Uomo antico e moderno – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 L’antica grecia era davvero il “paradiso” dell’omosessualità? https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/ https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/#comments Sun, 29 Aug 2021 00:10:31 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4363 Secondo una concezione largamente diffusa e comunemente accettata dall’opinione pubblica moderna, l’antica Grecia era un luogo in cui vigevano pochi tabù, specialmente per quanto riguarda l’omosessualità.

Per molto tempo si è ritenuto che la Grecia dell’età classica fosse un vero e proprio territorio franco sul tema dei rapporti omosessuali: Alessandro Magno ha spesso dimostrato di apprezzare entrambi i sessi, mentre il rapporto tra Achille e Patroclo è sempre stato osservato nell’ottica di una relazione sentimentale tra due uomini, per giunta congiunti da un legame di parentela.

La realtà, come spesso accade, è più complessa e spesso prona all’interpretazione scorretta di fonti scelte selettivamente per creare un’immagine della Grecia antica che ben poco ha a che vedere con la vita quotidiana degli abitanti dell’Ellade.

Quando nasce l’idea della “Grecia omosessuale”

L’idea che in Grecia fosse comune intrattenere rapporti omosessuali è vecchia di circa 200 anni ed è entrata a far parte del “sapere comune” grazie a due personalità di spicco: Oscar Wilde e Kenneth Dover, autore del libro “Greek Homosexuality” pubblicato nel 1978.

In occasione del suo processo del 1895, Oscar Wilde pronunciò il celebre discorso “Love that Dare Not Speak Its Name” in cui tentava di spiegare il ritrovamento della stessa frase in alcuni versi composti dal suo compagno Alfred Douglas.

What is thy name?’ He said, ‘My name is Love.’
Then straight the first did turn himself to me
And cried, ‘He lieth, for his name is Shame,
But I am Love, and I was wont to be
Alone in this fair garden, till he came
Unasked by night; I am true Love, I fill
The hearts of boy and girl with mutual flame.’
Then sighing, said the other, ‘Have thy will,
I am the love that dare not speak its name.’

Secondo l’accusa, la frase era un esplicito riferimento al rapporto omossessuale tra Wilde e Douglas (il primo arrestato per atti di sodomia e condotta indecente); in quello che diventò un classico dell’apologia dei rapporti omosessuali, Wilde si giustificò dicendo:

“L’Amore che non osa dire il suo nome” in questo secolo, è il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, e ciò che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e Shakespeare. E’ quel profondo affetto spirituale tanto puro quanto perfetto. Comanda e pervade le grandi opere d’arte, come quelle di Shakespeare e Michelangelo, e quelle due mie lettere […] Non c’è nulla di innaturale in ciò.

Le affermazioni di Wilde, per quanto storicamente inaccurate, non erano una novità per il tempo. Davide, Gionata, Platone, Michelangelo e Shakespeare erano nomi che circolavano di frequente tra gli omosessuali più istruiti del XIX secolo, specialmente se si trattava di riferimenti a figure dell’antica Grecia, considerata una sorta di Eden dell’omosessualità.

Verso il termine del XIX secolo, l’isola di Lesbo divenne meta di veri e propri pellegrinaggi volti a visitare la casa di Saffo, la poetessa che con i suoi versi evocò rapporti omosessuali tra donne e che fu fonte d’ispirazione di alcuni movimenti a sostegno dei rapporti non eterosessuali.

La poetessa Renée Vivien e la sua amante Natalie Barney tentarono anche di fondare una colonia sull’isola di Lesbo nel 1904 con il preciso scopo di creare un rifugio per la comunità omosessuale europea, ottenendo scarso successo soprattutto a causa dell’opposizione degli abitanti locali. Vivien fu costretta a ritirarsi a Parigi, dove continuò a coltivare il suo sogno di una “zona franca” ispirata alla Grecia classica all’interno di un salone dotato della replica di un antico tempio greco.

L’ omosessualità in Grecia

Il termine “omosessuale” è un’invenzione moderna dell’ungherese Karoly Maria Benkert, che nel 1869 coniò il termine; ma per i Greci l’omosessualità era semplicemente una sfaccettatura della sessualità, a volte accettabile, altre volte non tollerata.

Molte delle concezioni moderne dell’omosessualità nella Grecia antica si concentrano sulla cultura ateniese del IV-V secolo, momento in cui nella città l’omosessualità, specialmente quella maschile, era tollerata più che in altri periodi della sua storia.

La Grecia antica, tuttavia, non fu mai un paradiso per l’omosessualità. I Greci interpretavano la sfera sessuale in modo differente da come lo vediamo noi, badando meno al sesso biologico e più al ruolo e allo scopo del rapporto: eterosessualità e omosessualità facevano parte dello stesso ventaglio di esperienze amorose (afrodisia) ma, per quanto il rapporto tra due uomini fosse il più delle volte tollerato o accettato in determinati periodi storici e in diverse località greche, c’era una grande differenza tra il ruolo attivo o passivo degli amanti.

Ci sono moltissime testimonianze, come poemi, vasi, statue, miti, trattati filosofici, discorsi, iscrizioni, testi medici e opere teatrali, in cui viene dipinto un quadro della Grecia antica molto differente dalla quello di “utopia omosessuale”: i rapporti omosessuali vengono talvolta celebrati, ma spesso anche ignorati, scoraggiati o condannati.

Riguardo ai rapporti omosessuali veniva applicata una distinzione nel ruolo degli amanti: coloro che “ricevevano” e svolgevano un ruolo passivo nel rapporto omosessuale venivano definiti kinaidoi e tendevano ad essere stigmatizzati dalla società ateniese.

A Sparta, assumere un ruolo passivo in un rapporto omosessuale tra adulti era fonte di estrema disapprovazione e costituiva un tale segnale di debolezza da considerare l’amante alla stregua di un traditore, un uomo che accettava di essere ignobile pur di ottenere piacere sessuale.

Una volta raggiunta l’età adulta, un uomo era tenuto a mantenere e proteggere la propria mascolinità. Un ruolo di dominanza sessuale nei confronti di un partner dello stesso sesso non veniva interpretato come sconveniente, ma il ruolo opposto era invece visto come un gesto in grado di mettere a serio rischio l’onorabilità di un essere umano.

Pederastia

La pederastia greca era un fenomeno che consisteva nella relazione ritualizzata tra due maschi di differente età: un eromenos (amato), più giovane, e un erastes (amante), più avanti nell’età. Sebbene fosse un tipo di rapporto socialmente accettabile in alcune polis greche e costituisse il tipo di relazione omosessuale più diffuso nella Grecia antica, fu criticato più e più volte da letterati e filosofi del tempo.

Nell’antica Grecia il sesso veniva generalmente catalogato in base a parametri come piacere, dominanza e ruolo degli amanti, e non sul sesso biologico dell’individuo. La pederastia che sfociava in atti erotici non era quindi considerata un vero e proprio rapporto omosessuale: l’ erastes assumeva un ruolo di dominanza, continuando quindi a mantenere la sua mascolinità, mentre il giovane eromenos, per quanto passivo, si trovava in un’età di passaggio, tra gioventù ed età adulta, in cui la sua passività non veniva interpretata come sconveniente.

La pederastia non era praticata allo stesso modo in tutta la Grecia antica. In Boezia, erastes e eromenos vivevano insieme come una coppia; ad Elis e ad Atene non sempre la coppia conviveva sotto lo stesso tetto, ma il rapporto prevedeva una fase di “corteggiamento” orientato a mantenere attiva la relazione; nella Ionia invece la pederastia era quasi del tutto vietata.

Ad oggi, non sappiamo con esattezza fino a che punto si spingesse il rapporto tra eromenos e erastes. Sappiamo che poteva sfociare nell’erotismo, oppure rimanere del tutto casto, una sorta di “tutoring” di adolescenti e giovani adulti. Purtroppo quasi tutti i documenti relativi al livello di profondità dei rapporti omosessuali dell’antica Grecia sono andati distrutti.

Socrate, Platone e Senofonte non condannavano la pederastia nella sua forma più casta, ma disprezzarono espressamente ogni sua manifestazione fisica. Socrate prende in giro l’ex discepolo Crizia per la sua passione nei confronti del suo eromenos Eutidemo, manifestatasi in forma fisica; ma lo stesso filosofo era un frequentatore dei bordelli ateniesi popolati da giovani ragazzi che si prostituivano: tra loro acquistò e liberò il suo futuro allievo, Fedone di Elide.

Plutarco e Senofonte sostenevano che la pederastia spartana fosse del tutto casta, anche se è ormai certo che ci fossero circostanze in cui la relazione sfociava nella carnalità. Ad Atene, i padri incaricavano alcuni schiavi, chiamati pedagoghi, di sorvegliare i propri figli e proteggerli da tentativi inappropriati di seduzione, ma secondo Eschine erano gli stessi padri a desiderare che il figlio diventasse bello e attraente per catturare l’attenzione di un uomo potente.

Omosessualità tra commilitoni

Gli esempi di coppie di guerrieri-amanti, o di commilitoni legati da un rapporto pederasta, non sono pochi nella mitologia e nella storia greca: Achille e Patroclo, Eracle e Abdero, Oreste e Pilade, Teseo e Piritoo, Armodio e Aristogitone.

Nel Simposio di Platone, Fedro commenta la forza che esercita una relazione omosessuale tra compagni d’armi sul coraggio di uno schieramento militare. Senofonte, invece, tende a ridicolizzare i soldati spartani e tebani che avevano trasformato i loro rapporti amorosi nell’unica base di coesione dei loro schieramenti militari, pur non condannando i rapporti sentimentali tra commilitoni.

Secondo Plutarco, Epaminonda ebbe due uomini come amanti, uno dei quali perse la vita nella battaglia di Mantinea; l’amante deceduto fu sepolto insieme allo statista tebano, una pratica generalmente riservata a marito e moglie.

Questo non significa tuttavia che il rapporto amoroso tra commilitoni fosse la norma: per alcuni era semplicemente accettabile, per altri rappresentava il fondamento della forza di un esercito, per altri ancora era invece fonte di debolezza.

Il rapporto tra Achille e Patroclo, una delle più celebri coppie omosessuali della storia, non fu interpretato nell’Atene del V secolo a.C. come una semplice unione tra due persone dello stesso sesso, ma come una relazione tra commilitoni contestualizzata nella pederastia, una relazione probabilmente durata troppo a lungo e condotta a ruoli invertiti: Achille, più giovane, fu spesso interpretato come erastes in quanto eroe, ma è più probabile che fosse l’eromenos, data la maggiore età di Patroclo e l’indole giovanile e poco misurata di Achille.

Benché Omero non descriva mai esplicitamente i due guerrieri come veri e propri amanti, ma non fa nulla per escludere questo scenario. Come affermò la scrittrice italiana Eva Cantarella nel suo libro “Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico” (Biblioteca Universale Rizzoli, Roma, 1988):

«Omero descrive amicizie maschili di intensità affettiva così forte da far inevitabilmente pensare a legami ben diversi da una semplice solidarietà fra compagni d’arme: e l’amicizia che a questo punto è quasi di prammatica citare è quella fra Achille e Patroclo. […] Il legame tra Achille e Patroclo, invece, era insostituibile: ed è non poco significativo, a questo proposito, il discorso di Teti, la madre dell’eroe, al figlio disperato ed inconsolabile: Achille, dice Teti, deve continuare a vivere e dimenticato Patroclo, deve prendere moglie “come giusto che sia”. Un rimprovero, forse? La prova che Teti riprovava l’amore omosessuale del figlio? A prima vista così potrebbe sembrare. Ma, a ben vedere, le cose stanno diversamente. Quello che risulta in realtà della parole di Teti, è che il legame con Patroclo era stata la ragione per la quale l’eroe non aveva ancora preso moglie: una conferma, dunque, del carattere amoroso del rapporto. Ma l’esortazione della madre al figlio a compiere finalmente il suo dovere sociale non è – ciononostante – una condanna assoluta della sua relazione con Patroclo. Essa sembra, piuttosto, un invito ad accettare quella che, per i greci, era una regola naturale: raggiunta una certa età, bisogna por fine alla fase omosessuale della vita e assumere il ruolo virile con una donna.»

