costumi – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 L’antica grecia era davvero il “paradiso” dell’omosessualità? https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/ https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/#comments Sun, 29 Aug 2021 00:10:31 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4363 Secondo una concezione largamente diffusa e comunemente accettata dall’opinione pubblica moderna, l’antica Grecia era un luogo in cui vigevano pochi tabù, specialmente per quanto riguarda l’omosessualità.

Per molto tempo si è ritenuto che la Grecia dell’età classica fosse un vero e proprio territorio franco sul tema dei rapporti omosessuali: Alessandro Magno ha spesso dimostrato di apprezzare entrambi i sessi, mentre il rapporto tra Achille e Patroclo è sempre stato osservato nell’ottica di una relazione sentimentale tra due uomini, per giunta congiunti da un legame di parentela.

La realtà, come spesso accade, è più complessa e spesso prona all’interpretazione scorretta di fonti scelte selettivamente per creare un’immagine della Grecia antica che ben poco ha a che vedere con la vita quotidiana degli abitanti dell’Ellade.

Quando nasce l’idea della “Grecia omosessuale”

L’idea che in Grecia fosse comune intrattenere rapporti omosessuali è vecchia di circa 200 anni ed è entrata a far parte del “sapere comune” grazie a due personalità di spicco: Oscar Wilde e Kenneth Dover, autore del libro “Greek Homosexuality” pubblicato nel 1978.

In occasione del suo processo del 1895, Oscar Wilde pronunciò il celebre discorso “Love that Dare Not Speak Its Name” in cui tentava di spiegare il ritrovamento della stessa frase in alcuni versi composti dal suo compagno Alfred Douglas.

What is thy name?’ He said, ‘My name is Love.’
Then straight the first did turn himself to me
And cried, ‘He lieth, for his name is Shame,
But I am Love, and I was wont to be
Alone in this fair garden, till he came
Unasked by night; I am true Love, I fill
The hearts of boy and girl with mutual flame.’
Then sighing, said the other, ‘Have thy will,
I am the love that dare not speak its name.’

Secondo l’accusa, la frase era un esplicito riferimento al rapporto omossessuale tra Wilde e Douglas (il primo arrestato per atti di sodomia e condotta indecente); in quello che diventò un classico dell’apologia dei rapporti omosessuali, Wilde si giustificò dicendo:

“L’Amore che non osa dire il suo nome” in questo secolo, è il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, e ciò che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e Shakespeare. E’ quel profondo affetto spirituale tanto puro quanto perfetto. Comanda e pervade le grandi opere d’arte, come quelle di Shakespeare e Michelangelo, e quelle due mie lettere […] Non c’è nulla di innaturale in ciò.

Le affermazioni di Wilde, per quanto storicamente inaccurate, non erano una novità per il tempo. Davide, Gionata, Platone, Michelangelo e Shakespeare erano nomi che circolavano di frequente tra gli omosessuali più istruiti del XIX secolo, specialmente se si trattava di riferimenti a figure dell’antica Grecia, considerata una sorta di Eden dell’omosessualità.

Verso il termine del XIX secolo, l’isola di Lesbo divenne meta di veri e propri pellegrinaggi volti a visitare la casa di Saffo, la poetessa che con i suoi versi evocò rapporti omosessuali tra donne e che fu fonte d’ispirazione di alcuni movimenti a sostegno dei rapporti non eterosessuali.

La poetessa Renée Vivien e la sua amante Natalie Barney tentarono anche di fondare una colonia sull’isola di Lesbo nel 1904 con il preciso scopo di creare un rifugio per la comunità omosessuale europea, ottenendo scarso successo soprattutto a causa dell’opposizione degli abitanti locali. Vivien fu costretta a ritirarsi a Parigi, dove continuò a coltivare il suo sogno di una “zona franca” ispirata alla Grecia classica all’interno di un salone dotato della replica di un antico tempio greco.

L’ omosessualità in Grecia

Il termine “omosessuale” è un’invenzione moderna dell’ungherese Karoly Maria Benkert, che nel 1869 coniò il termine; ma per i Greci l’omosessualità era semplicemente una sfaccettatura della sessualità, a volte accettabile, altre volte non tollerata.

Molte delle concezioni moderne dell’omosessualità nella Grecia antica si concentrano sulla cultura ateniese del IV-V secolo, momento in cui nella città l’omosessualità, specialmente quella maschile, era tollerata più che in altri periodi della sua storia.

La Grecia antica, tuttavia, non fu mai un paradiso per l’omosessualità. I Greci interpretavano la sfera sessuale in modo differente da come lo vediamo noi, badando meno al sesso biologico e più al ruolo e allo scopo del rapporto: eterosessualità e omosessualità facevano parte dello stesso ventaglio di esperienze amorose (afrodisia) ma, per quanto il rapporto tra due uomini fosse il più delle volte tollerato o accettato in determinati periodi storici e in diverse località greche, c’era una grande differenza tra il ruolo attivo o passivo degli amanti.

Ci sono moltissime testimonianze, come poemi, vasi, statue, miti, trattati filosofici, discorsi, iscrizioni, testi medici e opere teatrali, in cui viene dipinto un quadro della Grecia antica molto differente dalla quello di “utopia omosessuale”: i rapporti omosessuali vengono talvolta celebrati, ma spesso anche ignorati, scoraggiati o condannati.

Riguardo ai rapporti omosessuali veniva applicata una distinzione nel ruolo degli amanti: coloro che “ricevevano” e svolgevano un ruolo passivo nel rapporto omosessuale venivano definiti kinaidoi e tendevano ad essere stigmatizzati dalla società ateniese.

A Sparta, assumere un ruolo passivo in un rapporto omosessuale tra adulti era fonte di estrema disapprovazione e costituiva un tale segnale di debolezza da considerare l’amante alla stregua di un traditore, un uomo che accettava di essere ignobile pur di ottenere piacere sessuale.

Una volta raggiunta l’età adulta, un uomo era tenuto a mantenere e proteggere la propria mascolinità. Un ruolo di dominanza sessuale nei confronti di un partner dello stesso sesso non veniva interpretato come sconveniente, ma il ruolo opposto era invece visto come un gesto in grado di mettere a serio rischio l’onorabilità di un essere umano.

Pederastia

La pederastia greca era un fenomeno che consisteva nella relazione ritualizzata tra due maschi di differente età: un eromenos (amato), più giovane, e un erastes (amante), più avanti nell’età. Sebbene fosse un tipo di rapporto socialmente accettabile in alcune polis greche e costituisse il tipo di relazione omosessuale più diffuso nella Grecia antica, fu criticato più e più volte da letterati e filosofi del tempo.

Nell’antica Grecia il sesso veniva generalmente catalogato in base a parametri come piacere, dominanza e ruolo degli amanti, e non sul sesso biologico dell’individuo. La pederastia che sfociava in atti erotici non era quindi considerata un vero e proprio rapporto omosessuale: l’ erastes assumeva un ruolo di dominanza, continuando quindi a mantenere la sua mascolinità, mentre il giovane eromenos, per quanto passivo, si trovava in un’età di passaggio, tra gioventù ed età adulta, in cui la sua passività non veniva interpretata come sconveniente.

La pederastia non era praticata allo stesso modo in tutta la Grecia antica. In Boezia, erastes e eromenos vivevano insieme come una coppia; ad Elis e ad Atene non sempre la coppia conviveva sotto lo stesso tetto, ma il rapporto prevedeva una fase di “corteggiamento” orientato a mantenere attiva la relazione; nella Ionia invece la pederastia era quasi del tutto vietata.

Ad oggi, non sappiamo con esattezza fino a che punto si spingesse il rapporto tra eromenos e erastes. Sappiamo che poteva sfociare nell’erotismo, oppure rimanere del tutto casto, una sorta di “tutoring” di adolescenti e giovani adulti. Purtroppo quasi tutti i documenti relativi al livello di profondità dei rapporti omosessuali dell’antica Grecia sono andati distrutti.

Socrate, Platone e Senofonte non condannavano la pederastia nella sua forma più casta, ma disprezzarono espressamente ogni sua manifestazione fisica. Socrate prende in giro l’ex discepolo Crizia per la sua passione nei confronti del suo eromenos Eutidemo, manifestatasi in forma fisica; ma lo stesso filosofo era un frequentatore dei bordelli ateniesi popolati da giovani ragazzi che si prostituivano: tra loro acquistò e liberò il suo futuro allievo, Fedone di Elide.

Plutarco e Senofonte sostenevano che la pederastia spartana fosse del tutto casta, anche se è ormai certo che ci fossero circostanze in cui la relazione sfociava nella carnalità. Ad Atene, i padri incaricavano alcuni schiavi, chiamati pedagoghi, di sorvegliare i propri figli e proteggerli da tentativi inappropriati di seduzione, ma secondo Eschine erano gli stessi padri a desiderare che il figlio diventasse bello e attraente per catturare l’attenzione di un uomo potente.

Omosessualità tra commilitoni

Gli esempi di coppie di guerrieri-amanti, o di commilitoni legati da un rapporto pederasta, non sono pochi nella mitologia e nella storia greca: Achille e Patroclo, Eracle e Abdero, Oreste e Pilade, Teseo e Piritoo, Armodio e Aristogitone.

Nel Simposio di Platone, Fedro commenta la forza che esercita una relazione omosessuale tra compagni d’armi sul coraggio di uno schieramento militare. Senofonte, invece, tende a ridicolizzare i soldati spartani e tebani che avevano trasformato i loro rapporti amorosi nell’unica base di coesione dei loro schieramenti militari, pur non condannando i rapporti sentimentali tra commilitoni.

