aztechi – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Lo zoo di Montezuma https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/ https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/#respond Mon, 18 May 2020 00:06:44 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4861 Prima dell’istituzione moderna dello zoo, alcuni sovrani o uomini particolarmente ricchi amavano collezionare animali nel loro serraglio privato. Collezionare animali rari o esotici era uno status symbol: dimostrava ricchezza, potere e connessioni commerciali ed economiche molto rilevanti con il resto del mondo.

Carlo Magno aveva ben tre serragli a Aachen, Nijmegen e Ingelheim, serragli che ospitavano scimmie, leoni, orsi, cammelli, falchi, uccelli esotici di ogni tipo e un esemplare di elefante, il primo registrato in Europa dai tempi dell’ Impero Romano.

Il serraglio dell’ imperatore Montezuma, spesso definito un vero e proprio zoo, merita tuttavia una menzione particolare per le sue dimensioni, per le risorse impiegate nel suo mantenimento e per la varietà di animali presenti al suo interno.

Serraglio, l’antenato del giardino zoologico

Il primo serraglio della storia sembra essere stato quello di Ieraconpoli, o Nekhen, una città egizia che si trova lungo la riva occidentale del Nilo e centro di culto del dio Horus (Nekhen significa “Città del Falco”). All’interno del serraglio, in attività circa 5.500 anni fa, si potevano osservare ippopotami, gnu, elefanti, babbuini e felini selvatici africani.

Nel II secolo a.C. l’imperatrice cinese Tanki istituì la “Casa del Cervo”, un serraglio dedicato in particolar modo ai cervidi, ma circa un millennio prima di lei il re Wen di Zhou aveva destinato una fetta di 6 km quadrati dei suoi possedimenti a quello che lui chiamava “Ling-Yu” (“Giardino dell’Intelligenza”, o “Parco Divino”), un serraglio in cui erano custodite alcune delle specie animali più curiose e rare del continente asiatico: antilopi, capre, cervidi, pesci, uccelli dai colori sgargianti e animali considerati sacri.

Sembra che i Greci amassero particolarmente l’istituzione del serraglio: molte città-stato avevano strutture adibite a zoo o voliere, e il serraglio di Alessandria arrivò a contenere una collezione di animali che farebbe impallidire alcuni zoo moderni: elefanti, felini di ogni tipo, giraffe, rinoceronti, diverse specie di antilopi, orsi, e probabilmente un enorme pitone africano.

La passione per il collezionismo di animali nella Roma antica si sviluppò intorno al III secolo a.C. ma pian piano perse di valore: la maggior parte dei serragli si occupavano principalmente di custodire animali destinati alle arene. Con il crollo dell’impero, il serraglio divenne sempre più un inutile e costosissimo show di potere che ben pochi potevano o volevano permettersi.

Intorno al XIII secolo iniziano ad apparire nuovamente serragli in tutta Europa: a Napoli, Firenze, Milano, Lisbona e Nicosia erano presenti serragli invidiati in tutto il Vecchio Continente. A Oriente, invece, Marco Polo visitava la personale collezione di animali di Kublai Khan, un serraglio che conteneva animali provenienti dall’Asia e dall’Africa.

Lo zoo di Montezuma

Nel libro VIII del Codice Fiorentino, ultima versione in spagnolo e lingua nauhatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España” di Bernardino de Sahagun, è presente l’illustrazione di alcuni “guardiani” addetti alla cura degli animali presenti nel serraglio di Montezuma, sovrano azteco con l’evidente passione per le bestie rare.

Secondo i resoconti in nostro possesso, Montezuma avrebbe posseduto un serraglio/zoo contenente un’infinità di animali: uccelli di ogni tipo e provenienza, leoni di montagna, ocelot e orsi. Il serraglio era così grande da richiedere la cura costante di almeno 300 guardiani.

Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577
Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577

Gli animali dello zoo consumavano quotidianamente la carne di oltre 500 tacchini, in particolar modo i grandi felini e gli uccelli rapaci. Un edificio era interamente dedicato a falchi e aquile, mentre una seconda struttura ospitava uccelli di altre specie; all’interno di queste strutture vivevano i guardiani, il cui unico scopo nella vita era quello di mantenere in salute gli animali sotto la loro custodia.