Fonti:
Homosexuality in ancient Greece
Friday essay: the myth of the ancient Greek ‘gay utopia’
Mad about the boy
ATHENIAN LAWS ABOUT HOMOSEXUALITY
The Myth Of Homosexuality In Ancient Greece
Greek Homosexuality

]]>
https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/feed/ 1
America e popoli indigeni: le culture native erano pacifiche? https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/ https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/#respond Mon, 23 Nov 2020 00:15:28 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5029 Sotto le carneficine, le epidemie e il saccheggio dei territori dei nativi, l’esplorazione e la conquista delle Americhe hanno innumerevoli aspetti interessanti che un appassionato di storia non può non apprezzare. Si tratta di un’epoca di grandi viaggi oceanici, giochi tra poteri politici, economici e religiosi, scontri e guerre brutali, senza contare le innumerevoli scoperte, e invenzioni ideate per rendere possibile l’incredibile densità di eventi storici avvenuti tra la metà del XV secolo e il XVIII secolo.

Scontri armati, carestie e pestilenze provocarono milioni di vittime quando Vecchio Mondo e Nuovo Mondo vennero a contatto. Milioni di esseri umani indigeni furono sterminati in nome di qualche re, regina o compagnia commerciale; alcune specie animali, come il bisonte, sparirono dal continente nordamericano per la caccia intensiva condotta dalle spedizioni occidentali.

Lo sterminio di interi popoli nativi, violento o provocato da malattie, e i forti cambiamenti ecologici che gli europei apportarono agli ecosistemi americani non devono tuttavia far pensare che le Americhe fossero continenti abitati da popoli pacifici, in armonia con la natura e con i popoli limitrofi.

Prima dell’arrivo dei primi esploratori europei, le Americhe erano un territorio solo parzialmente selvaggio. I nativi erano in grado di modificare profondamente il territorio con incendi controllati e un attento controllo della vegetazione locale; cacciavano animali in grandi numeri, spesso uccidendo molto più di quanto potessero utilizzare e mangiare; la violenza tribale, infine, era relativamente comune, contrariamente all’immagine comune del “buon selvaggio” associata spesso e volentieri alle culture native americane precolombiane.

Un nuovo mondo non violento?

Aztechi, Maya, Inca e popoli dell’ America Centro-meridionale non erano di certo popoli pacifici. La Guerra dei Fiori era un rituale che provocava relativamente poche morti e serviva a scongiurare guerre di portata più grande tra le città-stato azteche, ma si trattava comunque di un rituale estremamente cruento mirato a indebolire militarmente i rivali di Tenochtitlan.

Il regno di Cusco, invece, iniziò ad espandersi a partire dal 1438 sotto la guida di Pachacuti-Cusi Yupanqui, nome dal significato molto poco pacifico di “colui che fa tremare la terra”. Pachacuti creò quello che sarebbe diventato l’impero Inca conquistando col sangue i Chancas, una tribù di guerrieri formidabili ed estremamente abili nel combattimento. Nel 1463 iniziò un’altra campagna di conquista per sconfiggere il vero rivale degli Inca, il regno di Chimor.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Le tre civiltà americane più famose e potenti degli ultimi 1.000-1.500 anni di storia non erano quindi per nulla pacifiche, avevano aspirazioni imperialistiche e regolavano col sangue molte delle questioni aperte con i rivali locali.

Cosa succedeva invece nelle regioni settentrionali e meridionali delle Americhe, prima che iniziasse l’esplorazione metodica dei continenti americani? Nulla di molto diverso, anche se la maggior parte delle comunità poteva contare su un numero di individui più ridotto.

Nell’estremità settentrionale delle Americhe, gli Inuit canadesi conducevano abitualmente schermaglie contro gruppi locali concorrenti, anche se della stessa cultura: i Nunatamiut del Fiume Mackenzie, ad esempio, si davano battaglia tra loro per il controllo delle risorse ittiche.

La foresta pluviale amazzonica, invece, era popolata da decine di milioni di individui appartenenti a culture molto diverse tra loro, come i Valdivia, i Quimbaya, i Calima e i Tairona, che sicuramente ebbero molte occasioni per entrare in contrasto per questioni di territorialità o risorse.

Tra gli Inuit e le culture amazzoniche, guerre e rivolte spinte da ragioni politiche, economiche o religiose imperversavano, la brutalità era all’ordine del giorno e la vita trascorreva ben diversamente dal quadro idilliaco talvolta dipinto da alcune ricostruzioni poco fedeli alla realtà storica.

Scontri intertribali frequenti

Secondo la storica Diana Muir, la Lega Irochese pre-contatto europeo era caratterizzata da uno spirito espansionistico e imperialista che mirava al possesso dei territori degli Algonchini e di ogni potenziale preda vicina. La confederazione irochese era così assetata di potere da cannibalizzare se stessa, abbattendo anche le comunità della propria cultura che conducevano stili di vita meno belligeranti.

Nel 1649 gli Irochesi distrussero il villaggio di Wendake, facendo sciogliere la nazione degli Uroni e rimuovendo l’ultimo reale avversario alla conquista dei territori delle Nazioni Neutrali, dei Mohicani e di altre tribù irochesi non appartenenti alla Lega, principalmente per una questione di prestigio territoriale e per prendere il controllo del commercio delle pelli.

Facendo un salto indietro nella storia, i resti umani rinvenuti nelle Grandi Pianure e risalenti ad un periodo compreso tra il 250 a.C. e il 900 d.C. mostrano segni occasionali di violenza dovuta a scontri intertribali. A partire dal XIII secolo, tuttavia, scorrerie e guerre iniziarono a diventare sempre più frequenti, e i resti archeologici mostrano segni di incendi, di violenze brutali e di mutilazioni.

La ragione di queste sempre più frequenti aggressioni non è chiara, ma si ipotizza che possa essere stata la fame a scatenare gli scontri tra tribù. Gli scavi nel sito di Crow Creek, un’antica città Arikara sorta nel 1325, ha rivelato i corpi di 486 persone, incluse donne e bambini, massacrate, scalpate e smembrate. I resti ossei mostrano evidenti segni di malnutrizione, suggerendo che il massacro sia stato motivato dalla competizione per le scarse risorse alimentari disponibili.

Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata
Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata

Gli scontri intertribali terminati in massacri sono molti e ben documentati; talvolta si parla di migliaia di vittime in una singola battaglia (molti leghe tribali non superavano le 10-20.000 unità). Il 90% dei resti umani appartenenti al XIII secolo mostrano segni di traumi, spesso alla testa o agli arti.

Nel 1800 Alexander Henry, commerciante per la Northwest Company, esclamò osservando una le Grandi Pianure ricoperte di mandrie di bisonti: “Questo è un paese meraviglioso, e se non fosse per le guerre perpetue, i nativi potrebbero essere le persone più felici della Terra”. Detto da una delle pedine dei poteri che sfruttavano i nativi americani, l’affermazione non sembra avere alcun valore, ma la realtà è che i nativi si dilettavano nell’arte della guerra ben prima dell’arrivo degli Europei.

Cherokee e schiavi

Sui Cherokee esiste parecchia documentazione storica rispetto ad altre culture, documentazione risalente non soltanto agli scontri tra Europei e nativi, ma anche ai primi contatti indiretti con la confederazione.

In cima alla piramide sociale dei clan Cherokee c’erano due figure politiche: “bianco”, amministratore in periodi di pace, e “rosso”, il comandante in caso di guerra. Le decisioni militari venivano prese dal capo “rosso” e dai delegati dei sette clan Cherokee (che includevano le ghigau, donne guerriere).

I Cherokee erano una cultura schiavista, come molte altre nordamericane dalla California al Canada. Gli schiavi potevano essere catturati in guerra, ma esistevano anche schiavi divenuti tali a causa di debiti di gioco. La tribù aveva diritto di vita e di morte sui suoi schiavi, e solo il consiglio tribale poteva concedere loro la libertà.

Generalmente, la cattura di ostaggi durante una razzia o una battaglia poteva finire in due modi: essere risparmiato (nel caso di donne e bambini) e diventare schiavo, o essere ucciso. Alcuni schiavi potevano diventare “parenti” di membri della comunità, entrando a far parte del tessuto sociale tribale, o continuare a rimanere all’esterno di ogni interazione con la comunità.

Per i Cherokee gli schiavi non erano un vero e proprio elemento funzionale per l’economia tribale, ed erano una proprietà collettiva. Le attività di raccolta e quelle di caccia potevano tranquillamente soddisfare i bisogni della comunità (gli schiavi potevano aiutare nei campi o trasportare carichi) senza l’aiuto di altre braccia, per cui il possesso di prigionieri era sostanzialmente una questione di prestigio.

Dopo l’incontro-scontro con gli Europei e la schiavitù di migliaia di Cherokee, la cultura schiavista dei nativi iniziò a cambiare in peggio: lo schiavo divenne una proprietà individuale che poteva essere scambiata con gli stranieri per ottenere oggetti che i nativi non erano in grado di produrre.

Scontri per la terra

Come citato in questo post, la maggior parte delle comunità native americane conosceva il concetto di proprietà privata, che veniva tutelata da una serie di leggi tribali tramandate oralmente.

Nelle culture dedite all’agricoltura, esistevano diritti di sfruttamento per le risorse naturali e i terreni diventavano parte del patrimonio di famiglia. Ma un diritto di sfruttamento può essere messo in discussione alla morte del capofamiglia, o con lo sconfinamento continuo da parte di membri della tribù o provenienti da altre culture; le diatribe sui diritti di sfruttamento dei terreni agricoli o di caccia causavano scontri spesso violenti, che potevano sfociare in vere e proprie battaglie.

Nelle regioni degli Stati Uniti Sud-occidentali, gli archeologi hanno ritrovato numerosi scheletri, risalenti al periodo che precede l’arrivo degli Europei, che riportano svariati segni lasciati da armi da lancio e corpi contundenti. In queste regioni le carestie innescavano probabilmente scontri locali tra clan in competizione per le risorse, o per sconfinamenti non autorizzati in territori di caccia e raccolta controllati da altre culture.

I diritti di sfruttamento o il possesso di un terreno potevano quindi subire cambiamenti continui. Un campo di mais posseduto da più generazioni dalla stessa famiglia o clan poteva improvvisamente diventare proprietà di un’altra tribù dopo uno scontro violento o uno sconfinamento in massa, spesso senza lasciare tracce permanenti dei proprietari precedenti.

E’ per questa ragione che il mantra moderno che recita “restituiamo la terra ai nativi” non ha molta logica. “Nativi americani” è un termine ombrello che racchiude un’incredibile varietà di culture, di approcci al potere e di eventi storici locali difficili da ricostruire, specialmente se si scava nella storia precedente all’arrivo degli Europei sul continente.

A chi dovremmo restituire la regione canadese attorno al villaggio di Wendake? Agli Irochesi, che dalla metà del 1600 se ne appropriarono con la forza, o agli Uroni, i precedenti “proprietari” dell’area? O forse ai Petun, il “Popolo del Tabacco”, in competizione per le risorse con gli Uroni da prima che gli Irochesi iniziassero a conquistare i clan minori?

