidi molto comuni in Africa. Le più piccole vengono generalmente usate per sorseggiare vino di palma, le più grandi invece per conservare acqua e alimenti liquidi o macinati.

I Sepedi e IsiZuku sudafricani usano quotidianamente le zucche-bottiglia per trasportare l’acqua sufficiente a dissetare intere tribù e per fabbricare utensili come coppe, ciotole, cappelli parasole e come zainetti.

In Cina le zucche a fiasco sono chiamate hulu e hanno assunto da molto tempo il valore simbolico di portatrici di buona salute. Fino a tempi relativamente recenti, i praticanti di medicina tradizionale utilizzavano le zucche bottiglia per conservare medicinali e liquidi.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Tra le credenze popolari cinesi c’è quella che vede le hulu come trappole per gli spiriti maligni: queste zucche avrebbero il potere di catturare il qi negativo, in grado di alterare in negativo lo stato di salute.

In India le calabash sono utilizzati come risonatori per alcuni strumenti musicali, come il sitar, il surbahar e il tanpure. Gli asceti hindu usano tradizionalmente le zucche a fiasco (chiamate kamandalu) per consumare succhi considerati medicinali; in alcune regioni rurali, invece, questi frutti sono utilizzati come galleggianti per insegnare a nuotare.

In Sudamerica le zucche calabash vengono fatte essiccare per produrre contenitori di mate, una bevanda popolare tra le comunità tradizionali di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay e Paraguay.
In Brasile inoltre le calabash vengono impiegate per realizzare i berimbau, tipici strumenti musicali che accompagnano i movimenti della capoeira.

Fonti per “Calabash, la zucca bottiglia”

Transoceanic drift and the domestication of African bottle gourds in the Americas
Discovery and genetic assessment of wild bottle Gourd [Lagenaria siceraria (Mol.) Standley; Cucurbitaceae] from Zimbabwe
Calabash

]]>
https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/feed/ 0
Equipaggiamento da guerriero scoperto sul sito della battaglia di Tollense https://www.vitantica.net/2019/10/18/equipaggiamento-guerriero-battaglia-tollense/ https://www.vitantica.net/2019/10/18/equipaggiamento-guerriero-battaglia-tollense/#comments Fri, 18 Oct 2019 00:14:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4608 Nel 1996 fa un team di archeologi ha scoperto la località di un antico campo di battaglia dell’Età del Bronzo all’interno della Valle di Tollense, nella regione nord-orientale della Germania.

Il sito, risalente al II millennio a.C., ospitava i resti di oltre 140 individui e un’incredibile quantità di oggetti d’uso quotidiano; un gruppo di questi artefatti, in totale 31 oggetti, potrebbe costituire l’equipaggiamento personale di un guerriero.

La battaglia di Tollense

La battaglia della Valle di Tollense rappresenta il teatro del più antico conflitto violento dell’Età del Bronzo avvenuto nelle regioni settentrionali d’Europa. Dal sito chiamato Weltzin 20 sono state recuperate punte di freccia di selce e di bronzo, oltre a numerosissimi frammenti di oggetti di legno e di ossa umane.

La maggior parte delle ossa appartengono a maschi adulti in buone condizioni fisiche. Considerate le tracce di traumi ossei guariti da tempo e quelli “freschi”, gli archeologi ritengono che si tratti di guerrieri coinvolti in uno scontro violento combattuto con l’uso di armi da mischia e da lancio; la battaglia potrebbe aver visto la partecipazione di oltre 2.000 – 4.000 guerrieri.

Resti umani scoperti in uno dei siti della Valle di Tollense
Resti umani scoperti in uno dei siti della Valle di Tollense

Nei sedimenti fluviali del sito Weltzin 20 sono stati rinvenuti 31 oggetti che, in origine, erano probabilmente avvolti in un contenitore di materiale organico, contenitore ormai dissolto a causa dei naturali processi di decomposizione.

