domesticazione – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Perché è nata l’agricoltura? https://www.vitantica.net/2019/04/15/perche-e-nata-agricoltura/ https://www.vitantica.net/2019/04/15/perche-e-nata-agricoltura/#respond Mon, 15 Apr 2019 00:10:11 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4022 Per quanto possa sembrare controintuitivo, il passaggio da uno stile di vita da cacciatori-raccoglitori ad uno agricolo non ha molto senso. Come spiegato in questo post sulle conseguenze della rivoluzione agricola del Neolitico, l’agricoltura fu all’origine di molti problemi sociali, economici e sanitari che hanno avuto profonde ripercussioni per interi millenni.

Agricoltura non conveniente

E’ da molto tempo che gli antropologi si chiedono le ragioni che spinsero i nostri antenati ad effettuare il passaggio da uno stile di vita basato su caccia e raccolta ad uno agricolo, specialmente alla luce del fatto che questo cambiamento prevede drastici cambiamenti socio-economici e che si è verificato in decine di luoghi differenti del pianeta.

Devono quindi esistere delle ragioni sufficienti e fondate per un cambiamento così radicale, ragioni che tuttavia rimangono ancora parzialmente oscure.

“Molte prove suggeriscono che la domesticazione e l’agricoltura non abbiano molto senso” sostiene Elic Weitszel, dottorando al Dipartimento di Antropologia della UConn. “I cacciatori raccoglitori talvolta lavorano poche ore al giorno, la loro salute è migliore e le loro diete sono più varie; perché qualcuno vorrebbe cambiare e iniziare a coltivare?”.

Alcune civiltà furono letteralmente distrutte dal cambiamento climatico locale che innescarono con le loro attività agricole o urbane
Alcune civiltà furono letteralmente distrutte dal cambiamento climatico locale che innescarono con le loro attività agricole.

In una ricerca pubblicara su American Antiquity, Weitzel indaga sulle ragioni del passaggio da caccia-raccolta a società agricola analizzando due teorie sull’origine dell’agricoltura e sulla loro validità nell’ambito delle culture tradizionali degli Stati Uniti orientali.

Due ipotesi sull’origine dell’agricoltura

La prima teoria sull’origine dell’agricoltura prevede che in tempi di particolare abbondanza di risorse alimentari ci fosse il tempo di iniare a sperimentare con la domesticazione di piante come zucche e girasoli, domesticati nel Tennessee intorno a 4.500 anni fa.

La seconda, invece, sostiene che la domesticazione a scopi agricoli si sia verificata dalla necessità di supportare una dieta scarsa in periodi difficili, quando le risorse alimentari non abbondavano.

La scarsità di risorse potrebbe non essere stata esclusivamente legata al ritmo stagionale: è possibile che una popolazione crescente di esseri umani stesse rapidamente esaurendo quello che l’ecosistema locale poteva offrire.

Weitzel ha messo alla prova entrambe le teorie analizzando le ossa animali recuperate da 6 siti archeologici dislocati tra Alabama e Tennessee e appartenenti agli ultimi 13.000 anni di storia.

Accoppiando i dati raccolti con il polline estratto dai sedimenti intorno ad antichi laghi e paludi, è riuscito ad ottenere qualche indizio su come possano essere andate le cose.

Come nacque l’agricoltura?

I pollini di quercia e hickory (noce americano) suggerirebbero che le foreste composte da queste specie iniziarono a dominare l’ecosistema nordamericano a seguito di un riscaldamento climatico; lo stesso riscaldamento causò un progressivo prosciugamento dei laghi, modificando profondamente l’ecosistema regionale.

Le ossa animali mostrano un cambiamento nella dieta: da un’alimentazione basata prevalentemente su specie vegetali acquatiche e pesci di grossa taglia ad una sussistenza fondata su molluschi, facili da reperire in quantità e capaci di sopravvivere anche in acque basse.

Sembra quindi che ci sia stato effettivamente uno squilibrio ambientale, come sostiene la seconda ipotesi sulla nascita dell’agricoltura: potrebbe essere stato un mix di cambiamento climatico e sfruttamento delle risorse alimentari da parte della popolazione umana a costringere i nostri antenati ad escogitare un nuovo metodo per la produzione del cibo necessario a sfamare le loro comunità.

Evoluzione della domesticazione del mais
Evoluzione della domesticazione del mais

Ma i risultati evidenziano anche un’altra conseguenza del cambiamento climatico, un mutamento dell’ecosistema che supporterebbe la prima teoria sulla nascita dell’agricoltura: le foreste di quercia e hickory potevano supportare una vasta popolazione di selvaggina, aspetto apparentemente confermato dalla massiccia presenza di ossa animali.

“Fondamentalmente, quando il periodo è favorevole e c’è abbondanza di animali, ci si aspetta che la caccia si concentri verso prede più efficienti in termini di rapporto massa-carne” spiega Weitzel. “Ad esempio, i cervi sono molto più efficienti degli scoiattoli, che sono più piccoli, hanno meno carne e sono più difficili da catturare”.

Un solo cervo rosso adulto può sfamare diverse persone, ma se viene cacciato in abbondanza e senza limiti, o se l’ambiente si trasforma in uno meno favorevole per la popolazione animale, gli esseri umani devono adattarsi e sopravvivere con animali più piccoli.

Secondo Weitzel, l’agricoltura potrebbe aver rappresentato una valida alternativa alla caccia di piccole prede, un modo per produrre le quantità di cibo sufficienti a sfamare una popolazione umana, anche se richiede molto più lavoro rispetto ad una vita da cacciatore-raccoglitore.

I risultati da lui ottenuti supporterebbero l’idea che l’agricoltura sia sorta in periodi in cui c’era scarsità di cibo nutriente. “La domesticazione in tempi di surplus non sembra il miglior modo di intendere la domesticazione delle origini”.

Food for thought: Why did we ever start farming?
Population boom preceded early farming

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Il cavallo: storia, evoluzione e selezione fino al XIX secolo – Parte 2 https://www.vitantica.net/2019/02/13/cavallo-storia-evoluzione-selezione-parte2/ https://www.vitantica.net/2019/02/13/cavallo-storia-evoluzione-selezione-parte2/#comments Wed, 13 Feb 2019 00:10:57 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3620 Un doveroso ringraziamento a Lisa B. per avermi fornito questo contenuto in due parti, e ad Erika A. per la splendida foto del cavallo usata come immagine in evidenza per il post.

Leggi la prima parte

Il cavallo di Cortes e dei Comanches: il Paint Horse

Ormai abbiamo la certezza che tra i primi cavalli sbarcati in Messico con la spedizione di Hernán Cortés vi fosse certamente un cavallo dal manto pezzato. Inevitabilmente i cavalli trasportati nel Nuovo Mondo sfuggirono al controllo dell’uomo tornando ad uno stato selvaggio; riproducendosi tra di loro, il manto pezzato venne trasmesso ai nuovi puledri.

I Comanche (molto probabilmente i primi tra i nativi americani ad introdurre il cavallo nella loro cultura) apprezzarono particolarmente questi cavalli dal mantello così particolare: erano cavalli scattanti e perfettamente adatti a galoppare tra le grandi pianure.

E ‘altresì vero che saranno i primi cowboy ad attuare una vera e propria selezione di questa razza (poiché inizialmente questi cavalli avevano in comune solamente il colore del loro mantello) e a dar loro il nome di “Paint”, termine che deriva dalla parola spagnola “pintado”.

Il pony Welsh, a rischio di estinzione per volere di un sovrano
Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Pony Welsh
Pony Welsh

Questi pony sono una razza originaria del Galles (probabilmente sono discendenti dei pony celtici) già allevata ai tempi degli antichi romani ed apprezzata per la grande energia ed intelligenza.

Questa razza rischiò seriamente l’estinzione nel Cinquecento, quando Enrico VIII, avendo notato un decadimento della qualità dei cavalli britannici, impose di selezionare solamente cavalli adatti agli usi in guerra e decretando che qualsiasi cavallo di altezza inferiore ai 132 cm per le fattrici e i 152 cm per gli stalloni venisse soppresso.

Fortunatamente, qualche esemplare sfuggì al massacro ordinato dal sovrano, e fu solo così che l’estinzione di questa razza venne scongiurata; nel Settecento i pony Welsh tornarono nuovamente a diffondersi poiché, come prima dell’imposizione del sovrano inglese, questi animali erano un validissimo aiuto per gli agricoltori e allevatori inglesi.

Il cavallo Lipizzano, il giovane canuto

La caratteristica più straordinaria del cavallo Lipizzano è la sua estrema intelligenza, che lo porta ad avere una notevole capacità di apprendimento; eppure, quando si parla di questo cavallo la prima cosa che colpisce è il precoce incanutimento del suo mantello.

I puledri nascono con un mantello scuro (baio, morello o grigio) ma nel giro di 7-10 anni il loro mantello si imbianca tendendo sempre di più al colore grigio-bianco.

Il nome Lipizzano dato a questa elegante razza deriva dalla città di Lipizza, città un tempo italiana ma oggi in territorio sloveno; questa località venne scelta nel 1580 dall’Arciduca Carlo di Stiria per costruirvi un allevamento di cavalli che potesse rifornire la corte viennese di animali da parata e per il traino delle loro carrozze; purtroppo la scelta di questo territorio, assai conteso nel corso della storia, ha provocato numerosi spostamenti di questo allevamento in altre località, spostamenti che però hanno garantito la continuità della razza.

Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Lipizzano
Lipizzano

Ancora ad oggi questa razza è il motivo di orgoglio della “Scuola di Equitazione Spagnola” di Vienna, scuola fondata da Carlo VI nel 1729 e chiamata “spagnola” a sottolineare l’alta componente di sangue andaluso dal quale questa razza ha attinto. Gli esercizi che vengono svolti e ripetuti ancora oggi dai cavalli sono il frutto di antichi insegnamenti volti al rafforzamento del corpo del cavallo.

Il purosangue inglese, la perfetta macchina da corsa

Il popolo inglese da sempre è stato un grande amante delle corse dei cavalli: non a caso la Gran Bretagna vanta una tradizione consolidata per l’allevamento di cavalli da corsa.

I primi ippodromi (così come li intendiamo noi oggi) e i primi regolamenti per le corse nacquero su suolo inglese. Grazie a Carlo II d’Inghilterra vennero disciplinate le corse con precisi regolamenti: lui stesso era un grande appassionato di queste competizioni e si cimentò in prima persona in molte di queste gare portando a casa svariate vittorie.

