Medicina antica e psicologia – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Londra, XVIII secolo: il paradiso della sifilide https://www.vitantica.net/2020/11/02/londra-xviii-secolo-il-paradiso-della-sifilide/ https://www.vitantica.net/2020/11/02/londra-xviii-secolo-il-paradiso-della-sifilide/#respond Mon, 02 Nov 2020 00:10:06 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5022 Le malattie sessualmente trasmissibili sono oggi un problema largamente diffuso e potenzialmente molto serio. Se, per alcune di esse, è sufficiente un ciclo di antibiotici per liberarsi del fastidi da loro provocati, altre possono rivelarsi estremamente dolorose, debilitanti o fatali nel medio-lungo termine.

Ma le malattie veneree non sono un male moderno: da quando esiste la prostituzione, gonorrea, clamidia e sifilide hanno trovato terreno fertile nei rapporti sessuali promiscui e non protetti. Questo vale soprattutto per le grosse città del passato, dove le “case del piacere” e la prostituzione attiravano la maggior parte della loro clientela da ogni strato sociale, dall’artigiano alla nobiltà.

Secondo Simon Szreter e Kevin Siena, rispettivamente della University of Cambridge e della Trent University, circa 3 secoli fa un quinto dei londinesi veniva colpito dalla sifilide entro i 35 anni, una probabilità di 25 volte superiore agli inglesi che vivevano nelle zone rurali.

La sifilide

La sifilide è una malattia trasmessa sessualmente dal batterio Treponema pallidum. La malattia si sviluppa in quattro fasi dai sintomi progressivamente più gravi; la terza fase, in particolare, può scatenarsi da 3 a 15 anni dopo la prima infezione e prevede la formazione di tumori cronici che colpiscono prevalentemente la pelle, le ossa e il fegato.

La prima epidemia di sifilide europea si verificò tra il 1494 e il 1495 a Napoli e fu diffusa dalle truppe francesi che assediavano la città, probabilmente dai mercenari spagnoli al soldo di Carlo VIII di Valois. Conosciuta in Italia come il “mal francese” (e in Francia come “mal napolitan“), assunse il suo nome moderno nel 1530 grazie al medico italiano Girolamo Fracastoro.

L’origine esatta della sifilide è sconosciuta, anche se ci sono due principali ipotesi: la prima prevede che la sifilide sia giunta in Europa sfruttando l’equipaggio di Colombo di ritorno dalle Americhe. L’analisi di 538 resti scheletrici pre-colombiani supporterebbe l’ipotesi che circa il 6-14% della popolazione locale fosse affetta da sifilide.

La seconda ipotesi vede invece la sifilide come una malattia già presente in Europa prima dello scambio colombiano. Alcuni resti scheletrici di Pompei e Metaponto mostrano danni coerenti con la terza fase della malattia, ed è possibile che alcuni casi di sifilide in Europa siano stati confusi con la lebbra. Uno scheletro austriaco risalente al XIV secolo mostrerebbe indizi di sifilide congenita, trasmessa non sessualmente ma da madre a figlio.

A partire dall’epidemia napoletana la sifilide si diffuse in tutta Europa, con un tasso di mortalità ben superiore a quello moderno che provocò fino a 5 milioni di decessi. Alcune ricerche suggeriscono che il batterio possa essere mutato in una forma più letale durante la sua diffusione europea.

Sifilide a Londra

Il biografo di Samuel Johnson, James Boswell, registrò nel suo diario 19 episodi di malattie veneree contratte tra il 1760 e il 1786 durante le sue “avventure” nei bordelli londinesi. Boswell faceva parte di un’impressionante statistica: circa il 20% della popolazione londinese tra i 15 e i 34 anni era affetto da sifilide, e una percentuale forse più ampia aveva contratto anche gonorrea e clamidia.

Szreter e Siena hanno analizzato i dati degli ospedali dell’epoca, contando i ricoveri e le diagnosi di sifilide dei medici dell’epoca, per formulare una stima conservativa sulla diffusione della malattia. Il calcolo non è stato semplice: le diagnosi di sifilide possono essere difficili, specialmente all’epoca, perché i sintomi possono essere inizialmente confusi con quelli di altre malattie.

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“All’epoca la città aveva un’incidenza straordinariamente alta di malattie sessualmente trasmesse” afferma Szreter. “Non sembra più irragionevole supporre che la maggior parte di coloro che vissero a Londra durante l’età adulta si ammalarono di una malattia venerea nel corso della loro vita”.

“In un’epoca precedente alla profilassi e a trattamenti efficaci per la sifilide” continua Szreter, “la città cresceva velocemente con un continuo flusso di giovani adulti, molti in condizioni economiche precarie. La Londra georgiana era estremamente vulnerabile nei confronti delle epidemie di malattie veneree”.

Ad ogni sintomo sospetto, gli inglesi confidavano di aver preso solo la gonorrea per allontanare dalla mente lo spauracchio della sifilide, medicandosi con pozioni e pillole dalla scarsa efficacia. Una volta sopraggiunti i sintomi più gravi e realizzato di aver contratto il mal francese, era necessario il ricovero in un ospedale specializzato (a Londra ne esistevano almeno due) o in un’infermeria di scarsa qualità medica.

I malati di sifilide spesso combattevano i sintomi per sei o più mesi prima di cercare il ricovero in ospedale. Secondo Szreter e Siena, nel 1775 furono 2.807 i pazienti ricoverati per sifilide in tutti gli ospedali londinesi. I dati sul contagio sono nettamente superiori agli insediamenti periferici inglesi: nella città di Chester il tasso di contagio si attestava intorno all’ 8%, mentre nelle campagne circostanti era inferiore all’ 1%.

Trattamenti e conseguenze

Le malattie veneree erano particolarmente diffuse tra le giovani donne londinesi, specialmente quelle che si trovavano in difficoltà economiche ed erano costrette a mantenersi tramite il mercato del sesso. Altre fasce di popolazione particolarmente colpite erano quella dei migranti che vivevano ai margini dell’economia londinese, e gli uomini d’affari che potevano permettersi di frequentare abitualmente i bordelli della città.

Nella Londra del 1700 non esisteva un trattamento efficace per la sifilide, anche se i rimedi abbondavano. I trattamenti impiegati erano mirati ad espellere gli umori maligni dal corpo: lassativi, bagni caldi nel vino o nell’olio d’oliva e salassi erano i più diffusi, ma non mancavano pillole e miscugli.

Circa due secoli prima, Paracelso usò il mercurio per combattere la malattia, basandosi sul fatto che il metallo si era rivelato efficace nel trattamento della lebbra. Durante il XVI secolo il mercurio veniva comunemente somministrato ai pazienti come pomata, tramite ingestione o attraverso la fumigazione, una tecnica che prevedeva di vaporizzare il mercurio su una fiamma ed esporre i malati ai vapori emessi dal metallo.

Un altro trattamento popolare durante il XVI secolo era il Guaiaco (Guaiacum officinale), una pianta di origine americana descritta come medicamento contro la sifilide dal prete spagnolo Francisco Delicado nel 1525. Il legno del G. officinale è ricco di guaiacolo e altre sostanze dalle proprietà balsamiche, espettoranti e lassative, ma non sembra particolarmente efficace per il trattamento della sifilide.

Prima della creazione di cure efficaci per la sifilide, la malattia poteva provocare gravi disfigurazioni. Volto e naso erano le zone più colpite, e i segni del passaggio della sifilide (come nasi artificiali e cicatrici) erano spesso visti come espressione di deviazione sessuale.

Gasparo Tagliacozzi, pioniere della chirurgia plastica vissuto nel XVI secolo, si specializzò nella ricostruzione di nasi elaborando una tecnica che prevedeva di rimuovere parzialmente i tessuti epiteliali dalle braccia del paziente attaccandoli in corrispondenza del naso. Il paziente doveva rimanere per settimane con il braccio legato alla testa per assicurare che la crescita dei vasi sanguigni sul viso; al termine della procedura si staccava la pelle dal braccio con un’altra operazione.

The pox in Boswell’s London: an estimate of the extent of syphilis infection in the metropolis in the 1770s
Pox populi: Study calculates 18th century syphilis rates for first time
Syphilitic City: one in five Georgian Londoners had syphilis, study suggests

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Giulia Tofana, avvelenatrice professionista https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/ https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/#comments Sun, 13 Sep 2020 00:25:56 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4967 Nell’autunno del 1791, Wolfgang Amadeus Mozart iniziò ad ammalarsi seriamente, presentando sintomi che lui stesso attribuiva all’avvelenamento da parte di una delle sostanze tossiche più curiose e subdole della storia recente: l’ acqua tofana.

Anche se le vere cause della morte del celebre compositore sono ancora oggi fonte di dibattito, alcuni ricercatori, come gli esperti di manoscritti antichi Oliver Hahn e Claudia Maurer Zenck, hanno concluso che Mozart fu deliberatamente ucciso utilizzando un particolare veleno ideato da un’avvelenatrice professionista, Giulia Tofana, vissuta oltre un secolo prima.