Le ricerche condotte alla Aarhus University hanno mostrato come le due fazioni appartenessero probabilmente a due distinti gruppi etnici: uno schieramento proveniva da una regione distante e aveva una dieta a base di miglio, una pianta poco conosciuta a Tollense. E’ possibile che lo scontro sia avvenuto lungo una delle “strade dello stagno”, una delle rotte commerciali su lunghe distanze utilizzate per scambiare questo metallo, indispensabile per produrre bronzo di buona qualità.

Il kit del guerriero

In cima al cumulo di oggetti è stato trovato un punteruolo di bronzo dal manico di betulla e un coltello. Sotto questi due utensili c’erano uno scalpello, frammenti di bronzo, tre oggetti cilindrici, tre frammenti di lingotti e una gamma di piccoli scarti di bronzo, probabilmente il risultato della lavorazione di questa lega.

In aggiunta, sono stati rinvenuti un contenitore da cintura, tre spilloni, una spirale di bronzo, un cranio umano e una costola. A distanza di 3-4 metri sono stati scoperti una punta di freccia di bronzo, un coltello di bronzo dal manico in osso, una spilla con testa a spirale e una seconda punta di freccia di bronzo con una parte dell’asta di legno ancora attaccata.

Inventario del gruppo di oggetti scoperti nel sito Weltzin 20
Inventario del gruppo di oggetti scoperti nel sito Weltzin 20

I 31 oggetti pesano in totale 250 grammi. “Si tratta della prima volta in cui si scopre una dotazione personale sul campo di battaglia, e fornisce indizi sull’equipaggiamento di un guerriero” spiega Thomas Terberger del Dipartimento di Preistoria dell’Università di Göttingen.

La datazione degli artefatti ha dimostrato che gli oggetti appartengono all’epoca in cui si svolse la battaglia. “Il bronzo sotto forma di frammenti” continua Terberger, “era probabilmente utilizzato come forma di moneta. La scoperta di un set di artefatti ci fornisce inoltre indizi sull’origine degli uomini che parteciparono a questa battaglia, e ci sono sempre più prove che alcuni di questi guerrieri fossero originari delle regioni meridionali dell’Europa Centrale.”

Un’enorme battaglia

Considerando che la densità della popolazione della regione si attestava a circa 5 individui per chilometro quadrato, i reperti rinvenuti nei siti della battaglia della valle di Tollense suggerirebbero che si sia trattato di uno scontro di proporzioni enormi per l’Età del Bronzo.

Si stima che nello scontro siano morti tra i 750 e i 1.000 guerrieri, con una mortalità pari al 20-25%. In una sola zona di 12 metri quadrati sono state trovate quasi 1.500 ossa, suggerendo che quella particolare zona lungo il fiume possa essere stata occupata da una pila di cadaveri, o che abbia rappresentato l’ultima postazione difensiva degli sconfitti.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Nella battaglia furono impiegate lance, mazze, coltelli, archi e spade. Anche se non ci sono resti di spade all’interno del sito, alcune ferite sono coerenti con i danni causati da queste armi. Alcuni combattenti scesero in campo a cavallo, come testimoniano le ossa di almeno cinque cavalli: la posizione di una testa di freccia su un omero indicherebbe che un cavaliere sia stato colpito da un arciere a piedi.

Il fatto che non siano stato trovati altri oggetti tra le ossa, ad eccezione di punte di freccia, lascia supporre che i corpi siano stati depredati dopo la battaglia. I resti non presentano connessioni anatomiche, suggerendo che le vittime siano state gettate nel fiume per liberare il campo.