Ben presto si iniziò a selezionare cavalli sempre più veloci e scattanti: si cercava il perfetto “figlio del vento” in grado di superare i 60 km/h (con punte di circa 70 km/h).

Oggi, il Purosangue Inglese è il cavallo più veloce di tutti ed è il risultato della selezione operata volutamente dall’uomo: fu durante il Settecento che si andò definendo questa razza, quando vennero incrociate le “50 Royal Mares” appartenenti alla corte inglese con tre stalloni orientali (Byerly Turk, Darley Arabian e Godolphin Barbdal) dai quali ancora oggi discendono quasi tutti i cavalli appartenenti a questa razza.

Negli anni 50, anche l’Italia ha saputo allevare prestigiosi cavalli Purosangue Inglesi: ciò fu possibile grazie alla passione dell’allevatore Federico Tesio soprannominato “il mago di Dormello” che fondò “La scuderia Tesio” a Dormelletto e ottenne vittorie e piazzamenti sempre più importanti. La sua maggior “creazione” sarà il cavallo Ribot, definito dalla stampa francese dell’epoca “il cavallo del secolo”.

Dal Mustang dei nativi americani al Quarter Horse dei cowboy
Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Mustang
Mustang

I cavalli Mustang erano i figli dei cavalli importati dagli spagnoli con la conquista del Nuovo Mondo e poi lasciati liberi di rinselvatichirsi e riprodursi in maniera incontrollata.

Se è vero che la loro riproduzione incontrollata in natura fece sì che questi cavalli andassero perdendo le caratteristiche tanto attentamente selezionate dall’uomo, è altresì vero che il cavallo tornava alle sue origini, quando per opera della sola selezione naturale prevalevano cavalli perfettamente adattati all’ecosistema in cui vivevano.

Molto probabilmente furono i nativi d’America (in particolare i Chickasaw), superata la loro iniziale diffidenza verso questo animale, a guidare l’accoppiamento dei primi Mustang nel tentativo di ottenere cavalli migliori rispetto a quelli catturati in natura.

Fu nel XVII secolo che per migliorare ulteriormente i cavalli Mustang venne introdotto il Purosangue Inglese, ottenendo così un cavallo non solo robusto e dalla muscolatura potente ma anche veloce e calmo: era nato così il cavallo dei cowboy, il Quarter Horse.

Il nome curioso di questa razza, “Quarter”, deriva dalla misurazione che veniva fatta dai coloni americani quando rilevavano la velocità dei propri cavalli su una distanza di un quarto di miglio (circa 402 metri). Ai primi cowboy occorreva un cavallo veloce e scattante ma al contempo equilibrato e calmo per poter condurre le mandrie di bovini tra le grandi praterie.

È proprio in questo periodo, con la necessità dei primi mandriani nordamericani di stare in sella anche 16 ore al giorno, che nasce la “monta americana” (o monta western), ovvero la monta da lavoro più famosa, caratterizzata dall’uso della “sella americana”, la sella con il caratteristico “pomolo” – detto anche corno – necessario per ancorare il lazo con il quale vengono catturati per lo più capi di bestiame destinati poi ad essere marchiati o curati).

La sella americana è una sella molto più grande di quelle usate fino ad allora perché pensata per la comodità del cavaliere e del suo cavallo. In Europa, la sella che ebbe maggior diffusione in passato ed è ancora oggi la più diffusa è quella per la “monta inglese”, decisamente meno voluminosa rispetto a quella americana.

Appaloosa, figlio della tribù dei Nasi Forati
Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Appaloosa
Appaloosa

Non solo il Paint Horse e il Lipizzano attirano per i loro curiosi mantelli, ma anche l’Appaloosa, dove l’appariscente mantello è una vera e propria opera d’arte priva di repliche: non esistono in natura due soggetti con la stessa macchiettatura.

L’allevamento di questa razza iniziò grazie alla tribù dei Nasi Forati (Nez-Perces) che utilizzavano questi cavalli per la caccia al bisonte. Questi nativi d’America ben presto divennero degli straordinari allevatori di cavalli, abili nel vendere i soggetti meno pregiati per reinvestire in nuove mandrie, selezionando così cavalli forti, docili, resistenti sulle lunghe distanze e dai meravigliosi colori.

I Nasi Forati, pur essendo una tribù pacifica, scesero in guerra nel 1877 quando l’esercito americano li obbligò, con una deportazione forzata, ad abbandonare le loro terre per trasferirsi in una riserva indiana.

Questa tribù si mise in cerca di aiuto e, nel tentativo disperato di raggiungere la libertà del confine canadese, marciò in sella ai loro cavalli Appaloosa in quella che sarà poi chiamata la “lunga marcia per la libertà”, una marcia lunga quasi 2.000 km che implicava il difficile passaggio tra le Montagne Rocciose.

Nella marcia i Nasi Forati potevano contare su un valido aiuto: i loro cavalli Appaloosa. I Nasi Forati non erano tuttavia un esercito in movimento, ma un popolo in fuga che si spostava lentamente poiché vi erano anche donne, bambini e il loro stesso bestiame, mentre l’esercito statunitense avanzava, senza tregua, al loro inseguimento.

L’inseguimento dei Nasi Forati terminò a circa 65 km dal confine canadese con la resa di questa tribù che venne depredata di ogni cosa, anche dei suoi splendidi cavalli. I cavalli Appaloosa persero così i loro più fedeli allevatori e furono quasi dimenticati fino al 1938, anno in cui venne fondato l’ Appaloosa Horse Club negli Sati Uniti nel tentativo di valorizzare questa razza e redigere dei libri genealogici.

Lo Shetland, il pony delle miniere inglesi

Il nome “Shetland” svela fin da subito la provenienza di questo minuscolo pony: era infatti diffuso nelle isole Shetland, nelle isole Orcadi e nella Scozia settentrionale.

Sebbene sia un cavallo di antiche origini, è stato poi selezionato dall’uomo per essere un pony dalle precise caratteristiche: bassa statura, grande robustezza e forza straordinaria.

Mediamente questa razza è alta circa 100 cm con un peso che varia dai 150 ai 180 kg, e può arrivare a trasportare quasi il doppio del suo stesso peso. Per queste sue preziose caratteristiche il pony Shetland venne selezionato per aiutare l’uomo nei lavori pesanti, come la raccolta della torba nelle brughiere il traino dei carrelli carichi di carbone estratto dalle miniere.

Questi pony erano estremamente forti e la loro bassa statura gli permetteva di essere in grado di raggiungere i cunicoli più bassi ed essere quindi in prima linea nel fronte di avanzamento degli scavi.

Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Pony Shetland
Pony Shetland

Nella seconda metà dell’Ottocento gli allevamenti di Pony Shetland (e dei pony in genere) subirono un’impennata nel Regno Unito dopo il divieto per i bambini sotto i dieci anni di lavorare sottoterra; solo l’avvento dei trasporti meccanizzati cambiò il loro impiego facendoli diventare cavalli da sella per bambini.

Quando impiegati nell’attività mineraria, i pony Shetland erano un preziosissimo aiuto per i minatori e venivano trattati con molto rispetto, nonostante trascorressero la maggior parte della loro vita sottoterra; difficilmente venivano portati in superficie, tant’è che avevano le loro stalle all’interno della miniera e venivano tenuti vicini alle prese d’aria in maniera tale che potessero respirare aria fresca proveniente dalla superficie.

Gli incidenti non mancavano: ferite agli occhi (da qui la credenza popolare che i pony che lavoravano nelle miniere diventavano tutti ciechi), incidenti con i carrelli, capitava perfino che morissero soffocati dal loro stesso collare da tiro o che morissero assieme agli altri minatori nei crolli delle gallerie.

Solo nei primi anni del Novecento si ebbero le prime leggi a tutela dell’uso dei pony nelle miniere, leggi in cui si vietava di utilizzare animali con un’età inferiore ai 4 anni.

Avelignese, il cavallo tutto italiano

Se si parla di selezione nel corso della storia per mano dell’uomo, non può non essere menzionato l’italianissimo “Avelignese” e chiunque, con un solo colpo d’occhio, è in grado di riconoscere il biondo sauro altoatesino.

Il nome di questa razza deriva dal paese di Avelengo, in provincia di Bolzano. In lingua tedesca questo paese è chiamato “Hafling” ed è per questo motivo che questa razza è anche conosciuta con il nome di “Haflinger”.

Oggi è sempre più utilizzato per le passeggiate con i turisti e per l’ippoterapia poiché molto tranquillo, socievole, vivace, tollerante ed è molto semplice desensibilizzarlo perché non dimostra particolari paure; in passato invece veniva apprezzato per altre qualità, ovvero per il fatto di essere molto robusto e rustico e perciò perfetto per essere impiegato come animale da lavoro.

Inizialmente il cavallo Avelignese venne selezionato per aiutare l’uomo in agricoltura e per il trasporto di merci attraverso le Alpi, negli anni Sessanta fu allevato per la sua carne, mentre negli anni Novanta è stato fortunatamente riscoperto per il turismo equestre poiché molto paziente.

Molte sono le leggende attorno alla nascita di questa razza, nessuna al momento riconosciuta come ufficiale: secondo la tradizione, questa razza equina discende dai cavalli che l’imperatore Ludovico IV portò in Alto-Adige per donarli al figlio come regalo di nozze.

Un’altra ipotesi indicherebbe invece come origine i cavalli lasciati liberi nelle valli dell’Alto-Adige dalla popolazione gota in ritirata a seguito della resa di Conza (555 d.C.).

Ma l’origine ufficiale di questa razza è l’anno 1874, anno di nascita di “249 Folie”, un cavallo nato dall’incrocio tra una cavalla locale e un purosangue arabo: questo puledro sarà il capostipite di tutta la razza Avelignese.

Durante la seconda guerra mondiale l’allevamento di questa razza venne preso particolarmente a cuore da Karl Thurner, che individuò le sette linee di sangue di questa razza; le linee di sangue si trasmettono per linea paterna e queste “sette linee” ancora oggi danno l’iniziale del nome ad ogni puledro maschio della razza Avelignese, poiché ognuna di esse è l’iniziale del nome dei sette stalloni capostipiti: Anselmo (A), Bolzano (B), Massimo (M), Niggl o Nibbio (N), Student (ST) , Stelvio (S) e Willi Liz (W).