Veleno leggendario

Le ipotesi sulla morte di Mozart spaziano dalla sifilide alla febbre reumatica; c’è anche chi ha ipotizzato che il musicista fu ucciso da costolette di maiale poco cotte. Ma Hahn e Zencks hanno rilevato tracce di arsenico sui manoscritti del compositore, un elemento utilizzato come ingrediente per la fabbricazione di un veleno incolore, inodore, insapore e che uccideva lentamente, fugando quasi ogni sospetto di avvelenamento da un occhio poco attento.

L’ acqua tofana potrebbe essere il veleno responsabile di centinaia, se non migliaia, delle morti per avvelenamento verificatesi nell’arco degli ultimi quattro secoli. Il suo ingrediente principale era l’arsenico, e solo 4-6 gocce di questo potente veleno era in grado di uccidere un uomo nell’arco di una settimana facendo apparire il decesso come legato ad una malattia difficilmente identificabile.

La ricetta esatta dell’acqua tofana non è nota, anche se conosciamo i suoi ingredienti principali da alcuni scrittori dell’epoca: arsenico, limatura di piombo, limatura di antimonio e probabilmente belladonna. Questo veleno poteva essere facilmente mescolato all’acqua o al vino, essendo totalmente incolore e non alterando i sapori di bevande e pietanze.

Altri autori del XVII-XVIII secolo sostengono invece che il veleno avesse come ingredienti anche la linajola comune (Linaria vulgaris), estratto di “mosca spagnola” (Lytta vesicatoria, un coleottero verde smeraldo), estratto di Antirrhinum majus e arsenico.

L’acqua tofana era un veleno che agiva lentamente e che doveva essere somministrato in più dosi consecutive, alimentando l’idea che a causare la morte della vittima fosse stata una malattia o altre cause naturali. I sintomi di un primo dosaggio erano simili a quelli di un’influenza comune, ma già al secondo dosaggio i sintomi peggioravano sensibilmente: vomito, disidratazione, diarrea e una sensazione di bruciore lungo il tratto digestivo.

La terza o quarta dose generalmente uccidevano la vittima. Si riteneva che i primi dosaggi di acqua tofana potessero essere annullati dalla somministrazione di aceto o succo di limone, ma al quarto dosaggio la quantità di arsenico e piombo accumulata dall’organismo era tale da provocare quasi certamente la morte.

Boccetta di "Manna di San Nicola" ritratta da Pierre Méjanel.
Boccetta di “Manna di San Nicola” ritratta da Pierre Méjanel.
Veleno per mogli

L’acqua tofana fa la sua apparizione nella documentazione storica nel 1632. Commercializzata con il nome “Manna di San Nicola” per nascondere il suo vero utilizzo alle autorità locali, veniva venduta all’interno di fiale come cosmetico o offerta votiva a San Nicola.

A quanto pare l’acqua tofana era considerato il veleno ideale per le mogli che subivano abusi dai mariti ed erano intenzionate a liberarsi definitivamente del consorte. Essendo incolore, inodore e insapore, poteva essere somministrata al marito durante i pasti senza suscitare alcun sospetto.

Anche se l’avvelenamento è certamente un metodo infido e criminale per risolvere un problema coniugale, occorre ricordare che tre secoli fa le donne italiane non erano giuridicamente tutelate dagli abusi, domestici e non, come accade oggi, e il divorzio era un’eventualità nemmeno lontanamente contemplata in molte comunità.

Secondo l’economista campano Ferdinando Gagliani (1728 – 1787), a Napoli non esisteva donna che non fosse provvista di una fiala di acqua tofana disposta accuratamente tra i suoi cosmetici. Solo la proprietaria poteva riconoscere la fiala e distinguerla dalle altre in caso di bisogno.

Una famiglia di avvelenatrici

L’ideatrice dell’acqua tofana fu probabilmente Giulia Tofana, avvelenatrice professionista che prima di essere giustiziata a Roma nel 1659 confessò di essere coinvolta in almeno 600 morti causate a Roma dal suo veleno tra il 1633 e il 1651.

Giulia Tofana nacque nel 1620 a Palermo, probabilmente figlia di Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633 con l’accusa di aver ucciso il marito. Secondo la documentazione dell’epoca, Giulia era una ragazza di bell’aspetto costantemente interessata al lavoro di farmacisti e speziali, spendendo molto tempo nei loro laboratori e apprendendo i segreti delle erbe e dei minerali.

Fu così che Giulia sviluppò la formula dell’acqua tofana. E’ possibile tuttavia che il veleno fosse frutto del lavoro della madre Thofania, e sia stato passato come eredità alla figlia prima della sentenza di morte.

Giulia Tofana iniziò a vendere veleno alle mogli siciliane in difficoltà, aiutata dalla figlia Girolama Spera, nota come “Astrologa della Lungara”. Le voci sull’efficacia dell’acqua tofana uscirono ben presto dalla Sicilia per raggiungere Napoli e Roma, dove madre e figlia riuscirono a creare un mercato di “Manna di San Nicola”.

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Giulia Tofana viene spesso descritta come amica delle donne in difficoltà, spesso intrappolate in matrimoni di convenienza con uomini violenti e pericolosi. Raggiunse una tale popolarità da arrivare ad essere indirettamente protetta dalle autorità locali, ma il suo business tossico fu alla fine scoperto, costringendola alla fuga.

Giulia si rifugiò con la figlia in una chiesa, dove le fu garantito asilo. Ma ben presto l’asilo le venne revocato non appena iniziò a circolare la voce che avesse avvelenato l’acqua di alcuni pozzi di Roma. Le autorità fecero irruzione nella chiesa, catturando Giulia, la figlia Girolama e loro tre aiutanti.

Le affermazioni di Giulia sulle morti provocata dal suo veleno nell’arco di 18 anni, e nella sola città di Roma, sono sconcertanti ma difficili da confermare. Si tratta di dichiarazioni rilasciate sotto tortura, ed è estremamente complesso tenere traccia del suo veleno nel mercato nero romano del XVII secolo; ma considerata l’apparente diffusione dell’acqua tofana riportata da alcuni autori dell’epoca, 600 vittime potrebbe essere un numero più o meno accurato.

L’eredità di Giulia Tofana

Il veleno noto come acqua tofana, e altri veleni sotto il nome di “acquetta” o “liquore arcano d’aceto” circolarono per tutta la penisola italiana per almeno un altro secolo dopo la morte di Giulia.

Una mistura di aceto, vino bianco e arsenico iniziò ad essere venduta a Palermo all’inizio della seconda metà del 1700 da Giovanna Bonanno. Il tipico cliente di Giovanna era una donna che voleva liberarsi del marito per poter stare col proprio amante: la prima dose veniva somministrata al consorte per causare dolori di stomaco, la seconda per mandarlo all’ospedale e la terza per porre fine ai suoi tormenti.

I medici dell’epoca non riuscivano a determinare le cause della morte provocata da questo veleno, ma una lunga serie di decessi registrati a Palermo portarono all’arresto della Bonanno per stregoneria. Alcuni farmacisti che collaboravano con lei furono condotti a testimoniare al suo processo, svoltosi nel 1788, e si giunse alla condanna a morte per impiccagione il 30 luglio 1789.

 

Aqua Tofana: slow-poisoning and husband-killing in 17th century Italy
Aqua Tofana
Giulia Tofana
A Cyclopaedia of Practical Receipts: And Collateral Information in the Arts

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Rimedio medievale efficace contro batteri resistenti ad antibiotici https://www.vitantica.net/2020/08/05/rimedio-medievale-efficace-contro-batteri-resistenti-ad-antibiotici/ https://www.vitantica.net/2020/08/05/rimedio-medievale-efficace-contro-batteri-resistenti-ad-antibiotici/#respond Wed, 05 Aug 2020 00:38:27 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4961 Il libro delle ricette mediche di Bald (Bald’s Leechbook) contiene numerosi medicamenti tradizionali risalenti al Medioevo. Tra questi rimedi è presente anche una pomata per gli occhi, una mistura di erbe medicinali e ingredienti di origine animale che, come citato in questo post, si è dimostrata capace di contrastare le infezioni da Staphylococcus aureus.

I ricercatori della School of Life Sciences alla University of Warwick hanno anche trovato un altro potenziale utilizzo per questa antica ricetta medica: combattere la crescente resistenza agli antibiotici sviluppata da alcuni microrganismi nocivi in grado di generare biofilm.

Antibiotici e biofilm

Alcuni microrganismi sono in grado di formare ciò che viene definito “biofilm”, una pellicola protettiva formata dalla secrezione di composti polimerici che garantiscono la sopravvivenza di una o più colonie batteriche. Contrariamente al comportamento “planctonico”, in cui ogni cellula si muove in modo indipendente, nel biofilm i microrganismi si attaccano l’uno all’altro dopo aver concordato chimicamente alla formazione di una pellicola protettiva.

Il biofilm non solo fornisce adesione alla superficie che alimenta i microrganismi, o che consente loro di sopravvivere più agevolmente, ma li protegge dalle aggressioni di agenti per loro nocivi. Secondo le ultime ricerche in campo biomedico, circa l’80% delle infezioni registrate in Occidente è legato alla presenza di biofilm microbici, spesso formati da più specie microscopiche che si aiutano a vicenda per sopravvivere.