Fonti:

Thanksgiving guilt trip: How warlike were Native Americans before Europeans showed up?
Slaveholding Indians: the Case of the Cherokee Nation  (PDF)
INTERTRIBAL WARFARE
Intertribal Warfare as the Precursor of Indian-White Warfare on the Northern Great Plains (PDF)
The Indians’ Old World: Native Americans and the Coming of Europeans
The Most Violent Era In America Was Before Europeans Arrived

]]>
https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/feed/ 0
Il Turco, l’automa che giocava a scacchi https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/ https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/#respond Mon, 09 Nov 2020 00:14:46 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4994 Nel 1770, l’inventore ungherese Wolfgang von Kempelen svelò al mondo un prodigio della meccanica: Il Turco, un automa in grado di giocare a scacchi. La macchina di von Kempelen non solo poteva accorgersi delle eventuali irregolarità messe in atto dal giocatore avversario, ma anche competere con i più abili scacchisti della corte di Maria Teresa d’Austria.

Il Turco girò l’Europa e le Americhe per oltre 80 anni, incontrando Napoleone e Franklin, e battendo avversari umani con strategie basate su versatilità e creatività. Per quasi un secolo, il mondo si convinse che un automa e il suo creatore fossero riusciti a riprodurre una sorta di intelligenza evoluta, impensabile per la scienza del XVIII e XIX secolo.

Breve riepilogo degli automi meccanici nella storia

Il concetto di automa meccanico, una realizzazione artificiale in grado di eseguire azioni ed elaborazioni in modo del tutto autonomo, non è recente: il termine deriva dal termine greco automatos (“che agisce di propria volontà”), e già in epoca ellenistica venivano costruiti giocattoli meccanici o attrezzature meccanico-idrauliche.

Ctesibio, Filone di Bisanzio, Archita ed Erone furono i più noti costruttori di automi nell’antica Grecia. Contemporaneamente a loro, nel III secolo a.C., il Libro del Vuoto Perfetto cinese riporta la descrizione dell’automa realizzato dall’ingegnere meccanico Yan Shi:

«Il re rimase stupito alla vista della figura. Camminava rapidamente, muovendo su e giù la testa, e chiunque avrebbe potuto scambiarlo per un essere umano vivo. L’artefice ne toccò il mento e iniziò a cantare perfettamente intonato. Toccò la sua mano e mimò delle posizioni tenendo perfettamente il tempo… Verso la fine della dimostrazione, l’automa ammiccò e fece delle avance ad alcune signore lì presenti, il che fece infuriare il re che avrebbe voluto Yen Shih giustiziato sul posto ed egli, per la paura mortale, istantaneamente ridusse in pezzi l’automa al fine di spiegarne il suo funzionamento. E, in effetti, dimostrò che l’automa era fatto con del cuoio, del legno, della colla e della lacca, bianco, nero, rosso e blu. Esaminandolo più da vicino il re vide che erano presenti tutti gli organi interni: un fegato completo, una cistifellea, un cuore, dei polmoni, una milza, dei reni, lo stomaco ed un intestino. Inoltre vide che era fatto anche di muscoli, ossa, braccia con le relative giunture, pelle, denti, capelli, ma tutto artificiale… Poi il re fece la prova di togliergli il cuore e osservò che la bocca non era più in grado di proferir parola. Gli tolse il fegato e gli occhi non furono più in grado di vedere; gli tolse infine i reni e le gambe non furono più in grado di muoversi. Il re ne fu deliziato.»

Questa macchina straordinaria (se davvero esistita) è l’espressione della costante curiosità umana nei confronti della vita artificiale. Nei secoli successivi non mancarono grandi inventori arabi, cinesi ed europei che, secondo le fonti, furono in grado di realizzare oggetti in grado di muoversi, animali artificiali e automi umanoidi apparentemente in grado di spostarsi secondo il comando del loro creatore.

Lu Ban, uno dei più celebri inventori della storia cinese, e Archita dopo di lui, pare fossero riusciti a costruire automi volanti di legno, come riportano diverse fonti autorevoli dell’epoca. Secondo Aulo Gellio, Archita fu capace di costruire un uccello meccanico in grado di volare per 200 metri (probabilmente grazie alla spinta propulsiva del vapore).

Jabir ibn Hayyan, alchimista del VIII secolo, si dichiarava in grado di costruire serpenti, scorpioni e umanoidi in grado di eseguire operazioni a comando; il Libro dei dispositivi ingegnosi (IX secolo) dei tre fratelli Banū Mūsā, tra i più grandi innovatori e inventori del loro tempo, racconta del primo automa flautista programmabile, basato sui concetti alla base dell’organo ad acqua.

La paternità del primo automa programmabile è stata comunque assegnata ad Al-Jazari, autore dell’opera “Compendio sulla teoria e sulla pratica delle arti meccaniche” e vero innovatore nel campo della meccanica. Realizzò una nave che ospitava 4 automi umanoidi che potevano eseguire diversi brani pre-programmati; ad ogni brano, i quattro musicisti meccanici eseguivano combinazioni espressive composte da oltre 50 movimenti facciali o degli arti.

Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons
Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons

Nel Rinascimento il concetto di automa divenne uno dei temi centrali della meccanica del tempo: Leonardo da Vinci progettò un cavaliere in armatura capace di muoversi sul posto, e i giardini europei si riempirono di congegni semi-automatici pneumatici o idraulici. Ma fu con il meccanicismo cartesiano che gli automi divennero ancora più complessi e bizzarri, come l’ “anatra digeritrice” (1737) di Jacques de Vaucanson, un automa in bronzo che sembrava digerire e defecare il cibo che ingeriva.

Fu proprio in questo periodo, nella seconda metà del 1700, che Wolfgang von Kempelen realizzò il Schachtürke, o più semplicemente “Il Turco”, un automa capace di giocare a scacchi, e risultare abile e competitivo, contro un avversario umano.

Il Turco

L’idea di realizzare un automa complesso e stupefacente nacque da un incontro, avvenuto nel 1769, tra Kempelen e François Pelletier alla corte di Maria Teresa d’Austria. Pelletier era considerato uno dei più abili illusionisti francesi del suo tempo, ed era noto per utilizzare grandi quantità di magneti per eseguire i suoi giochi di prestigio; Kempelen era convinto tuttavia di poter fare meglio, e promise di tornare alla corte con un’invenzione in grado di superare ampiamente tutte le illusioni di Pelletier.

Il Turco fece il suo debutto di fronte a Maria Teresa l’anno successivo, circa sei mesi dopo l’esibizione di Pelletier. Prima di mostrarne il funzionamento, Kempelen mostrò a tutti i presenti che i cassetti e gli sportelli della sua macchina contenevano esclusivamente ingranaggi, lasciando che fosse l’audience stessa ad assicurarsene.

Dopo l’ispezione, Kempelen dichiarò che la sua macchina era pronta a sfidare chiunque nel gioco degli scacchi, usando i pezzi bianchi e riservandosi il “diritto” alla prima mossa sulla scacchiera. La macchina si dimostrò incredibilmente capace, non solo nel gioco ma anche nel rilevare mosse irregolari.

Se l’avversario eseguiva una mossa irregolare, il Turco scuoteva la testa in segno di disapprovazione, muovendo poi il pezzo alla sua posizione originale. Lo scrittore Louis Dutens, presente durante l’esibizione, tentò di ingannare la macchina muovendo la regina come un cavallo, ma si vide rifiutare la mossa e riposizionare il pezzo nella sua casella di partenza.

Volantino dell'esibizione del Turco. Wikimedia Commons
Volantino dell’esibizione del Turco. Wikimedia Commons

Il Turco sconfisse tutti coloro che tentarono di batterlo in un tempo massimo di 30 minuti, compresi coloro con esperienza nel gioco degli scacchi. L’automa fu anche in grado di completare il “percorso del cavallo”, un problema matematico-scacchistico in cui un cavallo deve toccare ogni casella della scacchiera senza passare due volte per lo stesso punto.

La caratteristica più strabiliante del Turco era la sua capacità di conversare in inglese, francese e tedesco con gli spettatori e l’avversario usando una tavoletta. Inutile dire che ogni matematico e ingegnere del tempo furono estremamente colpiti dall’invenzione di Kempelen, alcuni a tal punto da tenere un diario delle conversazioni avute con il Turco, come fece il matematico Carl Friedrich Hindenburg.

Il Turco ebbe meno successo scacchistico in Europa, non per scarso interesse (in molti volevano sfidarlo) ma perché Kempelen, ad ogni occasione utile per esibirlo, escogitava una scusa per non farlo. Tra il 1770 e il 1780 il Turco giocò solo una partita con Sir Robert Murray Keith, e il suo inventore ripeteva in continuazione che la macchina fosse soltanto una sorta di passatempo, niente di così rilevante.

Dopo il match con Murray Keith, Kempelen smontò completamente la sua macchina, ma per ordine imperiale fu costretto a ricostruirla per esibirla durante la visita del Granduca di Russia. La macchina suscitò così tanto interesse da costringere Kempelen ad iniziare un tour europeo nel 1783.

A Versailles il Turco perse la sua prima partita contro Charles Godefroy de La Tour d’Auvergne, e le sconfitte continuarono ad accumularsi una volta giunto a Parigi, dove fu sconfitto da diversi scacchisti locali e da François-André Danican Philidor, considerato il miglior scacchista del suo tempo.

A Londra, il Turco e Kempelen incontrarono Philip Thicknesse, il primo ad avanzare pubblicamente sospetti sul funzionamento della macchina. Thicknesse descrisse il turco come una truffa molto elaborata che sfruttava una macchina complicata per nascondere un bambino capace di giocare a scacchi.

Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons
Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons

Anche Edgard Allan Poe nutrì diversi dubbi sul reale funzionamento automatico della macchina. Se il Turco fosse una macchina pura, obiettò Poe, vincerebbe ogni partita; dopo averci riflettuto, anche lo scrittore giunse alla conclusione che ci fosse un operatore umano all’interno dell’automa.

La scoperta dell’inganno

Dopo la morte di Kempelen, il Turco fu acquistato nel 1805 dal musicista bavarese Johann Nepomuk Mälzel, che proseguì con i tour per l’Europa dopo aver appreso il segreto del funzionamento della macchina ed effettuato alcune riparazioni. Il tour europeo ebbe così successo da spingere Mälzel a preparare un viaggio negli Stati Uniti, viaggio che si rivelò un vero successo.

Gli scettici sul reale funzionamento autonomo del Turco non mancarono, ma le descrizioni che fornirono sul presunto funzionamento della macchina erano incorrette e basate solo su una semplice osservazione esterna del congegno. Fu solo nella seconda metà del 1800 che il segreto del turco fu rivelato in un articolo pubblicato sulla rivista “The Chess Monthly“.

Nel 1854 il Turco bruciò in un incendio scoppiato nel Chinese Museum di Charles Willson Peale, dove era ospitato, e il figlio del suo precedente possessore, Silas Mitchell, ritenne che fosse il momento adatto per svelare il segreto dell’automa.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

L’interno del Turco era composto da meccanismi molto complessi studiati per attirare l’attenzione dell’osservatore e distrarre dal vero funzionamento della macchina. La sezione a sinistra era studiata in modo tale da mostrare l’interno della macchina tenendo segreta la parte destra, in cui risiedeva il giocatore umano che manovrava l’automa.

L’abitacolo era provvisto di un cuscino e consentiva una visuale completa della scacchiera e dell’avversario. Il manichino di un turco ottomano, con tanto di tunica, turbante e pipa nella mano sinistra, nascondeva due porte che ospitavano altri ingranaggi; la macchina era pensata per illudere gli spettatori che non ci fosse alcun trucco, e che la sua capacità di gioco fosse totalmente attribuibile alla meccanica interna.

La scacchiera era sufficientemente sottile da consentire il movimento dei pezzi tramite magneti. Ogni pezzo era dotato di un piccolo magnete alla base che si attaccava ad un magnete sotto la scacchiera corrispondente alla casella in cui era posizionato, in modo tale da dare un quadro completo della partita al giocatore nascosto nella macchina.