Questa pratica dell’iniziale del nome non deve stupire: tra le varie razze di cavalli è molto diffuso avere delle regole o delle linee guida per la scelta dei nomi da annotare sui registri di razza (nel mondo dell’allevamento il lignaggio dei genitori può avere estrema rilevanza), così come in molte scuderie gli allevatori utilizzano dei prefissi per i cavalli che allevano.

Ad oggi è la razza Avelignese è la razza italiana presente in maggior numero sul territorio nazionale e viene allevata in tutti i continenti.

CHI HA INVENTATO LA STAFFA?
The Royal Andalusian School of Equestrian Art Foundation
Equus ferus caballus
Appaloosa.com

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Il cavallo: storia, evoluzione e selezione fino al XIX secolo – Parte 1 https://www.vitantica.net/2019/02/11/cavallo-storia-evoluzione-selezione-parte1/ https://www.vitantica.net/2019/02/11/cavallo-storia-evoluzione-selezione-parte1/#comments Mon, 11 Feb 2019 00:10:02 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3607 Un doveroso ringraziamento a Lisa B. per avermi fornito questo contenuto in due parti, e ad Erika A. per la splendida foto del cavallo usata come immagine in evidenza per il post.

Prima della nascita del motore, che ha permesso notevoli migliorie nel campo del lavoro ed in quello dei trasporti, l’uomo ha avuto un prezioso alleato che, nel corso della storia, lo ha supportato nel lavoro di tutti i giorni e nei suoi grandi o piccoli spostamenti: il cavallo.

Ma questo animale, così come lo conosciamo noi uomini del terzo millennio, è il risultato dell’evoluzione naturale della specie e al contempo della selezione attuata dalla mano dell’uomo nel corso della storia.

Dalla selezione naturale alla selezione artificiale del cavallo

Gli antenati del cavallo odierno erano poco più grandi della nostra attuale volpe (come il Sifrhippus o l’Eohippus) e a malapena arrivavano a pesare i venti chilogrammi (come l’Hyracotherium leporinum); fu solo durante il Miocene che fecero la loro comparsa animali dall’ altezza e dal peso ben maggiori (Merychippus) e che possiamo considerare i progenitori del nostro attuale cavallo.

L’intervento umano su questo splendido animale si può già riscontare in Asia circa 5.550 anni fa, periodo in cui l’uomo iniziò ad addomesticarlo, mentre in Europa si iniziò la domesticazione attorno al III millennio a.C..

In principio, quando l’uomo non era ancora intervenuto in maniera metodica attuando una selezione delle razze atta a soddisfare le proprie esigenze, si può affermare che era facile capire la provenienza geografica del cavallo che si aveva di fronte.

Merychippus
Merychippus

Ciò era possibile poiché i cavalli provenienti da differenti regioni climatiche erano molto diversi tra loro: i cavalli allevati nei territori più freddi erano molto grossi ma anche molto lenti; i cavalli allevati in un clima torrido e inospitale erano invece di dimensioni modeste ma molto più scattanti.

Fin da subito l’uomo si rese conto che il cavallo poteva essere un valido aiuto nella vita di tutti i giorni, possessore di caratteristiche che potevano essere plasmate “su misura”; a seconda del ruolo nel quale sarebbe stato impiegato, si fecero prevalere certe caratteristiche morfologiche piuttosto che altre: iniziò così la selezione delle razze equine.

I primi allevatori erano consapevoli che, a seconda dell’impiego del cavallo, quest’ultimo doveva possedere dei requisiti morfologici indispensabili: ad esempio, se era destinato ad essere un “cavallo da sella” doveva aumentare le dimensioni del cuore, la capacità toracica e possedere un maggiore sviluppo del treno posteriore; nel caso di un “cavallo da tiro”, doveva avere un notevole sviluppo muscolare della spalla, un collo massiccio e piuttosto corto e degli zoccoli più ampi.

Cavalli a sangue caldo o freddo

La grande selezione operata sul cavallo nel corso della storia dalla mano dell’uomo per apportare tutti miglioramenti – atti a rispondere all’uso bellico, di trasporto, di lavoro o di sostentamento – ci ha restituito un cavallo ben diverso da ciò che era in origine.

Questa selezione continua ancora oggi, è inarrestabile e tutte le razze esistenti al mondo già rispondono agli scopi per il quale il cavallo viene utilizzato, oppure verranno migliorate per inseguire continuamente l’uso che l’uomo fa del cavallo oggi, ovvero per scopi ricreativi, terapeutici, sportivi e di polizia.

Una delle testimonianze più evidenti di questa selezione attuata sul cavallo per opera dell’uomo è certamente la distinzione di questo animale in due grandi categorie: i cavalli a sangue freddo e i cavalli a sangue caldo.

Questa distinzione non si riferisce ovviamente alla temperatura del sangue dell’animale bensì al suo temperamento e alla genealogia. Semplificando il concetto, si può affermare che i cavalli a sangue freddo sono i cavalli pesanti, forti, docili e calmi mentre gli animali a sangue caldo sono veloci, reattivi che amano muoversi.

Nel corso degli ultimi anni si può notare una netta prevalenza nell’allevamento di cavalli a sangue caldo ed essa è la diretta conseguenza dell’uso che l’uomo fa oggi del cavallo, ovvero come animale da sella e non più come animale da tiro.

Uso della staffa, la carta vincente degli eserciti a cavallo

Mobilità esercito mongolo

Gli antichi Greci e Romani cavalcavano senza l’uso delle staffe poiché queste ultime, inventate in India nel II secolo d.C., non erano conosciute. Il peso dei cavalieri gravava sui reni del cavallo, mentre con l’uso della staffa il peso può essere spostato verso il garrese, ottenendo così una maggiore stabilità in sella.

Inoltre, senza l’uso delle staffe anche un solo fendente menato a vuoto poteva far cadere rovinosamente il cavaliere a terra; con l’introduzione della staffa si riuscì a garantire maggiore stabilità al cavaliere.

È ormai noto che tutto l’esercito a cavallo di Gengis Khan si muovesse alla conquista di nuove terre mediante l’utilizzo delle staffe che, unite all’impiego di ottimi cavalli selezionati, fu una scelta che contribuì in maniera schiacciante alla supremazia militare del sovrano mongolo su tutta l’Asia.

I suoi soldati montavano per lo più delle giumente, generalmente più mansuete e che nel periodo dell’allattamento potevano fornire al soldato circa 2 litri di latte in eccedenza rispetto alle reali esigenze del suo puledro; in caso di necessità, il latte di una giumenta poteva fare la differenza tra la vita e la morte del suo cavaliere.

Queste giumente passarono alla storia per la loro bassa statura (misuravano tra i 122 e i 142 cm al garrese) e per il fatto che erano molto robuste e con un pelo duro e folto in grado di sopportare le estreme escursioni termiche tipiche della steppa.

Una macchina da guerra su quattro zampe

La staffa si diffuse velocemente anche in Europa durante l’Alto Medioevo e questa cambiò drasticamente il modo di combattere a cavallo, avendo un’influenza particolare nell’uso della lancia.

In origine, i colpi inferti da una lancia scaricavano sul bersaglio la sola forza dell’arto superiore del cavaliere; dopo l’introduzione della staffa, avendo il cavaliere un maggiore equilibrio, uomo e cavallo diventavano tutt’uno con la lancia poiché il cavaliere poteva metterla sulla “resta” e colpire il nemico con tutta la forza del suo busto unita a quella del proprio palafreno, diventando così un’arma micidiale, una vera “macchina da guerra”.

Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Frisone
Frisone

Cavallo e cavaliere erano qualcosa di non molto differente da un carro armato. Poiché entrambi erano protetti da piastre o maglia di ferro, il cavaliere necessitava di un cavallo di taglia pesante, di grande resistenza, dal temperamento docile e dotato di una corporatura muscolosa.

Una delle razze maggiormente apprezzate durante il Medioevo fu il Frisone, un cavallo dotato di notevole forza e resistenza, la cui razza fu ulteriormente migliorata sotto le Crociate quando questi cavalli vennero portati in Oriente e furono fatti incrociare con cavalli arabi.

Nel Quattrocento, con l’introduzione della polvere da sparo nella cavalleria, l’utilità delle armature pesanti iniziò a scemare mentre divenne sempre più necessario l’uso di cavalli più leggeri e veloci in grado di muoversi con ordine e disciplina. Divenne quindi necessario l’impiego di una nuova tipologia di cavallo e la selezione delle razze fatta dalla mano dell’uomo era, ancora una volta, la soluzione alle nuove esigenze di combattimento.

Il cavallo arabo e i suoi custodi

Grande era il fanatismo delle tribù beduine nei confronti della purezza della razza dei loro cavalli: ben pochi furono i cavalli incrociati con quelli presenti sulla penisola arabica. Del resto, il cavallo arabo è una delle razze equine più antiche del pianeta e fin da subito venne allevato in maniera selettiva dai beduini.

Nel corso della storia, il cavallo arabo è cambiato poco a livello morfologico grazie ai suoi “custodi” che da sempre hanno volutamente evitato incroci, preservandone la razza. Il cavallo arabo venne ampiamente utilizzato per migliorare le razze equine di ogni angolo della Terra (uno dei primi personaggi della storia a capirne la grande preziosità fu Federico II di Svevia, che attinse dal patrimonio equino arabo).

Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Cavallo arabo
Cavallo arabo

La grande considerazione che le tribù beduine riversavano nei confronti delle proprie giumente si riscontra difficilmente in altri popoli. I beduini preferivano le giumente agli stalloni poiché esse erano in grado di garantire una discendenza continua (i puledri nati erano di proprietà della famiglia della fattrice, non di quella dello stallone).

Si dice che “il sangue di un beduino apparteneva alla sua tribù, la sua anima ad Allah, il suo cuore alla sua cavalla”; la giumenta era considerata come un vero membro della famiglia e pertanto dormiva con essa.

La ferratura, il tentativo di preservare la salute del cavallo

Da sempre l’uomo si è preso cura della salute del cavallo, ma è durante il Medioevo che si scriveranno veri e propri trattati in cui verrà insegnata “l’arte della cura del cavallo”.

Tra di essi vi è il “De medicina equorum” scritto dal proto-veterinario Giordano Ruffo sul finire del XIII secolo e frutto della sua esperienza diretta presso le scuderie della corte di Federico II di Svevia (a cui dedicò l’opera). Questo testo fu un vero e proprio best-seller per l’epoca, con molte traduzioni in diverse lingue, e da esso derivano le successive mascalcie.