Secondo Plutarco, Epaminonda ebbe due uomini come amanti, uno dei quali perse la vita nella battaglia di Mantinea; l’amante deceduto fu sepolto insieme allo statista tebano, una pratica generalmente riservata a marito e moglie.

Questo non significa tuttavia che il rapporto amoroso tra commilitoni fosse la norma: per alcuni era semplicemente accettabile, per altri rappresentava il fondamento della forza di un esercito, per altri ancora era invece fonte di debolezza.

Il rapporto tra Achille e Patroclo, una delle più celebri coppie omosessuali della storia, non fu interpretato nell’Atene del V secolo a.C. come una semplice unione tra due persone dello stesso sesso, ma come una relazione tra commilitoni contestualizzata nella pederastia, una relazione probabilmente durata troppo a lungo e condotta a ruoli invertiti: Achille, più giovane, fu spesso interpretato come erastes in quanto eroe, ma è più probabile che fosse l’eromenos, data la maggiore età di Patroclo e l’indole giovanile e poco misurata di Achille.

Benché Omero non descriva mai esplicitamente i due guerrieri come veri e propri amanti, ma non fa nulla per escludere questo scenario. Come affermò la scrittrice italiana Eva Cantarella nel suo libro “Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico” (Biblioteca Universale Rizzoli, Roma, 1988):

«Omero descrive amicizie maschili di intensità affettiva così forte da far inevitabilmente pensare a legami ben diversi da una semplice solidarietà fra compagni d’arme: e l’amicizia che a questo punto è quasi di prammatica citare è quella fra Achille e Patroclo. […] Il legame tra Achille e Patroclo, invece, era insostituibile: ed è non poco significativo, a questo proposito, il discorso di Teti, la madre dell’eroe, al figlio disperato ed inconsolabile: Achille, dice Teti, deve continuare a vivere e dimenticato Patroclo, deve prendere moglie “come giusto che sia”. Un rimprovero, forse? La prova che Teti riprovava l’amore omosessuale del figlio? A prima vista così potrebbe sembrare. Ma, a ben vedere, le cose stanno diversamente. Quello che risulta in realtà della parole di Teti, è che il legame con Patroclo era stata la ragione per la quale l’eroe non aveva ancora preso moglie: una conferma, dunque, del carattere amoroso del rapporto. Ma l’esortazione della madre al figlio a compiere finalmente il suo dovere sociale non è – ciononostante – una condanna assoluta della sua relazione con Patroclo. Essa sembra, piuttosto, un invito ad accettare quella che, per i greci, era una regola naturale: raggiunta una certa età, bisogna por fine alla fase omosessuale della vita e assumere il ruolo virile con una donna.»

Fonti:
Homosexuality in ancient Greece
Friday essay: the myth of the ancient Greek ‘gay utopia’
Mad about the boy
ATHENIAN LAWS ABOUT HOMOSEXUALITY
The Myth Of Homosexuality In Ancient Greece
Greek Homosexuality

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Beargarden, la fossa dell’orso elisabettiana https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/ https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/#respond Mon, 31 Aug 2020 00:10:22 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4963 Durante il regno di Elisabetta I (1558–1603), nella città di Londra venivano celebrati spettacoli cruenti i cui protagonisti erano animali selvatici e domestici. La “Fossa dell’Orso”, o Beargarden, recentemente apparsa in alcune serie televisive d’ispirazione medievale-fantasy, fu una realtà storica per diversi secoli in svariate regioni del mondo, uno spettacolo in grado di attrarre sostenitori e oppositori di ogni tipo, dal comune cittadino alle personalità più note tra nobiltà e menti illustri del tempo.

Bear-baiting

Traducibile come il “tormento dell’orso”, si trattava fondamentalmente di legare un orso ad un palo tormentandolo con cani addestrati, in attesa che l’orso si liberasse e facesse a pezzi i suoi assalitori.

Il bear-baiting era lo show-simbolo del Beargarden. Attività popolare fin dal XII secolo, intorno al XVI secolo molti orsi furono catturati e mantenuti con il specifico scopo di farli combattere nella fossa. In epoca medievale questi orsi viaggiavano di villaggio in villaggio per dare spettacolo, accompagnati da un “bear-leader”, un addestratore di orsi spesso italiano o francese.

Il combattimento nella fossa poteva assumere diverse forme: in alcuni casi l’orso veniva privato della vista, e frustato per alimentare la sua rabbia mentre cani addestrati venivano aizzati contro di lui. Per evitare di perdere l’orso durante lo scontro (mantenere un orso adatto al combattimento era costoso), e per limitare la perdita di preziosi cani addestrati, il combattimento terminava quando l’orso veniva totalmente sottomesso dall’attacco dei cani, o quando un numero sufficiente di cani veniva ucciso dal plantigrado.

Sebbene il bear-baiting fosse stato ufficialmente proibito dai puritani verso la fine del 1600, la pratica continuò per altri due secoli fino a svanire quasi completamente. In altre regioni del mondo, tuttavia, l’ “animal-baiting” continuò ad essere praticato fino a qualche decade fa.

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Verso la fine del XIX secolo, il Maharaja Gaekwad Sayajirao III organizzò un combattimento tra una tigre del Bengala e un leone per stabilire una volta per tutte se il secondo meritasse il titolo di “Re dei Felini”. Il vincitore tra i due contendenti (non sono riuscito a capire chi ne uscì vittorioso) affrontò poco dopo un orso grizzly di oltre 600 kg, perché qualcuno suggerì al Maharaja che, in realtà, in vincitore del primo combattimento non fosse davvero il “Re dei Carnivori”.

Il bear-baiting è rimasta una pratica relativamente comune nelle province pakistane del Punjab e di Sindh fino al 2004. Gli eventi, organizzati dalla criminalità locale, prevedevano di legare un orso ad una corda di 2-5 metri dopo avergli rimosso i canini e aver limato i suoi artigli, per poi scagliare contro il povero animale un branco di cani da combattimento.

In South Carolina il bear-baiting è sopravvissuto fino al 2013, anno in cui è stato proibito ufficialmente questo genere di spettacolo. Fino al XIX secolo si organizzavano combattimenti tra orsi e tori, specialmente in California e Messico, il cui risultato era tutt’altro che scontato e arricchiva le tasche dei bookmakers.

Beargarden

Intorno agli anni 60 del 1500 fecero la loro apparizione a Londra i Beargarden, strutture non molto differenti dai teatri del tempo, nelle quali si conducevano combattimenti tra animali, prevalentemente orsi e tori.

L’esatta posizione di tutti i beargarden londinesi è incerta per svariate ragioni. In primo luogo, i combattimenti tra animali non erano affatto rari in città e venivano condotti in diverse località, alcune solo temporaneamente utilizzate come teatro per scontri tra animali. Secondo il poeta inglese John Taylor, tra il 1620 e il 1621 i combattimenti con tori e orsi si svolgevano in almeno quattro località diverse lungo la riva meridionale del Tamigi, nei dintorni del distretto di Southwark.

Un particolare Beargarden rimase impresso nelle menti delle personalità dell’epoca. La mappa Speculum Britanniae del 1593, e la Civitas Londini del 1600, indicano che questo Beargarden si trovava vicino al teatro The Rose. Lo storico inglese John Stow affermò nel 1583 che questo beargarden veniva comunemente chiamato “Giardino di Parigi”.

Bear baiting a Londra negli anni '20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)
Bear baiting a Londra negli anni ’20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)

Alcuni spettatori degli show del Beargarden definirono lo spettacolo come “un passatempo rude e sgradevole”, come Samuel Pepys nel 1666; altri ancora, come i puritani, si spinsero oltre definendolo uno spettacolo demoniaco, affermando addirittura che il crollo dei Beargarden del 1583 in cui rimasero uccise otto persone fu un atto divino per punire i peccatori che assistevano allo spettacolo.

Il combattimento tra animali aveva tuttavia molti sostenitori, tra i quali la regina Elisabetta I e buona parte della nobiltà di corte. Nel 1573, Elisabetta nominò Ralph Bowes come “Master of Her Majesty’s Game at Paris Garden“, allo scopo di facilitare la realizzazione di spettacoli di suo gradimento; la regina arrivò addirittura a non firmare una decisione parlamentare volta a proibire il bear-baiting durante la domenica.

Considerato il vasto pubblico e la presenza quasi costante di grandi personalità inglesi o straniere dell’epoca, il Giardino di Parigi non era soltanto un luogo in cui assistere a spettacoli cruenti, ma il posto ideale per condurre affari di stato, atti di spionaggio, o accogliere gli ambasciatori provenienti dalle più remote regioni del mondo conosciuto. Nel 1578 William Fleetwood, ufficiale giuridico di alto grado della città di Londra, definì il Beargarden come un posto in cui gli ambasciatori stranieri incontravano le proprie spie sfruttando l’oscurità del “giardino”.

Lo spettacolo

Come accennato in precedenza, nel Beargarden avvenivano spettacoli di ogni tipo: orsi contro cani, tori contro cani, pony con scimmie legate sul dorso contro cani (spettacolo realmente accaduto, come testimonia il Duca di Najera nel 1544).

Immagine dall' Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection
Immagine dall’ Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection

Ma gli orsi erano i veri protagonisti, e probabilmente subivano le torture più crudeli. Gli orsi più resistenti si guadagnavano un nome, come “George Stone”, “Ned Whiting”, “Sackerson” o “Harry Hunks”, un orso cieco, anziano e particolarmente tenace che veniva ripetutamente frustato fino al sanguinamento profuso.

Gli orsi venivano addestrati come gladiatori: venivano incoraggiati a reagire su comando dell’addestratore, a fingersi morti per terminare un match. Le ferite che accumulavano durante gli scontri con i mastini inglesi li rendevano sempre più deboli, ciechi e incapaci di difendersi, ma questo non impediva ai loro proprietari di sfruttarli fino all’ultimo: frustandoli ripetutamente e legandoli ad un palo si tentava in ogni modo di renderli furiosi.