Nel vano nascosto era presente anche una sorta di pantografo che consentiva di manovrare il braccio sinistro del Turco. Muovendo il pantografo sul una scacchiera interna, il braccio si spostava nella posizione corrispondente della scacchiera esterna. Il braccio poteva muoversi in alto e in basso, e afferrare pezzi sulla scacchiera; durante questi movimenti, alcuni ingranaggi facevano rumore per dare l’impressione che l’automa si stesse muovendo solo grazie alla sua meccanica interna.

Ma chi era lo scacchista nascosto all’interno del Turco? Nessuno lo sa. L’ipotesi ritenuta più credibile è che Kempelen reclutasse giovani scacchisti ad ogni tappa del suo viaggio, istruendoli velocemente sul funzionamento della macchina e lasciando che la meccanica interna li nascondesse da un’attenta ispezione.

The Mechanical Chess Player That Unsettled the World
The Turk
The Turk (Automaton)
Debunking the Mechanical Turk Helped Set Edgar Allan Poe on the Path to Mystery Writing

]]>
https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/feed/ 0
Giulia Tofana, avvelenatrice professionista https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/ https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/#comments Sun, 13 Sep 2020 00:25:56 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4967 Nell’autunno del 1791, Wolfgang Amadeus Mozart iniziò ad ammalarsi seriamente, presentando sintomi che lui stesso attribuiva all’avvelenamento da parte di una delle sostanze tossiche più curiose e subdole della storia recente: l’ acqua tofana.

Anche se le vere cause della morte del celebre compositore sono ancora oggi fonte di dibattito, alcuni ricercatori, come gli esperti di manoscritti antichi Oliver Hahn e Claudia Maurer Zenck, hanno concluso che Mozart fu deliberatamente ucciso utilizzando un particolare veleno ideato da un’avvelenatrice professionista, Giulia Tofana, vissuta oltre un secolo prima.

Veleno leggendario

Le ipotesi sulla morte di Mozart spaziano dalla sifilide alla febbre reumatica; c’è anche chi ha ipotizzato che il musicista fu ucciso da costolette di maiale poco cotte. Ma Hahn e Zencks hanno rilevato tracce di arsenico sui manoscritti del compositore, un elemento utilizzato come ingrediente per la fabbricazione di un veleno incolore, inodore, insapore e che uccideva lentamente, fugando quasi ogni sospetto di avvelenamento da un occhio poco attento.

L’ acqua tofana potrebbe essere il veleno responsabile di centinaia, se non migliaia, delle morti per avvelenamento verificatesi nell’arco degli ultimi quattro secoli. Il suo ingrediente principale era l’arsenico, e solo 4-6 gocce di questo potente veleno era in grado di uccidere un uomo nell’arco di una settimana facendo apparire il decesso come legato ad una malattia difficilmente identificabile.

La ricetta esatta dell’acqua tofana non è nota, anche se conosciamo i suoi ingredienti principali da alcuni scrittori dell’epoca: arsenico, limatura di piombo, limatura di antimonio e probabilmente belladonna. Questo veleno poteva essere facilmente mescolato all’acqua o al vino, essendo totalmente incolore e non alterando i sapori di bevande e pietanze.

Altri autori del XVII-XVIII secolo sostengono invece che il veleno avesse come ingredienti anche la linajola comune (Linaria vulgaris), estratto di “mosca spagnola” (Lytta vesicatoria, un coleottero verde smeraldo), estratto di Antirrhinum majus e arsenico.

L’acqua tofana era un veleno che agiva lentamente e che doveva essere somministrato in più dosi consecutive, alimentando l’idea che a causare la morte della vittima fosse stata una malattia o altre cause naturali. I sintomi di un primo dosaggio erano simili a quelli di un’influenza comune, ma già al secondo dosaggio i sintomi peggioravano sensibilmente: vomito, disidratazione, diarrea e una sensazione di bruciore lungo il tratto digestivo.

La terza o quarta dose generalmente uccidevano la vittima. Si riteneva che i primi dosaggi di acqua tofana potessero essere annullati dalla somministrazione di aceto o succo di limone, ma al quarto dosaggio la quantità di arsenico e piombo accumulata dall’organismo era tale da provocare quasi certamente la morte.

Boccetta di "Manna di San Nicola" ritratta da Pierre Méjanel.
Boccetta di “Manna di San Nicola” ritratta da Pierre Méjanel.
Veleno per mogli

L’acqua tofana fa la sua apparizione nella documentazione storica nel 1632. Commercializzata con il nome “Manna di San Nicola” per nascondere il suo vero utilizzo alle autorità locali, veniva venduta all’interno di fiale come cosmetico o offerta votiva a San Nicola.

A quanto pare l’acqua tofana era considerato il veleno ideale per le mogli che subivano abusi dai mariti ed erano intenzionate a liberarsi definitivamente del consorte. Essendo incolore, inodore e insapore, poteva essere somministrata al marito durante i pasti senza suscitare alcun sospetto.

Anche se l’avvelenamento è certamente un metodo infido e criminale per risolvere un problema coniugale, occorre ricordare che tre secoli fa le donne italiane non erano giuridicamente tutelate dagli abusi, domestici e non, come accade oggi, e il divorzio era un’eventualità nemmeno lontanamente contemplata in molte comunità.

Secondo l’economista campano Ferdinando Gagliani (1728 – 1787), a Napoli non esisteva donna che non fosse provvista di una fiala di acqua tofana disposta accuratamente tra i suoi cosmetici. Solo la proprietaria poteva riconoscere la fiala e distinguerla dalle altre in caso di bisogno.

Una famiglia di avvelenatrici

L’ideatrice dell’acqua tofana fu probabilmente Giulia Tofana, avvelenatrice professionista che prima di essere giustiziata a Roma nel 1659 confessò di essere coinvolta in almeno 600 morti causate a Roma dal suo veleno tra il 1633 e il 1651.

Giulia Tofana nacque nel 1620 a Palermo, probabilmente figlia di Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633 con l’accusa di aver ucciso il marito. Secondo la documentazione dell’epoca, Giulia era una ragazza di bell’aspetto costantemente interessata al lavoro di farmacisti e speziali, spendendo molto tempo nei loro laboratori e apprendendo i segreti delle erbe e dei minerali.

Fu così che Giulia sviluppò la formula dell’acqua tofana. E’ possibile tuttavia che il veleno fosse frutto del lavoro della madre Thofania, e sia stato passato come eredità alla figlia prima della sentenza di morte.

Giulia Tofana iniziò a vendere veleno alle mogli siciliane in difficoltà, aiutata dalla figlia Girolama Spera, nota come “Astrologa della Lungara”. Le voci sull’efficacia dell’acqua tofana uscirono ben presto dalla Sicilia per raggiungere Napoli e Roma, dove madre e figlia riuscirono a creare un mercato di “Manna di San Nicola”.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Giulia Tofana viene spesso descritta come amica delle donne in difficoltà, spesso intrappolate in matrimoni di convenienza con uomini violenti e pericolosi. Raggiunse una tale popolarità da arrivare ad essere indirettamente protetta dalle autorità locali, ma il suo business tossico fu alla fine scoperto, costringendola alla fuga.

Giulia si rifugiò con la figlia in una chiesa, dove le fu garantito asilo. Ma ben presto l’asilo le venne revocato non appena iniziò a circolare la voce che avesse avvelenato l’acqua di alcuni pozzi di Roma. Le autorità fecero irruzione nella chiesa, catturando Giulia, la figlia Girolama e loro tre aiutanti.

Le affermazioni di Giulia sulle morti provocata dal suo veleno nell’arco di 18 anni, e nella sola città di Roma, sono sconcertanti ma difficili da confermare. Si tratta di dichiarazioni rilasciate sotto tortura, ed è estremamente complesso tenere traccia del suo veleno nel mercato nero romano del XVII secolo; ma considerata l’apparente diffusione dell’acqua tofana riportata da alcuni autori dell’epoca, 600 vittime potrebbe essere un numero più o meno accurato.

L’eredità di Giulia Tofana

Il veleno noto come acqua tofana, e altri veleni sotto il nome di “acquetta” o “liquore arcano d’aceto” circolarono per tutta la penisola italiana per almeno un altro secolo dopo la morte di Giulia.

Una mistura di aceto, vino bianco e arsenico iniziò ad essere venduta a Palermo all’inizio della seconda metà del 1700 da Giovanna Bonanno. Il tipico cliente di Giovanna era una donna che voleva liberarsi del marito per poter stare col proprio amante: la prima dose veniva somministrata al consorte per causare dolori di stomaco, la seconda per mandarlo all’ospedale e la terza per porre fine ai suoi tormenti.

I medici dell’epoca non riuscivano a determinare le cause della morte provocata da questo veleno, ma una lunga serie di decessi registrati a Palermo portarono all’arresto della Bonanno per stregoneria. Alcuni farmacisti che collaboravano con lei furono condotti a testimoniare al suo processo, svoltosi nel 1788, e si giunse alla condanna a morte per impiccagione il 30 luglio 1789.

 

Aqua Tofana: slow-poisoning and husband-killing in 17th century Italy
Aqua Tofana
Giulia Tofana
A Cyclopaedia of Practical Receipts: And Collateral Information in the Arts

]]>
https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/feed/ 1
Sovrappeso e obesità nel Medioevo https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/ https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/#comments Mon, 24 Aug 2020 00:15:54 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4928 Sovrappeso e obesità sono oggi considerati una piaga tipica dell’epoca moderna. L’abbondanza di cibo nel mondo industrializzato, inizialmente interpretata come un aumento della ricchezza di classi sociali che, in precedenza, avevano un accesso limitato alle risorse alimentari, si è infine rivelata un’arma a doppio taglio: più aumenta il cibo a disposizione, sia in quantità che in varietà, più ne consumiamo.

La concezione di un passato popolato da “persone sottili” a causa di uno scarso accesso alle risorse alimentari più ricche di calorie, in realtà, non è del tutto esatta. Anche se l’Europa affrontò diverse carestie durante il Medioevo, ricchi e privilegiati trovarono spesso il modo di permettersi tavole imbandite o semplicemente pasti regolari.

Nel Medioevo obesità e sovrappeso erano presenti, e l’eccesso di grasso corporeo suscitava opinioni diverse: se la magrezza veniva considerata generalmente un’espressione di frugalità e santità, sovrappeso e obesità erano spesso interpretate come espressione di ricchezza, status sociale, buona salute o scarso controllo delle proprie pulsioni.

Un corpo da guerra

L’Europa medievale ereditò l’immagine del soldato perfetto dall’antica Roma: peso eccessivo e abilità marziale non erano considerati molto compatibili. Secondo Ramon Llull, autore del XIII-XIV secolo, ogni combattente in sovrappeso dimostrava coi fatti di non essere in grado di esercitare sufficiente autocontrollo da poter ottenere il titolo di cavaliere.

Qualunque cavaliere in grado di permettersi una cavalcatura e un intero set di armi e armature disponeva di sufficienti risorse economiche da poter acquistare grandi quantità di cibo; allo stesso tempo, tuttavia, doveva essere in grado di trattenersi dal consumarlo in abbondanza, per mantenersi sano e abile al combattimento.

Durante il XIV secolo l’idea di un corpo atletico e potente si cementò ulteriormente: il corpo perfetto aveva spalle larghe e vita sottile, come mostrano alcuni tipici capi d’abbigliamento dell’epoca, che cercano di dare l’impressione di un petto ampio e di fianchi sottili.