Fonti per “Kit del guerriero scoperto sul sito della battaglia di Tollense”

Tollense valley battlefield
Lost in combat?
Lost in combat? A scrap metal find from the Bronze Age battlefield site at Tollense

]]>
https://www.vitantica.net/2019/10/18/equipaggiamento-guerriero-battaglia-tollense/feed/ 2
Costruire una casa vichinga con utensili manuali: Bushcraft Project https://www.vitantica.net/2019/10/10/costruire-casa-vichinga-utensili-manuali-bushcraft-project/ https://www.vitantica.net/2019/10/10/costruire-casa-vichinga-utensili-manuali-bushcraft-project/#respond Thu, 10 Oct 2019 00:10:55 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4577 In questi due video del canale YouTube TA Outdoors vengono riprese le fasi di costruzione di una casa vichinga, dalla lavorazione del legname alla realizzazione del telaio, fino alle fasi di rifinitura.

L’abitazione è stata realizzata utilizzando legname di cedro e utensili tradizionali come ascia, sega e martello. L’intera abitazione poggia su fondamenta costituite da 10 tronchi di cedro trattati con una tecnica ben poco norrena (la Shou-Sugi Ban, o yakisugi, tecnica giapponese per la conservazione del legno) per evitare la decomposizione del legname.

La semplicità della tecnica giapponese rende del tutto probabile che anche i popoli nordici fossero a conoscenza di questo metodo: si tratta di bruciare la superficie dei tronchi per carbonizzarla e renderla più resistente all’acqua.

Il terzo video si concentra sulla costruzione di un focolare a fossa da posizionare all’interno dell’abitazione. Le pietre del focolare sono state fissate utilizzando l’argilla estratta durante gli scavi; al termine del filmato, la casa vichinga inizia a prendere forma, con un focolare centrale e un telaio eretto.

Nella quinta parte i costruttori si dedicano alla realizzazione del tetto sfruttando i vantaggi offerti da un cavalletto da segatura costruito nel video precedente. Dopo aver realizzato il telaio con tronchi impermeabilizzati, si inizia la lavorazione della corteccia di cedro per ottenere tegole con cui rivestire l’esterno dell’abitazione, lavorazione che prosegue nel sesto video.

Nel settimo video i costruttori si prendono una pausa per trascorrere la notte nel rifugio appena terminato e cucinare un pasto norreno: agnello arrostito sulla fiamma viva e pane fresco cotto in una pentola di ferro battuto.

La costruzione della casa vichinga prosegue con la realizzazione di una staccionata perimetrale, finestre di legno e un comignolo per il tetto.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

]]>
https://www.vitantica.net/2019/10/10/costruire-casa-vichinga-utensili-manuali-bushcraft-project/feed/ 0
Rushlight, le luci di giunco https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/ https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/#respond Mon, 07 Oct 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4563 I nostri antenati disponevano di ben poche fonti d’illuminazione rispetto alle civiltà moderne. Le lampade ad olio furono oggetti d’uso comune per interi millenni, ma richiedevano un rifornimento costante di combustibile; le torce imbevute di grasso animale, vegetale o di olio minerale non erano il massimo della praticità; le candele di cera costituirono per molto tempo un’alternativa funzionale ma molto costosa rispetto alle lampade ad olio, mentre quelle di sego, più economiche, emanavano un odore ben poco gradevole per via del materiale che consumavano come combustibile.

Il focolare fu per lungo tempo la principale fonte di luce nell’ ambiente domestico. In realtà, esistevano anche altre alternative, meno note in tempi moderni ma molto utilizzate nei secoli passati, perché rappresentavano fonti di luce a buon mercato e facilmente realizzabili.

Una di queste alternative era la “luce di giunco” (o rushlight in inglese), una piccola torcia realizzata con materia vegetale e imbevuta di grasso o olio.

La luce di giunco

La prima citazione di una luce di giunco risale al XVII secolo: l’antiquario inglese John Aubrey fu probabilmente il primo a descrivere questo metodo d’illuminazione, mentre Gilbert White fornì un resoconto accurato del procedimento costruttivo.