Lo spettacolo mandava la folla in delirio. Il bearbaiting, per quanto violento e insensato per un osservatore moderno, veniva pubblicizzato come una festa: lo show era spesso preceduto e accompagnato da musica e fuochi d’artificio, balli e veri e propri cori da tifoseria.

Nella sua versione moderna, come quella osservata in Pakistan fino a qualche anno fa, lo scontro poteva essere di piccola portata (un solo orso e qualche cane), oppure includere numerosi partecipanti, come 10 orsi e oltre una quarantina di cani.

L’ultimo spettacolo noto del Beargarden londinese si svolse nel 1682 in onore di un ambasciatore marocchino. Un cavallo particolarmente ostile (responsabile, pare, della morte di diversi uomini e cavalli) fu costretto a combattere nella fossa con un branco di cani; dopo averli uccisi tutti, su incitazione della folla l’animale fu giustiziato a colpi di spada dai guardiani del Beargarden.

The Bankside Playhouses and Bear Gardens
The Gruesome Blood Sports of Shakespearean England
Beargarden
Bear-baiting
Elizabethan Bear & Bull Baiting

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L’importanza dell’amore romantico nell’antichità https://www.vitantica.net/2020/02/24/amore-romantico-antichita/ https://www.vitantica.net/2020/02/24/amore-romantico-antichita/#respond Mon, 24 Feb 2020 00:10:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2255 Segui il tuo cuore” è una delle frasi più comuni quando si parla del complesso ammasso di sentimenti che definiamo come amore romantico. In tempi moderni, l’amore romantico è considerato di primaria importanza quando ci si trova di fronte a decisioni come la scelta di un partner per la vita. Ma in passato, fino ad un periodo relativamente recente, l’unione tra uomo e donna seguiva ben altri parametri.

Gli esseri umani, contrariamente ad altri animali, si sono evoluti privilegiando l’attaccamento emotivo verso i propri simili rispetto ad altri aspetti dei rapporto interpersonali. E’ un meccanismo che ci ha consentito di sopravvivere, di prosperare, di costruire vaste comunità, rivelandosi talvolta molto più efficace di zanne, artigli o altre armi naturali.

La nostra specie (e molto probabilmente, in passato, tutti gli esponenti Homo più intellettivamente elevati) sviluppa una lealtà e un attaccamento istintivo verso persone che dimostrano lo stesso grado di attaccamento e lealtà.

Questo è sostanzialmente l’amore: dimostrare lealtà e attaccamento per altre persone fino a sottovalutare o ignorare un pericolo imminente o ad alterare la propria visuale della realtà.

Questa perdita di razionalità e oggettività è considerato oggi un valore primario, ma in passato molti hanno messo in discussione, se non addirittura criticato e condannato in modo aspro, questo tipo di sentimento.

Secondo Platone, ad esempio, la più alta forma d’amore sarebbe l’amore fraterno, un sentimento che non vede coinvolta la sessualità e che esclude la passione e il romanticismo, evitandoci di compiere gesti razionalmente ridicoli o ingiustificati.

Come Platone, molti altri antichi pensatori valutavano l’amore romantico come qualcosa di incredibilmente stupido e controproducente per la vita civile. Per buona parte della nostra storia, l’amore romantico è stato visto come una sorta di malattia, qualcosa che costringe l’essere umano a compiere atti che, razionalmente, non sognerebbe mai di compiere; molte culture trattavano l’amore romantico come un male che tutti sono destinati a provare prima o poi nel corso della propria esistenza, ma di cui tutti dovrebbero liberarsi per poter convivere con il prossimo e non perdere di vista la realtà.

Romeo e Giulietta come modello per l’irrazionalità

Storie come Romeo e Giulietta o l’Iliade non sono propriamente celebrazioni dell’amore romantico, ma una dimostrazione letteraria di come questa forma d’amore possa essere deleteria per il viver comune e civile, un messaggio chiaro sulle conseguenze nefaste dell’amore romantico e irrazionale.

Per millenni l’essere umano ha celebrato unioni tra coppie senza valutare l’amore come un requisito primario per un matrimonio felice. C’è una ragione, anzi, ci sono diverse ragioni per questo: l’amore romantico aiuta ad arare i campi o a mungere una mucca? Aiuta a pagare le imposte o ad avere figli in salute e in gran numero? Contribuisce alla protezione dei confini, alla stabilità del governo o alla tutela del nucleo familiare?

L’amore romantico porta scarsi contributi ai fattori che rendono stabile e duratura una coppia, una comunità o un intero Stato. Certo, può aiutare a sopportare meglio i difetti dell’altro, ma la realtà farà sempre capolino prima o poi, sbattendoci sul muso il fatto che gli “occhi dell’amore” avevano alterato la nostra visione della realtà.

Forza e resistenza aiutano ad arare i campi e a mantenere sano il bestiame; una buona costituzione dei genitori aumenta la percentuale di successo nell’avere figli sani; una consistente dote matrimoniale o l’attitudine a lavorare sodo erano fondamentali per la stabilità economica di una famiglia; l’unione di due nobili, non necessariamente basata sull’amore reciproco, ha contribuito per millenni alla pace di intere regioni.

La famiglia è l’unica parte razionale

E’ per questi motivi che i matrimoni passati erano organizzati dalle famiglie. Le famiglie avevano meno tendenza a provare sentimenti romantici per il partner del figlio o della figlia, erano portate a giudicare più obiettivamente il valore economico e sociale dell’unione e le conseguenze che un matrimonio poteva avere sui due gruppi familiari coinvolti.

Il matrimonio per scopi puramente economici ha contribuito a promuovere la sopravvivenza di interi clan e l’amore romantico rappresentava non solo uno spiacevole inconveniente, ma anche una vera e propria minaccia alla sopravvivenza della comunità.

Non deve sorprendere che all’origine di tutti i matrimoni, indipendentemente dalla cultura e dai diritti goduti dalle donne, ci sia un contratto tra moglie e marito. I due contraenti definivano una serie di regole che la logica e il buon senso dell’epoca ritenevano le più adeguate per garantire la sopravvivenza del clan o della famiglia d’appartenenza.

Questo tuttavia non significa che la parola “amore” fosse un tabù in passato. La definizione di questo sentimento è stata fatta da moltissimi pensatori antichi, ma il “vero amore” viene solitamente definito come benevolenza, supporto del partner, pietà, amore fraterno, e raramente come amore romantico nel senso moderno del termine e con accezione positiva. L’amore romantico fu spesso e volentieri considerato inopportuno, scomodo, se non addirittura pericoloso.

Irrazionalità come valore

Tutto iniziò a cambiare con la rivoluzione industriale: salari più o meno stabili, trasferimento dalle campagne alle città e lontananza dai problemi della terra resero gli individui più economicamente indipendenti dalle famiglie d’appartenenza. A questi fattori si unì anche la nascita del concetto dei diritti individuali e la sempre più smaniosa ricerca della felicità, elementi tipici del Romanticismo.

Spinti da un individualismo sempre più pronunciato, uomo e donna iniziarono a interpretare passione e idealizzazione del partner come pilastri per un rapporto inscindibile e duraturo, tralasciando il fatto che questi sentimenti sono solo la fase iniziale dell’amore e non strettamente indispensabili alla sopravvivenza di una coppia.

Il XX secolo non fece altro che cementare l’idea che l’amore romantico fosse un valore primario e fondamentale per una vita felice e realizzata. L’amore romantico divenne un vero e proprio business multimiliardario facendo leva sulle nostre passioni e sul bisogno innato di lealtà e attaccamento emotivo che ogni uomo, donna o bambino è naturalmente portato a provare.

Il XX secolo contribuì anche a creare un’idea dell’amore romantico del tutto lontana dalla realtà: una relazione, per funzionare, deve basarsi su presupposti come l’affidabilità, la fiducia giustificata, la responsabilità, la tolleranza e una visione oggettiva e condivisa della realtà; tutti elementi che iniziano a fare capolino quando la cortina fumogena amorosa si dirada, mostrandoci la realtà in tutta la sua potenza e facendo sgretolare l’idealizzazione del partner tipica dell’amore romantico.

A BRIEF HISTORY OF ROMANTIC LOVE AND WHY IT KIND OF SUCKS

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La famiglia vichinga https://www.vitantica.net/2020/01/27/la-famiglia-vichinga/ https://www.vitantica.net/2020/01/27/la-famiglia-vichinga/#comments Mon, 27 Jan 2020 00:13:39 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4770 Nell’arco di pochi secoli i Vichinghi si conquistarono una fama di razziatori, navigatori, commercianti e abili combattenti. Ma anche i clan norreni più bellicosi trascorrevano la maggior parte del loro tempo tra le mura domestiche o nei campi.

Non conosciamo dettagli molto precisi sulla vita quotidiana dei vichinghi scandinavi, ma abbiamo a nostra disposizione le saghe islandesi e i resti ossei dei primi abitanti d’Islanda, due elementi che possono fornire un quadro abbastanza completo della tipica famiglia norrena.

Dalle saghe e dai resti scheletrici sappiamo, ad esempio, che i vichinghi islandesi vivevano in “case lunghe” occupate da diverse persone: i padroni di casa con i loro figli, i parenti più stretti e la servitù. Tipicamente, una casa lunga vichinga era occupata da 10-20 persone, tutte coinvolte (bambini inclusi) nelle attività necessarie a far sopravvivere ogni membro di queste famiglie allargate.