È proprio in epoca medievale che si diffonde l’uso della ferratura inchiodata agli zoccoli e sappiamo che i primi ad avere l’idea di proteggere il piede del cavallo con l’uso di ferri inchiodati agli zoccoli furono i Celti, molto probabilmente spinti dal clima piovoso in cui vivevano che costringeva il piede del cavallo a lunghe permanenze in un ambiente costantemente umido.

Un tentativo verso la preservazione dello stato di salute dello zoccolo del cavallo è sicuramente stato fatto nel corso della storia prima dell’epoca medievale: gli archeologi ci hanno restituito diversi “ipposandali” di epoca romana, suole di ferro affrancate al cavallo mediante l’uso di lacci per preservare gli zoccoli dell’animale e che fornivano protezione in caso di lesioni allo zoccolo.

La ferratura è nata dall’esigenza di far sì che l’unghia del cavallo non si consumi e venga protetta (lo zoccolo è fatto di cheratina) ed era una necessità nata dal fatto che il cavallo si trovava a vivere in spazi confinati e non più in natura.

Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. De Medicina Equorum
De Medicina Equorum

Come accade per le unghie umane, anche quelle del cavallo crescono e ogni circa quaranta giorni il maniscalco deve procedere alla pareggiatura (accorciatura manuale), seguita poi dalla ferratura dell’animale.

Questa pratica non è affatto necessaria per i cavalli che non vivono confinati in spazi ristretti artificiali, in quanto hanno unghie molto resistenti che si consumano in maniera del tutto naturale.

Negli ultimi decenni si stanno sempre più diffondendo anche in Europa le idee di Jaime Jackson, un ex-maniscalco che negli anni Ottanta ebbe modo di constatare come i cavalli Mustang, che vivevano nella zona del Great Basin, avessero degli zoccoli perfettamente in salute nonostante non fossero mai stati ferrati.

Le idee di Jackson sono alla base della filosofia del “Barefoot movement”, basata su un ritorno all’uso del “cavallo scalzo” per qualsiasi attività equestre e ad uno stile di vita il più possibile vicino a quello che ogni cavallo vivrebbe in natura.

Italia, culla delle grandi scuole europee di equitazione

Le moderne grandi scuole europee di equitazione (Jerez, Vienna e Saumur) sono tutte figlie della Scuola di Equitazione Italiana nata durante l’epoca rinascimentale a Napoli; in quel periodo infatti il Bel Paese fu la culla dell’equitazione, tant’è che si può parlare di “Scuola equestre italiana”.

Le basi di questa scuola vennero gettate dal nobile napoletano Federico Grisone che nel 1550 scrisse e pubblicò il primo libro stampato dedicato completamente all’equitazione, “Gli ordini del cavalcare”, incentrato su un addestramento duro per ottenere il controllo del cavallo.

Completamente differente sarà la “Scuola francese”, basata invece su un rapporto con il cavallo decisamente più comprensivo e dolce, come si può constatare nel libro postumo “Instruction du Roy en l’esercise de monter a cheval” (1625) in cui Antonie de Pluvinel, uno dei principali maestri di questa scuola e maestro di equitazione del futuro Luigi XIII, raccomanda al sovrano francese di comprendere il carattere di ogni singolo cavallo ed evitare qualsiasi metodo crudele verso di esso.

Il cavallo andaluso, il fiore all’occhiello del Cinquecento

Fin dai tempi degli antichi romani il cavallo spagnolo godeva di una grande reputazione: il sud della Spagna è per natura particolarmente adatto all’allevamento dei cavalli e da sempre questa terra ha prodotto meravigliosi esemplari.

Il cavallo: storia, evoluzione e selezione. Cavallo andaluso
Cavallo andaluso

Famosa ancora oggi è la “Real Escuela Andaluza del Arte Ecuestre” a Jerez de la Frontera con i suoi “cavalli danzatori” ed ancor prima di quest’istituzione furono i monaci certosini, sempre della città di Jerez, ad occuparsi dell’allevamento di questa razza.

In questa terra è nato il cavallo Andaluso: molto di ciò che è stato il miglioramento di questa razza lo si deve alla conquista araba, che importò nella penisola spagnola molti cavalli Berberi ed Arabi.

Al termine della Reconquista, i sovrani cattolici spagnoli si resero conto delle potenzialità del cavallo Andaluso, perciò decisero di tutelarlo: Filippo II, grande appassionato di cavalli, vietò l’uscita delle giumente Andaluse dalla Spagna e fondò le scuderie reali di Cordova.

Durante il Cinquecento, questa razza così equilibrata, docile e dal notevole equilibrio psicofisico, divenne ben presto molto ambita in tutte le corti europee per le esibizioni equestri: spesso i cavalli Andalusi rappresentavano doni preziosi per le teste coronate dell’epoca.

Non deve quindi stupire il fatto che il cavallo andaluso ha avuto una grande influenza su molte razze europee ed americane sia come miglioratore di razza che come fondatore di nuove razze. Inoltre, questo straordinario animale fu il cavallo dei conquistadores e quindi fu la razza di partenza dalla quale poi discesero tutte le razze nordamericane.

Continua…

Il 13 febbraio verrà pubblicata la Parte 2 de “Il cavallo: storia, evoluzione e selezione fino al XIX secolo”, vi aspetto numerosi!
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Vichinghi islandesi di alto rango sepolti in compagnia di stalloni https://www.vitantica.net/2019/01/04/vichinghi-islandesi-tombe-cavalli/ https://www.vitantica.net/2019/01/04/vichinghi-islandesi-tombe-cavalli/#respond Fri, 04 Jan 2019 00:10:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3472 Gli archeologi islandesi hanno terminato di recente un’analisi decennale sui resti di oltre 350 tombe risalenti all’era vichinga, scoprendo che in circa 150 di queste sepolture erano presenti denti o ossa di cavallo. Secondo le analisi genetiche effettuate sui resti ossei appartenuti a 19 cavalli, tutti gli animali erano maschi, ad eccezione di un solo esemplare.

Poche tombe rispetto alla popolazione

Un gruppo di ricerca multidisciplinare, composto da archeologi e genetisti provenienti da Islanda, Norvegia, Danimarca, Regno Unito e Francia, ha analizzato il DNA dei 19 cavalli trovati in alcune delle 350 tombe islandesi, nella speranza di comprendere meglio come vivevano e pensavano i primi abitanti dell’isola.

Secondo il manoscritto Landnámabók, un’opera che descrive la colonizzazione dell’Islanda avvenuta tra il IX e il X secolo, le prime a stabilirsi sull’isola furono famiglie benestanti in fuga da re Harald I di Norvegia (Araldo Bellachioma), il primo sovrano norvegese.

Intorno all’anno 930, l’Islanda contava già 9.000 abitanti di origine scandinava, ma fino ad ora sono solo 350 le sepolture norrene scoperte sull’isola in corrispondenza dei primi insediamenti umani.

Mappa delle tombe islandesi da cui sono stati prelevati campioni ossei di cavallo
Mappa delle tombe islandesi da cui sono stati prelevati campioni ossei di cavallo

“Dovrebbero esserci migliaia di tombe simili a quelle già scoperte”, afferma Albína Hulda Pálsdottir del Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Oslo, esperta nello studio dei resti animali provenienti da scavi archeologici.

“È ragionevole supporre che un vichingo sepolto insieme al suo cavallo dovesse avere un certo potere e influenza, quindi vorremmo sapere di più su questi cavalli, ad esempio, di quale sesso fossero”, dice Pálsdottir.

Non è facile determinare il sesso a partire da frammenti ossei e da denti vecchi oltre 1.000 anni: cavalli e cavalle sono abbastanza simili, sia per dimensioni che per aspetto, ma secondo l’analisi genetica condotta dagli zooarchaeologi la maggior parte dei resti ossei rinvenuti nelle tombe apparteneva ad animali di sesso maschile, stalloni o castroni.

I cavalli, al momento del decesso, godevano di buona salute ed erano nel fiore dei loro anni; non furono quindi sepolti perché vecchi o malati, ma deliberatamente uccisi per accompagnare il defunto.

Sepoltura con cavallo destinata a uomini di alto rango

La volpe artica era il mammifero terrestre più grande presente in Islanda prima che gli scandinavi fondassero le loro colonie sull’isola. L’ecosistema islandese cambiò rapidamente quando i vichinghi fecero sbarcare animali come cani, pecore, mucche, maiali, capre, polli e cavalli.

L’Islanda finì per diventare un piccolo paradiso per i cavalli grazie l’assenza di predatori naturali. Questo causò non pochi grattacapi agli archeologi che si interrogavano sul reale significato di una sepoltura in compagnia di un cavallo: era un rituale comune, o riservato a uomini di potere?

Quando 18 dei 19 cavalli analizzati risultarono essere di sesso maschile, i ricercatori giunsero alla conclusione che i vichinghi islandesi seppellivano deliberatamente cavalli maschi nelle tombe di uomini di potere o di personalità che godevano di uno status sociale medio-alto.

“È naturale immaginare che l’uccisione di cavalli maschi, simboli di virilità e in qualche misura aggressivi, debba essere stata parte di un rito funebre destinato a comunicare status e potere”, spiega l’archeologo Rúnar Leifsson dell’Agenzia del Patrimonio Culturale Islandese (Minjastofnun Íslands).

I popoli norreni veneravano il cavallo come simbolo di fertilità; i cavalli bianchi venivano inoltre macellati in occasione di cerimonie religiose o banchetti rituali. Per i vichinghi islandesi, il cavallo era una proprietà estremamente preziosa: era indispensabile per un guerriero e spesso le sue gesta venivano raccontate e celebrate quanto quelle del suo cavaliere.

Frammento di canino di cavallo utilizzato per estrarre il DNA dell'animale allo scopo di determinarne il sesso.
Frammento di canino di cavallo utilizzato per estrarre il DNA dell’animale allo scopo di determinarne il sesso.

“Oltre ai 19 cavalli sepolti, abbiamo esaminato i resti di tre cavalli trovati all’esterno delle tombe, tutti di sesso femminile”, afferma Sanne Boessenkool, esperta di evoluzione e analisi dell’antico DNA animale.

La morte di queste cavalle non fu legata ad un rituale funebre: i corpi di questi animali furono utilizzati per ottenere carne destinata a banchetti. Pare quindi che i cavalli maschi godessero di uno status differente rispetto alle femmine.

“È sorprendente aver trovato quasi esclusivamente uomini di mezza età nelle tombe islandesi: neonati o bambini sono quasi assenti e le donne sono pochissime; non sappiamo come fu seppellito il resto della popolazione, se in paludi o laghi, o in fondo al mare “, suggerisce Pálsdottir.

