fuoco – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Rushlight, le luci di giunco https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/ https://www.vitantica.net/2019/10/07/rushlight-luci-di-giunco/#respond Mon, 07 Oct 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4563 I nostri antenati disponevano di ben poche fonti d’illuminazione rispetto alle civiltà moderne. Le lampade ad olio furono oggetti d’uso comune per interi millenni, ma richiedevano un rifornimento costante di combustibile; le torce imbevute di grasso animale, vegetale o di olio minerale non erano il massimo della praticità; le candele di cera costituirono per molto tempo un’alternativa funzionale ma molto costosa rispetto alle lampade ad olio, mentre quelle di sego, più economiche, emanavano un odore ben poco gradevole per via del materiale che consumavano come combustibile.

Il focolare fu per lungo tempo la principale fonte di luce nell’ ambiente domestico. In realtà, esistevano anche altre alternative, meno note in tempi moderni ma molto utilizzate nei secoli passati, perché rappresentavano fonti di luce a buon mercato e facilmente realizzabili.

Una di queste alternative era la “luce di giunco” (o rushlight in inglese), una piccola torcia realizzata con materia vegetale e imbevuta di grasso o olio.

La luce di giunco

La prima citazione di una luce di giunco risale al XVII secolo: l’antiquario inglese John Aubrey fu probabilmente il primo a descrivere questo metodo d’illuminazione, mentre Gilbert White fornì un resoconto accurato del procedimento costruttivo.

Le luci di giunco furono in uso sulle isole britanniche fino alla fine del XIX secolo, tornando ad essere utilizzate temporaneamente durante la Seconda Guerra Mondiale come luci d’emergenza.
Sappiamo tuttavia che il midollo di giunco fu utilizzato fin dall’ antica Roma come stoppino per candele e lampade ad olio; è del tutto possibile, quindi, che questo metodo di illuminazione sia molto più antico di quanto lascino supporre le prime testimonianze scritte relative al suo utilizzo.

Il giunco è una pianta acquatica cresce nelle zone paludose di Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America. Si tratta di una pianta strutturalmente molto semplice, ma dotata di un nucleo di materia vegetale spugnosa e facilmente infiammabile.

Juncus effusus
Juncus effusus

Per realizzare una luce di giunco si raccoglieva il gambo maturo della pianta (principalmente il giunco comune, Juncus effusus, oppure Juncus maritimus e Juncus acutus) durante l’estate o l’autunno, attività generalmente svolta da donne e bambini almeno fino alla metà del 1800.

Per produrre una luce di giunco era necessario rimuovere l’epidermide verde del gambo per esporre il midollo spugnoso, avendo cura di lasciare una singola striscia di “pelle” esterna come supporto strutturale.

Dopo aver lasciato essiccare il gambo così preparato, il giunco veniva immerso una o due volte in una scodella di grasso fuso; per molto tempo fu pratica comune utilizzare grasso di maiale o di montone, perché diventano più solidi man mano che si rapprendono e hanno una consistenza che ne facilita la lavorazione.

Durata delle luci di giunco

Le fonti storiche sono discordanti sulla reale durata e qualità della fiamma prodotta da una luce di giunco. Nel “The Book of English trades, and library of the useful arts” (1827) si sostiene che una rushlight fosse mediamente lunga circa 30 centimetri e potesse bruciare per 10-15 minuti.

Secondo Gilbert White, una luce di giunco era lunga circa 72 centimetri e bruciava per quasi un’ ora ininterrottamente, producendo una luce chiara e relativamente potente.

La qualità della luce e la durata della combustione delle rushlight dipendevano ovviamente dall’abilità dell’artigiano che le produceva e dalla qualità dei materiali impiegati.

Era possibile prolungare la combustione di una luce di giunco utilizzando una fascina di rushlight, oppure producendo quelle che venivano definite “rushcandles“, candele di giunco in cui il midollo spugnoso del fusto veniva immerso più e più volte in cera o sego per ricoprirlo da più strati di materiale combustibile.

In alcune località britanniche si usava aggiungere una piccola quantità di cera prelevata da alveari selvatici o domestici, allo scopo di prolungare la durata della combustione e renderla più gradevole all’olfatto.

Nel video qui sotto, la riproduzione imperfetta di una luce di giunco sembra apparentemente produrre una fiamma pari a quella della candela utilizzata per accenderla. E’ possibile che le rushlight di buona qualità potessero illuminare quanto una candela di sego, anche se generalmente duravano meno di una candela di scarsa qualità.

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Vantaggi delle luci di giunco

Il grosso vantaggio delle luci di giunco non era la qualità della luce prodotta o la sua durata, ma il costo pressoché nullo per realizzarle. Chiunque poteva fabbricare piccole sorgenti di luce semplicemente raccogliendo giunchi e riutilizzando grasso animale o vegetale a buon mercato o di scarsa qualità.

Gilbert White sostiene che luci di giunco in grado di garantire luce per circa cinque ore fossero disponibili alla vendita nei mercati inglesi al costo di solo un quarto di penny (un farthing). Anche se una singola rushlight produceva una luce molto flebile, 3 o 4 luci di giunco accese insieme potevano fornire un’illuminazione sufficiente a condurre agevolmente le tipiche attività notturne di una casa contadina.

Fonti per “Rushlight, le luci di giunco”

Rush dips, rushlight and splint holders, nips
Rushlight: How the Country Poor Lit Their Homes (1904)
Rushlight

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Foreste nordamericane alterate dal fuoco dei nativi https://www.vitantica.net/2019/05/27/foreste-nordamericane-fuoco-nativi/ https://www.vitantica.net/2019/05/27/foreste-nordamericane-fuoco-nativi/#respond Mon, 27 May 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4259 Come già espresso su questo blog più e più volte, occorre slegarsi dall’idea che i popoli tradizionali di cacciatori-raccoglitori-orticoltori siano stati in qualche modo “custodi della natura selvaggia”.

In alcuni casi, soprattutto in epoca moderna, è vero che alcuni popoli tribali hanno contribuito a preservare la salute del loro ecosistema tradizionale, ma in passato questa indole ambientalista era quasi del tutto assente: le culture locali tendevano a gestire l’ambiente, non a proteggerlo da qualunque alterazione.

La gestione delle foreste orientali

E’ il caso, ad esempio, dei popoli nativi del Nord America. Da tempo ormai si sospetta che i nativi americani gestissero non solo la fauna del continente, ma anche la flora: secondo alcuni antropologi ed ecologi, le Grandi Pianure sono il risultato di una gestione su vasta scala delle foreste che popolavano il Nord America prima dell’intervento umano.

“Credo che i nativi americani fossero eccellenti gestori della vegetazione, e da loro possiamo imparare molto su come gestire al meglio le foreste americane” sostiene Marc Abrams, professore al College of Agricultural Sciences e autore di una ricerca sulle foreste orientali nordamericane pubblicata su Annals of Forest Science.