Aspettativa di vita

Per comprendere le ragioni che stanno alla base di alcune tradizioni domestiche norrene, come il non accettare un neonato in famiglia fino all’esecuzione di alcuni rituali scaramantici, occorre considerare l’aspettativa di vita di un giovane individuo norreno.

L’aspettativa di vita media era di circa 20 anni; i bambini sotto i 15 anni costituivano circa la metà della popolazione islandese e chi era così fortunato da raggiungere i 20 anni d’età aveva il 50% di probabilità di sopravvivere fino ai 50.

Una madre norrena partoriva mediamente 7 figli nell’arco della sua esistenza, continuando a lavorare in casa o nei campi prima e dopo il parto. Dato l’elevato tasso di mortalità, ogni coppia riusciva a far sopravvivere solo 2-3 figli e aveva ben poche possibilità di osservare la nascita dei propri nipoti.

Alla nascita, un bambino doveva essere soggetto ad una serie di azioni rituali prima di poter essere accettato a tutti gli effetti dalla famiglia e dalla società norrena: la madre doveva allattarlo al seno almeno una volta, e il padre doveva accettare esplicitamente il neonato, appoggiarlo sulle ginocchia e battezzarlo bagnandolo con acqua.

I neonati non accettati dai genitori, come accadeva spesso in caso di deformità o di difficoltà economiche, venivano semplicemente abbandonati nei boschi o gettati in fosse comuni.

In una fattoria norrena è stato scoperto un pozzo in cui furono gettati decine di bambini non accettati dalle famiglie, supportando l’idea che la pratica di uccidere o abbandonare un neonato non desiderato fosse relativamente comune.

La gioventù vichinga

Il tipico bambino norreno veniva trattato come un giovane adulto. Era tenuto a contribuire alle attività quotidiane e ad apprendere le abilità essenziali alla sopravvivenza della famiglia, come la lavorazione del legno o la cura degli animali.

Questo non significa che i bambini non avessero tempo per le attività ricreative: possedevano giocattoli e bambole, praticavano sport come nuovo e corsa, e occupavano il tempo libero casalingo con giochi da tavolo come l’hnefatafl. Ma allo stesso tempo apprendevano dai genitori ciò che sarebbe tornato loro utile da adulti, partecipando alle attività necessarie al sostentamento della casa.

Era abbastanza comune affidare uno dei propri figli ad un’altra famiglia. Considerata l’elevata mortalità infantile, quasi il 20% delle coppie non aveva figli viventi, ma poteva comunque allevare il figlio di un parente o di un suo superiore. Questo tipo di affidamento serviva anche a consolidare i legami tra famiglie alleate, e la famiglia adottiva riceveva supporto economico e pratico da parte dei genitori del bambino.

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Gli adulti apprezzavano molto i bambini in grado di prendere iniziative indipendenti, non solo nel gioco o nella vita quotidiana. Le saghe sono piene di esempi di bambini lodati per aver compiuto atti che oggi sarebbero giudicati sconsiderati, se non addirittura criminali: nella Saga di Gisla, Helgi and Bergr (rispettivamente 12 e 10 anni) vengono considerati degni di lode per aver vendicato la morte del padre uccidendo il suo assassino.

Un bambino veniva considerato ufficialmente adulto all’età di 16 anni, anche se in alcune circostanze l’età era inferiore: per poter essere qualificabile come giudice di una corte, occorreva avere soltanto 12 anni. Le donne prendevano marito a partire dai 12-13 anni, dipendentemente dagli accordi presi dai genitori delle due famiglie.

Fidanzamento e matrimonio

Il corteggiamento rappresenta da sempre una parte naturale dell’unione tra uomo e donna, ma spesso veniva interpretato come sconveniente dalla famiglia della ragazza. Il corteggiamento era costituito da visite continue alla casa della futura sposa, conversazione e letture di poesie; alcuni di questi atteggiamenti (come la lettura di versi di lode verso la ragazza) erano addirittura proibiti per legge, ma ci sono innumerevoli esempio di corteggiamento in versi, suggerendo che queste leggi venissero eluse o del tutto ignorate quotidianamente.

Il corteggiamento non era una faccenda da prendere sottogamba. Se anche la famiglia della futura sposa fosse riuscita a tollerare il corteggiamento, l’assenza di una formale proposta di matrimonio sarebbe stata interpretata come motivo di imbarazzo e un insulto per l’intera famiglia. Il rifiuto di una proposta di matrimonio aveva le stesse conseguenze per la famiglia del corteggiatore, e non era affatto raro che si scatenasse una vera e propria faida a seguito di un rifiuto.

Il corteggiamento e il successivo fidanzamento avvenivano quindi sotto la tutela dei genitori, i veri responsabili delle unioni. Il fidanzamento rappresentava un vero e proprio contratto tra il tutore della ragazza (solitamente il padre) e quello del ragazzo (idem), formulato in presenza di testimoni e suggellato da una stretta di mano.

La proposta di fidanzamento veniva avanzata dal tutore o da un suo rappresentante, e accettata o rifiutata dai genitori della ragazza; le parti coinvolte avevano poca voce in capitolo, specialmente se il matrimonio aveva forti risvolti politici o economici per le due famiglie coinvolte.

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La famiglia dello sposo si impegnava a pagare una determinata somma di denaro (mundr) per ottenere la ragazza, mentre il padre dello sposo si impegnava a versare una dote (heimangerð) al momento del matrimonio, che si sarebbe svolto a circa 1 anno di distanza dall’accordo.

Tradizionalmente la dote della sposa comprendeva una veste di lino e lana, un telaio, una macchina per filare e un letto; le ragazze provenienti da famiglie ricche potevano anche avere gioielli, bestiame o anche immobili. Tutto ciò che faceva parte della dote della sposa rimaneva proprietà della ragazza anche dopo il matrimonio.

Il divorzio era previsto nella società norrena per svariate ragioni (come l’impossibilità di avere figli) e si poteva dissolvere un matrimonio semplicemente annunciando le proprie intenzioni davanti ad un testimone. Non era insolito per una donna sposarsi diverse volte e ottenere parte delle risorse economiche del marito come risarcimento per un divorzio; questi risarcimenti spesso davano origine a faide sanguinarie tra le famiglie coinvolte, dispute che potevano durare diverse generazioni.

Patto di sangue

Oltre al matrimonio e ai legami di parentela, il mondo norreno aveva un altro metodo per unire due persone o due famiglie: il patto di sangue (leikr). Pratica comune tra commilitoni o famiglie alleate, il patto di sangue legava due persone o due clan tramite un giuramento solenne che seguiva un preciso rituale, descritto nella Saga di Gisla.

Nella saga, una striscia di zolla di torba viene sollevata tramite una lancia, in modo da creare un arco di terreno lasciando attaccate al suolo le due estremità della zolla. Sotto questo arco i due amici Thormodus e Thorgeir si tagliano con uno scramasax e fanno cadere il loro sangue a terra, mescolandolo con il terreno e pronunciando il giuramento solenne di vendicare il primo dei due che fosse morto.

I patti di sangue vengono menzionati anche in altre saghe, come la Saga di Örvar-Oddr, in cui Örvar-Oddr, dopo un lungo scontro con il guerriero Hjalmar terminato in parità, stringe un patto di sangue con il suo avversario diventando, di fatto, un fratello. Nel Lokasenna, infine, Loki e Odino mescolano il loro sangue creando di fatto un legame, motivo per cui Loki, figlio di jötunn , viene tollerato dalle altre divinità.

Families and Demographics in the Viking Age
Childhood in the Viking Age
Women’s Work and Family in the Viking Age
Children in the Viking period

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Antiche strategie per la sopravvivenza invernale https://www.vitantica.net/2019/12/16/antiche-strategie-sopravvivenza-invernale/ https://www.vitantica.net/2019/12/16/antiche-strategie-sopravvivenza-invernale/#respond Mon, 16 Dec 2019 00:08:31 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4705 Vivere lungo le rive del Mediterraneo ha indubbi vantaggi: cibo in abbondanza, rotte commerciali marittime sempre a disposizione e una situazione climatica in grado di mitigare il freddo dell’inverno. Ma a latitudini sempre più prossime al Nord, l’essere umano è stato costretto ad escogitare sistemi in grado di proteggerlo dai pericoli invernali.

L’organismo umano, se esposto al gelo, cerca di regolare la temperatura corporea in modo tale che gli organi interni siano sempre in grado di funzionare correttamente. L’ipotermia insorge quando la temperatura interna scende a 35°C o meno: questa circostanza è molto più comune nei Paesi più settentrionali rispetto a quelli che godono di climi più miti, non solo d’inverno ma anche in presenza di vento o forte umidità.

Durante le passate glaciazioni, inoltre, la vasta copertura di ghiaccio che ricopriva buona parte dell’emisfero nord spinse il freddo verso limiti quasi intollerabili, costringendo i nostri antenati a difendersi dal clima rigido sfruttando ogni risorsa a disposizione.

Sopravvivere all’inverno durante i secoli passati richiedeva duro lavoro e una lunga preparazione. Tra le attività di primaria importanza c’erano la conservazione dei prodotti della terra, estivi e autunnali, la raccolta del legname necessario ad alimentare il focolare domestico e la messa all’ingrasso del bestiame, specialmente i maiali.

Pseudo-ibernazione

Sonno

Fino a non molto tempo fa, in Francia e in Russia era usanza dormire svariate ore durante la sezione diurna della giornata. Un documento del 1844 spiega che la maggior parte della gente “spende la giornata a letto, stringendosi l’uno con l’altro per stare caldi e mangiando meno cibo”.