“Era comune cremare i morti in Scandinavia, luogo d’origine dei vichinghi islandesi, ma non abbiamo trovato tracce di cremazione in Islanda: altri ricercatori hanno analizzato la presenza di diversi isotopi negli scheletri vichinghi e si è scoperto che le donne rinvenute nelle sepolture devono essere arrivate in Islanda durante l’età adulta. Questo suggerirebbe che gli uomini dei primi insediamenti islandesi portarono le donne in Islanda dalla Scandinavia”, suggerisce Pálsdottir.

Sacrificio rituale del cavallo

In alcuni casi i ricercatori sono stati in grado di ricostruire come venivano uccisi gli animali prima di depositarli all’interno delle tombe vichinghe.

“Se un teschio di cavallo ha una frattura sulla fronte, è chiaro che sia stato ucciso con un colpo sulla regione frontale del cranio. Ci sono anche alcuni casi in cui il cavallo è stato decapitato, con la testa separata dal resto del corpo. Un esempio interessante, non incluso nel nostro studio, proviene dalla fattoria di Hofstaðir, nel nord dell’Islanda, dove gli archeologi hanno trovato molti crani di bovini con fratture frontali”, dice Pálsdóttir.

Gli archeologi hanno dedotto che i cavalli presenti nelle tombe furono uccisi in modo rituale, forse durante una celebrazione annuale in cui i teschi venivano esposti all’esterno. Il consumo delle ossa craniche dovuto agli agenti atmosferici suggerisce che i teschi furono esposti a lungo all’esterno, permettendo al vento di lasciare segni sul cranio.

Gli antenati del cavallo islandese
Cavalli islandesi
Cavalli islandesi

Albína Hulda Pálsdottir e Sanne Boessenkool sottolineano che i cavalli introdotti in Islanda grazie ai rifugiati norreni non erano uguali ai moderni cavalli islandesi.

“Le razze di cavallo che abbiamo oggi sono state sviluppate nel corso degli ultimi 200 anni; le ossa dei cavalli che abbiamo esaminato sono, ovviamente, molto più vecchie, ma possiamo supporre che questi cavalli fossero gli antenati dei cavalli islandesi moderni” dice Boessenkool.

Tra il IX secolo e il 1300, periodo in cui le condizioni climatiche erano favorevoli per il cavallo, gli islandesi selezionarono le loro cavalcature in base al colore e alla struttura fisica. Durante questo processo si tentò di introdurre sangue orientale nei cavalli islandesi, ma le conseguenze furono peggiori di quanto sperato dagli allevatori: nel 982 il parlamento islandese (Althing) decretò il divietò d’importazione di cavalli stranieri in Islanda, segnando la fine degli incroci con altre razze per almeno otto secoli.

I ricercatori del CEES stanno ora cercando di determinare il sesso di diverse specie animali comuni nell’era vichinga. “Nel corso di questo progetto, abbiamo sviluppato un metodo semplice per determinare il sesso analizzando il DNA” spiega Boessenkool.

“Il metodo è abbastanza semplice e robusto per le specie che hanno cromosomi sessuali. Inoltre, non abbiamo bisogno di molto DNA per ottenere risultati sicuri, quindi ci aspettiamo che altri ricercatori possano trarre vantaggio dal metodo che presentiamo nel documento”, aggiunge.

Sexing Viking Age horses from burial and non-burial sites in Iceland using ancient DNA

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Le conseguenze negative dell’ agricoltura neolitica https://www.vitantica.net/2018/12/05/conseguenze-negative-agricoltura-neolitica/ https://www.vitantica.net/2018/12/05/conseguenze-negative-agricoltura-neolitica/#comments Wed, 05 Dec 2018 00:10:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2689 La nascita dei primi villaggi stabili nel Neolitico coincide con lo sviluppo delle prime tecniche agricole della storia. L’agricoltura fu la causa primaria di un cambiamento epocale nella civiltà umana, ma con gli indubbi vantaggi della vita stanziale e della produzione in massa di cibo emersero nuovi aspetti, non sempre positivi, nelle società umane.

Le conseguenze demografiche dell’agricoltura

La nascita dell’agricoltura coincide con la presenza di surplus alimentari su vasta scala. Il surplus alimentare è un fattore che favorisce la natalità: cibo in abbondanza non causa preoccupazioni su come sfamare la prole e contribuisce a mantenere in salute coppie che in futuro diventeranno genitori; la sedentarietà consentì alle madri del Neolitico di crescere un maggior numero di figli che, una volta raggiunta l’età adatta, diventano risorse utili per il lavoro nei campi e il mantenimento della famiglia.

In quasi 4.000 anni (8.000 a.C. – 4.000 a.C.) la popolazione mediorientale registrò un boom di nascite: si passò da circa 100.000 abitanti a oltre 3 milioni, un aumento ancora più sorprendente se si considera il tasso di mortalità alla nascita e la speranza di vita media del periodo.

Ma la rivoluzione agricola del Neolitico non fece crescere la popolazione mondiale in modo costante e repentino: occorre attendere almeno 3.000 anni prima di vedere un reale incremento demografico. Perché? Per il semplice fatto che l’agricoltura delle origini causava un mucchio di problemi a medio-lungo termine, problemi difficili da prevedere per società che non hanno mai avuto un passato agricolo.

Grafico che mostra l'incremento demografico a partire da 10.000 anni fa.
Grafico che mostra l’incremento demografico a partire da 12.000 anni fa.

Passare dal nomadismo alla sedentarietà comporta il consumo di risorse naturali per favorire le colture produttive: la foresta cede il passo ai campi, il terreno inizia ad impoverirsi e gli animali addomesticati non fanno altro che peggiorare la situazione, distruggendo ciò che resta di ecosistemi un tempo selvaggi ma poco proficui per la sopravvivenza di una comunità sedentaria.

L’agricoltura delle origini era basata su un numero molto limitato di colture e rese la dieta umana qualitativamente più povera rispetto a quella di popoli che ottenevano il loro cibo da qualunque cosa crescesse spontaneamente. Questo provocò carenze nutrizionali che influirono ciclicamente sulla salute degli agricoltori: nei periodi più difficili, carestie e malnutrizione decimavano la popolazione.

L’inizio dell’agricoltura non corrisponde con un aumento dell’aspettativa di vita; al contrario, le analisi sui reperti ossei del Neolitico dimostrerebbero una diminuzione dell’aspettativa di vita, l’insorgere di problemi come malattie degenerative, diabete, obesità (sconosciuta ai cacciatori-raccoglitori), carenze di ferro e problemi alle ossa.

La statura media subì anch’essa una riduzione: da 178 /168 centimetri (uomo / donna) a 165 / 155 centimetri di altezza media. Solo verso la fine del XIX secolo l’essere umano riuscì a riprendersi e a ritornare alla statura osservabile nei periodi precedenti alla rivoluzione agricola del Neolitico.

Agricoltura e diseguaglianza sociale

Agricoltura neolitica e stratificazione sociale

Secondo molti esperti la nascita dell’agricoltura coincide con il rafforzamento di concetti come l’ineguaglianza e la stratificazione sociale. In culture di cacciatori-raccoglitori si è abituati ad accettare il fatto che ogni individuo possieda abilità differenti, ma questo generalmente non causa una pressione sociale tale da creare povertà o diseguaglianza ingiustificata.

L’abilità di generare e controllare il surplus alimentare non fece altro che aumentare l’influenza sociale di alcuni individui a discapito di altri meno fortunati. Il concetto di ricchezza era fondamentalmente sconosciuto ai cacciatori-raccoglitori, o quanto meno interpretato in modo differente dall’idea di ricchezza delle comunità agricole.

Possedere e rendere produttivo un campo di grandi dimensioni richiede manodopera; i braccianti lavoreranno per conto del padrone dell’appezzamento di terra (che lavorerà sempre meno mentre accumula ricchezza dal lavoro degli altri) in cambio di una parte del raccolto, trovandosi involontariamente invischiati in una piramide sociale che coinvolge anche chi produce gli strumenti di lavoro, chi prega per la pioggia o chi protegge il raccolto da potenziali invasori.

In questa piramide, ogni individuo ha un potere contrattuale differente: in località soggette a frequenti incursioni di clan rivali o animali selvaggi, la classe militare viene tenuta in grande considerazione rispetto alla comunità di braccianti; in regioni colpite da fenomeni atmosferici incontrollabili e apparentemente connessi al volere di divinità volubili, i sacerdoti rivestono un ruolo di vitale importanza per domare la volontà distruttiva degli dei.

Il surplus di cibo generò quindi ruoli sociali non produttivi: le caste sacerdotali, ad esempio, non producevano nulla ma vivevano di ciò che gli agricoltori erano in grado di produrre grazie alla loro presunta intercessione con le divinità; la classe politica era anch’essa non produttiva, ma consentiva agli agricoltori di intrattenere scambi commerciali con altre comunità vicine e lontane; la casta militare proteggeva il raccolto e la ricchezza accumulata da contadini e proprietari terrieri, ma in molti casi non svolgeva alcun ruolo nella produzione di cibo.

Agricoltura e insicurezza alimentare

Agricoltura neolitica e insicurezza alimentare

Lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori del Neolitico era senza dubbio complesso e duro, ma rispetto alla sedentarietà era più flessibile ai capricci dell’ecosistema. Molte comunità nomadi facevano affidamento sulla conoscenza di oltre un centinaio di piante commestibili che crescevano seguendo il ritmo stagionale; si adattavano a mangiare ciò che la natura poteva offrire in un determinato periodo dell’anno e avevano a disposizione una vasta gamma di opzioni alimentari.

L’agricoltura invece lega la popolazione a poche specie di colture, spesso molto suscettibili al clima o all’attacco di parassiti proprio a causa della selezione artificiale che hanno attraversato per poter essere trasformate in piante produttive. La monocoltura ha un grosso problema: se una pianta si ammala, è molto probabile che tutte le piante vicine possano subire la stessa sorte.

Quando tutto funziona a dovere, l’agricoltura è capace di produrre enormi surplus alimentari che, se correttamente gestiti, forniscono cibo in abbondanza e per tutto l’anno. Fu proprio questo a contribuire alla crescita demografica delle popolazioni sedentarie qualche millennio dopo la “nascita” dell’agricoltura.

