conservazione – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Chuño, le patate liofilizzate degli Inca https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/ https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/#comments Tue, 03 Sep 2019 08:00:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4490 Per estendere la durata di alcuni alimenti facilmente deperibili i nostri antenati escogitarono numerose strategie di conservazione: disidratazione, salagione, stanze fredde e ventilate (come lo yakchal) o piccoli contenitori ad evaporazione funzionarono egregiamente per millenni prima dell’avvento dei frigoriferi moderni.

Precedentemente all’incontro con gli Europei, gli abitanti delle Ande, la cui alimentazione era tradizionalmente legata con le patate, escogitarono un sistema del tutto naturale per conservare a lungo i loro tuberi preferiti: il chuño.

Il chuño

Con il termine “chuño” si identificano le patate conservate tramite congelamento e liofilizzazione naturale. La tradizione del chuño ha origine da ben prima della formazione dell’ impero Inca (intorno al XIII secolo); in base ad alcuni ritrovamenti archeologici tra Bolivia e Perù, la produzione di chuño ebbe origine con la cultura Tiwanaku sviluppatasi lungo le sponde del lago Titicaca, circa tre millenni fa.

Il consumo di chuño viene descritto per la prima volta nel 1590 dal missionario gesuita José de Acosta. Si tratta di un cibo a lunga conservazione, facilmente trasportabile per una cultura priva di animali da soma e dotato di un discreto valore nutritivo, un mix di caratteristiche ideali per qualunque alimento di prima necessità.

Se conservato in un luogo fresco e asciutto, il chuño può rimanere commestibile anche per decadi, una proprietà che torna molto utile ad una cultura che vive a quasi 4.000 metri di altezza in un territorio notoriamente ostile, poco fertile e soggetto a siccità periodica.

Preparazione tradizionale del chuño
Preparazione tradizionale del chuño

Arrivando a pesare circa cinque volte meno di una patata, il chuño divenne ben presto un alimento dalla forte leva commerciale: in cambio di patate liofilizzate, la cultura di Tiwanaku otteneva materie prime e prodotti alimentari provenienti da ogni angolo del Sud America.

Ad ogni famiglia veniva assegnata una porzione di chuñochinapampa (in lingua Aymara, “luogo in cui si produce il chuño “) per un periodo compreso tra i 7 e i 10 giorni, in base al clima e alla temperatura notturna. Alla produzione di chuño partecipava tutta la famiglia, ma un ruolo particolarmente attivo veniva svolto da donne e bambini.

Congelamento naturale

Il procedimento necessario alla produzione di chuño è strettamente dipendente dall’escursione termica tra giorno e notte: al calar del sole le temperature crollano sotto lo zero ad altezze comprese tra i 3.500 e i 4.000 metri (il lago Titicaca si trova a 3.812 metri sopra il livello del mare), con un’umidità media prossima al 30%.

Gli antichi abitanti delle Ande impararono a sfruttare le temperature notturne e diurne a loro vantaggio per produrre cibo nutriente e a lunga conservazione. Dopo il raccolto di patate, i tuberi più piccoli vengono selezionati per la produzione di chuño, che si svolgerà tra maggio e luglio (mesi invernali nell’emisfero meridionale).

Le patate selezionate vengono disposte su una zona piatta di terreno, completamente esposte al clima andino. Durante la notte, le temperature scenderanno oltre i -5 °C, congelando l’acqua contenuta nelle patate; all’alba, le patate congelate inizieranno a scaldarsi e a rilasciare acqua, disidratandosi progressivamente sotto i 18 °C del sole invernale.

L’esposizione al gelo andino dura per circa tre notti. Una volta terminato il processo di congelamento naturale, le patate vengono portate nel chuñochinapampas e schiacciate con i piedi per eliminare tutta l’acqua residua e facilitare la rimozione della buccia dal tubero.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Le patate verranno quindi lasciate sul posto per circa una settimana ed esposte nuovamente al ciclo di raffreddamento e scongelamento. In base al tipo di chuño da produrre, potranno subire un’ulteriore lavorazione:

Chuño bianco (o tunta)

Il chuño bianco si ottiene lavando le patate dopo l’ultima settimana di congelamento. In Bolivia, le patate vengono protette dall’esposizione solare diretta utilizzando coperte o paglia bagnate continuamente con acqua per idratare nuovamente i tuberi; in Perù, invece, le patate vengono portate nei pressi di un fiume e lasciate in acqua per circa una settimana.
Il passaggio finale per la produzione di chuño bianco è la disidratazione al sole.

Chuño nero

Per produrre il chuño nero non è necessaria alcuna lavorazione dopo la rimozione della buccia e l’ultima esposizione al clima andino. Il chuño nero ha meno variazioni regionali rispetto a quello bianco e veniva comunemente consumato dai contadini.

Un alimento alla base della dieta andina

Una patata da 100 grammi è in grado di produrre un chuño del peso approssimativo di 20 grammi, perdendo circa l’80% dell’acqua che conteneva in origine. Nei rimanenti 20 grammi di prodotto si concentrano tutti i valori nutrizionali della patata: si tratta sostanzialmente di un tubero liofilizzato.

Durante il processo di disidratazione, le sostanze idrosolubili (come alcuni minerali, le proteine e l’acido ascorbico) vengono parzialmente espulse dalle patate o decomposti da meccanismi ossidativi. Allo stesso tempo, il contenuto di calcio aumenta di circa due volte e viene ridotta notevolmente la tossicità di alcuni composti che rendono particolarmente amare le patate andine.

Il consumo di 100 grammi di chuño fornisce 375-400 Kcal, principalmente sotto forma di carboidrati. I valori nutrizionali non sono particolarmente alti, ma l’energia fornita dal chuño e la possibilità di conservarlo per lunghi periodi di tempo lo rendono un cibo ideale per riempire lo stomaco e fornire le energie necessarie a lavorare i campi durante le stagioni più difficili.

A Space-Age Food Product Cultivated by the Incas
Chuño and Tunta ; the traditional Andean sun-dried Potatoes.
Chuño
Chuño, el secreto milenario de los Andes para lograr que una papa dure 20 años

]]>
https://www.vitantica.net/2019/09/03/chuno-patate-liofilizzate-inca/feed/ 1
Vaso zeer: frigorifero rudimentale antico e moderno https://www.vitantica.net/2019/06/07/vaso-zeer-frigorifero-antichita/ https://www.vitantica.net/2019/06/07/vaso-zeer-frigorifero-antichita/#respond Fri, 07 Jun 2019 00:10:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4267 Non disponendo di refrigerazione moderna, i nostri antenati escogitarono diverse soluzioni pratiche al problema della conservazione degli alimenti: salagione, affumicatura, fermentazione e “case-frigorifero” (come lo yakhchal, descritto in questo post) sono solo alcuni dei metodi impiegati in passato per preservare il cibo dalla decomposizione.

Uno dei sistemi più semplici ma meno conosciuti è quello che modernamente viene definito “vaso nel vaso” (pot-in-pot refrigerator), chiamato anche “vaso zeer” o “refrigeratore a vaso d’argilla”.

Storia del vaso zeer antico e moderno

Il concetto di refrigerazione per evaporazione è antichissimo: alcuni raffigurazioni egizie risalenti al 2.500 a.C. mostrano schiavi che agitano grandi ventagli sopra a vasi pieni d’acqua, chiamati zeer, per abbassarne la temperatura.

Nella Valle dell’Indo, circa 3.000 anni fa, furono realizzati contenitori di terracotta per la conservazione degli alimenti che sfruttavano un meccanismo di evaporazione identico a quello dei vasi zeer egizi.

Questi vasi sono molto simili ai moderni matki, ghara e surahi indiani, contenitori che sfruttano l’evaporazione e la porosità dell’argilla che li costituisce per abbassare la temperatura dell’acqua che contengono.