Le analisi di Abrams e dei suoi colleghi suggerirebbero che l’intervento dei nativi sugli ecosistemi forestali orientali sia stato più vasto e rilevante di qualunque alterazione climatica verificatasi negli ultimi millenni.

Abrams, che ha studiato per circa 30 anni lo stato delle foreste americane, è convinto che nel corso degli ultimi 2.000 anni i popoli tradizionali del continente abbiano gestito le zone boschive con l’uso massiccio di incendi controllati (slash & burn), fornendo un notevole vantaggio alle specie vegetali più resistenti o resilienti al fuoco come quercia, hickory e pino.

“Il dibattito su cosa abbia determinato la composizione delle foreste, se lo sfruttamento del territorio o il clima, continua, ma un nuovo studio suggerisce con forza che il fuoco antropogenico sia stato un elemento di grande rilevanza nel cambiamento delle foreste orientali”.

Secondo Abrams, l’azione del fuoco sembra essere stata predominante a Oriente, ma non nelle regioni occidentali, dove il cambiamento climatico fu molto più accentuato, con cicli continui di caldo e siccità.

Analisi di pollini e carbone

La ricostruzione della storia delle foreste orientali nordamericane è stata possibile grazie all’analisi di pollini, resti vegetali carbonizzati e un censimento degli alberi, tramite il quale è stato possibile confrontare la composizione delle foreste moderne con quella delle aree boschive del passato.

I ricercatori hanno scoperto che, nelle foreste più settentrionali, i pollini e la tipologia di alberi presenti indicano un declino significativo nella popolazione di faggio, pino e larice; allo stesso tempo, la densità di aceri, pioppi, frassini, querce e abeti sembra essere aumentata.

Foreste e incendi boschivi
Analisi dei pollini, dei resti carbonizzati e distribuzione delle specie vegetali nelle foreste orientali

Nelle foreste meridionali, invece, si è passati da una forte presenza di quercia e pino ad un declino di queste specie dominanti a favore di acero e betulla.

“Le foreste moderne sono dominate da specie che sono sempre più adattate al freddo, tolleranti all’ombra, non capaci di sopportare la siccità e pirofobe (non in grado di riprendersi dopo ripetuti incendi boschivi)”. spiega Abrams.

“Specie come la quercia sono favorite da incendi boschivi che si verificano con poca frequenza. Questo cambiamento nella composizione boschiva sta rendendo le foreste orientali più vulnerabili a incendi e siccità future“.

Incendi boschivi non necessariamente dannosi

Abrams e i suoi colleghi hanno inoltre analizzato i dati relativi alla popolazione umana della regione, scoprendo che almeno 2.000 anni fa iniziò un ciclo di incendi boschivi controllati che rimase stabile fino all’arrivo dei primi Europei, momento in cui gli incendi aumentarono drasticamente.

Per quanto sparsi in comunità tribali relativamente piccole (con le dovute eccezioni, come Cahokia e altri insediamenti di grandi dimensioni che stanno emergendo negli ultimi anni), i nativi erano in grado di dare alle fiamme vaste porzioni di territorio, controllando lo sviluppo degli ecosistemi locali con frequenza costante per favorire le attività agricole, la caccia e la raccolta.

“Le nostre analisi hanno identificato molte occasioni in cui il fuoco e i cambiamenti della vegetazione furono guidati da un cambiamento nella popolazione umana e nello sfruttamento del territorio, oltre ai cambiamenti causati dal solo cambiamento climatico” sostiene Adams.

“Dopo che Smokey Bear [personaggio di fantasia impiegato negli U.S.A. per numerose campagne di prevenzione degli incendi boschivi] fece la sua comparsa, gli incendi boschivi furono soppressi indiscriminatamente in tutti gli Stati Uniti e stiamo pagando un grande prezzo in termini di cambiamento delle foreste. Siamo passati da una quantità moderata di incendi a troppi incendi, finendo con quasi nessun incendio, e dobbiamo tornare ad una via di mezzo per gestire correttamente la vegetazione“.

Eastern forests shaped more by Native Americans’ burning than climate change

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Accendere il fuoco con il “rotolo di Rüdiger” https://www.vitantica.net/2019/02/15/accendere-fuoco-rotolo-rudiger/ https://www.vitantica.net/2019/02/15/accendere-fuoco-rotolo-rudiger/#respond Fri, 15 Feb 2019 00:10:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3635 Di metodi per accendere un fuoco utilizzando strumenti primitivi o rudimentali ne sono stati inventati molti: trapano a mano, ad archetto, acciarino e pietre focaie sono solo alcuni sistemi utilizzati oggi come in passato per ottenere una brace.

Esiste tuttavia un metodo ancora poco conosciuto che sfrutta la frizione e la combustibilità di materiali comuni, come cotone o sterpaglie, utilizzato almeno da un secolo e popolarizzato da Rüdiger Nehberg: il rotolo di fuoco, chiamato anche “rotolo di Rüdiger”.

Il rotolo di fuoco è un sistema a frizione che sfrutta lo sfregamento di un piccolo “sigaro” composto da materiale combustibile. Popolarizzato da Rüdiger Nehberg, esperto di sopravvivenza tedesco, fu utilizzato dai prigionieri di guerra della Seconda Guerra Mondiale per accendere fuochi e sigarette, ma pare che la sua origine sia ben più antica.

Ai prigionieri di guerra non erano concesso di possedere molti oggetti personali: in alcuni campi di prigionia, possedere un accendino era considerato un lusso e le sigarette venivano impiegate come moneta di scambio tra i detenuti per procurarsi i pochi oggetti che si riuscivano a contrabbandare.

Il rotolo di fuoco utilizzato dai prigionieri di guerra basava il suo funzionamento sulla frizione tra cenere e cotone. Dopo aver ottenuto una certa quantità di fibre di cotone (ad esempio, dai vestiti che indossavano i detenuti), queste venivano arrotolate per formare un cilindro compatto.

Tra le fibre e attorno al sigaro di cotone veniva sparsa cenere di legno, farina o sabbia, per aumentare la frizione interna ed esterna del rotolo.

A questo punto, i rotolo veniva inserito tra due assi di legno o due pietre piatte e veniva fatto rotolare avanti e indietro, aumentando progressivamente la pressione e la velocità di rotazione. Questo movimento generava sempre più calore grazie alla frizione tra sigaro, legno e cenere.

Non appena si generava una piccola colonna di fumo, il rotolo veniva estratto dalle assi di legno e aperto gentilmente nel mezzo, in corrispondenza del punto più scuro del cilindro, per esporre una piccola brace all’ossigeno atmosferico.