Ogni colonia che compone un biofilm eterogeneo, chiamato consorzio batterico, svolge le proprie funzioni metaboliche all’interno di una specifica nicchia, senza entrare in conflitto con le altre specie all’interno del biofilm.

I batteri che vivono sotto la protezione di un biofilm hanno caratteristiche differenti da quelli osservabili in forma planctonica: non solo cooperano senza conflitti, ma aumentano la loro resistenza nei confronti di antibiotici e detergenti.

I biofilm sono estremamente comuni in natura. La placca è un biofilm composto da alcuni batteri che popolano il cavo orale, come lo Streptococcus mutans; lo Pseudomonas aeruginosa e lo Staphylococcus aureus possono generare infiammazioni croniche ai polmoni grazie al biofilm che creano, molto difficile da contrastare per il sistema immunitario umano; nelle infezioni del tratto urinario o vaginali si riscontrano comunemente biofilm batterici sempre più difficili da combattere.

La pomata per gli occhi di Bald

Partendo dai risultati ottenuti dalla University of Nottingham nel contrastare lo Staphylococcus aureus usando rimedi medievali, i ricercatori hanno ricreato la pomata per gli occhi del Bald’s Leechbook.

Il medicamento prevede una mistura di aglio, cipolla (o porro) e secrezioni dello stomaco di mucca, da applicare direttamente sugli occhi. L’aglio contiene allicina, il composto che gli conferisce un odore pungente e che ha dimostrato più volte di avere effetti antibiotici (la pianta usa l’allicina per difendersi dai parassiti), ma non si è dimostrato altrettanto efficace nel contrastare i biofilm.

I ricercatori sono quindi giunti alla conclusione che sia il mix di ingredienti, e non l’azione del singolo, a risultare efficace contro i biofilm batterici. Inoltre, modificando le proporzioni indicate nel Bald’s Leechbook, l’efficacia nei confronti dei biofilm tende a diminuire.

“Abbiamo dimostrato che un rimedio medievale composto da cipolla, aglio, vino o bile può uccidere una gamma di batteri problematici sia sotto forma planctonica sia come biofilm” afferma Freya Harrison, dottoressa della School of Life Sciences. “Dato che la mistura non ha causato molti danni alle cellule umane in laboratorio, o su quelle dei topi, possiamo potenzialmente sviluppare un trattamento antibatterico sicuro ed efficace da questo rimedio”.

Efficacia antibatterica

Il rimedio medievale di Bald si è rivelato efficace contro diverse infezioni batteriche: Stenotrophomonas maltophilia (presente in diverse infezioni respiratorie), Acinetobacter baumanii (comune nelle ferite infette dei soldati in guerra), Staphylococcus aureus, Staphylococcus epidermidis (causa comune di infezioni a cateteri e infezioni chirurgiche) e Streptococcus pyogenes (responsabile della faringite, della tonsillite, della scarlattina e della febbre reumatica).

“La maggior parte degli antibiotici che usiamo oggi” spiega Harrison, “derivano da composti naturali, ma il nostro lavoro rende necessario esplorare non solo singoli composti, ma misture di prodotti naturali per il trattamento delle infezioni da biofilm. Pensiamo che le future scoperte di antibiotici derivati da prodotti naturali aumenteranno grazie allo studio di combinazioni di ingredienti, piuttosto che singole piante o composti”.

“Il nostro lavoro” continua Jassica Furner-Pardoe della Medical School alla University of Warwick, “dimostra l’importanza di utilizzare modelli di laboratorio realistici quando si cercano nuovi antibiotici di origine vegetale. Anche se un singolo componente è sufficiente ad uccidere colture batteriche planctoniche, fallisce contro modelli di infezione più realistici, mentre il rimedio completo funziona”.

Medieval medicine remedy could provide new treatment for modern day infections
Ancientbiotics: Medieval Medicines for Modern Infections

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Marijuana e hashish nel medioevo arabo https://www.vitantica.net/2020/03/16/marijuana-hashish-medioevo-arabo/ https://www.vitantica.net/2020/03/16/marijuana-hashish-medioevo-arabo/#respond Mon, 16 Mar 2020 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4808 Il problema di uso e abuso di sostanze psicotrope, siano esse droghe leggere o pesanti, non è un fenomeno moderno. Anche se nell’antichità era molto più facile trovare sostanze (oggi illegali) nei mercati cittadini o dal proprio speziale di fiducia, la loro legalità e i comportamenti originati dal loro abuso furono per secoli oggetto di dibattito.

La marijuana, nel XXI secolo come in passato, ha conosciuto oppositori e sostenitori incalliti. Nel mondo medievale arabo era conosciuta sotto diversi nomi, primo tra tutti “l’ Erba”; la si poteva trovare nei mercati egiziani medievali e veniva impiegata per produrre hashish, consumato quotidianamente da una fetta di popolazione locale tra il XIII e il XV secolo.

Nel suo libro “The Herb: Hashish versus Medieval Muslim Society” (1971), Franz Rosenthal esamina l’uso della marijuana nella società medievale islamica, mostrando un quadro sociale e giuridico non molto differente da quello moderno.

Le droghe nell’ Egitto medievale

I reperti archeologici suggerirebbero che la cannabis fosse presente in Egitto già 5.000 anni fa, ma non si ha alcuna prova del suo utilizzo psicoattivo o ricreativo. La divinità egizia Seshat, dea della saggezza, della scrittura, delle scienze e dell’architettura, viene quasi sempre raffigurata con un emblema a sette punte sopra la testa, un emblema che per alcuni sarebbe riconducibile alla foglia di cannabis.

Secondo H. Peter Aleff, nell’articolo “Seshat and her tools” in cui sostiene che l’emblema della dea sia in realtà una foglia di cannabis:

“Molti egittologi hanno speculato a lungo sull’emblema che Seshat indossa sulla testa. Sir Alan Gardiner lo descrisse nel suo libro ‘Egyptian Grammar’ come un ‘fiore stilizzato (?) sormontato da corna’. Il suo punto interrogativo dopo ‘fiore’ riflette il fatto che non c’è alcun fiore che somiglia a quello. Altri lo hanno chiamato ‘stella sormontata da un arco’, ma le stelle nell’antica iconografia egizia avevano cinque punte, non sette come l’emblema di Seshat. Questo numero era così importante che portò il faraone Tutmosi III a chiamare questa dea ‘Sefkhet-Abwy’, o ‘Quella dalle sette punte'”.

Sappiamo per certo, invece, che l’Egitto iniziò a produrre hashish dalla canapa almeno 9 secoli fa. La prima testimonianza della parola “hashish” appare in un opuscolo pubblicato al Cairo nel 1123 d.C.. Il documento accusava i musulmani del ramo Nizaris, attualmente il più grande gruppo di ismailiti sciiti, di essere dei “mangiatori di hashish”. Il consumo di hashish tramite la combustione, infatti, non divenne comune fino all’introduzione del tabacco nel Vecchio Mondo: fino al 1500 l’hashish prodotto nel mondo islamico veniva ingerito e non fumato.

Storia dell'hashish
Storia dell’hashish

Nel 1596 Jan Huyghen van Linschoten usa tre pagine della sua opera “Reys-gheschrift vande navigatien der Portugaloysers in Orienten” (“Resoconti di viaggio della navigazione portoghese in Oriente”) per descrivere la “bangue” (bhang, una preparazione commestibile della cannabis in uso nel subcontinente indiano).

“Come in India, la bangue è usata anche in Turchia e in Egitto, e viene prodotta in tre qualità chiamate con altrettanti nomi. La prima varietà è quella chiamata Assis (hashish) dagli Egiziani, fatta di polvere o foglie di canapa con l’aggiunta di acqua per ottenere una pasta o un impasto; ne mangiano cinque pezzi, ciascuno grande quanto una noce. L’hashish è usato dalla gente comune per via del suo prezzo basso”

Nell’arco dei secoli i governanti d’Egitto e gli ufficiali locali hanno spesso cambiato idea sul livello di tolleranza da applicare alla marijuana e all’hashish, specialmente per i sottoprodotti della canapa chiamata “canapa indiana”, la più coltivata nei giardini privati egiziani.

In alcuni periodi storici si decise di seguire una linea molto dura, dalla pena di morte per il possesso di hashish ad una procedura estremamente violenta e dolorosa prevista per i consumatori: la rimozione di tutti i molari (su editto dell’ emiro Sudun Sheikuni, anno 1378).

Durante l’epidemia di peste del 1419, invece, gli ispettori dei mercati locali si dimostrarono più tolleranti, ritenendo accettabile la vendita di hashish a patto che le transazioni fossero condotte privatamente a porte chiuse, lontano dai luoghi pubblici e dai mercati.

Il consumo di hashish, tuttavia, divenne sempre più frequente e comune nonostante le policy di controllo imposte dalle autorità: nel XV secolo era possibile consumarlo ovunque, nei bagni pubblici o durante feste private.

Gli oppositori dell’hashish

Anche se i medici medievali erano consapevoli degli effetti positivi della cannabis (la somministravano, ad esempio, per curare l’inappetenza o come diuretico), conoscevano altrettanto bene gli aspetti negativi causati dal consumo abituale, anche se spesso descrivevano le problematiche dell’utilizzo dei prodotti della canapa con esagerazioni prive di alcuna base scientifica o empirica.