Secondo S.L. Washburn, del Dipartimento di Antropologia dell’ Università della California, Berkeley, i resti umani ottenuti dai sacrifici rituali venivano utilizzati per alimentare i grandi predatori dello zoo di Montezuma. I predatori di grossa taglia, come i leoni di montagna, ricevevano ogni giorno svariati chilogrammi di carne umana, viscere comprese, ottenendo un apporto di proteine sufficiente alla loro sopravvivenza.

L’area esterna dello zoo conteneva 20 stagni, 10 di acqua salata e i rimanenti pieni d’acqua dolce, che fornivano gli habitat ideali per pesci, anfibi, rettili e uccelli acquatici. Il serraglio ospitava anche grandi predatori come giaguari, puma, coccodrilli, orsi e lupi, e animali di taglia media o piccola, come scimmie, bradipi, armadilli e tartarughe.

Non solo: era presente un piccolo edificio nel quale erano rinchiuse diverse specie di serpenti a sonagli e viperidi, tenuti per cautela all’interno di contenitori di terracotta. Nel giardino, infine, vagava ciò che venne descritto “toro messicano”, considerato dagli Aztechi l’animale più raro e descritto come un animale del tutto simile al bisonte nordamericano.

Ma il diario di Cortez e i resoconti di alcuni dei suoi compagni di conquista citano anche alcune particolari sezioni di questo zoo destinate agli esseri umani.

La “Casa degli Umani”

Le descrizioni contemporanee e di poco posteriori non sono sempre concordi nei dettagli dello zoo di Montezuma, ma il resoconto di Cortez viene considerato uno dei più singolari perché cita una “Casa degli Umani”, un’area dello zoo adibita alla custodia di esseri umani.

Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali
Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali

Nel corso della descrizione di uno dei palazzi in cui Montezuma custodiva i suoi uccelli, Cortez afferma che:

“In questo palazzo c’è una stanza in cui ci sono uomini e donne e bambini, con viso, corpo, capelli, sopracciglia e ciglia tutti bianchi dalla nascita…Aveva un’altro edificio in cui c’erano molti uomini e donne mostruosi, tra i quali nani, persone con arti deformi, gobbi e altri con differenti deformità, e ogni persona aveva una stanza personale, e c’erano persone dedicate a fornire loro assistenza”

Secondo Francisco López de Gómara, storico e cappellano di Cortez che tuttavia mai accompagnò il conquistatore spagnolo nelle Americhe, le persone affette da nanismo o da deformità fisiche avevano un ruolo rilevante nella corte di Montezuma: venivano impiegati come confidenti, spie, servitori o intrattenitori. Alcuni godevano di uno status sociale così elevato da poter mangiare subito dopo il sovrano e i suoi commensali, prima di servitori e guardie.

Cortez tuttavia non cita il ruolo dei disabili fisici all’interno della corte o del sistema politico azteco. Li descrive rinchiusi in un edificio, ben nutriti e serviti ma pur sempre proprietà imperiali, non rispettati come esseri umani ma come possedimenti.

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Zoo History: The Halls of Montezuma
Menagerie
Animals and the Law: A Sourcebook
Were humans included in Moctezuma’s Zoo?
Cartas y relaciones de Hernan Cortés al emperador Carlos V

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Il Codice Mendoza https://www.vitantica.net/2019/02/01/codice-mendoza-aztechi/ https://www.vitantica.net/2019/02/01/codice-mendoza-aztechi/#respond Fri, 01 Feb 2019 00:10:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3118 Il Codice Mendoza, noto anche come Codice Mendocino o La colección Mendoza, è un codice azteco creato tra il 1529 e il 1553 contenente una serie di preziose informazioni sulla vita dell’impero azteco, come la lista dei regnanti, i tributi pagati dai popoli sottomessi e una descrizione sulla vita quotidiana delle culture mesoamericane.

La storia del Codice Mendoza

Il Codice prende il nome dal viceré della Nuova Spagna Antonio de Mendoza, che lo commissionò per donarlo a Carlo V. Il codice è stato compilato utilizzando i pittogrammi tradizionali degli scribi aztechi, in aggiunta a traduzioni e commenti in spagnolo.