La brace veniva quindi alimentata inserendola in un’esca (leggi questo post per i materiali ideali per un’esca per il fuoco), con un procedimento del tutti identico a quello utilizzato per qualunque altra brace generata con i tradizionali metodi di accensione.

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Su YouTube sono disponibili innumerevoli video che dimostrano come il rotolo di fuoco possa essere un valido metodo per ottenere una brace. I materiali utilizzabili per costruire il cilindro che genererà la brace possono essere molteplici: cotone naturale, fibre vegetali come erba, steli secchi di ortica e dandelio o strisce sottili di corteccia funzioneranno egregiamente.

Per aumentare la frizione e accelerare l’accensione del rotolo si possono utilizzare cenere, ruggine, farina e caffè. Il rotolo si accende dall’interno, ed è quindi necessario inserire l’accelerante tra le fibre che compongono il sigaro.

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Come per ogni sistema di creazione del fuoco, è necessario rispettare certe linee guida per aumentare le probabilità di successo:

  •  Utilizzare fibre secche ma che siano in grado di mantenersi integre durante lo sfregamento del rotolo;
  • Il rotolo deve essere il più compatto possibile;
  • Usare acceleranti sottili, per facilitare il rotolamento ed evitare di danneggiare eccessivamente il sigaro;
  • Tenere nelle immediate vicinanze un’esca già pronta, per limitare la possibilità di far spegnere la delicata brace prodotta tramite questo metodo.

Se tutte le condizioni di base vengono rispettate, il rotolo di Rüdiger si è dimostrato capace di accendere una brace in tempi relativamente ridotti e con un dispendio di energie inferiore rispetto ai sistemi tradizionali.

Fire Roll

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Fuoco da campo: origine, costruzione e precauzioni https://www.vitantica.net/2019/02/06/fuoco-da-campo-origine-costruzione-precauzioni/ https://www.vitantica.net/2019/02/06/fuoco-da-campo-origine-costruzione-precauzioni/#respond Wed, 06 Feb 2019 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3682 Dall’alba dei tempi l’essere umano ha imparato ad amare, temere e gestire il fuoco. Sebbene i primi ominidi lo guardassero con un misto di paura e venerazione, il fuoco si è gradualmente scavato una nicchia fondamentale nella cultura umana, in particolare il fuoco da campo, elemento di primaria importanza per i cacciatori-raccoglitori antichi e moderni.

Le origini del fuoco da campo

Secondo le più recenti analisi archeologiche, sia l’ Australopithecus robustus che l’ Homo erectus si sono scaldati di fronte ad un fuoco da campo ben 1,6 milioni di anni fa nelle caverne africane di Swartkrans, in Sud Africa, mentre cuocevano resti di antilopi sulla fiamma viva.

Vicino a loro, nelle caverne di Wonderwek del deserto del Kalahari, una specie non ancora determinata di ominide lasciò una delle prime testimonianze di controllo complesso del fuoco per cuocere le carni di piccoli e grandi animali cacciati con trappole e armi primitive.

I resti dei materiali organici, sia vegetali che animali, lasciano supporre con ragionevole certezza il raggiungimento di temperature apena superiori ai 700°C, consistenti con una fiamma alimentata da erba secca, arbusti e foglie.

Anche se questi fuochi da campo delle origini non venivano accesi attivamente ma provenivano da fonti di origine naturale (come fuochi innescati da fulmini), i nostri antenati ominidi realizzarono come trasportarli fino alle loro dimore e come utilizzarli nella loro vita quotidiana.

Circa 500.000 anni fa i nostri predecessori riuscirono a generare e controllare completamente il fuoco, iniziando una rivoluzione culturale, alimentare e bellica che contribuì in larga parte a trasformare il loro stile di vita.

Attorno ai fuochi da campo di migliaia di anni fa si sono formati e sciolti legami sociali, sono state raccontate storie che appartengono alla tradizione, sono stati celebrati riti e banchetti in grado di consolidare una comunità e si sono create armi per la caccia e la guerra.

Il fuoco da campo perfetto
Ripulire il terreno

Per realizzare un fuoco da campo ideale e sicuro è necessario seguire alcune linee guida semplici ma di primaria importanza. In primo luogo, è necessario liberare il terreno su cui verrà costruito il fuoco da campo da qualunque materiale combustibile.

Zone di terreno prive di vegetazione sono perfette per un fuoco da campo, ma è anche possibile ridurre al minimo il rischio di incendi incontrollati liberando il terreno da erba, foglie e legna, rimuovendo intere zolle di terra nel raggio di 1-3 metri o ricoprendo di sabbia l’area che circonda il fuoco.

Il cerchio di pietra

Fuoco da campo: cerchio di pietra

In molte pellicole cinematografiche si vedono spesso fuochi da campo circondati da un cerchio di pietre. Questo perimetro di roccia serve a impedire che le braci ardenti possano venire in contatto con materiale combustibile presente al livello del terreno.

Una precauzione da tenere a mente quando si realizza un cerchio di fuoco riguarda il tipo di pietra da usare e la distanza dalla fiamma: usare pietra umida, specialmente se porosa, a distanza ravvicinata da una fiamma viva può causare vere e proprie esplosioni che scaglieranno schegge di roccia in ogni direzione.

Il cerchio di pietra è certamente utile, ma non è l’unico fattore che limita la propagazione incontrollata del fuoco. Una corretta pulizia del terreno è invece un requisito indispensabile: piccole braci ardenti possono sollevarsi dalla fiamma e cadere sul terreno anche a notevole distanza, innescando fuochi indesiderati e difficilmente arginabili se ci si trova in presenza di condizioni favorevoli alla propagazione del fuoco.

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Fuoco da campo in sicurezza

Costruire un fuoco da campo in tutta sicurezza, è necessario prendere le seguenti precauzioni, oltre ai suggerimenti esposti in precedenza:

  • Evitare di accendere fiamme sotto rami sporgenti o lungo pendii scoscesi;
  • Avere sempre a portata una sorgente d’acqua, o una vanga, per poter estinguere un fuoco fuori controllo;
  • Minimizzare le dimensioni del fuoco da campo;
  • Non lasciare mai incustodito un fuoco da campo;
  • Dopo aver estinto la fiamma, ricoprire il fuoco da campo con abbondante acqua e terreno, mescolando ripetutamente e aggiungendo ulteriore acqua per essere certi di non lasciare piccole braci ardenti;
  • Mai seppellire carboni ardenti perchè possono continuare a bruciare sotto il terreno e dare fuoco a radici, provocando la nascita di fuochi incontrollati;
  • Evitare di costruire un fuoco da campo durante giornate ventose.
Estinguere un fuoco da campo

La soluzione migliore per estnguere un fuoco da campo è quella di versare acqua in abbondanza su ogni brace visibile, anche se non sembra ardente. La cenere è un buon isolante, per cui le braci perdono ben poco del loro calore interno nell’arco di una notte.