Il medico Ibn Wahshiyah, vissuto nel X secolo, consigliò nella sua opera “Il Libro dei Veleni” di usare cautela nella somministrazione di hashish, dato che l’estratto di canapa potrebbe causare la morte se combinato ad altri farmaci.

Az-Zarkashi, medico egiziano del XIV secolo, fornisce una lista completa dei potenziali problemi legati all’uso di hashish:

“Distrugge la mente, riduce la capacità riproduttiva, produce elefantiasi, trasmette la lebbra, attrae malattie, produce tremori, fa puzzare la bocca, secca il seme, causa la caduta delle sopracciglia, brucia il sangue, provoca la carie, fa emergere malattie nascoste, danneggia gli intestini, rende gli arti inattivi, causa fiato corto, genera forti illusioni, diminuisce il potere dell’anima”.

Pensavate fosse finita la lista? Az-Zarkashi aggiunge molto altro:

“Riduce la modestia, rende la carnagione gialla, annerisce i denti, perfora il fegato, infiamma lo stomaco [..] L’hashish genera in coloro che la mangiano pigrizia e indolenza. Trasforma un leone in uno scarabeo e rende umile un uomo orgoglioso, e malato un uomo sano. Se la si mangia, non se ne ha mai abbastanza. Rende sciocche persone dotate di una buona parlantina, e stupidi gli intelligenti. Sottrae ogni virtù maschile e fa terminare la prodezza giovanile. Distrugge la mente, arresta lo sviluppo dei talenti naturali”

Le discussioni sull’hashish in ambito accademico e religioso non mancarono: c’era chi sosteneva che dovesse essere proibito come il vino, dato che si trattava di una sostanza intossicante; altri invece indicavano che il Corano e Maometto non menzionano mai (e di conseguenza non sanzionano) l’uso di marijuana.

Gli studiosi arabi tentarono anche di capire come comportarsi in determinate circostanze legali relative al consumo di cannabis: un uomo può chiedere il divorzio sotto l’effetto di hashish? (La risposta è si) Può alimentare i propri animali con cannabis? (No, a meno che non avesse intenzione di farli ingrassare)

Lo storico arabo al-Maqrizi descrisse il consumo di hashish durante il XV secolo, non mancando di condannare i consumatori abituali che contribuivano a rovinare la società del suo tempo:

“Il carattere e il morale sono diventati incredibilmente vili, il velo di timidezza e vergogna è stato sollevato, la gente usa un linguaggio volgare, si vanta dei propri difetti, ha perso ogni nobiltà e virtù, ha adottato ogni sorta di brutta qualità e vizio. Se non fosse per la loro forma umana, nessuno li considererebbe umani. Se non fosse per la loro percezione dei sensi, nessuno giudicherebbe loro gli esseri viventi”

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Il “movimento Pro-hashish”

Nonostante le condanne dei più severi studiosi e governanti arabi, erano in molti a considerare i prodotti della canapa come vere e proprie medicine, e l’uso ricreativo era molto comune.

I consumatori egiziani del Medioevo, in particolari i dotti che hanno ci hanno lasciato documentazione storica, riportarono spesso gli effetti dell’uso di hashish: letargia, fame, talvolta allucinazioni generalmente positive; c’era anche chi sosteneva che la musica avesse un suono migliore sotto gli effetti della cannabis.

Al-Ukbari, scrittore del XIII secolo apparentemente a favore del consumo di hashish, descrive gli effetti in questo modo:

“Solo le persone intelligenti e buone usano hashish. Quando la si prende, si dovrebbe consumare solo i cibi più leggeri e i migliori dei dolci. Occorre sedersi nei posti più piacevoli e circondarsi degli amici più cari.”

Secondo lo storico Takiy Eddin Makrizy, vissuto nella prima metà del XV secolo, la cannabis (che chiama kounab, hashish o kif) non era una buona abitudine, ma il suo consumo era così diffuso che alcuni contemporanei non esitavano a definirla come “un’istituzione sacra”.

Il testo medico del XVI secolo Makhzan-El-Adwiya celebra invece le virtù mediche dell’hashish:

“Le foglie, tritate fino a polverizzarle e inalate, purificano il cervello; la linfa delle foglie applicata sulla testa elimina la forfora e i parassiti; alcune gocce di succo introdotte nelle orecchie alleviano il dolore e distruggono vermi e insetti. E’ utile contro la diarrea e la gonorrea, limita le emissioni seminali ed è un diuretico. La polvere è raccomandata per applicazioni esterne sulle ferite: le radici o le foglie, bollite e schiacciate, sono eccellenti contro le infiammazioni e neuralgie”

Cannabis in the Islamic Middle Ages
HASHISH IN ISLAM 9TH TO 18TH CENTURY
Getting High in the Middle Ages: Hashish in Medieval Egypt

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Ferite da freccia e medicina antica https://www.vitantica.net/2020/03/02/ferite-da-freccia-medicina-antica/ https://www.vitantica.net/2020/03/02/ferite-da-freccia-medicina-antica/#comments Mon, 02 Mar 2020 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4778 Il trattamento delle ferite di guerra rappresentò una delle principali priorità della medicina antica. Sebbene anche i nostri antenati avessero a che fare con problemi di salute del tutto simili ai nostri (malattie, incidenti domestici e malnutrizione erano tra le principali cause di infortuni e decessi), l’avanzata militare degli antichi imperi, la difesa dei confini e il mantenimento dell’ordine interno forzarono i curatori di tutto il mondo a sviluppare tecniche sempre più efficienti per medicare le ferite da trauma.

La tipologia di ferita più diffusa negli antichi ospedali da campo (se così possono essere definiti) era la perforazione da dardi e frecce. Dall’affermazione dell’arco come arma da lancio all’introduzione su larga scala delle armi da fuoco, le perforazioni da freccia non solo erano estremamente comuni sui campi di battaglia di ogni epoca e regione del mondo, ma erano anche molto complesse da medicare.

Contrariamente a ciò che si vede nella cinematografia moderna, estrarre una freccia dal corpo tentando di limitare i danni non era una procedura semplice ed esponeva ad un serie di rischi potenzialmente fatali, tra i quali il danneggiamento di vasi sanguigni e organi vitali o l’insorgere di infezioni difficilmente trattabili con la medicina popolare.

Ferite da freccia estremamente comuni

Secondo stime recenti (vedere le fonti in fondo al post), dal primo utilizzo dell’arco ad oggi il numero di morti causato da frecce è superiore a quello provocato da qualunque altra arma nella storia della guerra.

Nelle “sole” 56 battaglie combattute in Europa nel 1241 dal generale mongolo Subotai si contarono oltre mezzo milione di morti causati da frecce, con altrettanti feriti tra i ranghi degli invasori e delle popolazioni locali intente a difendere i loro territori tradizionali.

Le ferite da freccia furono quindi un’importante “spinta evolutiva” dell’antica ricerca medica. A differenza di un proiettile d’arma da fuoco, una freccia possiede poca energia cinetica pur penetrando a profondità simili a quelle rilevate per armi da fuoco di piccolo-medio calibro.

La cuspide tagliente, unita alla forza dell’impatto, provoca tagli profondi agli organi interni, e non lo spostamento dei tessuti molli osservabile nella penetrazione di un proiettile.

Al momento del contatto con il tessuto osseo, la maggior parte delle frecce tendeva a fermarsi e a scheggiarsi in frammenti difficilmente recuperabili. La frammentazione delle cuspidi complicava enormemente le operazioni d’estrazione, ma allo stesso tempo fornì impeto nella ricerca di metodologie capaci di ripulire le perforazioni dai corpi estranei più evidenti per limitare infezioni e favorire la guarigione.

Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia
Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia

Una cuspide rappresenta un’arma potenzialmente letale anche nella sua forma più semplice, ma nel corso della storia antica furono sviluppate diverse varianti della tradizionale punta di freccia, volte ad aumentare l’efficacia dei dardi. Barbigli, escrescenze taglienti e forme più o meno elaborate forzarono i chirurghi del passato a sviluppare strumenti d’estrazione specificamente legati alla morfologia delle cuspidi.

Secondo gli autori della ricerca “Arrow head wounds: major stimulus in the history of surgery“, gli strumenti operatori legati all’estrazione delle frecce costituirono una delle maggiori spinte propulsive per l’elaborazione della chirurgia moderna.

Uno dei metodi più rudimentali usati per la rimozione di dardi dal corpo è stato osservato a Tonga durante il XIX secolo, e fu probabilmente impiegato migliaia di anni fa in altre regioni del mondo: tramite conchiglie affilare e pezzi di bambù, gli abitanti dell’isola del Pacifico erano in grado di incidere il petto del ferito ed estrarre la freccia dalla sua sede.

Già nel VI – IV secolo a.C. il trattato medico Sushruta Samhita descriveva svariate tecniche di estrazione di una freccia, dall’incisione dei tessuti all’uso di pietre magnetiche. Uno dei metodi descritti prevede anche l’impiego di un uncino metallico in grado di agganciare la cuspide del dardo per facilitarne l’estrazione.