Ma quando subentrano siccità, fenomeno atmosferici violenti, gelo, parassiti, animali selvatici e contaminazione delle risorse alimentari immagazzinate per tempi meno produttivi, l’agricoltura mostra il suo lato più spaventoso. Fame e inedia colpiscono pesantemente la popolazione e chi ha avuto la fortuna di conservare una parte del raccolto si trova in una posizione privilegiata e negli strati più alti della piramide sociale ed economica del suo gruppo sociale.

Le “malattie agricole”

Malattie e epidemie antiche

Come accennato all’inizio del post, una dieta povera basata su poche specie di cereali o tuberi causa scompensi nutrizionali che si traducono in problemi di salute. Le malattie infettive furono invece una conseguenza della stretta convivenza con gli animali addomesticati e della densità abitativa delle prime comunità agricole.

Una società i cui membri vivono a stretto contatto l’uno con l’altro favorisce la diffusione di malattie infettive, anche verso altre comunità. Le pratiche igieniche dei primi insediamenti agricoli non erano di certo come quelle moderne: non esistevano fogne o acqua corrente e i rifiuti affollavano strade fangose che costituivano un terreno di coltura perfetto per parassiti, batteri e virus.

La vicinanza con i primi animali addomesticati, come vacche, pollame, cani e gatti, favorì il salto di specie di alcune malattie sopravvissute fino ad oggi, malattie che i primi agricoltori del Neolitico non erano biologicamente preparati ad affrontare.

Un esempio è lo sterminio delle popolazioni native causato dalle malattie infettive europee durante la conquista delle Americhe: influenza, morbillo e vaiolo erano malattie che gli abitanti del Nuovo Mondo non conoscevano (e per le quali non avevano sviluppato alcuna resistenza) per il semplice fatto che, contrariamente agli Europei, non avevano alle spalle migliaia di anni di selezione naturale spinta dalla convivenza con gli animali domestici.

Agricoltura e problemi di denti

E’ possibile distinguere un cacciatore-raccoglitore da un agricoltore di 12.000 anni fa semplicemente osservando la dentatura. L’analisi dei denti condotta da Ron Pinhasi della School of Archaeology and Earth Institute di Dublino dimostra che “le mandibole dei primi agricoltori di Levante non sono semplicemente versioni ridotte di quelle dei loro predecessori cacciatori-raccoglitori, ma subirono una serie complessa di cambiamenti morfologici durante la transizione verso l’agricoltura”-

“La nostra ricerca mostra che la popolazione cacciatrice-raccoglitrice aveva una perfetta armonia tra la mandibola e la dentatura” sostiene Pinhasi. “Ma questa armonia inizia a ridursi quando si esaminano le mandibole e i denti dei primi agricoltori”.

La dieta dei cacciatori-raccoglitori è basata su cibi duri, come piante non cotte e carne, mentre la base della dieta di un agricoltore è costituita da cereali e legumi cotti, molto più morbidi e che non richiedono grandi sforzi durante la masticazione.

La mandibola quindi tende a ridursi, ma i denti non subiscono lo stesso processo causando sovrapposizioni che erano relativamente rare tra le popolazioni nomadi che vivevano di caccia e di raccolta.

Neolithic Revolution
IMPACT AND CONSEQUENCES OF EARLY AGRICULTURE

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Domesticazione dei cereali forse iniziata prima dell’agricoltura https://www.vitantica.net/2017/10/29/domesticazione-dei-cereali-iniziata-prima-agricoltura/ https://www.vitantica.net/2017/10/29/domesticazione-dei-cereali-iniziata-prima-agricoltura/#comments Sun, 29 Oct 2017 02:00:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=778 I processi che portarono alla domesticazione di piante come grano, orzo e riso potrebbero essere iniziati molto prima di quanto dimostrano le testimonianze archeologiche in nostro possesso, in un periodo in cui i nostri antenati dell’ultima Era Glaciale non erano ancora diventati sedentari ma si limitavano a raccogliere le piante spontanee che incontravano lungo i loro spostamenti stagionali.

Un team di ricerca guidato da Robin Allaby della Warwick’s School of Life Sciences ha trovato prove genetiche del fatto che la pressione ecologica esercitata dai cacciatori-raccoglitori su grano, orzo e riso potrebbe essere stata sufficiente a costringere queste piante a mutare e adattarsi molto prima della loro effettiva domesticazione da parte dell’essere umano.

Ad esempio, l’uomo ha iniziato ad addomesticare e selezionare attivamente il “piccolo farro” (Triticum monococcum) circa 9500 anni fa in Medio Oriente, ma la ricerca di Allaby ha scoperto che gli esemplari selvatici di questa pianta iniziarono a mutare a partire da 30.000 anni fa probabilmente per effetto della pressione umana. L’orzo invece, già coltivato in Medio Oriente dal VII millennio a.C., avrebbe iniziato a mutare circa 21.000 anni fa.

I ricercatori sono stati in grado di tracciare la linea temporale dell’evoluzione di alcuni cereali prelevando materiale genetico dai resti millenari di semi o piante e analizzando la frequenza di evoluzione di loro geni.

Le piante selvatiche che si diffondono tramite semi hanno un gene che le rende in grado di disperdere la maggior parte dei propri semi per garantire una più alta percentuale di successo. Alcune di queste piante, come l’orzo, dispongono di un’ alterazione genetica che impedisce il rilascio ottimale dei semi una volta raggiunta la maturazione; queste piante sono la scelta più ovvia per raccogliere del maggior numero di semi e una raccolta incentrata sulle piante più produttive crea inevitabilmente una pressione evolutiva sia nelle piante “normali” che in quelle fornite della mutazione.

Per esempio, se in natura le piante che disperdono meno semi hanno un tasso di successo inferiore, le attività di raccolta da parte dell’essere umano aumentano notevolmente la possibilità di dispersione dei semi e di conseguenza il successo riproduttivo degli esemplari dotati della mutazione.

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I ricercatori hanno analizzato questo gene che impedisce la dispersione dei geni ed effettuato calcoli per capire quando abbia iniziato a modificarsi rispetto alla sua “versione” non mutata, scoprendo che i cereali presi in esame hanno preso la strada della domesticazione molto prima di quanto precedentemente stimato e senza un intervento umano specificamente volto alla domesticazione di queste piante. “Questo studio cambia la natura del dibattito sulle origini dell’agricoltura” spiega Robin Allaby, “mostrando che alcuni processi naturali portano alla domesticazione sul lungo termine”.

Gli esemplari di riso asiatico (Oryza sativa) dotati di un gene per trattenere semi invece di disperderli, nell’arco di circa 1.000 anni tra il VI e il V millennio, sono passati dal 15% al 46,7% per via delle prime attività agricole di popolazioni sedentarie che vivevano lungo il Fiume Azzurro (Yangtze). Ma l’evoluzione relativa alla dispersione dei semi iniziò molto prima, almeno 13.000 anni fa, periodo in cui sembra non fossero presenti in Cina insediamenti stabili dediti all’agricoltura.

E’ possibile quindi che nostri antenati del Pleistocene raccogliessero riso, grano e orzo in abbondanza, così in abbondanza da sottoporre queste piante ad una pressione tale da farle adattare all’attività umana.
E’ anche ragionevole ipotizzare (senza per ora avere alcuna prova) che alcune attività agricole da parte di popolazioni stanziali iniziarono molto prima di quanto si sia portati a pensare dalle testimonianze archeologiche in nostro possesso, dando inizio alla selezione dei cereali e successivamente abbandonandola a causa dell’estremo cambiamento climatico causato dall’arrivo dell’ ultima fase dell’ era glaciale Würm, tra i 40.000 e i 10.000 anni fa.

Geographic mosaics and changing rates of cereal domestication

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Gatto e uomo: le origini della convivenza https://www.vitantica.net/2017/10/17/gatto-e-uomo-origini-della-convivenza/ https://www.vitantica.net/2017/10/17/gatto-e-uomo-origini-della-convivenza/#respond Tue, 17 Oct 2017 02:00:49 +0000 https://www.vitantica.net/?p=693 La relazione tra esseri gli umani e i gatti è probabilmente più antica di quanto si possa immaginare: la domesticazione dei felini di piccola taglia è generalmente datata a circa 8.000 anni fa, ma una scoperta del 2004 a Cipro sembrerebbe retrodatare il rapporto tra uomo e gatto di almeno 1500 anni, se non addirittura a circa 12.000 anni fa.

Per svelare ulteriori dettagli sull’origine della domesticazione del gatto, un team multidisciplinare ha condotto nel 2016 uno studio genetico sui resti di 290 antichi gatti domestici rinvenuti in 30 siti archeologici sparsi su tutto il pianeta: i campioni più antichi risalgono ad un periodo compreso tra il 6.900 a.C. e il 1.900 a.C., periodo in cui molti degli abitanti europei conducevano ancora una vita da cacciatori-raccoglitori; il più recente, invece, risaliva al XVIII secolo.

Due fasi della domesticazione del gatto

I risultati di questa ricerca hanno rivelato alcune sorprese. Secondo gli autori della ricerca, tutti i gatti moderni discendono da un’unica specie, il Felis silvestris; in aggiunta, sembra che i gatti abbiano iniziato ad accompagnare l’essere umano in due ondate: la prima sembra essere stata una relazione tra gatti selvatici e popolazioni di cacciatori-raccoglitori che si stavano convertendo all’agricoltura, come dimostrerebbe il gatto di Cipro; la seconda, invece, si verificò qualche millennio dopo e contribuì alla diffusione dei gatti domestici dall’ Antico Egitto al resto del mondo.

Prima dell’agricoltura, era il cane (o il lupo addomesticato) l’animale più utile per l’essere umano: aiutava nella caccia, si sbarazzava degli scarti indesiderati e contribuiva alla difesa la comunità.

Con la nascita dei primi insediamenti stabili e del primi surplus di granaglie, si rese necessaria la presenza di un predatore naturale addomesticato per eliminare la prima piaga del mondo agricolo, i topi.

Gatto selvatico scozzese
Gatto selvatico scozzese
Autodomesticazione del gatto

Contrariamente alla domesticazione del lupo, che ha richiesto un intervento umano attivo per addestrare e ammansire i primi esemplari, gatti si sono fondamentalmente addomesticati da soli per convenienza: si sono autoinvitati nei nostri insediamenti agricoli per via dell’abbondanza di prede e col passare del tempo l’essere umano si è reso conto della loro utilità e ha iniziato tollerare sempre di più la loro presenza.