Versando abbondante acqua sulle braci fino a quando non si avvertirà alcun sibilo darà la certezza quasi totale di evitare la riaccensione incontrollata del fuoco da campo. Se l’acqua è disposizione è scarsa, è possibile usare sabbia, anche se risulta meno efficace nel dissipare il calore delle braci.

E’ buona norma cancellare ogni traccia di un fuoco da campo cercando di riportare l’area al suo stato naturale, non prima tuttavia di avere la certezza dell’estinzione delle braci.

Tipi di fuoco da campo

Fuoco da campo: tipi

Fuoco da campo “tipi

Il fuoco da campo in stile “tipi” prevede la realizzazione di una piramide di legna sotto la quale verrà posizionata l’esca ardente alimentata da piccoli rametti, foglie o erba secca.

Per mantenere l’integrità strutturale di una piramide realizzata con grossi pezzi di legna, e alimentare meglio l’esca prima che le fiamme riescano ad attaccare il legname più spesso, questo fuoco da campo viene talvolta realizzato in due fasi: una piccola piramide di rami sottili all’interno e una più grossa all’esterno, composta da legname resinoso.

Il fuoco da campo tipi è ottimo per produrre calore, ma presenza alcuni rischi: man mano che la combustione attacca il legname, le possibilità che la piramide possa collassare aumentano, e con esse le probabilità di diffondere braci ardenti oltre il perimetro del fuoco da campo.

Fuoco da campo: casetta

Fuoco “a casetta”

Questo fuoco da campo si costruisce realizzando un piccolo tipi centrale, per poi circondarlo di legna seguendo una procedura molto simile a quella tradizionalmente utilizzata per costruire casette di legno.

Si forma una base di legna ponendo due rami spessi alle estremità opposte della fiamma, paralleli l’uno con l’altro; sopra di essi si posizionano altri due rami in modo da circondare completamente il tipi ardente. Seguendo questo procedimento si ottiene una piccola “casetta” di legna ideale per cucinare e dalla lunga combustione.

Tra tutti i fuochi da campo, quello a”a casetta” è considerato il meno predisposto al collasso strutturale, ma è anche il meno efficiente in termini di utilizzo del calore.

uoco da campo: rakovalkea

Rakovalkea o Nying

Questo metodo di costruzione di un fuoco da campo è tradizionalmente utilizzato nei paesi scandinavi e prevede l’utilizzo di due grossi tronchi posizionati orizzontamente l’uno sopra l’altro e tenuti in posizione da quattro paletti verticali.

Tra i due tronchi vengono collocati rametti e foglie secche in quantità sufficiente ad alimentare una fiamma e a sollevare leggermente il tronco superiore, consendendo all’aria di circolare.

Il materiale combustibile tra i due tronchi viene acceso dal centro per evitare di consumare prematuramente le estremità, che tengono in posizione il fuoco da campo.

Il rakovalkea presenta tre grossi vantaggi: brucia lentamente, a lungo, e non richiede manutenzione costante. Un rakovalkea ben costruito che utilizza tronchi lunghi due metri può produrre calore per una notte intera, fornendo inoltre protezione dal vengo.

Fuoco da campo: torcia svedese

Torcia o candela svedese

Questo fuoco da campo è unico nel suo genere perchè utilizza un solo tronco per generare una fiamma fornendo allo stesso tempo un pratico supporto per cucinare.

Un tronco di medie dimensioni viene tagliato parzialmente per creare delle fessure longitudinali. All’interno delle fessure vengono quindi inseriri rametti e foglie secche e dati alle fiamme.

Il fuoco si alimenterà “nutrendosi” del legname interno al tronco, e la superficie superiore piatta fornisce un ottimo supporto per appoggiare padelle o pentole.

Fuoco da campo: a stella

Fuoco indiano

Chiamato anche “fuoco a stella”, è il metodo di costruzione di un fuoco da campo spesso ritratto nel film sul selvaggio West.

Sul terreno vengono posizionati tronchi di piccole dimensioni in modo da formare una sorta di ruota; al centro si posizionano rametti e foglie secche che alimenteranno l’esca e contribuiranno ad appiccare la fiamma alle estremità interne dei tronchi.

Quando l’estremità di un troncò sarà quasi totalmente carbonizzata, si sposterà il ceppo verso il centro del fuoco da campo, fornendo altro combustibile alla fiamma.

Dakota fire hole

Per un articolo più esaustivo sulla fossa Dakota, leggere questo post.

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Slash & Burn, o Taglia e Brucia https://www.vitantica.net/2018/10/11/slash-burn-o-taglia-e-brucia/ https://www.vitantica.net/2018/10/11/slash-burn-o-taglia-e-brucia/#respond Thu, 11 Oct 2018 02:00:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2251 In “Up in Smoke”, il regista Adam Wakeling segue l’ecologo Michael Hands nella giungla dell’Honduras per incontrare la popolazione. L’incontro è volto a far conoscere le alternative alla tecnica di slash & burn utilizzata tradizionalmente dai locali per liberare vaste aree di giungla.

Molte società cacciatrici-raccoglitrici manipolano attivamente il territorio utilizzando il fuoco per bruciare le piante infestanti o non commestibili, oppure applicando la tecnica slash & burn per creare nuovi territori di caccia.
I nativi americani conoscevano perfettamente la tecnica del “taglia e brucia” (slash & burn), che prevede l’incendio controllato di una porzione di foresta per lasciar spazio a colture più produttive e creare un terreno di caccia più favorevole alle tecniche predatorie umane.

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In tempi moderni, lo slash & burn è un’attività che coinvolge tra i 200 e i 500 milioni di persone in tutto il mondo. Nel 2004 si è calcolato che soltanto in Brasile circa 500.000 piccoli agricoltori si siano avvantaggiati del taglia e brucia per far spazio a campi e allevamenti.

La tecnica slash & burn è considerata non scalabile (diventa estremamente svantaggiosa in termini ambientali se applicata su scala sempre più vasta) ed è un elemento di primaria importanza nel disboscamento di migliaia di ettari di foresta e nel cambiamento climatico antropogenico locale e globale.

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Come accendere il fuoco con un acciarino https://www.vitantica.net/2018/09/30/come-accendere-il-fuoco-con-un-acciarino/ https://www.vitantica.net/2018/09/30/come-accendere-il-fuoco-con-un-acciarino/#respond Sun, 30 Sep 2018 02:00:45 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2201 Il video di PeschoAnvi ci aiuta ad accendere un fuoco efficacemente usando un acciarino.

A volte usiamo l´acciarino in un modo non ideale spostando l´esca o senza mirare bene le scintille. In questo video vediamo assieme 2 metodi più efficaci per accendere un esca. Scusate il mio modo inappropriato di usare un coltello il coltello in questo video, ideale sarebbe con il dorso.