Le punte di freccia incastrate nelle ossa costituivano un problema ancora più serio; il Sushruta Samhita suggeriva un metodo di estrazione estremamente brutale (anche se apparentemente efficace): legare l’estremità di una corda alla cocca della freccia, agganciando l’altra estremità al morso di un cavallo da tiro.

Iatros, specialisti dell’estrazione di frecce

Omero introduce nei suoi poemi una figura chiamata iatros, traducibile come “colui che estrae frecce”. Si trattava di un vero e proprio specialista nell’estrazione di dardi dal corpo, suggerendo che questo genere di traumi fosse molto comune, specialmente in uno scenario bellico.

Dopo aver somministrato vino al paziente nella vana speranza di sedarlo, lo iatros procedeva all’estrazione della cuspide e di eventuali frammenti metallici o lignei, per poi medicare la ferita con bendaggi di lana ed misture anti-infiammatorie a base di piante o miele.

Particolarmente temute erano le frecce degli Sciti, noti per ricoprire le loro cuspidi con una mistura di veleno di serpente e sangue lasciata fermentare in mezzo al letame; se il ferito sopravviveva alla ferita e al veleno di serpente, era molto probabile che dovesse affrontare una gravissima infezione dalle conseguenze spesso fatali.

Dopo l’estrazione della cuspide e di eventuali altri frammenti del dardo, lo iatros succhiava la ferita nel tentativo di estrarre il veleno, trascurando il fatto, oggi noto ma al tempo sconosciuto, che la pratica di succhiare il veleno non ottiene alcun risultato apprezzabile, come spiegato in questo post.

Rimozione per estrazione o per espulsione

Cornelius Celsus, e successivamente Paolo di Egina, identificarono due principali metodologie di rimozione delle frecce: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

La rimozione per expulsionem era sempre preferibile rispetto all’estrazione, perché tendeva a limitare i danni causati agli organi interni e l’allargamento della ferita d’ingresso necessario alla rimozione del dardo. Il procedimento per expulsionem facilitava inoltre l’espulsione di cuspidi dotate di barbigli, che dovevano essere necessariamente recisi prima di un’estrazione per evitare di causare ulteriori danni agli organi interni.

Cornelius Celsus menziona uno strumento specifico per le estrazioni, il cucchiaio di Diocle. L’unico esemplare conosciuto è stato rinvenuto nella “domus del chirurgo” di Rimini ed è essenzialmente uno strumento dotato di lamina a forma di cucchiaio, con un foro centrale per bloccare la freccia e facilitare l’estrazione.

Paolo di Egina raccomanda l’uso dell’estrazione solo nei casi in cui la penetrazione della cuspide sia superficiale, o nella situazione in cui un’espulsione avrebbe causato danni a vasi sanguigni, nervi o organi interni. Descrive anche uno speciale strumento, il propulsorium, utilizzato per l’espulsione di una cuspide, e la pratica di legare i vasi sanguigni prima di procedere alla rimozione del dardo.

Uomo delle Ferite
Uomo delle Ferite

Durante il Medioevo, il trattamento delle ferite da freccia era basato sulle pratiche utilizzate dai medici del passato. Anche se la Scuola Salernitana e il mondo medico arabo introdussero nuove nozioni e strumenti chirurgici, le fondamenta del trattamento delle ferite da freccia rimasero sostanzialmente invariate rispetto ai secoli precedenti.

Come si può leggere in questo post:

“L’estrazione di una freccia seguiva tre linee guida: valutazione della zona di penetrazione della freccia, esame di eventuali tracce di veleno e, per finire, l’estrazione vera e propria.

 

La freccia doveva essere estratta con delicatezza ma il più velocemente possibile, limitando la perdita di sangue e la contaminazione della ferita. Anche se furono proposti molti metodi in grado di far uscire spontaneamente i dardi conficcati in un corpo umano (Avicenna proponeva una mistura di radice di canna di fiume e bulbo di narciso, mentre Abu Bakr al-Razi aveva compilato una lista di “droghe estrattive”), la soluzione più efficace rimaneva la chirurgia.”

Uno dei metodi più semplici e comuni per la rimozione di frecce dotate di barbigli prevedeva l’impiego di due penne d’oca. Ideata intorno al 1300 dal medico belga Jan Ypermans, questa tecnica utilizzava due penne cave prive di punta il cui fusto doveva raggiungere e ricoprire i barbigli della cuspide (generalmente 2): in questo modo, i barbigli non avrebbero avuto modo di arpionare i tessuti durante l’estrazione, facilitando notevolmente la rimozione della freccia. Questa pratica non era sicuramente indolore: era necessario determinare precisamente la posizione della cuspide sondando la ferita, e inserire i due fusti di penne nella cavità prima di procedere all’estrazione.

Ferite da freccia nel mondo moderno

L’uso dell’arco è oggigiorno un puro e semplice passatempo, che si pratichi la caccia o il tiro al bersaglio. Il numero di ferite da freccia è enormemente diminuito dopo l’introduzione su larga scala della polvere da sparo e la regolamentazione delle armi bianche e da fuoco.

Gli incidenti, tuttavia, capitano con relativa facilità, specialmente se ad impugnare le armi sono persone inesperte. Anche se disponiamo di strumenti chirurgici all’avanguardia, anestesia e igiene di gran lunga superiore ai secoli passati, ancora oggi il personale medico si trova in difficoltà di fronte all’estrazione di una freccia.

Nel 2010 fu documentato il caso di un uomo di 35 anni ricoverato in ospedale per una perforazione cranica causata dall’impatto di una cuspide di freccia. Il paziente riportò lesioni cerebrali che migliorarono dopo la rimozione del dardo, ma il personale medico annotò la particolare difficoltà incontrata nella rimozione del corpo estraneo.

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Arrow Wounds: Major Stimulus in the History of Surgery
BATTLE WOUNDS: NEVER PULL AN ARROW OUT OF A BODY
Removing Arrowheads in Antiquity and the Middle Ages
Treatment of Arrow Wounds: A Review
Handbook of Forensic Medicine

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Come si allenavano i guerrieri medievali? https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/ https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/#respond Mon, 03 Feb 2020 00:03:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4773 Cavalieri e soldati del Basso Medioevo scendevano in battaglia indossando un equipaggiamento ingombrante e pesante. La dotazione da guerra prevedeva, oltre al peso dell’armatura, svariati chilogrammi di armi e oggetti d’utilità quotidiana; tutto questo peso richiedeva necessariamente una buona forma fisica e una discreta dose di forza e resistenza.

Combattere con armi bianche, inoltre, stanca molto velocemente, come spiegato in questo post sulle spade. Brandire una spada, una lancia o una mazza per qualche minuto contro una serie di combattenti motivati ed esperti richiede necessariamente grande resistenza, anche senza l’ingombro dell’armatura.

Per quanto i secoli passati possano essere stati turbolenti, non c’era costantemente una guerra da combattere. Soldati e cavalieri trascorrevano buona parte del loro tempo a riposo, svolgendo mansioni di routine o semplicemente lavorando nei campi o in città. Come facevano i guerrieri medievali a mantenere una robusta forma fisica anche durante i periodi di pace?

Il Castello della Salute

La risposta alla necessità di mantenersi in forma anche durante i periodi più pacifici arrivò da Sir Thomas Elyot, che nel 1537 (forse già nel 1534) pubblicò The Castell of Helth. Chiamato modernamente “The Castle of Health“, si tratta di un volume incentrato sul mantenimento della salute fisica dei guerrieri e indirizzato a chiunque non fosse familiare con il greco, la lingua solitamente impiegata per diffondere la conoscenza scientifica. Anche se tecnicamente la pubblicazione dell’opera non è collocabile nel Basso Medioevo, le fondamenta dei suoi contenuti derivano dalle esperienze e dalle conoscenze maturate durante l’ “età di mezzo”.

Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane
Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane

The Castle of Health riscosse un notevole successo, venendo pubblicato in ben 17 edizioni, ma fu inizialmente sottoposto a censura a causa della critica da parte dei medici del tempo, che temevano la diffusione di conoscenze riservate tra il grande pubblico.

In modo simile ad un moderno personal trainer, Elyot consiglia una serie di esercizi ed attività capaci di mantenere forte e in salute un guerriero, basandosi sul livello di partenza del combattente e collocando gli esercizi in quattro categorie distinte.

Secondo la teoria degli umori in voga al tempo di Elyot, le personalità “flemmatiche” o “sanguigne” tendono ad essere rispettivamente lente e grasse, o grasse e appassionate; per queste personalità, secondo l’autore, sono più indicati esercizi orientati allo sviluppo della forza o della resistenza.

I consigli per il mantenimento di un buono stato di salute prevedevano una dieta equilibrata, riposo, purghe e aria di buona qualità. Enfatizzavano inoltre il valore dell’esercizio fisico regolare, anche se  alcuni suggerimenti potrebbero sembrare bizzarri o privi di fondamenta scientifiche ad un lettore moderno.

The Castle of Health non è l’unica opera a descrivere il regime d’allenamento di un cavaliere: la biografia di Jean II Le Maingre (1409), noto col nome di Boucicaut e celebre combattente del suo tempo, espone alcuni esercizi eseguiti dal cavaliere per mantenersi in forma. Nell’allenamento di Boucicaut sono previsti esercizi contemplati anche nel The Castle of Health, come l’arrampicata, la pratica con armi bianche, il sollevamento di carichi pesanti e la danza.