Sulle Alpi era consuetudine dormire con vacche e maiali durante i mesi invernali per sfruttare il calore prodotto dal bestiame, mentre il British Medical Journal riportò agli inizi del 1900 che nella regione russa di Pskov gli abitanti dormivano circa metà giorni dell’anno, alzandosi dal letto solo per mangiare qualche pezzo di pane e badare al focolare.

Dormire nello stesso letto fu una strategia molto comune in tutto il mondo: i bambini dormivano insieme per tenersi al caldo, indossando uno strato aggiuntivo di vestiario adatto a proteggerli dal freddo della notte.

Zuppe e grasso

Timeline e storia del cibo e delle ricette

Durante il Medioevo russo le temperature crollavano così rapidamente col sopraggiungere dell’inverno che era di fatto impossibile lavorare nei campi da fine settembre a inizio febbraio.

I contadini erano in grado di sopravvivere nutrendosi di ciò che avevano raccolto durante i mesi più caldi: granaglie, verdure e frutta erano gli ingredienti più comuni per realizzare zuppe calde, ma venivano impiegati anche formaggi, uova e carne di ogni tipo (se disponibile).

Secondo la teoria umorale, l’umore dominante dell’inverno era il flegma, capace di causare pigrizia e malattie associate al freddo. Il testo del XIV secolo Secretum Secretorum consiglia di consumare fichi, uva, vino rosso e pasti caldi per combattere gli effetti del flegma, e di evitare salassi, lassativi e rapporti sessuali.

Gli alimenti ad elevato contenuto di grasso, grazie al loro apporto energetico, erano l’ideale per i freddi inverni. Il grasso animale, inoltre, poteva essere impiegato come unguento “antigelo”: ricoprendo il corpo di grasso d’orso o d’anatra si respinge l’umidità e si contribuisce a trattenere il calore corporeo.

Diversi tipi di casa
Il wigwam (o wikiup), la capanna dei nativi americani
Il wigwam (o wikiup), la capanna dei nativi americani

Charles Hudson, autore del libro “The Southeastern Indians” (Knoxville: Univ. of Tennessee Press, 1976), sostiene che nonostante le temperature delle Smoky Mountains scendessero sotto lo zero durante l’inverno, i nativi Cherokee indossavano pochi indumenti, ben poco adatti a proteggerli dal gelo.

La loro principale strategia di sopravvivenza durante l’inverno consisteva nella costruzione di residenze estive e case più adatte alla vita invernale, come i wigwam descritti in questo post.

Le case invernali venivano isolate utilizzando corteccia, erba e foglie incastrate in telai di legno resistente alla putrefazione. Nel Massachusetts, ad esempio, i nativi utilizzavano legno di cedro, che impiega da 15 a 20 anni per iniziare a decomporsi se inserito nel terreno, e corteccia estratta dallo stesso albero; in questo modo, la temperatura interna dei wigwam poteva rimanere costantemente sopra i 20 gradi.

Ogni abitazione invernale era dotata di panche ricoperte da stuoie di canne di fiume e pelli animali, e veniva riscaldata da un focolare centrale che distribuiva calore in tutta la struttura.

Il compito di mantenere il fuoco era spesso affidati agli anziani, che generalmente trascorrevano più tempo tra le mura domestiche, ed era un’attività di primaria importanza. “Gli esploratori europei che visitarono queste case invernali si lamentarono del fumo e della scarsa ventilazione, ma queste abitazioni erano in grado di mantenere efficientemente il calore” spiega Hudson. “Una piccola brace manteneva la casa invernale calda come un forno. Sotto i letti si conservavano zucche e altre verdure per proteggerle dal gelo”.

Abbigliamento

Abbigliamento invernale

La fabbricazione di abbigliamento fu uno degli elementi che consentirono l’espansione dell’essere umano verso Nord. Man mano che si spostavano dalle regioni equatoriali, i nostri antenati si trovarono ad affrontare il susseguirsi delle stagioni per la prima volta.

Se in primavera e in estate la natura forniva loro tutto il necessario per sopravvivere, durante l’inverno la disponibilità di cibo calava drasticamente, a tal punto da non consentire ad alcun primate (ad eccezione dell’essere umano) di sopravvivere.

Oltre ad essere forzati ad immagazzinare provviste per la stagione fredda, i nostri antenati furono anche costretti a realizzare indumenti in grado di proteggerli dalle intemperie e dalle basse temperature, specialmente considerando che alcuni dei primi esploratori delle regioni più settentrionali non conoscevano la manipolazione del fuoco.

I primi Sapiens

L’analisi degli antichi insediamenti umani dell’ Età della pietra hanno rivelato una presenza massiccia di ossa appartenute ad animali da pelliccia, come conigli, volpi e visoni. In una cinquantina di siti sono state rinvenute anche ossa di ghiottoni, la cui pelliccia viene ancora oggi utilizzata per realizzare i parka dei popoli artici.

“La pelliccia di ghiottone è la miglior pelliccia naturale per fabbricare i parka” spiega Mark Collard, professore di archeologia all’ Università di Aberdeen. “Fornisce una protezione eccellente contro il vento, ripara bene dalla brina ed è estremamente durevole”.

Gli abiti dei primi Sapiens venivano cuciti utilizzando aghi d’osso e utensili di pietra per raschiare le pelli. L’abbigliamento invernale non solo consentiva di sopravvivere all’inverno, ma anche di rendere più efficiente la caccia: dato che il principale metodo venatorio era l’agguato, un indumento in grado di tenere al caldo si rivelò un oggetto vincente durante i lunghi appostamenti che precedevano l’attacco ad una preda.

Prima dell’età del ferro

Grazie a Ötzi sappiamo come i suoi contemporanei dell’Età del rame si proteggevano dal freddo. L’ abbigliamento di Ötzi è interamente realizzato in pelle, pelliccia e materiale vegetale, materiali cuciti insieme da fibre vegetali o tendini.

La sopravveste di Ötzi lo copriva fino quasi al ginocchio e fu realizzata con pelliccia di capra e di pecora, avendo cura di tenere il pelo rivolto verso l’esterno. I gambali, una sorta di calzoni, sono anch’essi di capra e pecora, con i bordi rinforzati da strisce di pelle; venivano mantenuti in posizione grazie a legacci agganciati alla cintura e una linguetta che li fissava alle calzature.

Le scarpe di Ötzi furono realizzate a strati: la struttura interna era costituita da una rete di fibre di tiglio imbottita con erba secca, per ottenere un discreto isolamento termico. Il rivestimento esterno era in pelle di cervo, mentre la suola fu realizzata con pelliccia rivolta verso l’interno.

Romani

Nell’immaginario collettivo i Romani indossavano sandali e tuniche, un vestiario adatto al clima Mediterraneo ma ben poco efficace nelle regioni periferiche dell’impero. In Gallia o in Gran Bretagna, l’abbigliamento dei Romani era ben differente.

Il primo degli indumenti utilizzati per proteggersi dal freddo era il mantello, che si presentava in due principali varianti: la paenula, un mantello dotato di cappuccio, e il sagum, largo e pesante, capace di trattenere il calore corporeo.

Gli udones (calzini) erano fondamentali per la sopravvivenza nei climi più rigidi e venivano spesso inviati dalle famiglie ai parenti dislocati nelle regioni fredde. I pantaloni, considerati a Roma un indumento barbaro tipicamente indossato da tribù celtiche e germaniche, furono particolarmente apprezzati dai legionari romani in Gallia e in Dacia per la loro capacità di mantenere calde le gambe.

Medioevo

L’abbigliamento invernale di un contadino medievale era semplice: uno strato esterno di lana e indumenti intimi di lino. Lo strato di lino consentiva di tollerare il prurito causato dalla lana a contatto con la pelle e veniva lavato relativamente spesso, contrariamente allo strato esterno.

Il fumo del focolare, grazie alle numerose ore trascorse in casa, permeava gli indumenti di lana, contribuendo a ridurre gli odori molesti della lana non lavata. Se mantenuta con cura, la lana non trattata risulta parzialmente impermeabile, ma finisce inevitabilmente per inzupparsi sotto una pioggia abbondante.

Guanti, mantelli e cappelli di lana erano indumenti abbastanza comuni. Le scarpe erano generalmente prerogativa dei più abbienti, mentre gli stivali di cuoio non erano una rarità. I contadini generalmente non indossavano calzature.

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Fonti per “Antiche strategie per la sopravvivenza invernale”:

Surviving Winter in the Middle Ages
Surviving the Winter: Medieval-Style
How Did People Survive the Winter Hundreds of Years Ago?
L’abbigliamento di Ötzi
Ancient Cherokees found protection from the cold
How humans evolved to live in the cold
Early Europeans unwarmed by fire
How Parka jackets saved early humans from the chilly fate of the Neanderthals

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Leggende oscure delle festività natalizie https://www.vitantica.net/2019/12/09/leggende-oscure-delle-festivita-natalizie/ https://www.vitantica.net/2019/12/09/leggende-oscure-delle-festivita-natalizie/#comments Mon, 09 Dec 2019 00:03:41 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4722 E’ quasi Natale, un periodo che ognuno di noi è abituato ad immaginare come ricco di doni, di gioia e di amore, oltre che di spese esorbitanti capaci di prosciugare un conto corrente. In passato (e in alcune tradizioni sopravvissute fino ad oggi) il Natale era invece un periodo oscuro, popolato da demoni e personaggi per nulla simili al giocondo Babbo Natale.

Krampus

Creature di origine tedesca che accompagnano San Nicola durante la processione natalizia. I Krampus sono entità che popolano il folklore di molte tradizioni natalizie dell’Europa centrale da più di 500 anni.