In Spagna si usa da secoli il botijo, un contenitore di terracotta porosa impiegato per la conservazione dell’acqua e il suo raffreddamento tramite evaporazione, processo noto sulle coste meridionali del Mediterraneo come “effetto botijo”.

I sistemi di refrigerazione passiva per evaporazione furono messi da parte con l’arrivo dei frigoriferi moderni, ma fecero nuovamente la loro comparsa in Africa negli anni ’90 del 1900. Mohamed Bah Abba, un insegnante nigeriano, inventò il “Pot-in-Pot Preservation Cooling System”, un dispositivo che rappresenta la versione moderna dei vasi zeer.

Sfuttando due vasi separati da uno strato di sabbia bagnata e coperti da un panno umido, Mohamed Bah Abba dimostrò la possibilità di conservare gli alimenti deperibili per un tempo relativamente lungo, fornì slancio all’industria locale del vasellame e contribuì all’esportazione del concetto di refrigerazione tramite evaporazione a Paesi come il Sudan, il Mali, il Gambia e il Burkina Faso.

Raffreddamento passivo per evaporazione

Il vaso zeer moderno inventato da Mohamed Bah Abba, e quello più antico ideato dagli Egizi, sfrutta un sistema di raffreddamento passivo alimentato dalla struttura stessa del dispositivo e dal materiale che lo compone.

Funzionamento di un vaso zeer
Funzionamento di un vaso zeer

La struttura di un moderno vaso zeer prevede l’inserimento di un recipiente di terracotta non porosa (o smaltata) all’interno di un contenitore poroso pieno di sabbia umida. Il contenitore interno, grazie all’evaporazione dell’acqua contenuta nella sabbia, raggiungerà col tempo una temperatura inferiore a quella ambientale.

Per funzionare correttamente, il vaso zeer deve essere utilizzato in località calde e secche; in caso di eccessiva umidità, l’acqua non potrà evaporare con efficienza, riducendo il potere refrigerante del dispositivo.

I dispositivi di refrigerazione passiva ad evaporazione funzionano in modo efficiente quando l’umidità ambientale non supera il 40%, la temperatura supera i 20-25°C e vengono collocati in un luogo ombreggiato e ventilato.

Quando l’acqua sarà quasi completamente evaporata dalla sabbia, sarà necessario aggiungere altro liquido per prolungare il funzionamento del vaso zeer. Se il contenitore interno è impermeabile, sarà possibile utilizzare anche acqua non propriamente pulita, o acqua salmastra, senza correre il rischio di contaminare il cibo.

Per evitare di compromettere la conservazione degli alimenti, l’acqua di raffreddamento dovrà essere aggiunta 1-3 volte al giorno dipendentemente dalle condizioni ambientali (temperature particolarmente calde e scarsa umidità richiederanno aggiunte d’acqua più frequenti).

Costruzione di un vaso zeer

Per realizzare un vaso zeer sono necessari due recipienti di terracotta, uno dei quali di dimensioni tali da entrare agevolmente all’interno di quello più grande lasciando uno spazio di 4-6 centimetri tra il bordo esterno del vaso più piccolo e quello interno del vaso più grande.

Tradizionalmente, all’argilla usata come materia prima per i vasi venivano aggiunti frammenti di vecchi vasi di terracotta fino ad ottenere un materiale il più omogeneo possibile. In alcune regioni venivano inoltre aggiunti paglia o escrementi d’asino per rafforzare la struttura dei vasi.

Schema di realizzazione di un vaso zeer
Schema di realizzazione di un vaso zeer

Prima di cuocere i vasi occorre farli essiccare completamente, un procedimento che può richiedere da 3 a 7 giorni. La fase di cottura dura circa 24 ore e viene generalmente completata utilizzando un fuoco da campo di grosse dimensioni protetto dal vento.

La parete esterna del recipiente interno viene quindi ricoperto da cemento o smalto per renderlo impermeabile, bagnando la superficie cementata con acqua durante le successive 24 ore per evitare la formazione di fratture.

Lo spazio tra il vaso interno e quello esterno viene riempito da sabbia setacciata due volte, prima con un setaccio a maglie grosse e successivamente con un tessuto, per eliminare la polvere e la particelle di argilla che renderebbero la sabbia troppo rigida e impermeabile una volta bagnata con acqua.

Un primo strato di sabbia (spesso circa 2 centimetri) viene depositato sul fondo del vaso più grande, appoggiandoci sopra il contenitore interno. Lo spazio tra recipiente interno ed esterno verrà quindi riempito con sabbia fino a arrivare a 3 centimetri sotto il bordo.

Una volta versata acqua sulla sabbia fino a saturare lo spazio tra i due vasi, lo zeer sarà pronto per essere riempito e sigillato con un panno bagnato.

Efficacia del vaso zeer

Come detto in precedenza, l’efficacia del vaso zeer dipende da umidità, temperatura, ventilazione e ombra. Ma anche la natura e la quantità del cibo da conservare sono elementi da tenere in considerazione.

Questo tipo di raffreddamento per evaporazione è utile per conservare verdura e frutta come melanzane, pomodori e verdura a foglie verdi, ma non è particolarmente indicato per materiale che richiede temperature costantemente inferiori a 20°C, come carne e latticini, o cibo che necessita di un ambiente a bassa umidità (cipolle, caffè, aglio e granaglie).

In regioni sub-sahariane, dove le temperature diurne raggiungono facilmente i 30°C e toccano i 45°C, un vaso zeer è in grado di mantenere il cibo a temperature comprese tra i 13°C e i 22°C, aumentando la durata degli alimenti di 3-4 volte.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il vaso zeer e tutte le sue varianti hanno spesso avuto impatti positivi sulle popolazioni che le hanno impiegate, anche considerando gli aspetti meno pratici di questo tipo di refrigerazione.

Ad esempio, ha permesso di evitare la decomposizione di prodotti rivendibili nei mercati, rendendo necessario andare a vendere i frutti della terra solo una volta alla settimana invece che ogni giorno.

Ha reso inoltre più agevole accumulare surplus alimentare e avere una dieta più varia, e di conservare meglio medicinali e vaccini facilmente deperibili in ambienti caldi e secchi privi di refrigerazione moderna.

In Nigeria, una pentola zeer costa l’equivalente di 1-2 dollari, una valida alternativa alla refrigerazione a breve termine senza la spesa consistente (e spesso proibitiva per i ceti più poveri) necessaria per l’acquisto e il mantenimento di un frigorifero moderno.

The clay pot coolerm– an appropriate cooling technology
Pot-in-pot refrigerator

]]>
https://www.vitantica.net/2019/06/07/vaso-zeer-frigorifero-antichita/feed/ 0
Jerky, carne secca di origine Inca https://www.vitantica.net/2018/11/21/jerky-carne-secca-di-origine-inca/ https://www.vitantica.net/2018/11/21/jerky-carne-secca-di-origine-inca/#respond Wed, 21 Nov 2018 00:10:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2660 Le necessità alimentari dei primi esploratori del Nuovo Continente forzarono gli Europei ad adottare alcune delle tecniche di sopravvivenza delle popolazioni locali. La preparazione di alimenti a lunga conservazione si rivelò un’abilità estremamente utile in un territorio in cui l’approvvigionamento di cibo poteva essere difficile, se non addirittura impossibile, per una persona del tutto estranea ai nuovi ecosistemi americani.

L’adozione della carne secca, o jerky, contribuì ad alimentare migliaia di cacciatori di pelli, di esploratori e di carovane dirette verso la costa pacifica del Nord America durante il XVII e XVIII secolo. Il jerky (dalla parola Quechua ch’arki) è carne secca e salata nata in Sud America ottenere cibo a lunga conservazione a partire dalla carne di lama.