Copertina del "The Castel of Helth"
Copertina del “The Castel of Helth”
Esercizi forti o violenti

Con “forti e violenti” Elyot intendeva ciò che oggi viene comunemente definito allenamento per la forza, una selezione di esercizi mirati a irrobustire la muscolatura.

Tra questi esercizi erano inclusi:

  • Lotta, “soltanto per i giovani uomini inclini alla guerra”;
  • Scavare terreno pesante, ricco d’argilla;
  • Trasportare o sostenere carichi pesanti;
  • Arrampicarsi o camminare lungo un pendio scosceso;
  • Afferrare una corda e arrampicarsi;
  • Rimanere appeso con le mani su qualunque cosa posizionata sufficientemente in alto da lasciare il corpo in sospensione;
  • Alzare le mani in posizione verticale, stringendo i pugni e mantenendo questa posa per qualche tempo;
  • Tenere salde le braccia sui fianchi mentre un compagno cerca di allontanarle dal corpo.
Esercizi veloci

Questi esercizi non hanno uno scopo ben preciso, ma sono probabilmente poco indicati per le personalità “flemmatiche” o “sanguigne”. Elyot suggerisce che siano più adatti a persone propense alla collera, malinconiche o neurotiche, spesso dalla corporatura esile e dominate da umori come bile gialla e bile nera.

  • Corsa;
  • Esercizi con le armi;
  • Lancio della palla;
  • Camminare sulle punte dei piedi tenendo le mani in alto;
  • Muovere le mani in alto e in basso senza utilizzare pesi.

Prefazione del The Castel of Helth

Esercizi veementi

Gli “esercizi veementi” sono una combinazione di esercizi veloci ed esercizi violenti. Elyot suggerisce che questo tipo di esercizi sia adatto a persone di corporatura normale già abituate a movimenti intensivi e veloci.

  • Ballare danze che prevedano il sollevamento della partner;
  • Lanciare una palla e rincorrerla;
  • Lanciare un giavellotto;
  • Corsa con finimenti, una sorta di allenamento di resistenza dove un compagno d’armi tenta di frenare il movimento tramite un’imbragatura.
Esercizi moderati

Tra gli esercizi moderati rientrano le attività di resistenza, come lunghe camminate o l’allenamento per il combattimento a cavallo. Questi esercizi sono adatti a chiunque, specialmente a chi è ancora stremato da esercizi violenti o veloci e ha bisogno di un training più moderato, o agli anziani.

Isolamento muscolare

Elyot introduce anche un concetto alla base del moderno bodybuilding, l’isolamento di un gruppo muscolare. Questo tipo di allenamento può appianare gli squilibri muscolari presenti in un individuo concentrando lo sforzo su alcune aree specifiche del corpo.

Per le gambe, le braccia e le spalle, Elyot raccomanda stretching e l’uso di pesi, insieme alla pratica con armi bianche come lance o picche. Per il petto e i polmoni, invece, l’autore prescrive una respirazione ritmica come quella praticata durante il canto, allo scopo di espellere l’eccesso di umori.

“Elyot aveva capito chiaramente le differenti necessità d’esercizio per i differenti tipi di corporatura. Anche se i nostri antenati si sbagliavano nel credere che l’esercizio dovrebbe essere contestualizzato nel modello umorale di come corpo e mente funzionano, avevano sicuramente ragione sul fatto che l’esercizio contribuisce alla salute fisica e mentale” afferma Joan Fitzpatrick, autrice di un’ analisi del The Castle of Health.

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How to have a good workout: lessons from the 16th century
10 Workout Tips From a 14th Century Knight
Sir Thomas Elyot
The Castel of helth

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Tela di ragno, bendaggio naturale https://www.vitantica.net/2020/01/20/tela-di-ragno-bendaggio-naturale/ https://www.vitantica.net/2020/01/20/tela-di-ragno-bendaggio-naturale/#respond Mon, 20 Jan 2020 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4755 Le proprietà meccaniche della tela di ragno sono ormai note in epoca moderna: un singolo filo di ragnatela può esprimere, a parità di peso, una resistenza alla tensione e una robustezza superiori a quelle dell’acciaio.

Le caratteristiche della tela di ragno, tuttavia, non passarono inosservate anche nel mondo antico: viene tradizionalmente impiegata come esca nella pesca con l’aquilone praticata da alcune comunità marittime del Pacifico, e fu per secoli apprezzata nella medicina occidentale come bendaggio antisettico.

Tessuto naturale dalle proprietà straordinarie

Le caratteristiche della tela di ragno sono dovute ad una combinazione di proteine cristalline ed elastiche, mescolate ad altri elementi come zuccheri, lipidi e pigmenti che agiscono come aggreganti o protezioni della fibra.

Ogni ragnatela intessuta in natura è costituita da due categorie di seta: la prima categoria è occupata da filamenti rivestiti da un liquido appiccicoso, utilizzati per la cattura delle prede; il secondo tipo di seta, invece, chiamato genericamente “dragline”, è dotato di grandi proprietà elastiche e di resistenza, rese possibili da due proteine specifiche a base di alanina, glicina, glutamina e prolina.

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La tela di ragno viene prodotta a richiesta da un ghiandole filatrici, o seritteri, e può vantare diverse conformazioni in base all’utilizzo finale. I filamenti strutturali, ad esempio, sono molto robusti e possiedono scarse proprietà adesive; quelli intermedi, invece, sono incredibilmente elastici, resistenti e appiccicosi, dato che sono quelli con più probabilità di intrappolare una preda.

Fibre di tipo tubolare sono genericamente utilizzate per creare sacche protettive per le uova, mentre per avviluppare la preda in un bozzolo per poterla consumare comodamente viene creata una seta straordinariamente forte, circa tre volte più robusta di quella strutturale.

Qualunque sia la fibra creata dalla ghiandola, ogni filamento possiede anche proprietà antisettiche che lo proteggono dall’azione di microrganismi che potrebbero danneggiare la ragnatela.

Uso in medicina

Le caratteristiche della seta di ragno furono ben comprese dai nostri antenati, che utilizzarono per millenni questo materiale naturale nel trattamento delle ferite aperte, anche se l’uso in medicina fu spesso limitato a causa della reperibilità stessa del materiale.

Estrarre tela di ragno in quantità sufficiente alla produzione di bendaggi o tessuti richiede una quantità immane di ore-lavoro: nel 2019, per realizzare il tessuto in tela di ragno più grande del mondo (3,4 per 1,2 metri) fu necessario fu necessario il lavoro di 82 persone nell’arco 4 anni per lavorare la seta di ragno estratta da oltre 1 milione di ragni.

Bozzolo di Cheiracanthium punctorium. Foto di Rainer Altenkamp
Bozzolo di Cheiracanthium punctorium. Foto di Rainer Altenkamp

Potrebbero essere necessarie fino a 3 ragnatele complete e in ottimo stato per il trattamento di una ferita lunga qualche centimetro e non troppo profonda, motivo per cui l’impiego della seta di ragno in medicina non ha mai raggiunto la diffusione conosciuta da altri tipi di bendaggio.

Un’altra considerazione necessaria è relativa alla conoscenza dei ragni locali. Alcuni ragni tessitori comuni in Europa possono dimostrarsi particolarmente aggressivi in determinate circostanze, esponendo al rischio di morsi potenzialmente molto dolorosi e pericolosi.

I ragni della specie Segestria florentina, ad esempio, tessono una tipica ragnatela tubolare che può fornire molta seta, ma sono dotati di grossi cheliceri che possono infliggere dolorose perforazioni.
Il ragno dal sacco giallo (Cheiracanthium punctorium), invece, crea piccoli bozzoli di seta per scopi riproduttivi, ma se disturbato può mordere e iniettare un veleno che provoca dolori simili a quelli di una puntura di vespa, con conseguenza più tossiche in caso di reazione allergica.

In ogni caso, la scarsa reperibilità e il pericolo di essere morsi non impedì l’uso della tela di ragno nella medicina tradizionale europea: sui Carpazi, per esempio, la seta di ragno viene ancora oggi usata per medicare ferite aperte non troppo profonde; la medicina popolare ritene che la seta di ragno faciliti la guarigione e la coagulazione del sangue (credenze supportate dalle proprietà blandamente antisettiche e la presenza di vitamina K nei filamenti).

Greci e Romani conoscevano le proprietà medicinali della tela di ragno: inserivano nelle ferite aperte seta non più vecchia di qualche giorno e priva di impurità avvolgendola per ottenere una sorta di tampone che inserivano nel taglio.

Per verificare l’efficacia di questo trattamento, nel 2018 un team di biologi ha monitorato le modalità di guarigione delle ferite inflitte ad alcuni conigli e successivamente medicati con placebo, metodi tradizionali e seta di ragno. I risultati hanno evidenziato l’efficacia della tela di ragno nel velocizzare la guarigione dei tessuti.

Medicare una ferita con la tela di ragno

Il requisito primario per l’uso della seta di ragno per il trattamento delle ferite è utilizzare materiale non contaminato. Le ragnatele prelevate devono essere possibilmente recenti, e necessariamente prive da ogni residuo di pasti effettuati dal proprietario.