Ritratto di Enrico VIII, di Hans Holbein
Ritratto di Enrico VIII, di Hans Holbein

Geoffroi de Charny, nel suo Libro della Cavalleria (1350 circa), si lamenta dei combattenti che non rispecchiano il canone estetico del guerriero e che cercavano di apparire più sottili di quanto no siano nella realtà, usando fasciature e altri stratagemmi:

Non è sufficiente per loro apparire come Dio li ha creati; non sono contenti di come sono, ma si fasciano a a tal punto da negare l’esistenza delle interiora che Dio ha dato loro: vogliono pretendere di non averle mai avute, ma tutti sanno che in realtà è proprio l’opposto. […] Molti di questi [cavalieri] sono stati catturati velocemente perché non potevano fare ciò che dovevano a causa delle limitazioni imposte da queste fasciature; e molti sono morti all’interno delle loro armature per lo stesso motivo, dato che non potevano minimamente difendersi. Anche senza le loro armature sono così fasciati e immobili da non poter fare nulla, non possono piegarsi o praticare sport che richiedono forza o agilità; possono a malapena sedersi…

I cavalieri erano tenuti a mostrare moderazione in ogni cosa, inclusa l’alimentazione. Alcuni autori medievali forniscono consigli su come determinare fin dalla fanciullezza quale potenziale cavaliere è destinato a diventare grasso in età adulta, per poterlo tenere lontano dalla vita marziale o indirizzarlo verso una serie di esercizi fisici in grado di mantenerlo in forma.

Grasso e privilegio

L’eccesso di peso era tuttavia soggetto a interpretazioni diverse che mutavano in base a posizione sociale, lavoro e sesso. Secondo alcuni autori, il sovrappeso non era incompatibile con la virtù: la nobiltà carolingia era nota per le enormi quantità di cibo consumate durante i banchetti, ma non per questo veniva considerata meno virtuosa.

Al duca Guido di Spoleto fu rifiutato il trono di Francia perché mangiava troppo poco, mentre numerosi manuali redatti per la nobiltà consigliavano di moderare il proprio appetito non per questioni morali, ma per non compromettere la capacità di regnare o amministrare.

In epoca medievale non mancano monarchi in sovrappeso o obesi. Carlomagno ad esempio viene descritto dal suo stesso biografo come una buona forchetta; la salma di Guglielmo il Conquistatore, invece, non fu in grado di entrare nel sarcofago per problemi di dimensioni eccessive, mentre Enrico VIII continuò a mangiare come l’atleta che fu in gioventù anche dopo un torneo in cui subì un grave infortunio, incidente che lo costrinse ad adottare uno stile di vita del tutto sedentario.

Il famoso ritratto di Enrico VIII dipinto da Hans Holbein suggerirebbe che il sovrano avesse raggiunto in tarda età un peso di quasi 200 kg, motivo per cui fu costretto ad essere trasportato su una lettiga anche per i piccoli spostamenti quotidiani.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Secondo la tradizione di Galeno, sovrappeso e obesità erano associati alla decadenza dei valori morali. Il Secretum Secretorum, composto in lingua araba intorno al X secolo e tradotto in latino durante il XII secolo, contiene opinioni negative nei confronti dell’eccesso di peso.

Re Sancho I di Leon fu deposto dalla carica di regnante a causa della sua obesità, un fattore che limitava la sua vita quotidiana: non poteva cavalcare, maneggiare abilmente una spada, fare sesso con la moglie e nemmeno camminare senza l’aiuto della servitù. Secondo alcuni resoconti, pesava 240 kg e consumava sette pasti al giorno composti da abbondanti pietanze a base di carne.

Sancho fu costretto a fuggire dalla nonna Toda, la quale si affidò al celebre medico arabo Hasdai ibn Shaprut per poter far tornare il nipote in discreta forma fisica. Hasdai sottopose Sancho ad un severo regime alimentare basato su erbe medicinali e oppio, sottoponendolo a massaggi vigorosi e ad esercizio fisico fino a riportarlo sufficientemente in forma da consentirgli di tornare dalla nonna a dorso di cavallo e di ottenere nuovamente il trono nell’anno 960.

Monaci paffuti

Contadini e artigiani non avevano lo stesso accesso alle risorse alimentari che aveva la nobiltà, motivo per cui il grasso corporeo era da loro interpretato come espressione di ricchezza ed elevato status sociale. Le frequenti critiche ai membri più “rotondi” del clero derivavano dal fatto che la loro immagine corporea era un sintomo della decadenza della Chiesa e del peso che esercitava questa istituzione sulle spalle dei meno abbienti.

In una ricerca pubblicata nel 2014 dal titolo “The ‘Obese Medieval Monk’: A multidisciplinary study of a stereotype“, l’autrice Pip Patrick sostiene che l’obesità era relativamente comune tra i monaci medievali inglesi.

Esaminando i resti ossei di 274 monaci e confrontandoli con quelli di persone comuni per determinare l’incidenza di malattie e disturbi legati all’obesità, Patrick ha scoperto che i monaci sviluppavano osteoartriti ad una frequenza 6 volte maggiore rispetto al tipico contadino o artigiano; una frequenza molto simile è stata osservata anche nei disturbi alle articolazioni connessi all’eccesso di peso.

Sancho I di Leon
Sancho I di Leon

I corpi dei monaci inglesi erano sensibilmente più alti e robusti rispetto alla media a causa del regime alimentare che seguivano: pasti ricchi di grassi e proteine da consumare nel più breve tempo possibile, aspetto che potrebbe aver compromesso il loro sistema digestivo rendendolo efficiente.

Il tipico monaco inglese del XII secolo consumava durante la giornata almeno 6 uova, bollite o fritte nel lardo; un ricco porridge vegetale o uno stufato di carne e verdure; carne di maiale, di montone, d’anatra, oppure pesce di fiume o di mare; quasi mezzo chilogrammo di pane e frutta fresca o secca a volontà, il tutto accompagnato da birra.

Il corpo della donna

La rotondità non era un tratto fisico dalla connotazione negativa nella donna medievale. Lo storico francese Georges Vigarello afferma che il sovrappeso femminile era una condizione essenziale per la bellezza delle donne medievali.

Nel “Le Ménagier de Paris“, un manuale del 1393 che contiene informazioni sul corretto comportamento di una donna di casa, si cita il fatto che la donna, come il cavallo, deve possedere quattro qualità fondamentali: una splendida chioma, un bel petto, vita sottile e un grande fondoschiena.

La situazione era invece differente per le donne che conducevano una vita religiosa: il controllo dell’alimentazione e i lunghi digiuni erano parte integrante della strada verso la santità, per gli uomini come per le donne. L’aspetto sottile di una donna rappresentava il suo allontanamento dai piaceri della carne e non la rendeva appetibile come partner riproduttivo per la sua presunta incapacità di essere una buona moglie e madre.

Alcuni trattati medievali analizzarono i corpi femminili e le loro rotondità mettendoli in relazione con la salute e la capacità riproduttiva. Nel Trotula, testo medico del XII secolo, il grasso corporeo viene messo in relazione alla menopausa (che inizierebbe intorno ai 35 anni per i corpi femminili dal moderato contenuto di grasso) e consiglia alcuni trattamenti per la perdita di peso: bagni caldi e sepoltura nella sabbia, per indurre una forte sudorazione (oggi sappiamo che questi trattamenti causano solo una perdita temporanea di liquidi, senza intaccare le riserve di grasso).

Fatness and Thinness in the Middle Ages
Were medieval monks obese?
Bones reveal chubby monks aplenty
Stigmatization of obesity in medieval times: Asia and Europe
The Final Humiliation of William the Conqueror’s Body During his Funeral
Medieval Monks & Their Meals

]]>
https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/feed/ 1
Oroo’, il linguaggio della giungla malese https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/ https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/#respond Mon, 06 Jul 2020 00:10:11 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4910 In Malesia vivono i Penan, indigeni nomadi che mantengono parzialmente uno stile di vita a diretto contatto con la foresta che li circonda. Anche se una parte dei Penan si è ormai convertita all’Islam ed è diventata stanziale, rimangono piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori (circa il 20% della popolazione totale) che seguono il principio del “molong“: vivere grazie dalla foresta e prendere dall’ecosistema solo lo stretto necessario.

Una peculiarità dei Penan è il linguaggio che utilizzano per scambiare messaggi all’interno della foresta. Il linguaggio Oroo’ nacque dalla necessità di comunicare con compagni di caccia e clan limitrofi senza essere fisicamente vicini, una sorta di “sms della giungla” usato da secoli e impiegato ancora oggi dai Penan durante le battute di caccia.

Il linguaggio della natura

In molte regioni del mondo le popolazioni che basano la propria sopravvivenza sulla caccia e sulla raccolta comunicano sfruttando gli elementi naturali: nell’arcipelago di Vanuatu, ad esempio, era comune l’impiego di disegni sulla sabbia per raccontare storie e per lasciare messaggi interpretabili da cacciatori e pescatori di passaggio.

I nativi americani usavano invece i noti segnali di fumo per scambiare informazioni su grandi distanze, evitando di affrontare lunghi e pericolosi viaggi al solo scopo di trasmettere un semplice messaggio. Sull’isola di la Gomera, infine, il linguaggio Silbo Gomero sfrutta fischi di diversa intensità e melodia per imitare il suono di quattro vocali e quattro consonanti, creando un vocabolario di combinazioni sonore composto da oltre 4.000 parole.

Lo scopo di questi “linguaggi alternativi” è molteplice: comunicare su lunghe distanza (il Silbo Gomero può essere udito fino a 4 chilometri di distanza), mantenere una lingua comune tra clan che parlano idiomi differenti, e trasmettere messaggi senza perturbare eccessivamente l’ecosistema, una capacità utile specialmente durante le battute di caccia.

Il linguaggio Oroo’ dei Penan è nato per le stesse ragioni; e proprio a causa del suo legame con uno stile di vita basato su caccia e raccolta, oggi rischia di sparire. I giovani Penan sono sempre meno attivi all’interno della foresta rispetto ai loro genitori e progenitori, e sempre meno interessati ad apprendere una lingua dei segni dall’utilità pratica pressoché nulla nel mondo moderno.

Lingua di foglie e rami

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Il linguaggio Oroo’ si basa principalmente sulla realizzazione di piccoli messaggi visivi sfruttando foglie e rami. Gli adulti Penan, specialmente i più anziani, possono creare oltre 30 messaggi differenti piegando, rompendo e strappando foglie e rametti.

I messaggi trasmessi dalla lingua Oroo’ prevedono comunicazioni che notificano lo stato di una battuta di caccia, informazioni e istruzioni utili da lasciare ad altri individui di passaggio, e annunci di pubblica utilità.

Il segno chiamato Murut, ad esempio, contiene l’identità di chi lo ha composto e viene collocato in spazi pubblici come una sorta di annuncio. Ma altri segnali possono comunicare la direzione e la composizione del gruppo di caccia, la preda inseguita o uccisa, i rapporti di parentela tra lo scrittore e il lettore, la presenza di elementi come trappole pericolose o oggetti naturali tabù, oppure per comunicare cerimonie di nozze o funerarie.

Chi studia i Penan riconosce in loro una straordinaria capacità di navigazione nella giungla e di interpretazione dei segnali presenti nell’ecosistema. Alcuni messaggi lasciati durante le escursioni nella foresta possono raggiungere insospettabili livelli di complessità per un metodo di comunicazione così semplice.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Una particolare configurazione di foglie e rametti può comunicare il seguente messaggio: “Il primo gruppo ha aspettato a lungo il secondo per parlare di una cosa urgente. Quindi il secondo gruppo dovrà ora viaggiare durante la notte per raggiungere il primo“.

Non esiste una grammatica per questo linguaggio. I ricercatori che si dedicano allo studio di questo idioma hanno tuttavia rilevato una sorta di complesso di regole, attualmente incompleto, che gestisce le variazioni di ogni messaggio.

Ad esempio, il segno di base chiamato “Batang Oroo” indica generalmente la direzione di marcia dell’autore, ma può essere combinato con foglie e altri rametti per assumere molteplici significati e creare un messaggio completo. In combinazione con il segno “Pelun” (un mucchietto di foglie) assume in significato di “attendi il nostro arrivo”; unito ad un bastoncino a “V” chiamato Tebai invita a seguire la direzione del rametto; in combinazione con due rametti incrociati a X significa invece “non andate in questa direzione”.