Per molti millenni, il gatto selvatico è rimasto fondamentalmente immutato pur sviluppando una tolleranza crescente alla nostra presenza: la nascita delle razze moderne, infatti, iniziò tra il XVIII e il XIX secolo durante le prime sperimentazioni di selezione dei tratti cromatici o morfologici più particolari o apprezzati dalla moda del tempo.

L’incredibile adattabilità e opportunismo del gatto selvatico gli ha permesso di conquistare quasi ogni habitat, ma la sua forte diffidenza nei confronti dell’essere umano e le sue abitudini solitarie devono aver rappresentato un grosso ostacolo all’inizio del processo di domesticazione.

Gli esemplari più curiosi, impavidi o costretti dalla fame iniziarono a spingersi furtivamente nei granai dei nostri antenati seguendo le tracce dei roditori di cui si nutrivano; col trascorrere del tempo, si accorsero probabilmente che un granaio, oltre a fornire l’habitat ideale per le loro prede naturali, era un ottimo ambiente per trascorrere la notte al caldo, e che la loro presenza iniziava ad essere tollerata, se non addirittura ricompensata, da quei grossi e bizzarri animali bipedi.

Gatto e uomo nella storia

Migliaia di anni dopo, i felini nordafricani acquisirono uno status di divinità con l’apparizione nel pantheon egiziano della dea Bastet (adorata fin dal 2890 a.C.), dotata di una testa felina e in principio divinità della guerra nel Basso Egitto sotto il nome di Sekhmet, per poi divenire una divinità protettrice nei secoli successivi.

I gatti erano considerati sacri al punto da punire talvolta con la morte chi ne avesse ucciso uno; moltissimi gatti vennero inoltre mummificati per accompagnare i loro padroni nell’oltretomba.

Gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica)
Gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica)

Secondo una leggenda diffusa probabilmente nel II secolo a.C., la Battaglia di Pelusio (525 a.C.) combattuta tra Persiani ed Egiziani fu decisa a “colpi di gatto”: consapevoli dell’importanza e della sacralità dei gatti per i loro nemici, i Persiani legarono un gatto ad ogni scudo, costringendo gli egizi alla resa. Per quanto si tratti probabilmente di una leggenda priva di alcun fondamento storico, dimostra comunque quanto fosse nota nel mondo antico la relazione tra uomo e gatto in Egitto.

L’arrivo della cristianità e la sua diffusione sull’intero continente europeo relegò il gatto al ruolo di creatura infida, se non addirittura legata al concetto stesso di Male. Ma una roccaforte di “adoratori dei gatti” riuscì a resistere anche nell’Europa cristianizzata: nella cultura vichinga, i gatti erano animali sacri alla dea Freja, divinità dell’amore, della fertilità e della morte.

Dalla ricerca emerge che i Vichinghi portassero con loro almeno un gatto durante i viaggi in mare, specialmente quelli che coinvolgevano il trasporto di cibo: la presenza dei felini contribuiva a tenere sotto controllo l’attività dei topi.

Si trattava di gatti addomesticati da lungo tempo, dato che le dimensioni di un esemplare domestico tendono spesso ad essere inferiori rispetto alla sua controparte selvatica, il Felis silvestris.

Il Felis silvestris, definito genericamente “gatto selvatico”, è un felino che ha ottenuto un enorme successo evolutivo in buona parte degli ambienti conosciuti, dalle foreste del Nord Europa alle savane africane.

Il gatto selvatico non è molto differente da alcune razze domestiche moderne, ma il suo manto presenta meno varietà cromatica e l’animale tende ad essere più grosso dei gatti addomesticati: in base alla sottospecie, può raggiungere i 13 kg di peso per 120-130 cm di lunghezza (80 cm di corpo e circa 40 di coda).

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La volpe fu il primo animale ad essere addomesticato? https://www.vitantica.net/2017/09/21/la-volpe-fu-il-primo-animale-ad-essere-addomesticato/ https://www.vitantica.net/2017/09/21/la-volpe-fu-il-primo-animale-ad-essere-addomesticato/#respond Thu, 21 Sep 2017 04:00:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=391 Nel cimitero del sito archeologico di Uyun-al-Hammam è stata ritrovata una sepoltura contenente un essere umano in compagnia di una volpe. I ricercatori dell’Università di Cambridge ritengono che possa trattarsi di un caso senza precedenti di “amicizia” tra l’uomo e questo canide selvatico.

Le volpi, quindi, potrebbero essere diventate animali da compagnia molto prima che i nostri avi cominciassero ad addomesticare il lupo. Questo ritrovamento, che implica uno stretto rapporto tra l’uomo e la volpe, è più vecchio di almeno 4.000 anni rispetto alle più antiche sepolture note in cui un essere umano si trova in compagnia di un canide.

Il primo amico dell’uomo?

Anche se è improbabile che nell’antichità le volpi siano state addomesticate completamente per via della loro naturale diffidenza, questo ritrovamento è di certo una testimonianza importante sul rapporto dell’essere umano con i canidi selvatici.

“Questo sito di sepoltura ci fornisce prove intriganti sulla relazione tra gli esseri umani e le volpi, da datare precedentemente ad ogni altro esempio di domesticazione animale” spiega Lisa Maher, del Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies.

Volpe addomesticata
Volpe addomesticata nello Zao Fox Village nella prefettura di Miyagi, Giappone

“Sembra che ci troviamo di fronte ad un caso in cui una volpe sia stata uccisa e seppellita con il suo padrone. In seguito, la tomba è stata aperta per qualche ragione, e il corpo umano spostato. Ma dato che la relazione tra la volpe e quest’uomo sembra essere stata importante mentre erano in vita, anche la volpe fu spostata, per accompagnare quella persona anche nell’aldilà”.

Il cimitero del sito di Uyun-al-Hammam è vecchio di circa 16.500 anni e costituisce per gli archeologi una vera e propria miniera di informazioni utili a studiare il periodo preistorico definito Mesolitico.

Stessa volpe in due tombe diverse

Il team di Cambridge è giunto alla scoperta notando un collegamento tra due tombe, la Tomba I e la Tomba VIII. Nella prima, hanno identificato i resti di due umani adulti, probabilmente un uomo e una donna.

L’uomo fu seppellito prima della donna e al suo fianco, in mezzo ad altri oggetti che lo avrebbero accompagnato nel mondo dei morti, sono stati rinvenuti l’omero e il cranio di una volpe.

Ossa di volpe
Distribuzione dei resti nella tomba. In giallo, le ossa di volpe

Nella Tomba VIII, al momento della sua apertura, gli archeologi hanno scoperto resti umani, molto probabilmente appartenuti all’uomo della Tomba I, e le ossa di una volpe, quasi sicuramente la stessa della prima sepoltura per via del fatto che il suo scheletro era quasi completo, ad eccezione del cranio e dell’omero destro. L’analisi dei resti della volpe hanno reso possibile identificarne la specie: si tratta di una volpe rossa (Vulpes vulpes).

Animale schivo e dalle fastidiose abitudini

La volpe è un canide onnivoro di medie dimensioni del genere Vulpus, genere a cui appartengono 12 specie esistenti e altre 25 estinte. La specie più comune è la volpe rossa (Vulpes vulpes), diffusa su tutto l’emisfero nord e introdotta dall’essere umano in Australia (diventando ben presto uno dei peggiori animali infestanti del continente).

La volpe è un animale schivo e diffidente che preferisce evitare ogni contatto diretto con l’essere umano, rendendola poco adatta come animale da compagnia: generalmente è amichevole in età giovanile (anche se tende ad essere distruttiva per la casa), per poi diventare sempre più diffidente con l’avanzare dell’età manifestando molti degli aspetti più selvatici del suo comportamento allo stato brado.

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Tra le caratteristiche che spesso risultano fastidiose (vedete video sopra) c’è la predisposizione della volpe a urinare in ogni posto e per qualunque ragione, comportamento del tutto naturale allo stato brado tanto che questi animali usano 12 posture diverse per marcare il territorio o posti di particolare rilevanza, come nascondigli per il cibo.

Uno dei primi tentativi di domesticazione della volpe (probabilmente un fennec, Vulpes zerda) avvenne nell’ Antico Egitto tra il 2700 e il 2100 a.C.. Lo scopo degli Egizi era probabilmente quello di allevare le volpi come fonte di carne e di pelliccia, ma sembra che molti dei tentativi non finirono con il successo sperato.

fennec
Fennec (Vulpes zerda)

Anche se il fennec è probabilmente l’unica varietà di volpe addomesticabile per via della sua socievolezza, tende a mantenere il suo spirito libero anche dopo essere cresciuto a stretto contatto con l’uomo e non è raro che fugga per tornare alla vita selvaggia.

Per saperne di più: Was the fox prehistoric man’s best friend?

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L’ uro, antenato dei bovini moderni https://www.vitantica.net/2017/09/17/uro-antenato-dei-bovini-moderni/ https://www.vitantica.net/2017/09/17/uro-antenato-dei-bovini-moderni/#respond Sun, 17 Sep 2017 07:00:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=287 La maggior parte degli animali d’allevamento moderni non sono neanche lontanamente simili, dal punto di vista genetico, comportamentale e morfologico, a quelli che vagavano liberamente per il pianeta decine o centinaia di migliaia di anni fa.

Le varietà moderne sono stati selezionate per essere più resistenti al clima, più mansuete e collaborative, e capaci di produrre più carne o latte rispetto ai loro antenati selvatici.

Avere a che fare con un toro selvatico imbizzarrito o con un cinghiale che difende i cuccioli non è esattamente come allevare vacche da latte o maiali. Per domare un bovino che non ha mai vissuto in compagnia dell’essere umano occorre essere dotati di fegato, muscoli e cervello, oltre che di strumenti adatti allo scopo.

Sebbene i nostri antenati fossero privi degli strumenti in uso negli allevamenti moderni, muscoli e cervello contribuirono a trasformare feroci e indomabili bestie come gli uri nei mansueti e produttivi animali d’allevamento che conosciamo oggi.

Uri raffigurati nelle pitture rupestri di Lascaux
Uri raffigurati nelle pitture rupestri di Lascaux. Autore: Prof saxx
L’ uro selvatico

Una ricerca condotta da scienziati francesi, tedeschi e inglesi ha rintracciato le origini dei buoi domestici moderni fino ad una mandria di uri selvatici (antenati del buoi) composta da circa 80 esemplari vissuti in Medio Oriente almeno 10.500 anni fa.

Gli uri (Bos taurus primigenius) ebbero origine in India circa due milioni di anni fa, e raggiunsero l’Europa intorno a 250.000 anni or sono. Sono gli antenati di quasi tutti i grandi bovini moderni, ad eccezione di animali come gli yak e i gaygal.