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Il fuoco greco, l’arma incendiaria più temibile dell’antichità https://www.vitantica.net/2018/06/18/fuoco-greco-arma-incendiaria/ https://www.vitantica.net/2018/06/18/fuoco-greco-arma-incendiaria/#comments Mon, 18 Jun 2018 15:00:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1801 Il fuoco greco fu una temibile arma incendiaria sviluppata dall’ impero bizantino nella seconda metà del VII secolo d.C. e tipicamente utilizzata durante le battaglie navali, con conseguenze disastrose e terrificanti per il nemico. Il fuoco greco regalò diverse vittorie agli eserciti di Costantinopoli, contribuì a respingere gli assedi arabi e rappresentò uno degli sviluppi tecnologici più rilevanti e determinanti della storia bellica europea.

La definizione “fuoco greco” entrò in uso a partire dalle Crociate; a Costantinopoli, prima della popolarità del termine utilizzato ancora oggi, questa tecnologia veniva definita come “fuoco marino”, “fuoco romano”, “fuoco di guerra”, “fuoco liquido” o “fuoco appiccicoso”.

La nascita del fuoco greco

Occorre precisare che la tecnologia delle armi incendiarie non nacque con l’invenzione del fuoco greco: per secoli Greci, Romani e popoli mesopotamici utilizzarono misture a base di zolfo, petrolio o bitume per appiccare fuochi a imbarcazioni o edifici del nemico sfruttando granate o frecce per scagliare proiettili incendiari anche a grande distanza. Le armi incendiarie esistono da quando l’essere umano imparò a manipolare il fuoco a piacimento, anche se i primi resoconti scritti risalgono a circa 3.000 anni fa.

L’invenzione del fuoco greco viene attribuita da Teofane, monaco o storico bizantino del VIII secolo, a Kallinikos (latinizzato in Callinicus), un architetto e artificiere di origine libanese che intorno all’anno 672 ideò per conto dei Bizantini una mistura di “fuoco marino” in grado di bruciare completamente le navi arabe che minacciavano il Mediterraneo.

Restano diversi dubbi sulla paternità dell’invenzione: Kallinikos giunse a Costantinopoli circa due anni dopo il primo rapporto di un’arma incendiaria del tutto identica al fuoco greco, ed è assai più probabile che la tecnologia sia stata il frutto del lavoro di diversi alchimisti e artificieri che vivevano nell’ impero bizantino.

Sifone portatile per il fuoco greco, una sorta di lanciafiamme antico, mentre viene utilizzato dalla cima di una torre d'assedio. L'illustrazione proviene dal manoscritto Codex Vaticanus Graecus 1605 (IX-XI secolo)
Sifone portatile per il fuoco greco, una sorta di lanciafiamme antico, mentre viene utilizzato dalla cima di una torre d’assedio. L’illustrazione proviene dal manoscritto Codex Vaticanus Graecus 1605 (IX-XI secolo)

Kallinikos, quindi, potrebbe essersi limitato a perfezionare il fuoco greco trasformandolo in un’arma più pratica e meno pericolosa per coloro che la manovravano. La data dell’invenzione è inoltre arbitraria se si considera che il 672 è l’anno in cui si registrò il primo l’impiego di questa tecnologia: il mondo arabo, dopo aver occupato Siria, Palestina ed Egitto, cinse d’assedio Costantinopoli per due volte, venendo respinto in entrambi i casi e subendo gravi perdite di uomini e navi proprio a causa del fuoco greco.

Fuoco greco: arma navale avvolta nel segreto

La formula del fuoco greco era un segreto custodito gelosamente dai Bizantini, così gelosamente da non lasciare alcuna documentazione scritta in grado di sopravvivere fino all’epoca moderna. Ad oggi, nessuno conosce con precisione la composizione chimica del fuoco greco, anche se nel corso del tempo sono state formulate diverse ipotesi. Qualche secolo dopo il primo utilizzo in battaglia del fuoco greco, l’imperatore Costantino VII, nella sua opera De Administrando Imperio, avverte i suoi eredi di non rivelare mai il segreto di quest’arma perché “è stato mostrato e rivelato da un angelo al grande e santo primo imperatore cristiano, Costantino”.

Sappiamo però che la sola mistura incendiaria era fondamentalmente inservibile se non supportata dalla giusta attrezzatura: era necessario modificare i dromoni (navi simile alle galee) per trasportare in modo sicuro la sostanza incendiaria; occorreva installare a bordo diverse armi a sifone in grado di “sparare” il fuoco greco verso le imbarcazioni nemiche; era indispensabile infine sottoporre ad un addestramento speciale gli operatori che avrebbero utilizzato queste armi per evitare di mettere a rischio l’intero equipaggio o danneggiare irreparabilmente il dromone.

Granate utilizzate per contenere fuoco greco risalenti al X-XII secolo ed esposte al National Historical Museum di Atene
Granate utilizzate per contenere fuoco greco risalenti al X-XII secolo ed esposte al National Historical Museum di Atene

L’intero apparato-arma del fuoco greco si basava, secondo un manoscritto della biblioteca di Wolfenbüttel, su una fornace posizionata sulla prua del dromone: il fuoco greco veniva scaldato da una fiamma all’interno di un contenitore di rame ed espulso tramite sifoni, che aspiravano una parte della miscela incendiaria attraverso un tubo di bronzo e la espellevano dall’estremità opposta.
Anche il vichingo Ingvar il Viaggiatore descrisse in modo simile il sistema di sparo del fuoco greco dopo un incontro con alcune navi che utilizzavano quest’arma.

La conoscenza dell’intero sistema che consentiva di utilizzare il fuoco greco era strettamente compartimentalizzata: i tecnici conoscevano solo alcuni aspetti dell’arma mentre gli operatori ne conoscevano altri, in modo tale che un tecnico non sarebbe mai riuscito a manovrare un’arma a sifone e un operatore a replicare l’intero sistema per conto del nemico o per qualunque altro scopo non gradito all’impero. Nell’anno 814 i Bulgari riuscirono a catturare ben 36 sifoni e una certa quantità di materiale incendiario, ma non furono in grado di comprendere il funzionamento del sistema e non riuscirono mai a padroneggiare il fuoco greco.