Codice Mendoza: La fondazione di Tenochtitlan
Codice Mendoza: La fondazione di Tenochtitlan

Il manoscritto fu realizzato tra il 6 luglio 1529 e il 1553, dato che si cita Hernan Cortes e reca la firma del cosmografo francese André Thevet, possessore del Codice Mendosa che scrisse il suo nome in cinque pagine diverse datando la sua firma in due occasioni con l’anno 1553.

Sembra che il manoscritto sia stato scritto in fretta e furia prima del suo invio in Spagna e la data certa della sua composizione è materia di dibattito ancora oggi.

Codice Mendoza: La conquista di Itzcoatl
Codice Mendoza: La conquista di Itzcoatl

Una volta terminato, il Codice Mendoza si imbarcò da Veracruz verso la Spagna, ma nel 1549 la nave su cui veniva trasportato fu attaccata da corsari francesi e depredata. Il Codice, insieme al bottino, raggiunse quindi la Francia ed entrò in possesso di André Thevet, cosmografo di Enrico II.

Codice Mendoza: La conquista di Ahuitzotl
Codice Mendoza: La conquista di Ahuitzotl

Secondo Samuel Purchas, scrittore del XVI-XVII secolo e penultimo possessore del Codice Mendoza, il manoscritto fu poi acquistato dall’inglese Richard Hakluyt per 20 corone francesi, per poi giungere nelle mani di Purchas nel 1616. Il Codice Mendoza fu depositato nella Bodleian Library di Oxford nel 1659 e si perse la memoria della sua esistenza fino al 1831, anno in cui gli accademici inglesi si resero conto della sua rilevanza storica.

La pagina finale del Codice Mendoza spiega le circostanze della sua produzione:

Il lettore dovrà scusare lo stile grezzo dell’interpretazione delle raffigurazioni di questa storia, perché l’interprete non si prese il tempo per lavorare lentamente…Questa storia fu consegnata all’interprete 10 giorni prima della partenza della flotta, e la tradusse senza cura perché gli Indiani giunsero tardi ad un accordo; quindi fu tradotto di fretta e non fu perfezionato lo stile, e nemmeno [il traduttore] spese del tempo a ripulire le parole e la grammatica o a fare una copia presentabile.

Codice Mendoza
Contenuto del Codice Mendoza

Il Codice Mendoza è compostoda 71 pagine divise in tre sezioni.

Sezione I

Storia degli Aztechi dal 1325 al 1521, dalla fondazione di Tenochtitlan fino alle prime battute della conquista spagnola. Contiene un elenco di tutti i regnanti e delle città da loro conquistate.

Codice Mendoza: Lista delle città tenute a pagare tributi
Codice Mendoza: Lista delle città tenute a pagare tributi
Sezione II

Lista di tutte le città conquistate dalla Triplice Alleanza e dei tributi che pagavano all’impero azteco. Questa sezione è probabilmente copiata dal manoscritto Matrícula de Tributos, un elenco dei tributi pagati dalle città sottomesse all’influenza azteca, ma il Codice Mendoza contiene cinque province non elencate nel Matrícula.

Codice Mendoza: Lista dei tributi
Codice Mendoza: Lista dei tributi
Sezione III

Contiene un elenco di raffigurazioni della vita quotidiana degli Aztechi.

Codice Mendoza
Codice Mendoza: attività quotidiane

Lo scopo iniziale del Codice era quello di fornire ai regnanti una serie di informazioni affidabili sui popoli mesoamericani conquistati dalla Spagna.

Codice Mendoza

Buona parte del suo contenuto potrebbe essere stato copiato da fonti pre-ispaniche, quasi tutte andate distrutte durante le campagne di eradicazione del primo vescovo messicano Juan de Zumarraga.

Codex Mendoza

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Breve storia del pomodoro (fino al XVIII secolo) https://www.vitantica.net/2019/01/16/breve-storia-del-pomodoro-fino-al-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2019/01/16/breve-storia-del-pomodoro-fino-al-xviii-secolo/#respond Wed, 16 Jan 2019 00:10:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2957 Il pomodoro (Solanum lycopersicum) è una pianta nativa del Sud America che nel corso dei secoli ha assunto diverse forme, colori e sapori grazie ad una vasta opera di selezione genetica da parte dell’essere umano.

La sua esatta origine è ancora incerta: sappiamo che appartiene alla famiglia delle Solanaceae, ma non sappiamo quando iniziò a separarsi dalle sue “cugine” velenose o quando ebbe inizio la sua domesticazione.