Il solo Batang Oroo, se inciso lungo il fusto in determinate posizioni, può comunicare la quantità di individui del gruppo di caccia, il loro stato di salute (affamati o assetati) o lo scopo e la durata della loro escursione.

Linguaggio incompleto in via di estinzione

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Anche se il linguaggio Oroo’ prevede messaggi come annunci di morte differenziati addirittura per sesso ed età, non contempla tuttavia annunci di nascita ben codificati. Gli anziani Penan sono comunque in grado di comunicare la nascita di un bambino e il suo sesso combinando segni destinati ad altri scopi.

Pur non esistendo un simbolo ben codificato e unanimamente condiviso per questo tipo di comunicazione, i Penan che conoscono l’Oroo’ sembrano interpretare allo stesso modo i messaggi che osservano deducendone il significato in base alla logica dei segni che lo compongono.
Per comunicare la nascita di una bambina, ad esempio, si può utilizzare il segno “Atip lutan“, solitamente associato alla creazione del fuoco, attività riservata alle donne.

I linguisti hanno distinto quattro principali categorie di segni Oroo’:

  • Segni legati ad attività, come attesa, pesca, caccia, incontro;
  • Segni di stato: affamato, assetato, in buona salute, ferito;
  • Oggetti come case, alberi, punti di riferimento;
  • Creature viventi: persona, scimmia, cinghiale, amici.

Come ogni linguaggio, anche l’Oroo’ sopravvive solo se sostenuto dall’uso costante. Gli anziani Penan hanno più volte espresso la loro preoccupazione riguardo lo scarso interesse dimostrato dai giovani nell’apprendimento della lingua della foresta: in molte parti della giungla è oggi possibile comunicare tramite la tecnologia, dalle radio ai telefoni cellulari, tecnologia che rende di fatto inutile la conoscenza dell’ Oroo’.

Penan’s Oroo’ Short Message Signs (PO-SMS): Co-design of a Digital Jungle Sign Language Application

]]>
https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/feed/ 0
Il kit di sopravvivenza delle popolazioni dell’Artide https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/ https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/#respond Mon, 08 Jun 2020 00:12:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4905 Per giugno 2020 avevo previsto un breve weekend a Londra per una visita al British Museum in occasione della mostra “Arctic“, un’esposizione incentrata sugli stili di vita tradizionali dei popoli che vivono nei pressi del circolo polare artico. Per ragioni legate al coronavirus questo viaggio è stato rimandato a data indefinita, se non del tutto annullato, ma il sito del British Museum ha reso disponibile una raccolta di foto e informazioni relativi alla mostra, come l’articolo “10 things you need to live in the Arctic“.

Cosa serve per sopravvivere all’ecosistema artico? Le popolazioni che tradizionalmente occupano le regioni più fredde del pianeta sono eccellenti nello sfruttare i pochi materiali naturali a loro disposizione per realizzare oggetti fondamentali per la sopravvivenza nella tundra o tra i ghiacci polari, come indumenti e utensili.

Stivali
Stivali Gwich'in in pelle d'alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.
Stivali Gwich’in in pelle d’alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.

Un buon paio di stivali è fondamentale per la sopravvivenza nell’Artico, non solo per tenere al caldo le estremità inferiori, ma anche per facilitare l’attraversamento di ghiaccio o di spesse coltri di neve.

Il popolo Gwich’in, che vive tra il Canada e l’Alaska, realizza splendidi stivali dalla pelliccia di castoro e di caribù, decorandoli con piccole perline ottenute da piccole pietre, vetro o conchiglie. Le suole degli stivali sono invece realizzate in pelle d’alce affumicata, un trattamento che la rende spessa, resistente e simile al velluto.

Gli Inuit, gli Inupiat e gli Yupic fabbricano da secoli i mukluks (o kamik), stivali soffici in pelle di renna o di foca tenuti insieme da filamenti di tendine animale, un materiale particolarmente resistente e adatto al clima artico.

Questi stivali rappresentavano lo strato intermedio della calzatura: sotto di essi si trovava uno strato di pelliccia, con il pelo rivolto verso l’interno per migliorare l’isolamento termico, mentre il piede veniva rivestito esternamente da una soletta semi-rigida in pelle conciata e affumicata.

Occhiali da neve
Occhiali da neve in poelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.
Occhiali da neve in pelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.

Uno dei pericoli più sottovalutati durante le escursioni tra il ghiaccio o la neve è l’esposizione alla luce solare. La cecità da neve è una patologia che si sviluppa a seguito dell’esposizione prolungata della cornea alla luce ultravioletta riflessa dai cristalli di ghiaccio.

Gli occhi iniziano a lacrimare senza sosta, il dolore nella zona oculare diventa persistente e si può arrivare alla cecità totale momentanea. I sintomi di solito non sono permanenti: dolore e cecità possono svanire entro una o due settimane, a patto di evitare ulteriore esposizione alla luce ultravioletta.

I Dolgan della Russia settentrionale e centrale fabbricano occhiali da neve in pelle di renna. Pur essendo privi di lenti ottiche, offrono una semplice ma efficace protezione per gli occhi: le fessure limitano l’ingresso dei raggi ultravioletti ma garantiscono un buon grado di visibilità.

Parka
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.

L’abbigliamento necessario nelle regioni artiche deve essere resistente all’usura, isolante ma allo stesso tempo traspirante, per evitare che si formi della pericolosa umidità tra gli indumenti e il corpo umano. L’umidità condensata abbassa la temperatura corporea, condizione non ideale in un ecosistema in cui il calore è raro ed estremamente prezioso.

I parka, eskimo o anorak sono originari delle popolazioni Inuit, Inupiat e Yupik e venivano generalmente realizzati con pelli di renna o di foca, materiali che ancora oggi sono competitivi, in quanto a resistenza e isolamento termico, con i tessuti più moderni.

Alcuni parka, anche se non molto efficienti nell’ isolamento termico, erano completamente impermeabili: il materiale con cui venivano realizzati, interiora di foca, è totalmente idrorepellente, offre una buona protezione dall’umidità atmosferica e costituisce una barriera invalicabile per le zanzare che popolano l’estate della tundra.

Slitte
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.

Viaggiare sulla neve o sul ghiaccio è faticoso e pericoloso. Le popolazioni nomadi o seminomadi, inoltre, devono muovere grandi quantità di materiale durante i loro spostamenti stagionali: cibo, tende, utensili e indumenti non possono essere trasportati su lunghe distanze con la sola forza di braccia e gambe.

Dopo aver compreso che più la superficie a contatto con la neve o il ghiaccio è estesa, più si ottiene stabilità e movimento fluido, i popoli dell’Artico iniziarono a realizzare slitte capaci di coprire distanze notevoli scivolando sulle superfici che il piede umano affronta con difficoltà.

Per le loro slitte i popoli artici sfruttavano ogni materiale a loro disposizione: ossa di animali marini o terrestri per il telaio, tendine, cuoio o fibre vegetali per il cordame, e pelle di foca per creare una copertura isolante.

Aghi
Aghi d'avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.
Aghi d’avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.

Gli Inuit e le popolazioni dell’Artico sono abili costruttori di meravigliosi aghi d’osso e di legno, con i quali possono riparare tende, indumenti e oggetti di varia natura. Gli aghi d’osso e di legno, per la natura stesse del materiale da cui vengono realizzati, non hanno le dimensioni e le caratteristiche meccaniche degli aghi moderni, ma sono incredibilmente efficaci.

Gli aghi sono utensili utilissimi per la vita quotidiana dei popoli artici: parka, stivali, canoe e tende (come i tupiq Inuit) richiedevano l’impiego di fibre resistenti (come il tendine) e di strumenti in grado di perforare con facilità cuoio e pelliccia.

Ottenere un ago efficace da un osso è un’operazione lunga e tediosa; gli aghi erano quindi beni preziosi, e venivano conservati in appositi contenitori generalmente portati sulla cintura, per essere pronti all’uso e limitare la possibilità di perderli.

Ulu e coltelli
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.

Per gli Inuit e gli Yupik, l’ ulu non è un semplice coltello, ma un utensile multiuso impiegato per recidere, per la pulizia delle pelli, per il taglio dei capelli o per rifinire blocchi di neve in assenza di un vero e proprio coltello da ghiaccio.

Gli ulu moderni sono in acciaio, ma la lama veniva anticamente realizzata con corno di renna o avorio di tricheco. Il tipico ulu ha dimensioni che variano in base all’impiego a cui è destinato: gli ulu più piccoli (circa 5 centimetri di lunghezza della lama) sono utilizzati per il taglio dei tendini o per la decorazione della pelle, mentre quelli più grandi trovano molteplici applicazioni nella vita quotidiana degli Inuit.

Nelle regioni artiche in cui veniva praticata la metallurgia, il coltello rappresentava l’utensile di prima scelta per la maggior parte delle attività quotidiane. Gli allevatori di renne lo usavano per castrare o macellare i loro animali, per marchiare le orecchie dei capi di bestiame in modo da riconoscerli, per incidere il legno e, se necessario, per la difesa personale.

Utensili da cucina
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all'inizio del 1900.
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all’inizio del 1900.

Buona parte della dieta dei popoli artici è composta da nutrienti di origine animale. Alcuni possono essere consumati crudi, altri invece necessitano di cottura prima di essere ingeriti. Anche alcune delle poche fonti vegetali di nutrienti, come erbe, tuberi, bacche e alghe necessitano di cottura per risultare commestibili o gradevoli al palato.

La cottura non consisteva esclusivamente nell’esposizione degli alimenti alla fiamma vita: gli Inuit utilizzavano bollitori di roccia metamorfica, blocchi di pietra che venivano scavati con pazienza e perizia per consentire la bollitura di cibo e acqua.

10 things you need to live in the Arctic

Eskimo Lamps and Pots

]]>
https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/feed/ 0
Lo zoo di Montezuma https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/ https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/#respond Mon, 18 May 2020 00:06:44 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4861 Prima dell’istituzione moderna dello zoo, alcuni sovrani o uomini particolarmente ricchi amavano collezionare animali nel loro serraglio privato. Collezionare animali rari o esotici era uno status symbol: dimostrava ricchezza, potere e connessioni commerciali ed economiche molto rilevanti con il resto del mondo.

Carlo Magno aveva ben tre serragli a Aachen, Nijmegen e Ingelheim, serragli che ospitavano scimmie, leoni, orsi, cammelli, falchi, uccelli esotici di ogni tipo e un esemplare di elefante, il primo registrato in Europa dai tempi dell’ Impero Romano.

Il serraglio dell’ imperatore Montezuma, spesso definito un vero e proprio zoo, merita tuttavia una menzione particolare per le sue dimensioni, per le risorse impiegate nel suo mantenimento e per la varietà di animali presenti al suo interno.

Serraglio, l’antenato del giardino zoologico

Il primo serraglio della storia sembra essere stato quello di Ieraconpoli, o Nekhen, una città egizia che si trova lungo la riva occidentale del Nilo e centro di culto del dio Horus (Nekhen significa “Città del Falco”). All’interno del serraglio, in attività circa 5.500 anni fa, si potevano osservare ippopotami, gnu, elefanti, babbuini e felini selvatici africani.

Nel II secolo a.C. l’imperatrice cinese Tanki istituì la “Casa del Cervo”, un serraglio dedicato in particolar modo ai cervidi, ma circa un millennio prima di lei il re Wen di Zhou aveva destinato una fetta di 6 km quadrati dei suoi possedimenti a quello che lui chiamava “Ling-Yu” (“Giardino dell’Intelligenza”, o “Parco Divino”), un serraglio in cui erano custodite alcune delle specie animali più curiose e rare del continente asiatico: antilopi, capre, cervidi, pesci, uccelli dai colori sgargianti e animali considerati sacri.