I Krampus (“morto”, “putrefatto” o “artiglio”) sono creature malvagie dall’aspetto cornuto, animalesche e in costante ricerca da bambini che non si sono comportati bene. Hanno origine da una superstizione pre-cristiana nata intorno al VI-VII secolo d.C. e legata al solstizio d’inverno: secondo la tradizione, in un tempo non meglio precisato alcuni ragazzini provenienti da villaggi colpiti da carestia iniziarono a travestirsi da demoni cornuti ricoperti di pelliccia, spaventando gli abitanti per rubare provviste.

Dopo qualche tempo, i ragazzi si resero conto che tra loro c’era una creatura non umana, un vero demone dalle zampe di capra che si era infiltrato nel gruppo. San Nicola riuscì ad esorcizzare il demone; per penitenza, i ragazzini, ogni anno, iniziarono a travestirsi da demoni non più con l’obiettivo di rubare, ma con quello di punire i bambini cattivi.

Re degli Stolti

Re degli Stolti

La tradizione del “Lord of Misrule” ha la sua origine dal festival romano Natalis Solis Invicti e dai Saturnalia, e prevedeva la nomina di un “Abate dell’Irragionevolezza” (o “Re degli Stolti”), solitamente un contadino, un artigiano o un sacerdote di basso rango.

In base alla località e al livello di tolleranza delle autorità locali, all’ Abate era concesso di tutto, dal bere alcolici senza sosta al sesso senza regole. Il Re degli Stolti veniva temporaneamente investito dell’impunità e del potere solitamente concessi ad alti prelati e governatori locali, e la sua nomina iniziava con il Festa degli Stolti, una celebrazione lunga diversi giorni in cui la blasfemia veniva tollerata.

Non era raro che i contadini che entravano in città per le loro attività quotidiane venissero aggrediti o derubati, o diventassero vittima di scherzi di pessimo gusto ideati dall’ Abate. Anche i prelati di ogni rango non erano immuni alle conseguenze del Festival, e i soldati spendevano buona parte delle loro paghe in donne a alcol senza alcun timore di mettere in ridicolo il potere dei loro superiori.

La Festa degli Stolti fu spesso condannata dalla Chiesa, che cercò di limitare o di bandire la celebrazione. A Parigi nel XII secolo il ruolo dell’ Abate fu ristretto, ma furono necessari quasi tre secoli per una reale messa al bando: nel 1431 la festività fu ufficialmente condannata come immorale e blasfema, prevedendo pene severe per chi avesse continuato a celebrarla.

Natale islandese

Gryla

Il Natale del folklore islandese è popolato non da uno, ma da ben 16 personaggi per nulla benevoli. Gryla e Leppaludi, ad esempio, sono due giganti (o troll) particolarmente affamati di bambini cattivi, che vengono cucinati in un enorme pentolone da Gryla mentre Leppaludi, estremamente pigro, si riposa nella sua caverna.

Il Gatto di Yule, invece, è un enorme felino che si aggira tra la neve durante il periodo natalizio, cibandosi di malcapitati che non hanno ricevuto in dono alcun vestito nuovo prima della notte di Natale. Il Gatto di Yule è l’animale domestico di Gryla e della sua famiglia e veniva impiegato come espediente per incentivare la lavorazione domestica della lana durante l’autunno.

I Ragazzi di Yule, invece, sono i figli di Gryla e Leppaludi, un nutrito gruppo di 13 giovani giganti con l’abitudine di rubare o di infastidire la popolazione locale. Ognuno ha un nome che descrive il suo passatempo preferito o una caratteristica distintiva: Stúfur (“Tozzo”), ad esempio, è un gigante particolarmente basso che ruba pentole per cibarsi delle loro incrostazioni, mentre Gluggagægir (“Spione”) ha l’abitudine di sbirciare dalle finestre in cerca di oggetti da rubare.

I Ragazzi di Yule scendono nei villaggi uno per uno a partire dalla tredicesima notte prima di Natale, lasciando piccoli regali nelle scarpe dei bambini buoni o una patata in quelle dei bimbi cattivi. Il verso di un’ antica ninnananna cita anche altre due figure simili ai figli di Gryla: si tratta di due giganti femmine che rubano grasso fuso infilandoselo nelle narici o nei calzini.

Frau Perchta

Frau Perchta

Alcune tradizioni natalizie centro europee contemplano l’esistenza di una strega chiamata Frau Perchta (chiamata anche Bertha, o Frau Faste in Slovenia). Questa strega consegna doni o dispensa castighi durante i 12 giorni del Natale (dal 25 dicembre al 6 gennaio), e le punizioni che infligge non sono per nulla simboliche: estrae con violenza gli organi interni di un bambino per rimpiazzarli con paglia e roccia.

Perchta ha due forme con cui si presenta ai mortali: la prima è bellissima, una donna dalla pelle bianca come la neve; la seconda invece è una vecchina orribile con un piede enorme e il naso adunco, vestita di stracci.

Durante il periodo natalizio, Perchta visita ogni casa intuendo istantaneamente se un bambino si è comportato bene o male durante l’anno. Nel primo caso, può lasciare una piccola moneta d’argento all’interno di una scarpa; nel caso di bambino disubbidiente, invece, apre il ventre del poveretto, estrae stomaco e budella e le riempie con paglia e sassi.

In origine la figura di Perchta era vista come protettrice dei tabù culturali, come il divieto di filare durante le feste. Durante le sue visite, la strega si dimostra particolarmente attenta nel controllare che le ragazze della casa abbiano filato e cucito tutto ciò che dovevano durante l’anno.

Hans Trapp

Hans Trapp

Nel folklore natalizio dell’Alsazia esiste la figura di Hans Trapp, un accompagnatore di San Nicola considerato per molto tempo una figura demoniaca.

Secondo la leggenda, Hans Trapp era un uomo particolarmente ricco e avido, oltre che malvagio e adoratore del demonio. Finì per essere scomunicato dalla Chiesa ed esiliato nella foresta, dove iniziò a mietere vittime tra i poveri bambini che si avventuravano incauti nel bosco.

Camuffandosi da spaventapasseri, continuò ad aggredire le sue giovani vittime fino a quando Dio stesso, stanco delle sue malefatte, decise di ucciderlo con un fulmine, senza tuttavia finirlo per sempre e costringendolo a vagare nel mondo terreno sotto forma di spettro per guadagnarsi il paradiso.

Ogni anno, Hans Trapp fa la sua apparizione con l’arrivo di San Nicola, vestito di pelli animali o con le sembianze di uno spaventapasseri, per spaventare i bambini e farli comportare bene durante l’anno venturo.

La leggenda di Hans Trapp ha origine da una figura realmente esistita, un cavaliere del XV secolo di nome Hans Von Troth. Von Troth godeva di una pessima reputazione in Germania: ordinò la chiusura del fiume Wieslauter, tagliando il rifornimento d’acqua nella città di Weissenburg e dando inizio ad una faida con l’abate locale.

Per pura vendetta verso l’abate, Von Troth decise quindi di abbattere la diga che bloccava il fiume, inondando Weissenburg e causando danni incalcolabili. Nel 1491 in cavaliere fu richiamato a Roma per rispondere delle sue malefatte, ma il suo rifiuto di presentarsi lo portò alla scomunica.

Stregoni e non-morti

Wild Hunt

Prima dell’arrivo della cristianità, le popolazioni germaniche e britanniche celebravano lo Yule, il festival di metà inverno. Durante il periodo di celebrazione si verificavano numerosi eventi soprannaturali, come la Wild Hunt (“Caccia selvaggia”).

La Wild Hunt era una sorta di battuta di caccia, guidata da Odino nelle culture norrene o da altre figure leggendarie come re Artù, composta da entità mostruose e non-morti. La processione avanza come un’armata e se qualche mortale osa presentarsi di fronte alla parata verrà punito severamente; se invece contribuisce alla caccia potrebbe essere ricompensato con oro, monete o la zampa di un animale.

I ranghi dei defunti sono popolati da coloro che sono morti prematuramente, come bambini non battezzati o soldati caduti. Nel folklore della Lunigiana, la Caccia Infernale è composta da cani soprannaturali e spiriti aggressivi, e il suo passaggio è preceduto da folate di vento glaciale.

Père Fouettard

Père Fouettard

Un altro accompagnatore di San Nicola nel folklore francese è Père Fouettard: mentre il santo dispensa doni ai bambini buoni, Père distribuisce carbone e frusta quelli cattivi.

La prima occorrenza di Père Fouettard nella documentazione storica risale al 1150. Secondo la leggenda, un oste catturò tre bambini di buona famiglia e li uccise per derubarli tagliando loro la gola, facendoli a pezzettini e gettandoli in un barile.

San Nicola scoprì il misfatto e decise di resuscitare i bambini. Di fronte alle sue colpe, Père Fouettard decise di pentirsi e diventò l’accompagnatore del santo come punizione per le sue malefatte.

La raffigurazione più comune di Père Fouettard è quella di un uomo anziano dalla faccia sinistra, con capelli arruffati e una lunga barba. Père porta sempre una frusta e talvolta ha sulle spalle uno zaino in cui rinchiude i bambini cattivi. Secondo la tradizione, il suo viso è nero a causa della fuliggine dei camini che Père e San Nicola usano come via d’accesso alle case che visitano.

Babbo Natale?

Babbo Natale

Giusto per chiarire: sono cresciuto credendo all’esistenza di Babbo Natale e alla sua innata bontà. Non si tratta di un attacco alla figura natalizia più amata dai bambini di tutto il mondo; ma se si scava a fondo, il buffo omone in bianco e rosso ha le caratteristiche tipiche di una persona potenzialmente pericolosa.