Ogni tipo di carne può essere impiegata per produrre jerky: negli Stati Uniti e in Canada il jerky di manzo è un cibo molto popolare e viene prodotto industrialmente o in modo casalingo anche in Argentina, Bolivia, Cile, Uruguai e Brasile.

L’origine del jerky

L’origine della carne secca jerky pare sia legata ai tampu (o tambo) degli Inca, magazzini dislocati lungo le vie commerciali dell’ impero andino allo scopo di rifornire di cibo i viaggiatori e fornire riparo in caso di necessità.

Il ch’akri era sempre abbondante nei tampu degli Inca: la carne di lama era un’ottimo alimento proteico, si prestava ottimamente all’essiccazione e, una volta seccata e salata, poteva conservarsi per mesi nel clima arido e freddo delle Ande. Si trattava quindi di cibo a lunga conservazione dall’alto valore nutritivo.

Quando gli Spagnoli ebbero modo di incontrare la cultura Inca, fecero loro il ch’akri modificando il metodo di produzione: i nativi sfruttavano infatti l’essiccamento a freddo, reso possibile dall’aria secca di montagna e dalla radiazione solare superiore a quella registrabile in pianura, mentre gli Spagnoli iniziarono ad utilizzare un’essiccazione “a caldo” o l’affumicatura per seccare la carne.

Jerky di manzo
Jerky di manzo

La carne secca non è un’invenzione Inca. La procedura più comune prevede l’esposizione a temperature relativamente basse (inferiori a 70°C) o l’utilizzo del fumo, metodi conosciuti in tutto il mondo da millenni. Nel corso dei secoli sono state create carni secche con ogni tipo di proteina animale: cervo, maiale, cinghiale, ovini, canguri, bisonti, tacchini, pesci, coccodrilli e cammelli sono solo alcuni degli animali utilizzabili per realizzare ottimo jerky.

In Botswana, Sud Africa, Zimbabwe e Namibia, ad esempio, si produce il biltong, una versione del jerky che prevede l’utilizzo di carne di selvaggina tagliata in strisce sottili. In Nepal invece si produce il sukuti, cibo tradizionale del popolo Limbu che viene realizzato ricoprendo fette sottili di carne con una mistura di sale, cumino, pepe e polvere di peperoncino.

I cavalieri mongoli agli ordini di Gengis Khan si nutrivano per mesi interi di borts, strisce di carne essiccata all’ aria spesse 2-3 centimetri e dure come il legno.

Produrre carne salata: il metodo Inca

Per produrre il loro ch’akri, gli Inca sfruttavano il clima delle Ande a loro vantaggio. Vivendo ad elevate altitudini e a temperature che scendevano sotto lo zero durante la notte, notarono ben presto che le patate, se ridotte in poltiglia, congelavano molto velocemente; con l’esposizione al sole battente d’alta quota perdevano l’acqua che contenevano, diventando una polpa secca che conservava tutte le sue proprietà nutrizionali.

Questo processo di liofilizzazione naturale produceva il chuno, un alimento comune in tutte le case Inca e che poteva essere consumato anche a distanza di mesi. I popoli andini utilizzarono questo sistema di conservazione su larga scala anche per la carne, un metodo che è stato riprodotto artificialmente solo negli anni ’30 del 1900.

La carne veniva tagliata in fette sottili e privata del grasso per evitare di farla diventare rancida. Veniva quindi esposta alle temperature rigide della notte andina per farla congelare in fretta ed evitare la crescita batterica, per poi lasciarla sotto il sole cocente per perdere ogni goccia di umidità contenuta nelle fibre muscolari dell’animale macellato.

Il jerky “moderno”
Preparazione del jerky con affumicatura
Preparazione del jerky con affumicatura

Gli Spagnoli, durante le loro esplorazioni del Nuovo Mondo, non avevano costantemente a disposizione le stesse condizioni climatiche degli Inca: i Caraibi, il Messico e le foreste sudamericane non sono noti per il clima rigido combinato ad aria secca. Furono quindi costretti ad escogitare un altro metodo per preservare la carne, creando la loro versione del jerky andino.

Mantenendo la procedura di rimozione del grasso, indispensabile per ottenere jerky in grado di durare mesi interi, decisero quindi di esporre la carne a calore basso (meno di 70°C) tramite esposizione diretta al sole o all’interno di contenitori appositamente studiati per consentire la circolazione dell’aria. L’affumicatura a bassa temperatura era un’altra ottima alternativa che conferiva alla carne un gusto particolare, oltre a renderla virtualmente inattaccabile dai batteri della decomposizione.

Un altro metodo per l’essiccamento della carne fu inventato durante la colonizzazione dell’ Africa: quando i primi coloni europei si insediarono nelle regioni meridionali dell’Africa, iniziarono ad utilizzare l’aceto e il nitrato di potassio per conservare ed essiccare la carne copiando i metodi tradizionali delle popolazioni indigene, come i Khoikhoi, e dando origine al biltong. Il nitrato di potassio uccide il batterio Clostridium botulinum, responsabile del botulismo, e l’aceto ne inibisce la crescita.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Indipendentemente dal metodo di essiccazione utilizzato, il primo passo fondamentale è la rimozione del grasso, la parte più facilmente deperibile della carne. Per fare in modo che la carne possa seccarsi velocemente e senza proliferazione batterica, è necessario tagliarla in fette molto sottili.
L’aggiunta di sale favorisce la conservazione per lunghi periodi e velocizza l’eliminazione dell’umidità contenuta nelle fibre muscolari.

Se la carne viene esposta al sole, potrebbe richiedere 5-8 ore per essiccarsi completamente; l’uso del fumo velocizzerà il processo di 1-2 ore, ma le tempistiche potrebbero cambiare in base allo spessore delle fette di carne. L’affumicatura tradizionale prevede invece la costruzione di un treppiede da posizionare sopra a braci ardenti, senza esporre la carne ad una fiamma viva.

Per sapere se la temperatura è adatta all’essiccamento ed evitare di cuocere la carne, basta tenere una mano all’altezza del ripiano del treppiede su cui sarà posizionata la carne: se riuscite a resistere al calore per 5-10 secondi senza soffrire, la temperatura sarà perfetta.

Il jerky è pronto quando è rigido ma non così fragile da spezzarsi facilmente. Dovrebbe produrre crepe quando viene piegato, ma non sbriciolarsi come un cracker; se pressato, non deve fioriuscire liquido.

Valore nutritivo del jerky

Una fetta di 30 grammi di carne secca contiene da 10 a 15 grammi di proteine, meno di 1 grammo di grassi e 0-3 grammi di carboidrati, anche se questi valori possono cambiare in base al tessuto animale utilizzato e alle spezie impiegate per insaporire la carne. Molte versioni del jerky prevedono anche la salatura, per cui potrebbe contenere dosi massicce di sale, fino a 600 milligrammi, corrispondenti a circa il 30% della dose giornaliera consigliata.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Jerky

]]>
https://www.vitantica.net/2018/11/21/jerky-carne-secca-di-origine-inca/feed/ 0
Il successo dell’ ananas dopo il viaggio di Colombo https://www.vitantica.net/2018/06/01/ananas-viaggio-colombo/ https://www.vitantica.net/2018/06/01/ananas-viaggio-colombo/#respond Fri, 01 Jun 2018 19:00:43 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1724 L’ananas (Ananas comosus) è una pianta originaria delle regioni tra Brasile e Paraguay che fece il suo primo ingresso in Europa nel 1496 con il ritorno di Colombo dal suo secondo viaggio. Il frutto era ben noto ai nativi sudamericani, dal Brasile al Messico, dove veniva coltivato da Maya e Aztechi.