Sembra che i Greci amassero particolarmente l’istituzione del serraglio: molte città-stato avevano strutture adibite a zoo o voliere, e il serraglio di Alessandria arrivò a contenere una collezione di animali che farebbe impallidire alcuni zoo moderni: elefanti, felini di ogni tipo, giraffe, rinoceronti, diverse specie di antilopi, orsi, e probabilmente un enorme pitone africano.

La passione per il collezionismo di animali nella Roma antica si sviluppò intorno al III secolo a.C. ma pian piano perse di valore: la maggior parte dei serragli si occupavano principalmente di custodire animali destinati alle arene. Con il crollo dell’impero, il serraglio divenne sempre più un inutile e costosissimo show di potere che ben pochi potevano o volevano permettersi.

Intorno al XIII secolo iniziano ad apparire nuovamente serragli in tutta Europa: a Napoli, Firenze, Milano, Lisbona e Nicosia erano presenti serragli invidiati in tutto il Vecchio Continente. A Oriente, invece, Marco Polo visitava la personale collezione di animali di Kublai Khan, un serraglio che conteneva animali provenienti dall’Asia e dall’Africa.

Lo zoo di Montezuma

Nel libro VIII del Codice Fiorentino, ultima versione in spagnolo e lingua nauhatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España” di Bernardino de Sahagun, è presente l’illustrazione di alcuni “guardiani” addetti alla cura degli animali presenti nel serraglio di Montezuma, sovrano azteco con l’evidente passione per le bestie rare.

Secondo i resoconti in nostro possesso, Montezuma avrebbe posseduto un serraglio/zoo contenente un’infinità di animali: uccelli di ogni tipo e provenienza, leoni di montagna, ocelot e orsi. Il serraglio era così grande da richiedere la cura costante di almeno 300 guardiani.

Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577
Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577

Gli animali dello zoo consumavano quotidianamente la carne di oltre 500 tacchini, in particolar modo i grandi felini e gli uccelli rapaci. Un edificio era interamente dedicato a falchi e aquile, mentre una seconda struttura ospitava uccelli di altre specie; all’interno di queste strutture vivevano i guardiani, il cui unico scopo nella vita era quello di mantenere in salute gli animali sotto la loro custodia.

Secondo S.L. Washburn, del Dipartimento di Antropologia dell’ Università della California, Berkeley, i resti umani ottenuti dai sacrifici rituali venivano utilizzati per alimentare i grandi predatori dello zoo di Montezuma. I predatori di grossa taglia, come i leoni di montagna, ricevevano ogni giorno svariati chilogrammi di carne umana, viscere comprese, ottenendo un apporto di proteine sufficiente alla loro sopravvivenza.

L’area esterna dello zoo conteneva 20 stagni, 10 di acqua salata e i rimanenti pieni d’acqua dolce, che fornivano gli habitat ideali per pesci, anfibi, rettili e uccelli acquatici. Il serraglio ospitava anche grandi predatori come giaguari, puma, coccodrilli, orsi e lupi, e animali di taglia media o piccola, come scimmie, bradipi, armadilli e tartarughe.

Non solo: era presente un piccolo edificio nel quale erano rinchiuse diverse specie di serpenti a sonagli e viperidi, tenuti per cautela all’interno di contenitori di terracotta. Nel giardino, infine, vagava ciò che venne descritto “toro messicano”, considerato dagli Aztechi l’animale più raro e descritto come un animale del tutto simile al bisonte nordamericano.

Ma il diario di Cortez e i resoconti di alcuni dei suoi compagni di conquista citano anche alcune particolari sezioni di questo zoo destinate agli esseri umani.

La “Casa degli Umani”

Le descrizioni contemporanee e di poco posteriori non sono sempre concordi nei dettagli dello zoo di Montezuma, ma il resoconto di Cortez viene considerato uno dei più singolari perché cita una “Casa degli Umani”, un’area dello zoo adibita alla custodia di esseri umani.

Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali
Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali

Nel corso della descrizione di uno dei palazzi in cui Montezuma custodiva i suoi uccelli, Cortez afferma che:

“In questo palazzo c’è una stanza in cui ci sono uomini e donne e bambini, con viso, corpo, capelli, sopracciglia e ciglia tutti bianchi dalla nascita…Aveva un’altro edificio in cui c’erano molti uomini e donne mostruosi, tra i quali nani, persone con arti deformi, gobbi e altri con differenti deformità, e ogni persona aveva una stanza personale, e c’erano persone dedicate a fornire loro assistenza”

Secondo Francisco López de Gómara, storico e cappellano di Cortez che tuttavia mai accompagnò il conquistatore spagnolo nelle Americhe, le persone affette da nanismo o da deformità fisiche avevano un ruolo rilevante nella corte di Montezuma: venivano impiegati come confidenti, spie, servitori o intrattenitori. Alcuni godevano di uno status sociale così elevato da poter mangiare subito dopo il sovrano e i suoi commensali, prima di servitori e guardie.

Cortez tuttavia non cita il ruolo dei disabili fisici all’interno della corte o del sistema politico azteco. Li descrive rinchiusi in un edificio, ben nutriti e serviti ma pur sempre proprietà imperiali, non rispettati come esseri umani ma come possedimenti.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Zoo History: The Halls of Montezuma
Menagerie
Animals and the Law: A Sourcebook
Were humans included in Moctezuma’s Zoo?
Cartas y relaciones de Hernan Cortés al emperador Carlos V

]]>
https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/feed/ 0
Breve storia della rasatura e del rasoio da barba https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/ https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/#comments Mon, 30 Mar 2020 00:10:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4817 Quando è iniziata l’usanza di radersi la barba? Quale fu il primo utensile usato come rasoio? L’uso di strumenti per rasare barba e i capelli è più antico della storia scritta: nel corso dei millenni, l’essere umano è passato dall’impiego di strumenti rudimentali e poco efficaci, come bronzo e osso, a rasoi metallici sempre più affilati, resistenti ed efficaci.

Mediamente, il viso di un essere umano maschio e adulto è coperto da 25 centimetri quadrati di barba, l’equivalente ci circa 25.000 peli tra mento, guance e collo. La rimozione di questa peluria prevede l’uso di strumenti particolarmente affilati, in grado di scivolare sulla pelle con l’ausilio di acqua, creme o saponi.

In un remoto passato, tuttavia, ciò che si aveva a disposizione era pietra, ossa o metalli e leghe oggi considerate troppo “morbide” per la produzione di lame affilate e durature.

L’origine del rasoio da barba

L’atto di radersi è più antico della storia stessa. Ancora prima della nascita del rasoio, i peli facciali venivano probabilmente rimossi utilizzando due conchiglie come pinzette per estirparli, o impiegando frammenti di pietra tagliente (come la selce o l’ossidiana) o d’osso per tagliare la peluria indesiderata.

Rasoi di ossidiana prodotti da culture precolombiane in Messico
Rasoi di ossidiana prodotti da culture precolombiane in Messico

Alcune pitture rupestri raffigurano uomini con e senza barba, suggerendo la possibilità che circa 30.000 anni fa la rasatura o la rimozione della peluria facciale fosse una pratica relativamente comune. Selce e ossidiana (specialmente la seconda) possono consentire una rasatura facciale sorprendentemente efficace, anche se possono esporre al rischio concreto di tagli superficiali o incisioni più profonde della cute.

In alcune regioni asiatiche e in Medio Oriente non si usavano rasoi rudimentali, ma si eseguiva un’estirpazione dei peli corporei e facciali utilizzando fili ritorti che intrappolavano la peluria e la strappavano dalla pelle.

Fu tuttavia in Egitto che si stabilì la pratica regolare della rasatura tra le attività quotidiane di igiene personale. Lo storico greco Erodoto non mancò di far notare l’ossessione degli Egizi per l’igiene: si lavavano diverse volte al giorno e si rasavano volto e testa con regolarità, specialmente in ambito sacerdotale, dove i capelli e la barba erano considerati impuri e motivo di vergogna.

La rimozione dei capelli e della barba non era una pura questione estetica: il clima nordafricano e l’umidità del Nilo erano l’ambiente ideale per provocare irritazioni cutanee o infezioni accentuate dalla presenza di peli corporei, e un corpo glabro era generalmente più fresco di uno peloso.

Pulci e pidocchi erano inoltre molto comuni e molto difficili da combattere senza disporre di saponi specifici. La maggior parte degli Egizi non poteva permettersi unguenti e saponi profumati, e preferiva rimuovere totalmente l’ambiente ideale per i parassiti (capelli e peli) per impedire sul nascere la colonizzazione del proprio cuoio capelluto o di altre regioni del corpo più delicate.

I corredi funebri delle personalità egizie più prominenti prevedevano spesso la presenza di strumenti per la cura delle mani e dei piedi, oltre che cosmetici e rasoi da barba. Solo i contadini, gli schiavi, i criminali e i barbari portavano la barba, spesso considerata un segnale di trascuratezza e di scarsa igiene personale.

Rasoio e specchio egizi in bronzo
Rasoio e specchio egizi in bronzo

Le uniche eccezioni erano rappresentate dagli esponenti di famiglie particolarmente potenti: dato che Osiride aveva la barba, alcuni personaggi di spicco mantenevano i peli facciali come segno di vicinanza con il mondo divino.

I rasoi egizi erano generalmente in bronzo o in rame e avevano una forma ricurva, spesso a mezzaluna o a forma di piccola ascia, ma il loro utilizzo era sostanzialmente identico a quello dei rasoi moderni. Anche se più tenero del ferro o dell’acciaio, il bronzo può essere facilmente modellato per ottenere una lama sottile e tagliente, ideale per il taglio dei peli corporei.

La pietra pomice era un materiale comune per la depilazione: applicando “creme depilatorie” e sfregandola contro la pelle, eliminavano la maggior parte dei peli visibili attraverso un processo di abrasione.

Il rasoio nell’ Europa antica

Alcuni scavi condotti in tumuli funebri scandinavi risalenti al 1500-1200 a.C. hanno riportato alla luce alcuni rasoi di bronzo molto elaborati, con manici a forma di testa di cavallo. Questo suggerirebbe che anche in Europa alcune culture considerassero importante l’atto di radersi, ma questa attenzione per la rimozione dei peli facciali non era affatto condivisa da tutti.

Nella Grecia antica, ad esempio, i cittadini di sesso maschile davano molto valore alla propria barba, considerata simbolo di saggezza e di elevato status sociale. Molte divinità ed eroi greci avevano la barba (come Zeus o Ercole), e il taglio della barba era previsto solo durante periodi di lutto.

Fu durante il IV secolo a.C. che, promossa da Alessandro Magno, la rasatura iniziò a diffondersi in Grecia: secondo il condottiero macedone, la barba poteva essere usata dal nemico per afferrare un soldato durante il combattimento corpo a corpo.

Anche i Romani apprezzavano la barba, ma al contrario dei Greci cercavano di mantenerla costantemente corta e ben curata, oppure optavano per una rasatura completa. Secondo Livio, il rasoio fu introdotto a Roma durante il VI secolo a.C. dal re Tarquinio Prisco, ma ci volle oltre un secolo perché questo strumento diventasse d’uso comune tra la popolazione.

Rasoio romano in ferro datato tra il I e il V secolo d.C.
Rasoio romano in ferro datato tra il I e il V secolo d.C.

Nel III secolo a.C., i giovani romani celebravano il passaggio alla vita adulta sottoponendosi a rasatura della barba. Contrariamente a quanto facevano i Greci, era consentito lasciar crescere incolta la propria barba solo in caso di lutto.

Prima dell’introduzione del rasoio, i Romani erano soliti utilizzare pinzette metalliche, di legno o d’osso per estrarre i peli facciali uno ad uno. La rimozione della barba era una questione relativamente seria: una barba ben curata o una rasatura completa era uno degli elementi fisici che distinguevano un Romano da un barbaro o da un Greco.