Le luci di giunco furono in uso sulle isole britanniche fino alla fine del XIX secolo, tornando ad essere utilizzate temporaneamente durante la Seconda Guerra Mondiale come luci d’emergenza.
Sappiamo tuttavia che il midollo di giunco fu utilizzato fin dall’ antica Roma come stoppino per candele e lampade ad olio; è del tutto possibile, quindi, che questo metodo di illuminazione sia molto più antico di quanto lascino supporre le prime testimonianze scritte relative al suo utilizzo.

Il giunco è una pianta acquatica cresce nelle zone paludose di Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America. Si tratta di una pianta strutturalmente molto semplice, ma dotata di un nucleo di materia vegetale spugnosa e facilmente infiammabile.

Juncus effusus
Juncus effusus

Per realizzare una luce di giunco si raccoglieva il gambo maturo della pianta (principalmente il giunco comune, Juncus effusus, oppure Juncus maritimus e Juncus acutus) durante l’estate o l’autunno, attività generalmente svolta da donne e bambini almeno fino alla metà del 1800.

Per produrre una luce di giunco era necessario rimuovere l’epidermide verde del gambo per esporre il midollo spugnoso, avendo cura di lasciare una singola striscia di “pelle” esterna come supporto strutturale.

Dopo aver lasciato essiccare il gambo così preparato, il giunco veniva immerso una o due volte in una scodella di grasso fuso; per molto tempo fu pratica comune utilizzare grasso di maiale o di montone, perché diventano più solidi man mano che si rapprendono e hanno una consistenza che ne facilita la lavorazione.

Durata delle luci di giunco

Le fonti storiche sono discordanti sulla reale durata e qualità della fiamma prodotta da una luce di giunco. Nel “The Book of English trades, and library of the useful arts” (1827) si sostiene che una rushlight fosse mediamente lunga circa 30 centimetri e potesse bruciare per 10-15 minuti.

Secondo Gilbert White, una luce di giunco era lunga circa 72 centimetri e bruciava per quasi un’ ora ininterrottamente, producendo una luce chiara e relativamente potente.

La qualità della luce e la durata della combustione delle rushlight dipendevano ovviamente dall’abilità dell’artigiano che le produceva e dalla qualità dei materiali impiegati.

Era possibile prolungare la combustione di una luce di giunco utilizzando una fascina di rushlight, oppure producendo quelle che venivano definite “rushcandles“, candele di giunco in cui il midollo spugnoso del fusto veniva immerso più e più volte in cera o sego per ricoprirlo da più strati di materiale combustibile.

In alcune località britanniche si usava aggiungere una piccola quantità di cera prelevata da alveari selvatici o domestici, allo scopo di prolungare la durata della combustione e renderla più gradevole all’olfatto.

Nel video qui sotto, la riproduzione imperfetta di una luce di giunco sembra apparentemente produrre una fiamma pari a quella della candela utilizzata per accenderla. E’ possibile che le rushlight di buona qualità potessero illuminare quanto una candela di sego, anche se generalmente duravano meno di una candela di scarsa qualità.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Vantaggi delle luci di giunco

Il grosso vantaggio delle luci di giunco non era la qualità della luce prodotta o la sua durata, ma il costo pressoché nullo per realizzarle. Chiunque poteva fabbricare piccole sorgenti di luce semplicemente raccogliendo giunchi e riutilizzando grasso animale o vegetale a buon mercato o di scarsa qualità.

Gilbert White sostiene che luci di giunco in grado di garantire luce per circa cinque ore fossero disponibili alla vendita nei mercati inglesi al costo di solo un quarto di penny (un farthing). Anche se una singola rushlight produceva una luce molto flebile, 3 o 4 luci di giunco accese insieme potevano fornire un’illuminazione sufficiente a condurre agevolmente le tipiche attività notturne di una casa contadina.

Fonti per “Rushlight, le luci di giunco”

Rush dips, rushlight and splint holders, nips
Rushlight: How the Country Poor Lit Their Homes (1904)
Rushlight

]]>
https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/feed/ 0