Cosa sappiamo del fuoco greco

Sebbene non siano sopravvissuti documenti in grado di fornire una ricostruzione accurata della composizione della mistura incendiaria del fuoco greco, la principessa bizantina Anna Comnena riporta una descrizione della miscela impiegata contro i Normanni nel 1108:

“Dal pino e da altri alberi sempreverdi si raccoglie resina infiammabile. La si strofina con lo zolfo e la si inserisce in tubi di canne e viene soffiata da uomini con respiri violenti e continui. In questo modo incontra la fiamma all’estremità [della canna], prende fuoco e ricade come un mulinello selvaggio sulle facce del nemico”

Incrociando i vari riferimenti al fuoco greco risalenti all’ epoca bizantina o posteriori, l’archeologia moderna ha delineato alcune caratteristiche di quest’arma chimica:

  • Era una sostanza liquida e non una sorta di proiettile;
  • Continuava a bruciare sull’acqua. Secondo alcune fonti, addirittura prendeva fuoco a contatto con l’acqua;
  • Poteva essere estinto solo con l’utilizzo di sabbia, aceto o urina;
  • La fiamma del fuoco greco produceva una gran quantità di fumo.

Per molto tempo l’ipotesi più popolare sul fuoco greco fu quella che vedeva l’arma come una sorta di “bomba” alimentata da una versione rudimentale della polvere da sparo; per quanto affascinante, l’ipotesi non teneva in considerazione il fatto che non c’è alcuna prova che gli Europei o gli Arabi (al tempo, i leader mondiali in campo chimico) conoscessero la polvere nera nel VII secolo.

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Una seconda ipotesi basata principalmente sull’ apparente impossibilità di estinguere il fuoco greco parla di una mistura di acqua e calce viva, una sostanza ben nota ai Bizantini ma che ha bisogno del contatto con l’acqua per prendere fuoco. Molti resoconti dell’epoca parlano invece del fuoco greco come di una sostanza liquida che veniva spesso versata direttamente sui ponti delle navi nemiche o inserita in contenitori di terracotta per realizzare qualcosa di simile ad una granata. Anche se i ponti delle navi erano generalmente bagnati e potenzialmente reattivi nei confronti della calce viva, l’effetto non sarebbe stato sufficiente ad innescare fuochi tali da incendiare completamente un’imbarcazione.

La maggior parte degli archeologi moderni ritiene che il fuoco greco fosse una mistura a base di petrolio crudo o raffinato, qualcosa di simile al napalm moderno. Sappiamo che i Bizantini potevano contare su affioramenti naturali di petrolio nelle regioni del Mar Nero e che intorno al VI-VII secolo alcuni storici dell’epoca citarono sostanze come “l’ olio dei Medi” o “nafta” impiegate in battaglia come armi incendiarie; è molto probabile quindi che la nafta o il petrolio non raffinato fossero ingredienti essenziali per la miscela del fuoco greco. Questa idea sembra essere supportata dal trattato militare del 1187, scritto da Mardi ibn Ali al-Tarsusi per Saladino, che riporta la versione araba del fuoco greco (chiamata “naft“), una mistura di petrolio, zolfo e resine vegetali.

Greek Fire
Greek fire – Wikipedia

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I rapaci piromani: l’uomo non è il solo animale che usa il fuoco https://www.vitantica.net/2018/01/21/rapaci-piromani-animale-che-usa-fuoco/ https://www.vitantica.net/2018/01/21/rapaci-piromani-animale-che-usa-fuoco/#respond Sun, 21 Jan 2018 02:00:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1281 Il dominio del fuoco fu un traguardo fondamentale per l’evoluzione fisica, culturale e tecnologica dell’essere umano: con il fuoco si possono rendere alcuni alimenti commestibili o più facilmente digeribili; si possono realizzare strumenti o mettere in pratica strategie di caccia più produttive; un fuoco da campo è spesso stato il fulcro delle attività sociali umane.

Fino ad ora si è sempre pensato che il controllo del fuoco fosse una prerogativa tipicamente umana, una delle abilità che ci differenzia enormemente dal resto del regno animale; ma negli ultimi anni si sono accumulate prove del fatto che anche alcuni rapaci australiani sembra siano in grado di utilizzare deliberatamente le fiamme come strumento per aumentare le loro possibilità di caccia.

Nibbio e falco usano il fuoco, dicevano gli aborigeni
Falco bruno (Falco berigora)
Falco bruno (Falco berigora)

Nel 2016, l’ornitologo Bob Gosford documentò diverse occasioni in cui alcuni uccelli rapaci, come il nibbio bruno (Milvus migrans) e il falco bruno (Falco berigora), contribuivano attivamente alla diffusione di incendi boschivi naturali, un’abilità già nota agli aborigeni australiani ma spesso messa in discussione dalla comunità scientifica per assenza di prove.

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Le prove accumulate da Gosford non erano tuttavia in grado di dimostrare con certezza se i rapaci australiani contribuissero alla diffusione degli incendi in modo involontario, o con un preciso intento predatorio.

Per ottenere una risposta sulla natura del loro comportamento, Gosford ha trascorso il 2017 raccogliendo ulteriori testimonianze che sembrano confermare il fatto che nibbi e falchi australiani sfruttino le fiamme come strumento per facilitare le loro attività di caccia.

Gli oltre 20 rapporti da parte di altrettanti testimoni oculari raccontano di come alcuni rapaci siano stati osservati mentre afferravano col becco pezzi di legno ancora ardenti per trasportarli in aree non ancora colpite dagli incendi, appiccando deliberatamente fuochi boschivi per stanare le loro prede preferite.

Si pensa che questi uccelli traggano vantaggio dalle fiamme generate dai fulmini che spesso danno origine ad incendi boschivi nelle regioni settentrionali dell’Australia.

Caccia con le fiamme

L’incendio boschivo naturale è una dinamica ben nota in queste zone e contribuisce a mantenere sano l’ecosistema: le piante locali si sono ormai adattate ad un ciclo di “distruzione e rinascita” e non risentono particolarmente degli effetti distruttivi del fuoco.

Nibbio bruno (Milvus migrans)
Nibbio bruno (Milvus migrans)

Un effetto secondario degli incendi boschivi è la fuga dalle fiamme degli animali terrestri: piccoli o grandi che siano, tutte le creature che vivono a contatto con la terra o che spendono il loro tempo sugli alberi sono naturalmente terrorizzate dalle fiamme e tendono ad allontanarsi al primo segnale d’allarme.

Queste fughe dagli incendi sono ciò che i rapaci attendono con ansia: prima o poi le loro prede preferite saranno costrette ad uscire allo scoperto, in aree meno coperte da vegetazione (come le zone di transizione) e che le rendono bersagli perfetti per questi uccelli predatori.

Evidentemente alcuni rapaci hanno ben compreso il nesso tra incendi boschivi e disponibilità di facili prede, così bene da aver imparato ad agire attivamente nella diffusione delle fiamme.

Rapaci che appiccano incendi

Almeno tre specie di rapaci (nibbio fischiatore, nibbio bruno e falco bruno) sono state osservate trasportare piccoli rametti in fiamme per oltre 50 metri su zone di terreno non ancora bruciate o che non si trovano lungo il percorso di un incendio, appiccando volontariamente il fuoco e attendendo che le loro prede uscissero allo scoperto.

Nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus)
Nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus)

In questo modo i rapaci australiani sono capaci di ottimizzare le loro strategie di caccia sfruttando la paura che le fiamme suscitano in ogni animale. Uno dei resoconti raccolti da Gosford riguarda un incendio boschivo a Kakadu: il vigile del fuoco Dick Eussen stava lottando contro le fiamme assieme ai suoi colleghi, ma non appena circoscrivevano un focolaio se ne generava immediatamente un altro dal lato opposto della strada.

Alla settima occorrenza di un nuovo focolaio non previsto, Eussen e i suoi compagni hanno scoperto il colpevole: un nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus) prelevava continuamente rametti infuocati dall’incendio che i pompieri cercavano di domare per poi depositarli alle loro spalle, dando origine ad un altro focolaio e attendendo che piccoli roditori, anfibi o rettili uscissero allo scoperto.

Intentional Fire-Spreading by “Firehawk” Raptors in Northern Australia

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L’acciarino antico e moderno https://www.vitantica.net/2018/01/16/acciarino-antico-moderno/ https://www.vitantica.net/2018/01/16/acciarino-antico-moderno/#comments Tue, 16 Jan 2018 02:00:53 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1269 Prima dell’invenzione dei fiammiferi moderni (avvenuta intorno alla metà del XIX secolo), i metodi più comuni per accendere un fuoco erano principalmente due: frizione e percussione. Le tecniche a frizione, tra cui il trapano ad arco, sono state impiegate fino ad epoche storiche relativamente recenti e non sono soltanto tipiche delle comunità semi-primitive.

I popoli norreni, ad esempio, conoscevano benissimo il trapano a mano o ad arco, anche se le alternative a percussione disponibile all’epoca si rivelavano spesso più efficaci e veloci: l’ acciarino a pietra focaia o l’ acciarino metallico.

I metodi di accensione del fuoco basati sulla percussione, come l’acciarino, sono nati in tempi remoti utilizzando pietre dalla differente composizione cristallina in grado di produrre scintille se sottoposte ad un violento stress meccanico.

Come funziona un acciarino metallico

L’evoluzione dell’acciarino primitivo verso quello metallico ebbe inizio con la capacità di controllare il contenuto di carbonio nei forni per la fusione del ferro, abilità che consente di creare acciaio.

L’acciaio che compone l’acciarino è essenzialmente un sostituto della pirite ferrosa utilizzata in combinazione con la selce / pietra focaia per la produzione di scintille.

Rispetto alla pirite, l’acciaio ha diversi vantaggi:

  • Non viene eroso sensibilmente ad ogni percussione, contrariamente alla pirite. Un acciarino moderno in ferro-cerio ha una vita ben superiore alle 1.000 accensioni;
  • E’ in grado di creare scintille a temperatura più elevata rispetto all’impiego di pirite ferrosa. Le scintille sono inoltre più numerose e grandi se paragonate a quelle prodotte con la selce;
  • Consente di ottenere un tizzone anche in condizioni umide grazie all’alta temperatura delle scintille;
  • Un acciarino è sostanzialmente impermeabile e capace di funzionare anche se bagnato.
selce e pirite ferrosa
Selce (scura) e pirite ferrosa (brillante, a destra) pronte a colpirsi

Ma come si crea la scintilla? Ad ogni percussione, dall’ acciarino metallico vengono erose piccole schegge che possono innescare una piccola e veloce combustione. Le scintille vengono quindi dall’acciarino, non dalla selce.

Quando la selce viene colpita dall’acciaio o dalla pirite ferrosa (che svolge il ruolo di acciarino per via del suo contenuto di ferro), la sua durezza fa in modo che si stacchino piccole particelle metalliche dalla superficie ruvida dell’acciarino.

La forza dell’impatto si rivela a volte sufficiente a scaldare i frammenti metallici al punto tale da “accenderli” non appena vengono a contatto con l’ossigeno atmosferico. Un acciarino realizzato con acciaio duro (ad alto contenuto di carbonio e temperato) produrrà scintille piccole e ad alta temperatura.

Tecnica per l’utilizzo dell’ acciarino metallico tradizionale

Per quanto l’acciarino si sia rivelato uno strumento utilissimo nell’arco dei secoli, una tecnica d’impiego non corretta o un’ esca non adatta possono comprometterne l’efficacia.

Gli acciarini antichi, contrariamente a quelli moderni in ferro-cerio o magnesio, non presentavano superfici uniformi in grado di “slittare” tra di loro in modo consistente e dovevano essere utilizzati in modo differente:

  • Un acciarino antico funziona tramite la percussione: acciarino e selce devono colpirsi per creare scintille. Una barra di ferro-cerio invece può essere semplicemente sfregata per ottenere lo stesso risultato;
  • Un’asta di ferro-cerio o magnesio produce scintille a temperature molto più alte di un acciarino in acciaio, elemento che costringe ad posizionare l’esca (le migliori sembrano essere il fungo dell’esca o tessuto carbonizzato) a contatto diretto con la selce;
  • Un acciarino moderno può essere utilizzato da chiunque anche senza alcuna conoscenza delle tecniche tradizionali di accensione del fuoco;
  • Un’asta di ferro-cerio è più fragile di un acciarino in acciaio. Tende a rompersi se colpisce violentemente una superficie dura e la lunghezza dell’asta è una caratteristica che permette di produrre scintille in modo consistente;
  • L’acciarino di ferro-cerio permette di regolare la pressione sulla barra e di conseguenza la quantità e la direzione delle scintille prodotte, controllo non sempre facile con i metodi a percussione.
Acciarino in acciaio e frammento di selce su cui è stato posizionato un pezzo di tessuto carbonizzato come esca per le scintille
Acciarino in acciaio e frammento di selce su cui è stato posizionato un pezzo di tessuto carbonizzato come esca per le scintille

Ci sono due metodi comuni per massimizzare il risultato di un acciarino antico: il primo è quello di posizionare l’esca per il fuoco sopra al pezzo di selce da colpire (tecnica di solito impiegata per gli acciarini tradizionali in acciaio), mentre il secondo vede l’esca posizionata a terra o sotto la selce, un procedimento ideale quando si utilizza la percussione tra pirite e selce.

L’elemento comune per entrambi i metodi di utilizzo è il seguente: a causa della bassa temperatura delle scintille prodotte da un acciarino tradizionale o dalla percussione tra pirite e selce, l’ esca deve trovarsi il più vicina possibile alla fonte delle scintille per poterne accogliere almeno una capace di innescare la combustione prima che questa si spenga completamente o sia troppo fredda per essere efficace.