Eliminate eventuali fonti di contaminazione, i residui di fogliame e i resti di insetti, la ragnatela deve essere semplicemente modellata in una pallina di seta e inserita nel taglio. Le proprietà coagulanti della vitamina K diminuiranno la fuoriuscita di sangue e favoriranno la guarigione dei tessuti, mentre le caratteristiche antisettiche dei composti presenti nella tela terranno alla larga la maggior parte degli agenti microbici.

Per proteggere ulteriormente la ferita era buona norma utilizzare un bendaggio più tradizionale, come tessuto pulito attorno alla parte lesa. Era necessario mantenere asciutta la ferita per favorire la guarigione.

Una volta rimarginata buona parte della ferita, la ragnatela veniva rimossa a mano ammorbidendola con acqua calda per facilitare l’estrazione.

Non solo ferite

Nel 1817 il medico Robert Jackson pubblicò un trattato dal titolo “Sketch of the History and Cure of Febrile Diseases“, in cui descriveva i sintomi e le cure per diversi disturbi di tipo febbrile.

Diverse pagine del trattato sono dedicate all’impiego della seta di ragno come medicinale ad uso interno:

“La ragnatela, e perfino il corpo abitato in precedenza da un ragno, sono impiegati dai popoli di alcune nazioni come rimedio per la malaria e la febbre; ma, quando menzionato da alcuni scrittori medici, viene solitamente menzionato per essere messo in ridicolo; o si suppone che produca un effetto, cosa che l’esperienza ha dimostrato, per trasmettere disgusto all’idea di ingoiare un ragno, o una ragnatela.”

Il dottor Jackson ritiene che le proprietà medicinali della ragnatela siano state troppo a lunghe ignorate senza alcuna ragione. A supporto della sua idea descrive l’uso di seta di ragno in un ospedale dell’esercito nel 1801, un trattamento a quanto pare utilizzato da tempo nella struttura medica citata.

I dettagli sui suoi esperimenti che coinvolgevano la seta di ragno possono essere letti qui: The spider’s web cure.

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Spider silk
How To Heal Wounds With Spider’s Silk
Evaluation of Wound Dressing Made From Spider Silk Protein Using in a Rabbit Model.
Applications of Spider Silk
The spider’s web cure

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L’enigma della sifilide – Timeline https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/ https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/#comments Fri, 10 Jan 2020 00:17:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4758 Nel 1495 una nuova malattia colpì il Vecchio Continente: era mortale, devastante, e prendeva di mira chiunque dimostrasse una certa promiscuità sessuale. Come ebbe origine la sifilide?

L’ipotesi dominante fino a non molto tempo fa era che la sifilide fosse arrivata in Europa tramite lo “scambio colombiano”, conseguenza dei primi contatti con le Americhe. Insieme a tabacco e patate, Colombo ebbe il “merito” di portare la sifilide, inizialmente in Spagna poi in tutto il continente europeo, nel cuore di popolazioni che non avevano mai conosciuto la malattia.

Le prime ipotesi sull’ origine americana della sifilide ebbero origine con il medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: nel 1539 scritte il Tractado contra el mal serpentino que vulgarmente en España es llamado bubas, opera frutto del suo lavoro come medico a Barcellona e dei trattamenti curativi adoperati su alcuni marinai di Colombo.

Pochi anni dopo, Bartolomé de Las Casas contribuisce alle fondamenta della teoria sull’origine americana della sifilide con queste affermazioni della sua Storia generale delle Indie:

«C’erano e ci sono due cose in quest’isola che all’inizio furono molto penose per gli spagnoli: una è la malattia delle bubas che in Italia si chiama mal francese. È accertato che essa venne da quell’isola, e questo accadde, o al ritorno dell’ammiraglio Don Cristobal Colon, quando assieme alla notizia della scoperta delle Indie giunsero i primi indiani che io vidi fin dal loro arrivo a Siviglia, i quali importarono le bubas in Spagna infettando l’aria o in tutt’altro modo; o al tempo del primo ritorno a Castiglia, quando rientrarono alcuni spagnoli con le bubas, e questo poteva accadere tra il 1494 e il 1496. […] Io personalmente mi sono impegnato a più riprese a chiedere agli indiani se questo male esisteva già da tempo dalle loro parti, ed essi risposero affermativamente […] È anche accertato che tutti gli spagnoli incontinenti che su quell’isola non osservavano affatto la virtù della castità, furono colpiti dalle bubas e che, su cento, non ne sfuggì uno solo, salvo nel caso in cui l’altra parte non avesse mai avuto le bubas»

Ci sono tuttavia prove scheletriche del fatto che in Francia, Italia e Inghilterra la malattia fosse già conosciuta secoli prima del viaggio di Colombo. Alcuni resti ossei scoperti presso il monastero di Kingston-upon-Hull, in Inghilterra, hanno mostrato segni evidenti di sifilide risalenti ad oltre 1 secolo prima dell’ esplorazione dei continenti americani.

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Il documentario cerca di fare luce sull’origine della sifilide, esplorando i primi contatti con le malattie nordamericane ed esaminando le prove sulla sua possibile presenza in Europa prima della scoperta delle Americhe.

Sifilide

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Vichinghi e parassiti intestinali https://www.vitantica.net/2020/01/07/vichinghi-parassiti-intestinali/ https://www.vitantica.net/2020/01/07/vichinghi-parassiti-intestinali/#respond Tue, 07 Jan 2020 00:10:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4737 Una delle più recenti frontiere della ricerca archeologica è rappresentata dall’analisi degli escrementi umani. Per quanto possa risultare repellente ai più deboli di stomaco, questo tipo di analisi ha fornito negli ultimi anni preziosissime informazioni sullo stile di vita e sulla dieta di molti popoli dell’antichità.

Ad esempio, da tempo abbiamo diverse informazioni sulla dieta dei Vichinghi, dati principalmente dedotti dalle condizioni climatiche del Nord Europa, dall’usura dei denti, dall’analisi della placca o da documenti storici. Ma lo studio della materia fecale ci consente di ottenere dati anche sulle conseguenze dell’alimentazione e dell’igiene quotidiana dei popoli norreni.

Analisi fecale, connubio tra archeologia e genetica

Una ricerca del 2015 condotta da Martin J. Søe del Dipartimento di Scienze Botaniche e Ambientali di Copenhagen ha esaminato campioni di feci norrene vecchi di circa 1.000 anni, scoprendo che sia i popoli nordici che i loro animali domestici erano sostanzialmente imbottiti di parassiti intestinali.

“E’ affascinante essere in grado di esaminare queste uova di parassiti estremamente antiche e stabilire a quali specie appartengano” ha dichiarato Søe in un’intervista di ScienceNordic.com. “Possiamo usare questi dati per scoprire qualcosa su come vivessero le persone comuni durante l’era vichinga e quali animali domestici fossero i più diffusi. Possiamo inoltre rispondere a domande sull’interazione tra uomini e animali e quanto vivessero vicini gli uni agli altri”.

Søren Michael Sindbæk, professore del Dipartimento di Cultura e Società Medievali alla Aarhus University, sostiene che si tratti di un ottimo esempio di collaborazione tra archeologia e genetica. “Disporre di questa dimensione ulteriore nel nostro lavoro è estremamente eccitante. Significa che possiamo iniziare a ottenere informazioni su domande precedentemente prive di risposta”.

“Per esempio” continua Sindbæk, “possiamo apprendere molto sulle condizioni di vita dei popoli del passato, quali malattie fossero comuni, se i nostri antenati vivessero separati dai loro animali o se continuassero a condividere le loro case con il bestiame”.

Parassiti nelle latrine

Per la sua ricerca Martin J. Søe ha esaminato il contenuto di uova di parassita rinvenute all’interno di campioni prelevati dalle latrine di un insediamento vichingo vicino a Viborg, insediamento datato tra il 1018 e il 1030.

I ricercatori hanno separato i campioni di terreno dalle antiche uova di parassita, procedendo quindi all’analisi genetica per determinarne la specie, la sua provenienza e la sua capacità di infettare l’essere umano.

L’analisi genetica ha evidenziato la presenza di diversi parassiti, alcuni non trasmissibili all’essere umano mentre altri, come i tricocefali, perfettamente in grado di insediarsi nell’organismo umano.

“Si può determinare se un parassita possa infettare esseri umani o animali semplicemente osservando le uova” afferma Søe. “Ma esaminando il DNA siamo capaci di confermare ciò che fino ad ora abbiamo solo ipotizzato: un migliaio di anni fa, gli esseri umani erano ospiti di questi parassiti”.

Trichuris trichiura
Trichuris trichiura

I parassiti più comuni per l’essere umano si sono rivelati essere il Trichuris trichiura, un verme che si insedia nell’intestino crasso del suo ospite allo scopo di nutrirsi di sangue e responsabile della tricocefalosi, e l’Ascaris lumbricoides, responsabile dell’ascaridiosi.