I rasoi romani erano generalmente di ferro, ma la disponibilità di ossidiana e selce nei territori sotto il dominio di Roma consentiva di creare lame efficaci per la rasatura anche da pietra vulcanica o da materiale litico in grado di produrre fratture concoidi.

Sia ferro che ossidiana, tuttavia, presentano un problema cruciale: i rasoi di metallo e di pietra vulcanica rispettivamente si ossidano o tendono a frammentarsi a causa della fragilità del materiale, portando alla perdita del filo della lama ed esponendo il volto al rischio di ferite superficiali. I barbieri romani applicavano sui tagli facciali una lozione a base di sostanze profumate e tela di ragno impregnata d’olio d’oliva e aceto.

Dal Medioevo in poi

A partire dalle prime incursioni vichinghe dell’ VIII-IX secolo, la moda della rasatura cambiò di frequente. All’arrivo dei primi norreni sulle coste britanniche, gli invasori furono immediatamente accusati, tra le altre ingiurie, di essere sudici e dall’aspetto poco curato, con barbe e capelli molto lunghi.

Questo ritratto dei Vichinghi, che oggi consideriamo del tutto inaccurato, rilanciò la pratica della rasatura in tutta Europa, per distinguere gli uomini timorati di Dio dagli infedeli figli del demonio.

L’uso del rasoio rimase altalenante per secoli sotto l’influsso delle mode degli strati più elevati della società del tempo: Enrico VII viene annoverato tra i sovrani senza barba, ma Enrico VIII, suo successore, portava una barba corta e ben curata.

A partire dalla protesta di Martin Lutero, invece, alcuni protestanti iniziarono a lasciar da parte il rasoio in favore di una barba in grado di affermare la propria condivisione delle idee luterane.

Durante il Medioevo e oltre, l’uomo comune si rasava a casa con rasoi di ferro o bronzo; il rasoio rimarrà sostanzialmente immutato fino alla seconda metà del 1700. Chi poteva permetterselo, si recava da un barbiere o ne aveva uno tra la servitù domestica, ma la tecnologia a disposizione dei migliori barbieri del tempo rimaneva la stessa che l’uomo comune usava per tenere a bada la barba.

Rasoio in ferro del XV secolo
Rasoio in ferro del XV secolo

Tra il 1769 e il 1772 il barbiere francese Jean-Jacques Perret scrive “La Pogonotomie, ou L’art d’apprendre à se raser soi-même” (“Pogotomia, o l’Arte dell’Apprendere a Radersi”), un testo in cui analizza approfonditamente ogni minuzia della rasatura. Pochi anni prima, Perret aveva sviluppato il design moderno del rasoio a mano libera da barbiere, dotato di una lama estremamente affilata.

Tra i meriti di Perret c’è anche l’aver immaginato e creato il primo rasoio di sicurezza: si trattava di una lama dello stesso acciaio del rasoio a mano libera, ma incastrata in un telaio di legno per tenerla a distanza di sicurezza dalla pelle.

Il segreto dei rasoi di Perret era l’acciaio di Sheffield, un tipo di acciaio particolarmente duro e adatto alla fabbricazione di lame taglienti ideato da Benjamin Huntsman. Questo acciaio riscosse molto successo anche in Francia per la produzione di lame da barbiere.

Ben consapevole di sfondare il limite dell’età preindustriale, mi è impossibile non citare King C. Gillette, l’inventore del primo rasoio di sicurezza a lame rimovibili. Nel 1895, Gillette rivoluzionò il mercato dei rasoi creando un modello di business basato sulla vendita di milioni di lame economiche e sostituibili attaccate ad un manico venduto ad un prezzo pari o inferiore al costo di produzione.

Le vendite nel primo anno (1903) furono terribili: 51 rasoi e 168 lame. Nell’arco del secondo anno, invece, le vendite decollarono superando i 90.000 rasoi e oltre 123.000 lamette. Nel 1908, a sei anni dall’ apertura della Gillette Safety Razor Company, l’azienda possedeva fabbriche negli Stati Uniti, in Canada e in Europa; Nel solo 1915, la Gillette ha venduto 450.000 rasoi e oltre 70 milioni di lamette.

The History of Shaving – From Prehistoric Times to Modern Day
Shaving History
THE HISTORY OF SHAVING AND BEARDS
Razor
How did men in ancient times shave?

]]>
https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/feed/ 1
Il Combattimento dei Trenta https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/ https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/#respond Mon, 09 Mar 2020 00:30:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4806 La concezione romantica dei cavalieri medievali europei sta ormai decadendo sotto i colpi della realtà storica. Ben lontani dall’essere tutti ligi ai codici d’onore e rispettosi del proprio avversario, le circostanze spesso violente e spietate del Medioevo richiedevano di fare il necessario per sopravvivere: tradimenti, omicidi e massacri di innocenti costituivano una buona parte delle gesta del tipico cavaliere medievale.

Ci sono episodi, tuttavia, che hanno contribuito a diffondere e gonfiare il romanticismo del cavalierato: uno di questi è ciò che viene chiamato Combattimento dei Trenta, una battaglia organizzata dalle due grandi potenze europee coinvolte nella guerra di successione bretone, Francia e Inghilterra, svoltasi il 26 marzo 1351.

La guerra per la successione bretone

Francia e Inghilterra non sono mai state molto amichevoli l’una con l’altra. Durante ciò che viene comunemente definita “Guerra dei cent’anni” le battaglie furono molte, e le casate di Montfort e di Blois furono tra le grandi protagoniste degli scontri.

I Montfort, sostenuti dagli Inglesi, non perdevano occasione per decimare i Blois, spalleggiati dalla Francia, e i loro avversari facevano lo stesso alla prima circostanza utile. Ma durante la conquista del Ducato di Bretagna si raggiunse una posizione di stallo tra le due fazioni: nessuna delle parti coinvolte riusciva ad avere la meglio, motivo per cui fu deciso di comune accordo di organizzare una sorta di torneo, una vera e propria battaglia tra pochi combattenti selezionati che avrebbero lottato per la supremazia del territorio conteso.

Sembra che l’iniziativa del torneo fu presa a seguito di una sfida personale tra due cavalieri: Robert Bemborough, soldato dei Montfort e dislocato a Ploërmel, fu ufficialmente sfidato a duello da Jean de Beaumanoir, che occupava il villaggio di Josselin per conto dei Blois.

Pare che fu lo sfidato, Bemborough, a proporre di allargare la sfida a qualche decina di cavalieri per ciascuna fazione, trasformandola in una sorta di mini-battaglia; la proposta fu accettata con entusiasmo dai Blois.

L’estensione del duello ad altri combattenti, secondo alcuni cronisti dell’epoca, non era motivata dalla convinzione che uno scontro circoscritto avrebbe potuto mettere fine al conflitto. La risposta di Bemborough alla sfida rivoltagli da Jean de Beaumanoir fu che un semplice duello non avrebbe intrattenuto le dame inglesi e francesi quanto una vera battaglia tra 20-30 uomini scelti.

Le Combat des Trente (entre Ploërmel et Josselin), Pierre Le Baud (1480)
Le Combat des Trente (entre Ploërmel et Josselin), Pierre Le Baud (1480)

Secondo i due cronisti Jean Le Bel e Jean Froissart, il torneo era animato da ragioni d’onore, escludendo ogni sorta di conflitto personale tra i combattenti coinvolti. Il problema della proprietà del Ducato di Bretagna viene esposto come una semplice questione di principio, più che un tassello strategico per la supremazia di Francia o Inghilterra.

Non mancano tuttavia storie popolari e documenti che raccontano versioni differenti: quelli francesi sostengono che Bemborough facesse scorrerie tra la popolazione locale uccidendo chiunque senza ragione; in questo caso, Jean de Beaumanoir viene presentato come il liberatore del popolo dalla tirannia inglese.

La battaglia

Lo scontro concordato fu organizzato sotto forma di grande torneo nei pressi di una grande quercia, a metà strada tra Ploërmel e Josselin, con tanto di spettatori e nobiltà locale chiamati ad assistere allo scontro e a godere del grande rinfresco preparato per l’occasione.

Lo schieramento dei Blois, che contava 31 uomini, era capeggiato da Beaumanoir; quello dei Montfort, composto dallo stesso numero di combattenti, aveva come capitano Bemborough. Beaumanoir aveva a disposizione trenta guerrieri bretoni, mentre il suo rivale poteva contare su 20 inglesi, sei mercenari tedeschi e quattro bretoni.

La documentazione storica ci consente di sapere anche i nomi dei guerrieri coinvolti nel torneo, un elenco consultabile a questo link: Combat of the 30: Jean de Beaumanoir v. Robert Bramborough.

La battaglia fu combattuta da cavalieri e fanti armati di spade, daghe, lance e asce. Secondo Froissart, il torneo fu impregnato di gesti di galanteria e azioni eroiche, ma non mancarono i morti e i feriti: dopo diverse ore di combattimento, un totale di sei corpi giacevano senza vita sul campo di battaglia, 4 dello schieramento francese e due appartenenti alle fila inglesi.

Le Combat des Trente (1857)
Le Combat des Trente (1857)

La fatica e i caduti portarono di comune accordo ad un’interruzione, per consentire ai guerrieri di mangiare, abbeverarsi ed essere curati dalle ferite subite. Alla ripresa delle ostilità, il leader inglese Bemborough fu ferito mortalmente da un soldato francese, costringendo i suoi uomini a formare un solido schieramento difensivo attorno al corpo del capitano.

Dopo diversi tentativi, i Francesi riuscirono a sfondare le difese inglesi grazie allo scudiero Guillaume de Montauban, che ruppe le linee difensive effettuando una carica in sella al suo cavallo e mettendo fuori gioco sette cavalieri inglesi, costringendo i rimanenti alla resa.

Il risultato della battaglia fu la vittoria dello schieramento francese. Gli Inglesi contarono nove morti e oltre venti feriti; alcuni di loro furono presi come ostaggi e rilasciati dopo il pagamento di un piccolo riscatto.

Le conseguenze dello scontro

Anche se il torneo non ebbe alcun effetto sul risultato della guerra bretone di successione, fu cantato per molto tempo dai trovieri e preso ad esempio come ideale di scontro cavalleresco. Una pietra commemorativa fu collocata sul luogo dello scontro, a metà strada tra Josselin e Ploermel.

Anche in questo caso non mancarono versioni della vicenda diametralmente opposte: nella versione francese, i Montfort erano i “cattivi”, dipinti come una masnada di mercenari e briganti che tormentavano la povera gente francese.

L’obelisco commemorativo voluto da Napoleone nel 1811 e posizionato sul sito dello scontro afferma che “trenta bretoni i cui nomi sono riportati qui sotto, lottarono per difendere i poveri, i braccianti e gli artigiani e scacciare gli stranieri attratti dal suolo della Contea. Posteri dei Bretoni, imitate i vostri antenati!“.

Gli Inglesi, invece, non esaltarono particolarmente la vicenda, forse per nascondere la sconfitta. La versione inglese sostiene che i Francesi avessero in qualche modo imbrogliato. Edward Smedley (1788–1836), nella sua “Storia di Francia“, afferma che la manovra dello scudiero che sfondò lo schieramento difensivo inglese aveva “le sembianze di un tradimento”.

La battaglia ebbe eco anche nelle decadi successive, con conseguenze durature sullo status della nobiltà inglese e francese: a distanza di vent’anni, Jean Froissar si accorse della presenza di un reduce dello scontro, Yves Charruel, seduto al tavolo di Carlo V grazie alla posizione sociale ottenuta dalla partecipazione al Combattimento dei Trenta.

Combat of the Thirty
A Verse Account of the Combat of the Thirty
Combat of the 30 – 26 March 1351
The Combat of the Thirty: Knightly deeds in a dirty little war

]]>
https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/feed/ 0