Anche se la storia della domesticazione dell’ananas è sostanzialmente sconosciuta, fu una delle prime piante americane ad affermarsi nel Vecchio Continente e probabilmente quella che inizialmente riscosse più successo tra la nobiltà europea.

Gli Europei scoprono l’ ananas

Colombo si imbatté nell’ananas per la prima volta quando attraccò sull’isola di Guadalupa. Gli indigeni di lingua Tupi chiamavano questo frutto nanas (“frutto eccellente”), come successivamente raccontò l’esploratore André Thevet nel 1555 durante le sue esplorazioni brasiliane.

Dopo averla assaggiata, apprezzata e aver trovato un nome adatto al frutto (piña de Indes, “pigna degli Indiani”), Colombo decise di riportare alcuni esemplari di questo frutto in Spagna nel 1496, al ritorno dal suo secondo viaggio verso le Americhe, assieme a campioni di tabacco e zucche.

Il viaggio di ritorno non fu di breve durata e quasi tutti gli esemplari di frutta e verdura che Colombo tentò di riportare in Europa andarono distrutti. Tutti tranne un esemplare di ananas che raggiunse la tavola di re Ferdinando II di Aragona, l’unica a non essere marcita diventando un ammasso appiccicoso di zuccheri fermentati.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Ananas: frutto per sovrani e nobiltà

Per Pietro Martire d’Anghiera, il primo incontro del sovrano spagnolo con l’ananas fu un evento da ricordare: “L’invincibile Re Ferdinando riferisce di aver mangiato un altro frutto portato dalle Americhe. Ricorda una pigna nella forma e nel colore, è ricoperto da scaglie ed è più sodo di un melone. Il suo sapore supera quello di tutto il resto della frutta”.

Anche Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdes, inviato a Panama dalla corte di Spagna, rimase stupido dal gusto e dalla forma dell’ananas: “E’ il più bello tra i frutti che ho visto. Non credo esista al mondo un altro frutto di tale squisitezza e apparenza”.

Poco dopo il suo arrivo in Europa, l’ ananas conquistò velocemente il gusto dei più ricchi. Anche se al tempo l’industria dello zucchero iniziava a fiorire grazie alle prime piantagioni di canna da zucchero (specialmente quelle portoghesi in Africa), gli alimenti dolci rimanevano fuori dalla portata della gente comune, che si riforniva di zuccheri dalla frutta europea la cui crescita è subordinata al clima stagionale.

L’ ananas assunse in poco tempo il titolo di “re della frutta”, diventando sia un alimento pregiato sia il simbolo del diritto divino dei regnanti europei; le difficoltà di conservazione durante il lungo viaggio attraverso l’Atlantico e l’offerta estremamente limitata in Europa non fecero altro che aggiungere ulteriore prestigio a questo frutto così raro e prelibato.

Dunmore Pineapple, considerato "l'edificio più bizzarro di Scozia", si trova nel Dunmore Park e la sua costruzione iniziò nel 1761. La struttura centrale con il tetto a forma di ananas fu utilizzata anche per la coltivazione di questo frutto.
Dunmore Pineapple, considerato “l’edificio più bizzarro di Scozia”, si trova nel Dunmore Park e la sua costruzione iniziò nel 1761. La struttura centrale con il tetto a forma di ananas fu utilizzata anche per la coltivazione di questo frutto.
La sfida dell’ ananas in Europa

Le stesse caratteristiche che rendevano l’ananas un frutto così desiderato e pregiato resero di fatto impossibile la sua coltivazione in Europa per quasi due secoli. L’ananas è una pianta erbacea perenne e ha bisogno di un clima stabile, umido e caldo per tutto l’anno; un frutto giunto a fine maturazione può facilmente danneggiarsi, se viene conservato a temperatura ambiente può restare commestibile per solo 3-4 giorni, e ogni pianta è in grado di produrre un singolo frutto ogni 18 mesi circa.

Per garantire una riserva più o meno costante di ananas per la nobiltà europea, i Portoghesi introdussero il frutto in India intorno alla metà del XVI secolo, ma fu solo oltre un secolo dopo che si iniziò a coltivarlo nelle serre del Vecchio Continente.

Verso la metà del XVII secolo fu realizzata in Olanda la prima serra di concezione moderna: fin da subito si iniziarono a condurre esperimenti sugli ananas provenienti dal Suriname, colonia olandese dal 1667 sotto il nome di “Guyana olandese”. Pieter de la Court fu il primo in Europa a far crescere ananas in serra, procedimento che nel secolo successivo si diffuse su buona parte del Vecchio Continente rendendo possibile coltivare questo frutto anche sulle isole inglesi.

Escogitare un sistema per far crescere ananas in Europa non fu affatto semplice: per avere un buon raccolto erano necessarie serre costruite su misura, cure costanti e attente per evitare l’attacco dei parassiti e un’ enorme quantità di carbone per mantenere un clima delle serre stabile e caldo per tutto l’anno.

Infine, in natura l’ ananas viene impollinato principalmente dai colibrì, caratteristica che costrinse i botanici europei dei secoli passati ad effettuare meticolosi e faticosi impollinazioni artificiali. Secondo le stime di alcuni storici, ogni singola pianta di ananas richiedeva un investimento equivalente a circa 8.000 dollari moderni, una cifra enorme per il XVII secolo.

Carlo II si è fatto ritrarre in compagnia di un' ananas nel 1677 (Photo: Royal Collection Trust/Her Majesty Queen Elizabeth II)
Carlo II si è fatto ritrarre in compagnia di un’ ananas nel 1675-1677 (Photo: Royal Collection Trust/Her Majesty Queen Elizabeth II)
L’ ananas come ornamento pregiato

In alcuni periodi, come sotto il regno di Carlo II d’Inghilterra, mangiare ananas era considerato uno spreco: il frutto veniva impiegato esclusivamente come costosissimo oggetto ornamentale e riutilizzato nelle occasioni mondane fino alla sua putrefazione quasi totale.

Intorno alla metà del 1700 iniziarono addirittura a fare la loro apparizione negozi che affittavano ananas a chiunque avesse intenzione di ostentare la sua ricchezza (e disponesse dei fondi necessari da noleggiarne uno).

Il grado di status-symbol dell’ananas durante il regno di Carlo II raggiunse il culmine durante l’ accesa trattativa con la Francia per il possesso delle isole di Saint Kitts e Nevis, un piccolo arcipelago nelle Antille: nel 1668, in occasione del banchetto ufficiale con l’ambasciatore francese, Carlo ordinò il recupero di un’ ananas dall’isola Barbados (anch’essa nelle Antille) per poterla posizionare in cima ad una montagna di frutta europea ed esotica che sarebbe stata servita al termine della cena; lo scopo del sovrano era quello di comunicare molto chiaramente che l’Inghilterra si riteneva la legittima proprietaria delle Antille facendo notare al suo commensale francese che “noi riusciamo ad avere degli ananas, voi no“.

Everything You Ever Wanted to Know About Pineapples
The Strange History of the “King-Pine”

]]>
https://www.vitantica.net/2018/06/01/ananas-viaggio-colombo/feed/ 0
Il sale, breve storia e utilizzo nell’antichità https://www.vitantica.net/2018/02/23/sale-storia-utilizzo-antichita/ https://www.vitantica.net/2018/02/23/sale-storia-utilizzo-antichita/#respond Fri, 23 Feb 2018 02:00:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1400 Accettato nella società moderna con un misto di amore e odio, il sale ha costituito per millenni una risorsa preziosissima per qualunque popolo del pianeta. Oltre agli ovvi usi alimentari, come insaporire il cibo o conservarlo, il sale ha rappresentato nell’antichità una vera e propria moneta di scambio e una fonte di ricchezza capace di far crescere o distruggere imperi.