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L’ acciarino moderno

Gli acciarini moderni, invece, non risentono delle problematiche di quelli tradizionali in acciaio o della combinazione pirite-selce. Anche se quelli al magnesio sono ora illegali in Italia, quelli al ferro-cerio si rivelano altrettanto efficaci e più sicuri.

Il ferro-cerio non è altro che una lega a base di ferro e cerio conosciuta per produrre schegge ad alta temperatura se sfregata da un oggetto metallico: la composizione metallica può variare molto, ma le barre di ferro-cerio più comuni sono composte dal 50% di cerio, 25% di lantanio, 19-20% di ferro e piccole quantità di altri metalli.

Le scintille prodotte da una barra di ferro-cerio possono raggiungere i 3.000°C, un calore sufficiente ad innescare la combustione con un’infinità di materiali.

L’utilizzo di un acciarino di ferro-cerio è semplice anche per chi non ha mai utilizzato uno strumento simile:

  • Si impugna con una mano la barra di ferro-cerio e con l’altra l’oggetto metallico che dovrà eroderla. Molti acciarini di questo tipo vengono venduti con una piccola placca metallica pronta all’uso, ma è possibile usare qualunque oggetto d’acciaio, compreso il dorso zigrinato di un coltello;
  • Si posiziona il “percussore” sull’asta di ferro-cerio con un’angolo di 90-120 gradi;
  • Si fa scivolare l’oggetto metallico lungo l’asta applicando una pressione sufficiente a creare scintille.
  • Una tecnica alternativa (e che di solito fornisce maggiore controllo sulla direzione e sulla qualità delle scintille prodotte) prevede che il percussore metallico resti fermo mentre la barra di ferro-cerio viene fatta scivolare verso l’alto.

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Viking Age Fire-Steels and Strike-A-Lights

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Il fungo dell’esca Fomes fomentarius https://www.vitantica.net/2017/11/20/il-fungo-dellesca-fomes-fomentarius/ https://www.vitantica.net/2017/11/20/il-fungo-dellesca-fomes-fomentarius/#respond Mon, 20 Nov 2017 02:00:38 +0000 https://www.vitantica.net/?p=903 Creare il fuoco dal nulla può essere difficile, ma i nostri antenati erano circondati da una vasta gamma di materiali naturali che potevano essere impiegati per generare una fiamma.

Uno dei materiali più apprezzati era il fungo dell’esca (Fomes fomentarius), un parassita non commestibile di molti alberi europei, asiatici, africani e nordamericani che forma escrescenze dure con colori che variano dal marrone scuro al grigio chiaro. Nell’arco della storia si è rivelato un fungo dai molteplici utilizzi, primo tra tutti quello di esca per il fuoco.

I funghi dell’ esca

Il termine “fungo dell’esca” racchiude in realtà almeno due specie di funghi che, una volta preparati a dovere, sono in grado di alimentare molto facilmente una scintilla o una brace.

La prima specie, chiamata Inonotus obliquus, cresce generalmente sulle betulle e forma escrescenze nere il cui contenuto fibroso può essere sminuzzato per creare un’esca perfetta o una bevanda medicinale chiamata chaga.

La seconda specie di fungo, il Fomes fomentarius, si nutre delle fibre legnose di alberi come pioppi, querce, betulle e faggi, non disdegnando affatto altre varietà di piante.

Non appena trova una cicatrice nella corteccia, propaga il proprio micelio all’interno del legno e inizia a formare un corpo fruttifero “a mensola” (sporoforo a mensola) spesso a forma di zoccolo di cavallo, con linee concentriche che indicano la crescita annuale del fungo.

Funghi esca che crescono sul tronco di un albero morto
Funghi esca che crescono sul tronco di un albero morto. Wikimedia Commons
Fomes fomentarius

Lo sporoforo del Fomes fomentarius, composto da materia vegetale “digerita” dal fungo, può raggiungere dimensioni notevoli, fino a quasi mezzo metro di lunghezza per uno spessore di oltre 25 centimetri.

La scorza esterna è dura e legnosa e assume una colorazione diversa dipendentemente dal tipo di albero che il fungo sta parassitando. La temperatura ottimale per la crescita di questo fungo è di 27-30°C ma sopporta molto facilmente i 37-38°C senza mostrare alcun problema nella crescita.

Man mano che si nutre, questo fungo dell’esca induce la putrefazione dell’albero ospite fino a causarne eventualmente la morte. Quando l’albero cade a terra, il fungo trasforma le sue abitudini alimentari: dalla condizione di parassita passa a quella di saprofita iniziando a nutrirsi di materia vegetale morta.

Fomes fomentarius può sopravvivere per anni (anche 20 o più) alimentandosi soltanto di fibre in decadimento fino alla completa distruzione del tronco d’albero che li ospita.

Fungo esca tagliato per esporre la carne
Fungo esca tagliato per esporre la carne. Fonte: Paul Kirtley
Amadou: il materiale perfetto per un’esca

L’utilizzo di questo fungo come esca risale a tempi antichissimi: circa 5.000 anni fa, Ötzi trasportava quattro frammenti di Fomes fomentarius con il preciso scopo di creare un’ esca per il fuoco.

Il metodo di preparazione prevede il taglio del fungo per esporre la carne interna (nella foto sopra, la parte giallastra priva di tubuli), inizialmente compatta ma facile da sfibrare con un coltello o una pietra affilata.

Dopo essere state raschiate con delicatezza, le fibre formeranno un piccolo ammasso di batuffoli spugnosi chiamato amadou, perfetto per accogliere una scintilla o la brace creata tramite i tradizionali metodi a frizione.

Pezzo di fungo esca sfibrato (amadou) e pronto per accogliere una scintilla o una brace
Pezzo di fungo esca sfibrato (amadou) e pronto per accogliere una scintilla o una brace. Fonte: Paul Kirtley

L’ amadou, se preparato con largo anticipo rispetto all’accensione del fuoco, doveva essere conservato con cura: è un materiale con un alto potere d’assorbimento dell’acqua e la sua efficacia può essere compromessa anche dall’ eccessiva umidità atmosferica.

La soluzione più comoda ed efficace per proteggerlo dall’acqua era quella di trasportare interi pezzi di fungo per prepararli soltanto nel momento del bisogno. In questo modo, la dura scorza esterna protegge le fibre interne dall’attacco dell’umidità.

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Una volta acceso, il fungo dell’esca e l’amadou iniziano a bruciare lentamente ma in modo costante senza mai generare una fiamma. La combustione raggiunge temperature elevate e può durare per diverso tempo in base alle dimensioni del frammento di fungo.

Queste sue caratteristiche lo rendevano un materiale ideale per trasportare una brace su lunghe distanza: collocando un tizzone in un’apposita nicchia ricavata nella carne del fungo lo si poteva trasportare per ore senza correre il rischio di indebolirlo o spegnerlo.

 

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