Riflettiamo per un momento sul personaggio di Babbo Natale: sorveglia costantemente ogni bambino (o usa i suoi “elfi” per farlo) allo scopo di determinare se si è comportato bene o male durante l’arco dell’anno; arriva durante la notte, calandosi da un camino silenziosamente, non invitato, per lasciare doni e dolci ai bambini; come se non bastasse, in molte tradizioni natalizie è usanza lasciargli qualcosa da mangiare (come latte e biscotti) in modo che possa rifocillarsi prima di continuare il suo giro notturno.

He sees you when you’re sleeping. He knows when you’re awake“, dice una celebre canzone di Natale. Babbo Natale è una figura onnipotente che spia i bambini in ogni istante, osservandoli mentre dormono. Nella sua “versione San Nicola” è spesso accompagnato da un aiutante malvagio, che punisce fisicamente i bambini cattivi o li terrorizza per farli comportare bene (senza contare le terribili punizioni di Frau Perchta).

Di fatto, Babbo Natale è un anziano con problemi di peso che veste in modo stravagante, regala dolci e giochi e si intrufola di nascosto nelle case di tutto il mondo per osservare bambini che dormono.

THE DARK SIDE OF CHRISTMAS
Lord of Misrule
All The Reasons Christmas Is Actually A Far More Horrifying Holiday Than Halloween
Icelandic Christmas folklore
8 Legendary Monsters of Christmas

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Uguaglianza di genere tra i popoli norreni https://www.vitantica.net/2019/11/08/uguaglianza-di-genere-popoli-norreni/ https://www.vitantica.net/2019/11/08/uguaglianza-di-genere-popoli-norreni/#comments Fri, 08 Nov 2019 00:10:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4677 I Paesi scandinavi sono oggi considerati un modello di uguaglianza di genere, ma da dove deriva questo aspetto culturale? Secondo Laura Maravall e Jörg Baten, storici che lavorano per il Collaborative Research Center “ResourceCultures” dell’università di Tübingen, si tratta di una caratteristica delle società scandinave risalente all’epoca vichinga.

Secondo le analisi di ossa e denti appartenuti a individui norreni vissuti tra l’ VIII e l’ XI secolo, le donne di ogni età potevano vantare un livello di salute media pari o più alto rispetto agli uomini, pur disponendo delle stesse possibilità di accesso al cibo.

Global History of Health Project

Lo studio si basa sulle informazioni relative alla popolazione europea raccolte dal Global History of Health Project, un progetto che ha classificato i dati dei resti umani rinvenuti in oltre un centinaio di siti archeologici europei e che coprono un segmento temporale di circa 2.000 anni.

Secondo i ricercatori, se una persona è malnutrita o seriamente ammalata in giovane età, lo smalto dei denti sosterrà danni permanenti. “Abbiamo ipotizzato che se le bambine e le donne ricevevano meno cibo e attenzioni rispetto ai membri maschili della società, avrebbero mostrato più danni allo smalto” spiega Maravall.

“Il livello di differenza tra i valori di uomini e donne” continua la ricercatrice, “è quindi anche una misura dell’uguaglianza di genere all’interno della popolazione”. La corrispondenza tra i danni allo smalto e lo stato generale di salute è stato dimostrato dalle misurazioni effettuate sulle ossa; in particolare, la lunghezza dei femori ha fornito informazioni sull’altezza degli individui analizzati, un indicatore connesso ad una buona dieta e ad un buono stato di salute.

Donne di città e di campagna

“Queste donne dei paesi nordici potrebbero essere alla base del mito delle Valchirie: erano forti, in salute e alte” sostiene Baten. Ma secondo gli stessi ricercatori, la situazione negli insediamenti urbani scandinavi era differente.

Nelle città svedesi di Lund e Sigtuna, ad esempio, in corrispondenza dell’odierna Stoccolma, e nella città di Trondheim in Norvegia, si svilupparono dei sistemi di classi sociali con l’arrivo del Medioevo. Le donne di città non godevano degli stessi diritti di chi viveva in campagna.

L’uguaglianza tra i sessi all’esterno delle città sembra essere stata legata alle attività d’allevamento. “Curare i campi era un’attività principalmente svolta dagli uomini perché richiedeva una maggiore forza muscolare; ma allevare animali consentiva alle donne di contribuire molto all’economia familiare. Questo ha probabilmente innalzato la loro posizione nella società” afferma Baten.

Donne tutelate ma dai ruoli ben distinti

Anche se le donne norrene godevano di maggiori privilegi e libertà rispetto a quelle che vivevano sul bacino del Mediterraneo, il loro ruolo era ben differenziato da quello degli uomini.

Da una parte, le donne erano sempre sottoposte all’autorità del padre o del marito, con una libertà limitata su ciò che potevano possedere. Non potevano partecipare all’attività politica e non potevano diventare capi militari (goði), giudici, testimoni attendibili in procedimenti giudiziari e non avevano voce in capitolo nelle assemblee.

In ogni caso, le donne godevano di rispetto nella società norrena. Amministravano le finanze del nucleo familiare, dirigevano le attività quotidiane in assenza del marito, e una volta divenute vedove potevano mantenere le proprietà del marito e possedere terreni.

Uguaglianza di genere tra i popoli norreni

Uccidere una donna era considerato un atto spregevole, anche se accidentale, specialmente se condotto entro le mura di casa. Anche violenza “leggera” nei confronti delle donne era inaccettabile: nella saga di Droplaugarsona, uno degli uomini di Helgi lancia una palla di neve a Tordis, venendo immediatamente rimproverato perché “è stupido portare attacchi fisici ad una donna”.

La legge scandinava, inoltre, proteggeva le donne da attenzioni indesiderate, ad esempio prevedendo una serie di pene per contatti di natura sessuale non consenzienti. La saga di Kormáks racconta l’incontro tra Kormákr e Steingerðr: sedutosi vicino alla donna, Kormákr la bacia per ben quattro volte senza alcun accenno di assenso, causando le ire di Torvaldr e vedendosi costretto a pagare due once d’oro come multa per il suo atto sconsiderato.

Le donne avevano una vastissima gamma di responsabilità: preparare il cibo, tenere pulita la casa, fare il bucato, occuparsi dei figli, mungere e accudire il bestiame. La donna era responsabile di ogni cosa all’interno delle mura domestiche, mentre l’uomo si occupava di attività più propriamente maschili per la società norrena.

La magia era considerata un’attività pericolosa e prettamente femminile. Non sono rari i casi di donne uccise perché accusare di stregoneria, e la pratica della magia era qualcosa che nessun uomo avrebbe mai sperimentato per non veder messa in dubbio la propria mascolinità.

Le responsabilità e i sospetti di stregoneria, tuttavia, erano accoppiati a un’insolita libertà personale per il mondo antico. Potevano richiedere il divorzio quando volevano e trattenere i loro averi nel caso il matrimonio fosse terminato.

Anche se quasi tutti i matrimoni erano combinati dalle famiglie quando una ragazzina raggiungeva un’età compresa tra i 12 e 15 anni, le future spose avevano l’ultima parola nell’unione e potevano rifiutarsi di sposare un marito a loro non congeniale.

Una volta divenute vedove, le donne norrene potevano prendere il posto del marito e condurre affari come un uomo di pari livello sociale. Molte donne scandinave furono sepolte con ricchi corredi funerari, suggerendo che avessero conquistato una tale fame e un così alto ruolo nella società da essere considerate personaggi molto rilevanti e influenti, se non addirittura temuti.

Fonti per: “Uguaglianza di genere tra i popoli norreni”

Valkyries: Was gender equality high in the Scandinavian periphery since Viking times? Evidence from enamel hypoplasia and height ratios
The Role of Women in Viking Society
What Was Life Like for Women in the Viking Age?
VIKING GENDER ROLES

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La biacca, o bianco di piombo https://www.vitantica.net/2019/10/04/biacca-cerussa-bianco-di-piombo/ https://www.vitantica.net/2019/10/04/biacca-cerussa-bianco-di-piombo/#respond Fri, 04 Oct 2019 00:10:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4558 La biacca, o bianco di piombo, fu uno dei pigmenti più impiegati nel corso della storia antica. Le sue caratteristiche cromatiche e la relativa semplicità del metodo di produzione la resero un colorante molto popolare per la fabbricazione di cosmetici o di colori per utilizzi artistici.

Pigmento e cosmetici

La biacca è composta in buona parte da un sale di piombo (carbonato basico di piombo II) bianco e inodore, che in natura si trova in un minerale chiamato cerussite (da cui deriva il nome “cerussa”). Estrarre il carbonato basico di piombo dalla cerussite non è un procedimento semplice quanto estrarre il metallo “puro” dai minerali che lo contengono, metodo conosciuto da almeno 3.500 anni e documentato in alcuni papiri egizi.

Il piombo riscosse un enorme successo nel mondo antico per via della sua facilità di lavorazione: è tenero, denso, duttile e malleabile, può essere lavorato a temperature relativamente basse rispetto ad altri metalli (fonde a 327 °C) e si trova spesso in minerali che contengono rame e argento, due metalli particolarmente importanti nell’antichità.

La cerussa fu utilizzata per secoli come pigmento bianco (di fatto, uno dei due pigmenti bianchi – insieme al carbonato di calcio – realmente coprenti disponibili nell’antichità), sia per la pittura che per la produzione di cosmetici come la cerussa di Venezia, uno sbiancante per la pelle molto in voga nel XVI – XVII secolo.

Elisabetta I d’Inghilterra fu una delle più assidue utilizzatrici della cerussa veneziana, che applicava sul volto ad ogni occasione pubblica. La contessa Maria Coventry, morta all’età di 27 anni nel 1760, fu anch’essa un’amante della cerussa, pigmento che probabilmente fu la causa principale della sua morte: per coprire l’acne, usava in modo massiccio pomate al bianco di piombo senza sapere che, in realtà, erano proprio quei cosmetici a causare gli sfoghi cutanei sul viso; Maria Coventry morì per avvelenamento da piombo causato dall’uso costante di biacca.