Quello che comunemente chiamiamo “sale da cucina” è costituito principalmente da cloruro di sodio, un solido cristallino estremamente abbondante in natura. Il sale è un elemento essenziale per la vita, ma l’eccesso di sale può uccidere qualunque essere vivente e trasformare il terreno in una landa desolata e disabitata. I suoi cristalli sono estraibili da letti di antichi laghi salati, depositi sotterranei o dall’acqua marina, che ne contiene mediamente 35 grammi per litro, l’equivalente di quasi 2 cucchiai da zuppa.

L’importanza del sale nell’antichità

La storia dell’estrazione, del commercio e dell’uso del sale è antichissima: una delle primissime città europee, Solnitsata, fiorita in Bulgaria tra il 4.700 e il 4.200 a.C., fu edificata come insediamento di supporto all’estrazione del sale e munita di cinta muraria per proteggere questa preziosissima materia prima.

In alcune regioni del pianeta la produzione di sale generò surplus che consentirono di sperimentare nuovi metodi di conservazione degli alimenti, come la salagione. Intorno al terzo millennio a.C., gli Egizi iniziarono a conservare sotto sale uccelli e pesci e a commerciarli nel Mediterraneo in cambio di cedri del Libano, vetro e porpora.

Il sale diventò un cristallo dall’alto valore economico per moltissime culture, dalla Cina preistorica fino a Roma: l’antica Via Salaria romana, ad esempio, era nata con il preciso scopo di trasportare a Roma il sale estratto dalle saline dell’Adriatico.

In molte regioni dell’Africa, il sale costituiva una vera e propria moneta: piccoli blocchi di sale equivalevano a monete in Etiopia e i mercanti berberi o i Tuareg hanno scambiato oro per sale almeno fino al Medioevo.

Solnitsata, antico insediamento nato attorno all'estrazione del sale
Solnitsata, antico insediamento nato attorno all’estrazione del sale

Il sale giocò un ruolo di spicco nella nascita e nella distruzione di molte civiltà. Venezia condusse diverse campagne militari contro Genova per ottenere il controllo del commercio del sale, mentre la Polonia sperimentò una gravissima crisi economica dopo il XVI secolo quando le sue miniere di sale furono considerate “fuori mercato” non appena la Germania inondò il mercato europeo con il sale marino, considerato superiore a quello estratto dalle cave.

Le gabelle francesi, tasse sul sale particolarmente odiate dalla popolazione e in vigore tra il 1286 e il 1790, furono la causa di numerosi scontri, migrazioni e spostamenti di ricchezza nella popolazione.

Il sale si rivelò anche un valido aiuto nella medicina antica. Una soluzione di circa 10 grammi in un litro di sale contribuisce a rimuovere eventuali detriti presenti in una ferita e ad inibire la crescita di molti patogeni. La stessa abilità di inibire la crescita di microrganismi trovò impiego anche in agricoltura: gettare sale su un terreno coperto da erbacce blocca la crescita delle piante infestanti, oltre a contrastare efficacemente insetti come le formiche.

Estrazione del sale

Il sale è contenuto in due fonti principali: l’acqua di mare e la salgemma (o halite), un minerale che si presenta generalmente sotto forma di cristalli cubici che compongono banchi estesi formati dall’evaporazione dell’acqua salata (evaporiti).

Nei climi più caldi il sale può essere facilmente estratto dall’acqua salata tramite l’evaporazione: la soluzione salina viene fatta evaporare in pozze d’acqua esposte alla luce del sole fino ad ottenere una distesa di cristalli.

La più antica forma di estrazione del sale marino era possibile grazie alla salina, un sistema di vasche in cui l’acqua, solitamente prelevata dal mare per questioni di praticità (un metro cubo di acqua marina contiene circa 30 kg di cloruro di sodio e quantità minori di altri sali), veniva fatta evaporare per irraggiamento solare.

L’acqua non deve essere necessariamente estratta dal mare o da laghi salati: in corrispondenza di depositi di sale sotterranei, si possono formare sorgenti di “salamoia” che sgorgano dalla superficie.

Riproduzione di un'antico metodo di estrazione del sale dall'acqua marina utilizzato nel Messico preispanico
Riproduzione di un’antico metodo di estrazione del sale dall’acqua marina utilizzato nel Messico preispanico

La bollitura di acqua salata rende il processo di evaporazione molto più veloce: già nel 1.800 a.C. i Cinesi descrissero una procedura di estrazione del sale che prevedeva la bollitura di salamoia in recipienti di terracotta fino ad ottenere una crosta di sale al loro interno.

E’ possibile che i primi giacimenti di sale siano stati scoperti osservando il comportamento degli animali: molti mammiferi erbivori non ottengono sufficiente sale dalla loro dieta e sono costretti ad integrarlo nel loro organismo leccando depositi di sale o acqua salata che sgorga dal sottosuolo.

Seguendo questi animali, i nostri antenati furono in grado di localizzare depositi di sale o sorgenti di salamoia attorno ai quali, nell’arco di secoli o millenni, si formarono insediamenti urbani fondamentali per il commercio di questo minerale.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il sale nella dieta degli antichi e dei popoli semi-primitivi

Essendo presente in molti tessuti di provenienza animale come carne, sangue e latte, l’ approvvigionamento di sale nella dieta di alcuni popoli di cacciatori-raccoglitori non costituiva un grosso problema: in molte popolazioni orientali ancora oggi non viene utilizzato il cristallo di sale, ma si impiegano salse di pesce o di molluschi ad alto contenuto di cloruro di sodio.

Per i popoli che conducono uno stile di vita tradizionale basato principalmente sulla caccia o sulla pesca, il sale viene assunto tramite il consumo di carne e pesce. Il fabbisogno di sale dei popoli costieri che consumano più vegetali che carne viene invece soddisfatto utilizzando acqua salata per la cottura degli alimenti o i depositi di sale di superficie.

Con l’avvento dell’agricoltura, della sedentarietà e di una dieta sempre più ricca di cereali e piante, il sale diventò un composto difficile da ottenere in un’alimentazione prevalentemente basata su materia vegetale, cibi generalmente poveri di sodio, specialmente per le popolazioni che risiedevano in regioni prive di grosse fonti naturali di cloruro di sodio.

Per popoli come gli yanomami brasiliani, dalla dieta basata su cibi poveri di sodio, l’apporto di sale è pari a circa un duecentesimo del consumo di un americano medio. Ancora oggi gli abitanti degli altipiani della Nuova Guinea, che conducono uno stile di vita semi-primitivo e consumano prevalentemente patate dolci, sono disposti ad affrontare lunghi procedimenti di estrazione per ottenere pochi grammi di sale.

L’estrazione del sale può rivelarsi un affare assai complesso e ben poco redditizio per i popoli semi-primitivi che non hanno la fortuna di vivere nei pressi di fonti naturali di cloruro di sodio. I guineani, ad esempio, raccolgono le foglie di alcune piante, le bruciava, raccolgono le ceneri e le bagnano con acqua per sciogliere i residui solidi; dopo l’evaporazione dell’acqua, ottengono minime quantità di sale amaro considerato preziosissimo dalle tribù locali.

Un altro metodo è quello di immergere pezzi di corteccia spugnosa di banano all’interno delle poche pozze salate naturali presenti nella regione: dopo aver lasciato asciugare e aver bruciato la corteccia, ottengono un impasto che modellano per creare piccoli panetti amari da sciogliere nelle pietanze che consumano.