Un esemplare femmina di Trichuris trichiura è in grado di deporre fino a 10.000 uova al giorno, che verranno espulse tramite le feci umane. Dopo una permanenza nel terreno di 2-3 settimane, le uova entrano in fase infettiva: a seguito dell’ingestione (principalmente a causa di scarse condizioni igieniche) si schiudono all’interno dell’intestino e le larve iniziano a crescere per circa tre mesi fino a raggiungere la maturità.

La tricocefalosi è ancora oggi una delle parassitosi più diffuse sul pianeta: si stima che circa 1 miliardo di persone ne siano affette, specialmente in Asia, Africa e America meridionale.

L’infezione da Ascaris lumbricoides è anch’essa legata a scarse condizioni igieniche (si tratta di una delle parassitosi più comuni del pianeta anche nel XXI secolo), ma le larve, una volta uscite dal guscio, migrano verso fegato, cuore e polmoni, risalendo fino all’orofaringe per poi essere deglutite tornando nell’intestino, dove possono proseguire la maturazione, accoppiarsi e deporre altre uova.

Tra le uova di parassiti scoperte nelle antiche feci norrene ne sono state trovate alcune appartenenti alla Fasciola hepatica, un verme piatto che infetta animali ed esseri umani. Questo parassita si insedia nel fegato del suo ospite definitivo, generalmente bestiame, passando prima da ospiti intermedi che contribuiscono a completare il suo ciclo vitale e a diffonderlo. Alcuni ospiti intermedi sono alcune lumache della famiglia dei Lymneidi.

L’igiene vichinga

I popoli norreni non erano gli unici ad essere costretti a condividere la loro esistenza con parassiti intestinali. Molte civiltà antiche erano piagate da parassitosi a causa dei frequenti contatti, diretti o indiretti, con le deiezioni umane e animali.

L’analisi genetica dei parassiti norreni ha fornito informazioni sulla loro provenienza, oltre a dati utili per capire come si siano spostati lungo il pianeta sfruttando le migrazioni umane.

A causa della costante presenza di parassiti intestinali, il sistema immunitario dei popoli norreni era relativamente abituato a combattere queste infezioni. L’organismo dei Vichinghi produceva una versione “mutante” di una molecola, definita A1AT (Alfa 1-antitripsina), particolarmente adatta a contrastare le strategie offensive dei parassiti.

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Oggi, questa molecola non ha più molta utilità: le condizioni igieniche sono enormemente migliorate, come anche i trattamenti per le parassitosi; ma migliaia di anni fa costituiva un meccanismo immunitario estremamente utile, anche se non privo di controindicazioni.

In tempi moderni, infatti, la A1AT costituisce l’unico fattore ereditario per l’insorgenza di malattie respiratorie come l’enfisema, un rischio particolarmente comune in Scandinavia. Ma due millenni fa, quando la A1AT iniziò a mutare, l’esposizione a fattori di rischio per malattie respiratorie era inferiore a quella di oggi, e la durata media della vita era più bassa; la A1AT mutante non costituiva quindi un grosso problema, ma un elemento di vantaggio nella battaglia contro i parassiti più comuni.

Trichuris trichiura
Ascariasi
DNA Typing of Ancient Parasite Eggs from Environmental Samples Identifies Human and Animal Worm Infections in Viking-Age Settlement
The Vikings, their worms, and the diseases they got

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Merit Ptah: personaggio reale o immaginario? https://www.vitantica.net/2019/12/19/merit-ptah-reale-immaginario/ https://www.vitantica.net/2019/12/19/merit-ptah-reale-immaginario/#respond Thu, 19 Dec 2019 00:22:24 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4745 In questo post sulla timeline della medicina dall’antichità ad oggi, viene citata una figura femminile di particolare importanza, una delle prime donne ad aver dedicato la sua vita all’arte curativa e unanimamente considerata la prima ad aver conquistato una posizione di potere grazie alla pratica medica: Merit Ptah.

Il nome di Merit Ptah si trova ovunque, dalle citazioni su libri scritti nell’ultimo secolo ai più moderni videogiochi; il suo nome è stato anche utilizzato per battezzare un cratere sul pianeta Venere.

Si tratta di un personaggio iconico, un simbolo di emancipazione femminile e l’incarnazione stessa della medicina antica; ma tutte le menzioni di questo mondo non possono nascondere il fatto che Merit Ptah, in realtà, è molto probabilmente un personaggio di pura fantasia.

La “storia” di Merit Ptah

Su questa figura femminile dell’antico Egitto sappiamo ben poco (le ragioni saranno più chiare leggendo il resto del post), ma da ciò che si racconta ormai da decadi, fu una delle prime curatrici a raggiungere una posizione di potere nella corte del faraone, e probabilmente la prima donna ad essere menzionata nella storia della medicina.

Il suo nome significa “Amata da Ptah”: Ptah era la divinità protettrice della città di Memphis, esistente ben prima della creazione dell’universo, venuto alla luce per sua volontà. Merit Ptah sarebbe vissuta quasi 5.000 anni fa, al termine del periodo Protodinastico.

Un’apparente prova dell’esistenza di Merit Ptah sarebbe la raffigurazione di una donna nella necropoli di Saqqara e una citazione sulla tomba del figlio, che la definisce “Sommo Medico.

Errore d’identità

Jakub Kwiecinski, storico della medicina della University of Colorado’s School of Medicine, ha deciso di scavare più a fondo nella documentazione storica disponibile agli egittologi per capire se Merit Ptah sia stato un personaggio realmente esistito, o sia solo il frutto di una mescolanza tra realtà e fantasia.

La popolarità di Merit Ptah inizia nel 1938: appare in un libro di Kate Campbell Hurd-Mead in cui vengono delineate alcune figure femminili nella storia della medicina. Nel suo libro, Hurd-Mead identifica Merit Ptah come la prima dottoressa della storia, vissuta intorno al 2730 a.C. e madre di un sacerdote di alto rango sepolto nella Valle dei Re.

All’interno della tomba di questo sacerdote sarebbe stata trovata una tavoletta che citava la madre, chiamata Merit Ptah, come il “Capo Medico” del faraone, un titolo molto prestigioso e generalmente riservato a uomini di alto rango.

La scoperta descritta da Hurd-Mead appare estremamente affascinante, se non fosse per un piccolo dettaglio: la Valle dei Re non esisteva all’epoca in cui sarebbe vissuta la donna (risale a oltre un millennio dopo), e non esiste alcun documento che citi Merit Ptah nelle liste di curatori e curatrici dell’antico Egitto.

Merit Ptah: personaggio reale o immaginario?

Da dove deriva quindi la citazione di Merit Ptah? Probabilmente da un libro in possesso di Hurd-Mead, un volume che cita una curatrice di nome Peseshet, il cui nome appare nella tomba del figlio Akhethetep, vissuto intorno al 2400 a.C..

La tomba di Akhethetep si trova a Giza e include una falsa porta che riporta la raffigurazione del padre e della madre, quest’ultima descritta come la “Sovrintendente delle Donne Curatrici”. Secondo Kwiecinski, Hurd-Mead fece confusione tra Merit Ptah e Peseshet.

“Sfortunatamente, Hurd-Mead nel suo libro mescola accidentalmene il nome dell’antica curatrice, la data in cui visse e la località della tomba” afferma Kwiecinski. “Da allora, da un caso di errata identificazione di un’autentica curatrice dell’antico Egitto, Peseshet, nacque Merit Ptah, ‘la prima dottoressa’”.

Nome reale, personaggio di fantasia

“Merit Ptah, come nome, esisteva nell’antico Egitto (era il nome della moglie di Ramose, governatore di Tebe sotto Akhenaton), ma non appare in alcuna delle liste di curatori, nemmeno come un personaggio leggendario o come ‘caso controverso'”, sostiene Kwiecinski. Il suo nome non è presente negli elenchi delle donne amministratrici, e non ci sono riferimenti alla curatrice all’interno delle tombe conosciute.

Ma la figura di Merit Ptah è ormai largamente diffusa come simbolo di emancipazione, sospinta anche da venti ideologici. “E’ stata associata con il problema, estremamente emozionale, partigiano, ma anche profondamente personale, della parità di genere. Tutto questo ha creato una tempesta perfetta che ha alimentato la storia di Merit Ptah”.

Merit Ptah potrebbe quindi essere un personaggio partorito dall’errore di interpretazione di una scrittrice, ma questo non significa che nell’antico Egitto non esistessero curatrici di particolare importanza.

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Peseshet, vissuta verso il termine della Quarta Dinastia, viene descritta come “Sommo Medico”, o “Sovrintendente delle Donne Curatrici”, proprio come la Merit Ptah citata da Hurd-Mead. Non sappiamo se lei stessa fosse un medico, ma la citazione nella mastaba del figlio Akhethetep la colloca in una posizione sociale molto elevata.

Anche su Peseshet conosciamo ben poco: una falsa porta nella mastaba del figlio la cita per nome e la mostra insieme ad un uomo chiamato Kanefer, probabilmente il marito; sappiamo tuttavia che Peseshet è stato un personaggio realmente esistito, la prima donna della storia della medicina ad essere ricordata ancora oggi.

Celebrated Ancient Egyptian Woman Physician Likely Never Existed, Says Researcher
Peseshet
Merit Ptah, “The First Woman Physician”: Crafting of a Feminist History with an Ancient Egyptian Setting

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