Come si produceva la biacca

Il bianco di piombo si ottiene tramite un processo di corrosione del piombo causato da un acido; in passato si utilizzava l’acido acetico. Il procedimento di corrosione fu descritto per la prima volta da Teofrasto di Ereso nel III secolo a.C. e prevedeva l’utilizzo di contenitori di terracotta riempiti con l’aceto più potente a disposizione, recipienti in cui venivano inserite scaglie o spirali di piombo per esporle alla corrosione per circa 10 giorni.

Successivamente, i contenitori venivano aperti, il piombo estratto e il carbonato di piombo (cristalli bianchi formatisi sul metallo) asportato e conservato; il piombo rimanente veniva riutilizzato per produrre altra cerussa.

Il sale di piombo subiva quindi una tritatura molto fine e una lunga bollitura in acqua. Al termine della bollitura, la mistura di acqua e carbonato di piombo veniva lasciata a decantare per far precipitare i sali sul fondo del contenitore e lasciar evaporare l’acqua, ottenendo così polvere di biacca.

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Ciò che viene definito “metodo olandese” si basa sullo stesso procedimento descritto da Teofrasto e usato da Greci, Egizi e Romani, ma utilizza l’anidride carbonica per catalizzare la corrosione e incrementare la produzione di biacca.

Per produrre grandi quantità di biacca si utilizzavano contenitori d’aceto e piombo posizionati a strati che si estendevano verticalmente: ogni livello di recipienti veniva ricoperto da uno strato di letame e corteccia da concia che fornivano anidride carbonica ai processi corrosivi del piombo grazie alla decomposizione naturale della materia organica.

Dopo aver raschiato i recipienti per rimuovere i sali di piombo, i cristalli venivano tritati con apposite macine contenenti olio di semi di lino. In questo modo, non era necessario far bollire ed essiccare la polvere di biacca, ma si otteneva una crema oleosa facile da trasportare e già pronta per l’utilizzo come cosmetico.

Grande richiesta e grandi rischi per la salute

Pigmenti bianchi come la biacca non erano comuni nel mondo antico. Il bianco di piombo era considerato il miglior pigmento in circolazione, specialmente per la decolorazione della pelle e per l’impiego nella pittura a olio, dato che il carbonato di calcio, chiamato “bianco San Giovanni“, era meno coprente.

I cosmetici a base di cerussa, spesso un semplice mix di bianco di piombo, acqua e aceto, divennero i pigmenti per la pelle più ricercati e desiderati dalle donne dei secoli passati. L’utilizzo della biacca risale addirittura all’antico Egitto, dove veniva impiegata come fondotinta; nel teatro antico la biacca era uno dei trucchi di scena più comuni.

Margot Robbie nei panni della regina Elisabetta I, assidua utilizzatrice di cerussa
Margot Robbie nei panni della regina Elisabetta I, assidua utilizzatrice di cerussa

Nel corso del XVIII secolo divenne pratica comune utilizzare vernici a base di bianco di piombo per rivestire le chiglie delle navi della Royal Navy britannica, per impermeabilizzare il legname della struttura e limitare le infestazioni da parassiti.

Anche se, nel mondo antico, il legame tra piombo e avvelenamento era cosa abbastanza nota, durante il Medioevo la letteratura medica dimenticò quasi completamente il problema. Ad esempio, l’acetato di piombo veniva comunemente impiegato come dolcificante per vino e sidro, con conseguenze terribili per la salute.

A partire dal XV secolo l’avvelenamento da piombo divenne una vera e propria piaga; nel XVI secolo Paracelso riporto alla luce la problematica dell’avvelenamento da piombo (che lui definiva “malattia del minatore”), ma trascorsero altri secoli prima di vedere seri interventi per limitare l’uso di questo metallo.

Fonti per “La biacca, o bianco di piombo”

White lead
Lead paint
Venetian ceruse
Lead Poisoning in a Historical Perspective

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La maledizione del fruttivendolo https://www.vitantica.net/2019/05/22/maledizione-del-fruttivendolo/ https://www.vitantica.net/2019/05/22/maledizione-del-fruttivendolo/#respond Wed, 22 May 2019 00:10:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4177 Dopo quasi 90 anni dalla sua scoperta all’interno di un’antica fonte della città di Antiochia, è stata decifrata interamente una lamina di piombo risalente a 1.700 anni fa. L’iscrizione si è rivelata essere una maledizione invocata contro un fruttivendolo.

Maledetto fruttivendolo

Scritto in greco su una lamina di piombo, il testo invoca la potenza di Dio (Iao, uno dei nomi con cui ci si riferiva a Yahweh) contro un uomo di nome Babylas, un venditore di frutta e verdura. La tavoletta riporta anche il nome della madre della vittima, Dionysia.

L’artefatto è stato scoperto in un pozzo di Antiochia intorno agli anni ’30 del 1900, ma al tempo della scoperta fu effettuata solo una traduzione parziale. Il lavoro di traduzione completa è stato eseguito da Alexander Hollmann della University of Washington nel 2012.

La maledizione recita:

“O Iao che scagli lampi e saette, colpisci, colpisci e abbatti Babylas il venditore di frutta. Come hai colpito il carro del faraone, colpisci la sua offesa. O Iao che scagli lampi e saette, come uccidesti il primogenito d’Egitto, uccidi il suo bestiame […]”.

L’artefatto è singolare, perché fino ad ora non era mai stata rinvenuta una maledizione contro un fruttivendolo. Esistono diverse tavolette magiche che hanno come bersaglio  gladiatori, sovrani e mercanti, ma mai ad un venditore di frutta.

La lastra di piombo che riporta incisa la maledizione
La lastra di piombo che riporta incisa la maledizione

“In alcune maledizioni vengono citate altre persone e la loro professione, ma non mi sono mai imbattuto in un fruttivendolo” afferma Hollmann.

Non è noto il nome della persona che scagliò  la maledizione contro il povero venditore di frutta, per cui si può soltanto ipotizzare la causa scatenante del maleficio.

“Ci sono maledizioni legate ad affari di cuore, ma questa non ha lo stesso tipo di linguaggio. Non è da escludere che la ragione fosse legata a motivi di business o commerciali. Ogni mercante aveva la sua zona, il suo territorio, e le rivalità erano comuni”.

Il nome “Babylas” suggerirebbe che il bersaglio del maleficio fosse un cristiano. Babylas era infatti il nome del Vescovo di Antiochia, ucciso intorno al III° secolo per via delle sue credenze religiose.

Nomi potenti

Il linguaggio usato nell’iscrizione ha inizialmente fatto pensare che l’autore fosse ebreo. “Non credo ci sia necessariamente una connessione con la comunità ebraica. La magia greca e romana incorporava testi ebraici senza nemmeno comprenderli interamente”.

Il riferimento al Vecchio Testamento potrebbe essere legato esclusivamente alla potenza che si attribuiva al testo sacro. “Potrebbe semplicemente essere che il Vecchio Testamento fosse considerato un testo molto potente, e la magia gioca con testi e nomi potenti. E’ questo che fa funzionare la magia, o che fa credere alla gente che funzioni”.

La lastra di piombo che riporta incisa la maledizione

I katadesmos

La tavoletta è molto simile alle “tavole magiche” (katadesmos) greche, tipicamente incise nel piombo a piccole lettere e sepolte nei pressi di tombe o santuari per ingraziarsi i favori delle entità sovrannaturali.

Uno dei più celebri katadesmos è la tavola di Pella, un testo inciso su un rotolo di piombo. Secondo la ricostruzione degli archeologi, Dagina, colei che incise la tavoletta, si rivolge a divinità soprannaturali per impedire che Dionysophon, il suo amato, non sposi Thetima, una rivale in amore.

Il rotolo recita:

“Sulle nozze di [Theti]ma e Dionysophon io invoco una maledizione, su tutte le altre
donne, vedove e vergini, ma in particolare su Thetima, e mi affido a Makron e
[ai] demoni che solo quando io scavo e srotolo e ri-leggo questo,
possono loro sposare Dionysophon; ma non prima; e non possa lui sposare qualsiasi donna, ma me;
e io possa diventare vecchia insieme a Dionysophon, e nessun altro; Io [sono] la tua supplicante:
Abbiate pietà della [vostra cara] Dagina(?), cari demoni, perché io sono abbandonata da tutti i miei cari.
Ma tenete presente la mia causa, in modo tale che questi eventi non accadano e la misera Thetima perisca miseramente
e a me concedete gioia e felicità.”

Nelle tavolette greche katadesmos si citano spesso divinità come Ermes, Caronte, Ecate e Persefone, oltre che i nomi dei cari estinti, per infondere potenza all’incantesimo. Il riferimento a Yahweh nella tavoletta di Antiochia, quindi, potrebbe essere soltanto l’evocazione dell’entità divina più potente della regione.

Deciphered Ancient Tablet Reveals Curse of Greengrocer

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Video: Sex and the (Medieval) City https://www.vitantica.net/2019/05/11/video-sex-and-the-medieval-city/ https://www.vitantica.net/2019/05/11/video-sex-and-the-medieval-city/#respond Sat, 11 May 2019 15:00:32 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4206 Eleanor Janega è insegnante al Department of International History della London School of Economics and Political Science e autrice del blog “Going Medieval“.

Insieme a Danièle Cybulskie, speaker del “The Medieval Podcast”, analizza alcuni aspetti della sessualità medievale: perché le vedove erano considerate sexy? Perché sono quasi inesistenti riferimenti all’omosessualità nei testi medievali? Come erano fatti i dildo medievali?

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Medieval Sexuality with Eleanor Janega

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