History of salt

]]>
https://www.vitantica.net/2018/02/23/sale-storia-utilizzo-antichita/feed/ 0
Come si conservava il cibo in antichità? https://www.vitantica.net/2018/01/08/come-si-conservava-il-cibo-in-antichita/ https://www.vitantica.net/2018/01/08/come-si-conservava-il-cibo-in-antichita/#respond Mon, 08 Jan 2018 02:00:51 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1243 Come facevano i nostri antenati a conservare gli alimenti facilmente deperibili? Non disponendo dei sistemi di refrigerazione moderni, nell’arco dei millenni sono nate diverse tecniche per la conservazione di carne, frutta e verdura, alcune ancora oggi largamente utilizzate per la produzione di cibi tradizionali.

I nostri antenati furono molto creativi nel trovare soluzioni ai principali problemi della conservazione degli alimenti:

  • Umidità: i batteri hanno bisogno d’acqua per sopravvivere. Rimuovendo l’acqua si rallenta la proliferazione di batteri nocivi;
  • Ossigeno: la maggior parte dei batteri e delle muffe che attaccano gli alimenti hanno bisogno di ossigeno per crescere. Uno strato protettivo a tenuta d’aria è in grado di impedire l’infiltrazione di microrganismi dannosi e di limitare la crescita di quelli già presenti negli alimenti;
  • Temperatura: i batteri e le muffe preferiscono un ambiente temperato: se è troppo freddo riducono la loro attività, il calore eccessivo invece tende ad ucciderli;
  • Acidità: molti batteri preferiscono un pH neutrale. Un ambiente troppo acido o troppo basico inibisce la proliferazione di batteri che favoriscono la decomposizione.
Cibo affumicato o essiccato

L’ affumicatura e l’ essiccamento sono probabilmente le tecniche più antiche per conservare cibo  facilmente deperibile, come le proteine di origine animale.

Le prime forme di affumicamento ed essiccamento all’aria risalgono ad almeno 14.000 anni fa; ben presto ci si accorse che la carne esposta al fumo del focolare tendeva a conservarsi molto più a lungo di quella fresca, cotta o semplicemente essiccata all’aria: il fumo deposita sulla carne un numero di sottoprodotti della combustione che formano un guscio protettivo in grado di respingere la maggior parte dei batteri nocivi.

L’affumicatura è un processo che richiede generalmente 24-48 ore per essere portato a termine. La qualità del legno utilizzato per produrre fumo è fondamentale per il sapore finale: quercia, faggio, ontano, acero, melo e ciliegio sono generalmente legname di prima scelta che impartisce sapori caratteristici agli alimenti (soprattutto alla carne).

L’essiccamento di frutta, carne, pesce e verdure praticata secondo il metodo primitivo utilizza soltanto la luce solare e il vento: il calore generato dalla nostra stella e una costante brezza secca che scorre tra gli alimenti da conservare favorisce l’espulsione dell’acqua in eccesso e rallenta la decomposizione e la moltiplicazione dei microrganismi nocivi.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Salagione degli alimenti

La salagione può essere efficace quanto l’affumicamento nella conservazione del cibo e spesso costituisce il passo preliminare per un’affumicatura di successo.

Non appena fu elaborato un sistema per l’estrazione dall’acqua di mare o dai suoi giacimenti naturali, il sale si dimostrò incredibilmente efficace nel combattere la proliferazione di batteri e funghi dannosi presenti negli alimenti, eliminando la maggior parte dell’acqua presente nel cibo.

Il sale (1 parte di sale per 5 di carne/pesce/verdura) crea un ambiente fortemente alcalino in cui ben pochi funghi, muffe o batteri possono sopravvivere: ogni cellula vivente subisce un veloce processo di disidratazione fino a morire per carenza d’acqua.

Molte fonti storiche provenienti dal bacino del Mediterraneo testimoniano l’importanza della salagione della carne o del pesce: nella Grecia antica, ad esempio, si preparavano i tarichos (chiamati salsamentum dai Romani), carne o pesce conservati sotto diversi strati di sale o di grasso.

Zucchero per conservare il cibo

Nelle culture che disponevano di sostanze zuccherine come il miele, o in grado di estrarle dalle piante per creare melassa o sciroppi, la conservazione sotto zucchero divenne una pratica comune per preservare la frutta o la carne.

Il procedimento prevede una prima fase di essiccazione del cibo per liberarlo dall’acqua in eccesso, seguita dall’immersione in zucchero grezzo a cristalli, sciroppo o miele, allo scopo di creare un’ambiente ostile alla proliferazione di batteri nocivi e ospitale per alcuni batteri come quelli del genere Lacrobacillus.

Il rischio di questo metodo di conservazione è la capacità dello zucchero di attrarre umidità e fermentare: non appena raggiunto un certo grado di umidità, i lieviti naturalmente presenti nell’ambiente iniziano a far fermentare gli zuccheri trasformandoli in alcool e anidride carbonica; anche se la fermentazione in alcuni casi contribuisce alla conservazione, potrebbe creare aromi o sapori non gradevoli.

Salamoia o aceto

conservazione alimenti salamoia

L’esatta origine di questo tipo di conservazione degli alimenti non è chiara, ma sappiamo che ben 4.500 anni fa i popoli mesopotamici utilizzavano quotidianamente soluzioni di sale marino per conservare cibi fuori stagione o durante lunghi periodi di viaggio, come la carne in salamoia.

Elencare tutti i metodi per la salamoia o la conservazione sotto aceto richiederebbe un articolo a parte (che farò non appena possibile), ma il principio di base è sempre quello della prevenzione della crescita batterica: il sale o l’aceto creano un ambiente salino o acido in cui i batteri e le muffe non sono in grado di proliferare, consentendo la conservazione del cibo anche per mesi.

Calce per conservare le uova

Le uova possono essere conservate in salamoia, sotto aceto o secondo altre tecniche più o meno antiche, ma il metodo migliore e più duraturo sembra essere l’acqua di calce, realizzata semplicemente con acqua e polvere di calce spenta.

La calce spenta ha trovato molteplici utilizzi nell’arco della storia: i Romani e i Sumeri la utilizzavano come strato idrorepellente sui tetti delle case, per “addolcire” un suolo troppo acido o per combattere i parassiti che aggrediscono le piante da frutto.

Dopo qualche tempo, ci si accorse che alcuni alimenti conservati in uno strato o in una soluzione di calce si conservavano a lungo: la calce, oltre a costituire un ambiente basico antibatterico, va a tappare i pori presenti sul guscio delle uova impedendo che eventuali batteri o muffe le aggrediscano. Utilizzando questo metodo è possibile conservare le uova anche per 1 anno.

Dispensa sotterranea

Una dispensa sotterranea è una struttura parzialmente o interamente sotterranea in cui possono essere immagazzinati cibi deperibili come verdura, frutta o carne.

Questo metodo si basa sul fatto che molti alimenti possono essere conservati a lungo se depositati in un ambiente dalla temperatura appena sopra allo zero (1-3 °C) e con un’elevata umidità ambientale (anche se alcune piante preferiscono bassi livelli di umidità).

La dispensa sotterranea evita che gli alimenti congelino durante l’inverno e li mantiene freschi nel periodo estivo, ritardando la decomposizione.

I cibi ideali per questa tecnica di conservazione sono patate, rape, carote, bietole, cipolle, carne o pesce salati, zucche e cavoli. Una forma di dispensa semi-sotterranea utilizzata nell’ antica Persia era lo yakhchal (per ulteriori dettagli consultate questo post).

Fermentazione del cibo

Alcuni metodi di conservazione, invece di combattere ogni microrganismo immaginabile, favoriscono la crescita da alcuni batteri o muffe non nocivi per trasformare il cibo e conservarlo più a lungo, oltre che fornirgli un sapore differente talvolta più gradevole.