Gli uri veri e propri sono sopravvissuti fino ad un periodo relativamente recente: l’ultimo uro avvistato, una femmina, morì per cause naturali nel 1627 nella foresta di Jaktorów, Polonia.

L’estinzione di questi bovini preistorici, i progenitori del bue moderno, fu causata da un mix di fattori quali la caccia, l’habitat sempre più ristretto per l’avanzamento dell’agricoltura, e le malattie trasmesse dal bestiame domestico.

Raffigurazione di un uro nel “Icones animalium quadrupedum uiuiparorum et ouiparorum” di Conrad Gesner
Le dimensioni dell’ uro

Un uro maschio pesava mediamente oltre una tonnellata e presentava le caratteristiche tipiche di un animale selvatico, come il dimorfismo sessuale.

La differenziazione tra maschi e femmine era marcata non solo nel peso e nelle dimensioni, ma anche nel colore del manto: i maschi adulti erano marrone scuro tendente al nero, con una striscia dorsale di peli bianchi, mentre le femmine avevano una colorazione bruno-rossastra.

Gli uri maschi che vivevano in Danimarca o in Germania raggiungevano facilmente 180 cm di altezza al garrese (150 per le femmine), pesavano fino a 1500 kg (meno per gli esemplari femminili) e avevano corna lunghe circa 80 cm e dal diametro tra i 10 e i 20 centimetri.

Secondo alcune descrizione storiche, compresa una di Cesare, gli uri erano animali agili e veloci, spaventosamente aggressivi se minacciati e particolarmente violenti durante gli scontri tra maschi durante il periodo di accoppiamento.

Uro messo a confronto con un toro e una vacca.
Uro (sopra) messo a confronto con un toro e una vacca. Wikipedia

Alla luce di quanto descritto sopra, cercate ora di calarvi nei panni di un nostro antenato neolitico alle prese con un uro: immaginate di avere a che fare con un toro alto quasi due metri, con corna appuntite lunghe oltre mezzo metro e un temperamento estremamente aggressivo, probabilmente molto più di un toro moderno. Allevare un uro avrebbe rappresentato, per le prime comunità allevatrici del Mesolitico, una vera e propria sfida.

Domesticazione dell’ uro

Ma i nostri antenati erano dotati di pazienza e coraggio: gli 80 uri che avrebbero dato origine ai buoi moderni sono stati effettivamente catturati e addomesticati con strumenti e tecniche relativamente primitivi; e con essi altri animali, come capre e maiali, sembra abbiano intrapreso la via verso la vita domestica nella stessa regione del pianeta, e in un periodo non molto distante dall’addomesticamento degli uri.

“Un piccolo numero di progenitori dei bovini moderni è consistente con l’area ristretta in cui gli archeologi hanno trovato prove dei primi esempi di addomesticamento circa 10.500 anni fa.” sostiene Jean-Denis Vigne, archeologo e leader del team archeologico.

“L’area limitata potrebbe essere spiegata con il fatto che i buoi, al contrario per esempio delle capre, avrebbero rappresentato un problema per le comunità nomadi, e che solo poche comunità erano sedentarie in Medio Oriente durante quel periodo”.

Scheletro di uro

Analizzando il DNA estratto dalle ossa di uro rinvenute in un sito archeologico iraniano ed effettuando comparazioni con i campioni di materiale genetico prelevati da buoi domestici moderni, i ricercatori hanno scoperto che l’addomesticamento dell ‘uro ebbe inizio poco dopo il periodo in cui si ritiene sia nata l’agricoltura.

Secondo lo studio, la differenza genetica riscontrata negli uri e nei buoi domestici suggerirebbe che la maggior parte dei bovini moderni si siano evoluti a partire da una piccola mandria composta da bovini selvatici.

L’estrazione del codice genetico dalle ossa animali scoperte in Iran non è stata un’impresa molto semplice. “Ottenere validi campioni di DNA a partire da resti conservati in ambienti freddi è ormai routine. E’ per questo che i mammut sono stati la prima specie ad avere un sequenziamento del genoma” spiega Ruth Bollongino del CNRS.

“Ma ottenere un DNA valido da ossa scoperte in regioni calde è molto più difficile, dato che la temperatura è un fattore critico per la sopravvivenza del codice genetico. Questo ha richiesto un’estrema attenzione, in modo tale da non contaminare i dati con sequenze genetiche di animali viventi, o morti solo di recente”.

Per saperne di più: DNA traces cattle back to a small herd domesticated around 10,500 years ago

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Le piante prima della domesticazione https://www.vitantica.net/2017/09/04/le-piante-prima-della-domesticazione/ https://www.vitantica.net/2017/09/04/le-piante-prima-della-domesticazione/#comments Mon, 04 Sep 2017 20:41:54 +0000 https://www.vitantica.net/?p=48 Tutta la frutta, la verdura e i tuberi che mangiamo oggi sono il risultato di un processo di domesticazione spesso iniziato migliaia di anni fa e culminato con l’ottenimento di piante in grado di massimizzare la produzione di materiale commestibile, migliorare il sapore delle varietà selvatiche o di sopravvivere senza sviluppare tossine potenzialmente pericolose.

Mais, angurie e banane non sono emersi con la forma che oggi conosciamo: osservando una banana selvatica di qualche secolo fa è assai difficile classificarla in relazione alle varietà moderne più diffuse.

Stesso discorso vale per molta altra frutta o moltissime qualità di ortaggi, totalmente irriconoscibili dai loro antenati grazie a secoli o millenni di selezione artificiale operata dall’uomo.

 

Mais

Mais prima della domesticazione
Le grosse pannocchie di granturco che oggi possiamo gustare sulle nostre tavole sono frutto di selezioni e incroci iniziati oltre 10.000 anni fa in Messico allo scopo di produrre cibo di prima necessità in quantità.

Prima della domesticazione, le piante di mais avevano pannocchie lunghe 2-3 centimetri composte da 20-30 semi e ogni pianta ospitava una singola pannocchia; dopo secoli di selezione artificiale attuata dai nativi americani, il mais fu in grado di far crescere più pannocchie lunghe oltre 10 centimetri su una sola pianta.

Grano

Grano prima della domesticazione
La domesticazione del grano risale ad almeno 10 millenni fa e fu un mix di intervento umano e casualità: i semi delle varietà selvatiche tendono a staccarsi più facilmente dalla loro sede e a cadere a terra ad eccezione dei semi più voluminosi, facilitando la raccolta e di conseguenza la selezione di piante più produttive e dai semi che non si staccano disperdendosi nel terreno.

Carota

carota prima e dopo la domesticazione
La carota fu inizialmente coltivata per le sue foglie aromatiche e i suoi semi, fino a quando non si scoprirono le potenzialità alimentari della sua grossa radice. Inizialmente il sapore era molto amaro e legnoso, ma la selezione attuata dall’uomo culminò con una radice dolce e più tenera da masticare, la varietà moderna di carota.

Pesca

Pesca prima della domesticazione

L’origine della pesca è probabilmente cinese, come testimoniano alcuni reperti risalenti a circa 6.000 anni prima di Cristo. Erano il cibo preferito di re e imperatori, anche se il loro aspetto era del tutto differente da quello moderno. Dopo millenni di selezione, le pesche sono 16 volte più grandi dei loro antenati selvatici e contengono oltre il 25% in più di succo.

La prima domesticazione della pesca sembra essersi verificata in Cina circa 8.000 anni fa, nella provincia di Zhejiang. Una delle prime pesche dall’aspetto moderno fa la sua comparsa in Giappone circa 6.700 anni fa: il nocciolo era significativamente più grande rispetto alle varietà selvatiche e il frutto conteneva polpa in quantità maggiori.

Anguria

Anguria prima della domesticazione
L’ anguria è una pianta che sembra abbia avuto origine in nella parte meridionale dell’Africa, regione in cui cresce ancora spontaneamente e in svariate varietà selvatiche.

La sua domesticazione risale ad almeno 4.000 anni fa e proseguì fino a tempi molto più recenti fino ad ottenere le varietà moderne di anguria: fino al XVII secolo, infatti, l’anguria era suddivisa in 6 cavità a forma di spicchio, aveva meno polpa commestibile rispetto alle varietà moderne e conteneva numerosi semi.

Melanzana

Melanzana prima della domesticazione

La melanzana in passato si presentava in diverse forme e colori, dal blu al giallo, dalla forma sferica o oblunga; i fiori e le foglie erano tossici se consumati in gran quantità. La melanzana moderna invece è scura, violacea e oblunga, è ricca di polpa ed è semplicemente deliziosa.

La sua domesticazione ha inizio nella preistoria in Asia, ma il primo documento scritto sulla coltivazione della melanzana risale al 544 d.C. ed è contenuto nel trattato cinese Qimin Yaoshu. La melanzana fu introdotta dalle popolazioni arabe nelle regioni del Mediterraneo in epoca medievale.

Banana

Banana prima della domesticazione
La banana ha una storia antichissima e la sua domesticazione risale ad almeno 10.000 anni fa, rappresentando uno dei primissimi esempi di domesticazione nella storia dell’essere umano moderno. La banana nasce nel sudest asiatico ed è una pianta sempreverde il cui tronco è, al contrario di un albero, composto da strati compatti di foglie. In origine, la banana aveva una buccia rossa o verde ed era ricca di semi; la “banana dolce” e gialla che apprezziamo oggi è il risultato di una mutazione genetica scoperta nel 1836 in Giamaica.

La domesticazione della banana ha portato, nell’arco degli ultimi secoli di selezione artificiale e di riproduzione tramite talea, ad una scarsa varietà genetica, lasciando in esistenza solo una manciata di cultivar (razze) di banana che condividono la stragrande maggioranza del loro corredo genetico; tra queste c’è la famosa Cavendish, la varietà più prodotta ed esportata al mondo e che occupa quasi completamente il mercato.

La scarsa varietà genetica della banana ha portato a disastri naturali ed economici notevoli: la coltivazione di una varietà “cugina” della Cavendish, la Gros Michel, è diventata impraticabile su larga scala per via di un fungo che ne ha decimato la produzione negli anni ’60 del 1900.

Prima di quel periodo, quasi tutte le banane in commercio erano di varietà Gros Michel, ma il fungo che causa la “malattia di Panama” trovò un bersaglio ideale in questo cultivar di banane e sterminò la quasi totalità delle piantagioni sudamericane nell’arco di qualche anno.

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