Il funazushi, ad esempio, è un metodo giapponese per la conservazione del pesce che sfrutta la fermentazione del riso e la decomposizione delle proteine animali per conservare a lungo il cibo: per produrre il funazushi occorrono ben 8 anni e può conservarsi per altrettanto tempo in condizioni ideali.

La fermentazione è sostanzialmente la conversione di amidi e zuccheri in alcool da parte di alcuni agenti microbici, un procedimento che serve a tenere a bada i batteri nocivi e a trasformare le proprietà organolettiche degli alimenti.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Sigillo

Alcuni alimenti come le uova o la frutta possono essere sigillati dall’aria e dall’attacco di batteri nocivi utilizzando grasso, zucchero cristallizzato, polvere di calce, argilla o addirittura lacca.

Uno dei metodi più conosciuti per sigillare carne o pesce è il confit (dal francese confire, “preservare”): dopo aver cotto il cibo in grasso, olio o acqua zuccherata a bassa temperatura (circa 90°C con l’olio) si deposita l’alimento con tanto di grasso di cottura all’interno di un contenitore che andrà mantenuto in un luogo fresco, asciutto e lontano dalla luce.

Il grasso di cottura si solidificherà formando un sigillo protettivo attorno al cibo e permettendo di conservarlo per svariati mesi.

Gli Inuit groenlandesi producono un cibo tradizionale chiamato kiviak sfruttando un sigillo di grasso e la fermentazione: dopo aver ucciso qualche centinaio di gazze marine (Alle alle), i corpi dei volatili vengono inseriti all’interno della pelle di una foca facendo attenzione a rimuovere l’aria in eccesso e a sigillare i vuoti con abbondante grasso di foca, una sostanza che impedisce alle larve di mosca di penetrare nella carne ed evita infiltrazioni d’ossigeno o di batteri nocivi.

La pelle di foca viene quindi ricoperta di pietre per proteggerla dai predatori e il suo contenuto lasciato fermentare per almeno tre mesi, assumendo un sapore che viene descritto come simile a quello del gorgonzola.

Sepoltura nel terreno
conservazione alimenti burro di palude
Burro di palude

La sepoltura di alimenti può contribuire a prolungare la loro vita grazie a diversi fattori in gioco: assenza di luce e di ossigeno, temperatura fresca e quasi costante tutto l’anno, livelli di acidità del suolo tali da prevenire la proliferazione di batteri o muffe.

Se combinata ad altri metodi come la salatura o la fermentazione, questa tecnica consente di preservare gli alimenti per mesi interi; se il terreno tende a ghiacciarsi durante le stagioni più fredde, la fossa in cui è stato deposto il cibo agirà da refrigeratore e aumenterà ulteriormente la vita dei prodotti conservati al suo interno.

Molti tuberi sono per natura resistenti alla decomposizione e si mantengono in ottimo stato in condizioni di oscurità sotto uno strato di terreno: il cavolo veniva tradizionalmente sepolto durante l’autunno per essere recuperato durante l’inverno o la primavera.

Per conservare la carne invece si preferiva essiccarla depositandola su un letto di ceneri in grado di assorbire l’umidità e rallentare la decomposizione grazie anche alla scarsa presenza di ossigeno.

La sepoltura di sottoprodotti del latte o di grassi animali contribuì per millenni alla realizzazione di quello che viene definito burro di palude.

Una volta interrati in una torbiera all’interno di un contenitore di legno o di vescica animale, gli alimenti si decompongono molto più lentamente grazie al particolare ecosistema della torbiera: basse temperature, poco ossigeno ed elevata acidità prevengono la crescita batterica con un efficacia simile a quella dei freezer moderni.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Bog Butter and Other Odd Ways the Ancients Preserved Food

]]>
https://www.vitantica.net/2018/01/08/come-si-conservava-il-cibo-in-antichita/feed/ 0
Archeologi riproducono cibo dei marinai del XVII secolo https://www.vitantica.net/2017/11/16/cibo-dei-marinai-xvii-secolo/ https://www.vitantica.net/2017/11/16/cibo-dei-marinai-xvii-secolo/#respond Thu, 16 Nov 2017 02:00:57 +0000 https://www.vitantica.net/?p=883 Solcare il mare durante il XVII secolo era tutt’altro che semplice: dopo settimane o mesi di navigazione tra bonacce, tempeste e imprevisti, l’equipaggio ormai allo stremo delle forze si trovava costretto a nutrirsi di razioni di cibo che emanavano odori nauseabondi a causa del loro discutibile stato di conservazione.

Alcuni libri di ricette e diari di bordo dell’epoca citano, tra le scorte di cibo comunemente trasportate sulle navi, manzo o maiale in salamoia e biscotti duri come il cemento, oltre che materie di prima necessità come cereali e legumi; questi antichi testi non dimenticano quasi mai di menzionare il terribile fetore che emanavano le scorte di cibo dopo giorni di viaggio sottocoperta e l’esposizione alla scarsa igiene che regnava sui vascelli del ‘600.

Cibo da marinai

I ricercatori della Texas A&M University, guidati dalla specializzanda in archeologia nautica Grace Tsai, tre anni fa hanno deciso di riprodurre il cibo che consumavano quotidianamente i marinai del XVII° secolo con lo scopo di verificare in quali condizioni vivessero, e se il cibo che mangiavano fosse davvero commestibile secondo gli standard moderni.

Uno degli interessi primari di Tsai è quello di capire meglio lo stato di salute dei marinai dell’antichità in base alla loro dieta e comprendere se e come potessero resistere al consumo continuo di cibi contaminati da batteri potenzialmente nocivi.

La Elissa mentre si dirige verso il porto di Galveston nel 1981. Enterprise file photo
La Elissa mentre si dirige verso il porto di Galveston nel 1981. Enterprise file photo

Lo scorso agosto 2017, i ricercatori hanno riempito svariati barili e casse con diversi tipi di cibo: manzo e maiale in salamoia, pesce sotto sale, alcuni legumi e i cosiddetti “biscotti di mare”, gallette a base di farina e acqua. I barili sono stati successivamente caricati a bordo della nave Elissa, uno dei più antichi vascelli esistenti varato nel 1877 e attualmente ormeggiato nel porto di Galveston, Texas.

Il modello di riferimento per riprodurre il cibo di bordo è il relitto del galeone Warwick, una nave affondata a Castle Harbor nel 1619 a causa di un uragano: all’interno del relitto sono stati scoperti resti di bicchieri di vetro contenenti tracce di birra e vino, oltre a resti ossei di bovini.

Studiando i resti animali, il team è stato in grado di ricostruire quali tagli di carne fossero più utilizzati per la salamoia e ha riprodotto questa ricetta seguendo le istruzioni di un antico testo di cucina risalente al 1682. Il resto del cibo caricato a bordo è stato preparato seguendo i metodi del periodo, con l’obiettivo finale di verificare a mesi di distanza lo stato di conservazione di un pasto tipico dei marinai del 1600.

Manzo in salamoia dopo un solo giorno a bordo della Elissa
Manzo in salamoia dopo un solo giorno a bordo della Elissa
Contaminazione volontaria

I barili sono stati tenuti sotto osservazione analizzando i cambiamenti del loro contenuto ogni 10 giorni. Il cibo è stato maneggiato con la precisa intenzione di produrre contaminazioni batteriche accidentali e frequenti, dato che i marinai del XVII° secolo non erano soliti lavarsi le mani prima di toccare gli alimenti conservati nella stiva.

A distanza di due mesi il manzo in salamoia aveva assunto un aspetto orribile e un odore ancora peggiore, ma non si trovava in evidente stato di putrefazione e poteva essere considerato commestibile per gli standard alimentari di un marinaio affamato.

Dalle analisi del team di Tsai, dopo qualche settimana la carne doveva essere bollita almeno 40 minuti per distruggere una parte dei batteri nocivi che aveva accumulato durante il viaggio.

Galletta del 1784. National Maritime Museum, Greenwich
Galletta del 1784. National Maritime Museum, Greenwich

La sorpresa più grande l’hanno riservata i biscotti di mare (chiamati anche hard tack), gallette simili a cracker o biscotti realizzate con farina, acqua e sale: per quanto totalmente esposti al caldo umido dell’estate texana, hanno conservato quasi inalterato il loro aspetto originale.

I biscotti di mare erano considerati da molti dotti dell’epoca come un alimento molto nutriente perfetto per mantenere una sana costituzione fisica durante la navigazione. I fornai antichi creavano gallette durissime in grado di conservarsi in buono stato anche per un anno; col passare del tempo, l’esposizione all’umidità le avrebbe rese più morbide e masticabili.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il passo successivo dello Ship Biscuit & Salted Beef Research Project sarà quello di produrre birra secondo un procedimento comune nel XVII secolo, caricarla sulla nave entro l’inizio di dicembre e dopo qualche mese farla assaggiare al pubblico.

Ship Biscuit and Salted Beef Project

]]>
https://www.vitantica.net/2017/11/16/cibo-dei-marinai-xvii-secolo/feed/ 0
Yakhchal, l’antico frigorifero persiano https://www.vitantica.net/2017/11/08/yakhchal-antico-frigorifero-persiano/ https://www.vitantica.net/2017/11/08/yakhchal-antico-frigorifero-persiano/#respond Wed, 08 Nov 2017 20:00:45 +0000 https://www.vitantica.net/?p=819 Come facevano i nostri antenati a conservare il cibo facilmente deperibile? I metodi erano i più disparati: dalla salagione all’affumicatura, dalla calce alla terra, nel corso dei millenni sono stati escogitati diversi sistemi per la conservazione degli alimenti per periodi prolungati di tempo. Uno dei metodi più efficaci (e forse meno conosciuti in epoca moderna) è lo yakhchal, l’antica “fossa del ghiaccio” persiana.

Lo yakhchal (yakh significa “ghiaccio” e chal “fossa”) è sostanzialmente una grossa ghiacciaia d’argilla largamente utilizzata a partire da 2.500 anni fa nell’ odierno Iran e capace di conservare cibo per lunghi periodi di tempo o produrre grandi quantità di ghiaccio.

Un antico frigorifero passivo

Tenendo in considerazione il torrido clima estivo iraniano, immaginate quale sfida possa rappresentare la conservazione di alimenti facilmente deperibili, come latte e latticini. Gli antichi persiani avevano risolto il problema ideando un efficace sistema di raffreddamento capace non solo di rifornire la cittadinanza di acqua fresca quando le temperature raggiungevano i 40°C, ma anche di produrre discrete quantità di ghiaccio nell’arco di una nottata.

Gli yakhchal si sono rivelati così efficaci nel corso della storia da essere stati impiegati dalle comunità rurali iraniane e afgane come principale metodo di refrigerazione fino a poco più di 50 anni fa: svolgevano il ruolo di un frigorifero e potevano conservare beni alimentari e ghiaccio durante i mesi estivi.

Gli yakhchal erano generalmente costruiti ad oltre un chilometro di distanza dal più vicino centro cittadino e la loro struttura conica raggiungeva facilmente i 18 metri di altezza e una capienza di 5.000 metri cubi.

Gli yakhchal alimentati a ghiaccio erano dotati di due entrate: quella settentrionale serviva per rifornire di ghiaccio la struttura durante l’inverno, mentre quella meridionale era utilizzata nel pieno dell’estate per prelevare il ghiaccio immagazzinato.

Struttura di uno yakhchal protetto da un muro d'ombra
Struttura di uno yakhchal protetto da un muro d’ombra e rifornito d’acqua da un acquedotto

La tecnica di costruzione degli yakhchal fu perfezionata dai Persiani intorno al 400 a.C. per rendere possibile la conservazione di cibo e ghiaccio durante tutto l’arco dell’estate. Le ghiacciaie erano spesso strutture pubbliche e qualunque cittadino, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, poteva prelevare la sua porzione di ghiaccio durante l’estate. Altre invece erano privatizzate e vendevano ghiaccio direttamente dall’ingresso meridionale dello yakhchal.

Ghiacciaia conica di facile costruzione

La struttura conica è relativamente semplice da costruire, impiega materiali di facile reperimento ed è possibile che sia stata utilizzata su scala più ridotta ben prima dell’ Impero Persiano.

Interno di uno yakhchal
Interno di uno yakhchal

La ghiacciaia persiana era composta da tre parti:

  • Un ampio vano sotterraneo protetto, isolato e impermeabilizzato da pareti spesse fino a 2 metri costruite impiegando la sārūj, uno speciale tipo di malta utilizzato da millenni nella regione e composto da sabbia, argilla, albume d’uovo, calce, pelo di montone e cenere in proporzioni ben definite. In questa sezione dello yakhchal viene raccolto il ghiaccio o l’acqua che contribuiscono al raffreddamento della struttura; in passato il ghiaccio veniva trasportato dalle montagne limitrofe, mentre l’acqua era convogliata nella ghiacciata attraverso un sistema di acquedotti chiamato qanāt.
  • Una struttura piramidale, costruita sopra al vano sotterraneo, che funge da “frigorifero” e nella cui porzione inferiore veniva immagazzinato il cibo. Una volta introdotti ghiaccio o acqua nello yakhchal, l’aria calda proveniente dall’esterno si raffredda per convezione ed evaporazione e contribuisce a mantenere gli alimenti posti all’interno della piramide freschi e asciutti.
  • Uno o più muri d’ombra, alti fino a 10 metri, in grado di mantenere la ghiacciaia e la riserva d’acqua ben schermate dal sole. Il muro d’ombra era generalmente orientato da Est a Ovest per proteggere il più possibile il lato più esposto e caldo del yakhchal e serviva anche per tenere al riparo il canale che trasportava l’acqua verso la sezione sotterranea della ghiacciaia.
Funzionamento di uno yakhchal con torre del vento e acqua
Funzionamento di uno yakhchal con torre del vento e acqua proveniente da un qanāt
Frigorifero di cemento

La composizione del cemento sārūj può sembrare bizzarra, ma è studiata ad arte: sabbia, argilla e calce sono buoni isolanti termici, e il pelo di montone potrebbe essere stato impiegato alla stregua di fibra di vetro. I bianchi d’uovo potrebbero invece essere stati impiegati come legante per un mix così eterogeneo di materiali.

Durante la notte, molti degli yakhchal raggiungono temperature così basse da trasformare parte dell’acqua di raffreddamento in ghiaccio, aumentando l’efficacia della refrigerazione. La struttura conica favorisce l’espulsione di eventuale aria calda intrappolata all’interno della ghiacciaia ed è spesso connessa a torri del vento, costruzioni alte e affusolate che durante la notte convogliano aria fresca all’interno di un edificio, mentre durante il giorno favoriscono l’espulsione di aria calda.

Yakhchal di torri del vento
Yakhchal di torri del vento: Wikimedia Commons

Il ghiaccio prodotto dallo yakhchal era usato per rinfrescare dispense e abitazioni durante le giornate estive, per preparare sorbetti e il tradizionale dolce persiano faloodeh a base di spaghettini di amido freddi e uno sciroppo semi-ghiacciato composto da zucchero e acqua di rose.

AN OVERVIEW OF IRANIAN ICE REPOSITORIES, AN EXAMPLE OF TRADITIONAL INDIGENOUS ARCHITECTURE

]]>
https://www.vitantica.net/2017/11/08/yakhchal-antico-frigorifero-persiano/feed/ 0