Classificazione del pomodoro: frutta o verdura?

Botanicamente, il pomodoro è un frutto di una pianta da fiore, ma in ambito culinario viene considerato un ortaggio per via del suo basso contenuto di zuccheri rispetto alla frutta tradizionale.

Il pomodoro non è l’unico frutto “ambiguo”: anche i peperoni, i cetrioli, le zucche e le melanzane sono frutta che viene generalmente trattata come verdura a tavola.

Tutte le parti verdi del pomodoro contengono tomatina, un sostanza tossica che non viene eliminata nemmeno tramite la cottura, e piccole quantità di solanina, un alcaloide presente anche nelle foglie di patata.

Anche il frutto della pianta di pomodori contiene tomatina, ma in quantità molto basse. Gli effetti della tomatina sul corpo umano non sono ancora stati studiati a fondo, ma l’avvelenamento da tomatina sembra causare sintomi simili a quelli provocati dalla solanina.

Linneo classificò il pomodoro nel 1753 includendolo nella famiglia delle Solanaceae e definendolo Solanum lycopersicum. Quindici anni dopo, Philip Miller ritenne invece più opportuno classificare il pomodoro in un genere a parte, chiamandolo Lycopersicon esculentum, un nome alternativo considerato scientificamente corretto per coloro che non collocavano la pianta di pomodoro nel genere Solanum.

L’analisi genetica del pomodoro finì per dare ragione a Linneo: è corretto classificare la pianta come solanacea, ma nella letteratura botanica degli ultimi due secoli è possibile trovare sia il nome di Linneo sia quello di Miller.

Il pomodoro mesoamericano
Pomodori selvatici
Pomodori selvatici

La storia del pomodoro ha inizio in Sud America, dove in passato erano diffuse piante selvatiche di pomodoro che producevano frutti piccoli e gialli. Non abbiamo una data certa per la domesticazione del pomodoro ma sappiamo che nel 500 a.C. aveva ormai raggiunto il Messico e veniva coltivata dal popolo Pueblo, che riteneva che ingerire i semi di pomodoro garantisse poteri divinatori.

La varietà di pomodoro rosso, di grosse dimensioni e spesso di forma irregolare sembra essere emersa in Mesoamerica a partire da una mutazione del pomodoro originale sudamericano, mutazione favorita dalla selezione azteca per ottenere frutti più grandi, dolci e rossi.

Non abbiamo la certezza che Colombo, nel 1493, abbia riportato in Europa alcuni esemplari di pomodoro, ma è certo che Cortes, dopo la cattura di Tenochtitlan nel 1521, si appropriò di alcuni semi di pomodoro giallo e li inviò nel Vecchio Continente.

All’arrivo di Cortes il pomodoro, chiamato tomatl o xitomatl in lingua Nahuatl, era ormai parte integrante della dieta azteca e presente in numerose varietà sui mercati di Tenochtitlan, come spiega il missionario spagnolo Bernardino de Sahagún:

Quelli che vendono i pomodori vendono solitamente quelli grandi e quelli molto piccoli, e ne esistono di ogni tipo, in molte varietà differenti, come pomodori gialli, rossi e altri molto soffici e maturi. I venditori disonesti vendono quelli marci o spappolati, o quelli dal sapore ancora aspro. Vendono anche quelli non ancora maturi e verdi, e quelli, quando vengono mangiati, provocano dolori di stomaco, non hanno sapore e provocano catarro.

Il pomodoro arriva in Europa

Il primo riferimento al pomodoro nella letteratura europea appare nel 1544: Pietro Andrea Mattioli, botanico e medico italiano, scrisse nel suo erbario di aver osservato una nuova pianta di melanzana portata nella penisola dalle Americhe: la pianta era rossa o gialla e poteva essere consumata cotta e condita con sale, pepe nero e olio, proprio come una malanzana. Dieci anni dopo, lo stesso Marrioli rinomina questa pianta come “pomo d’oro“.

Qualche anno dopo appare un altro riferimento documentale al pomodoro: il 31 ottobre del 1548 il dispensiere di Cosimo de’ Medici scrisse una lettera al segretario privato del Granduca comunicando che il cesto di pomodori inviato da Torre del Gallo era arrivato sano e salvo.

Inizialmente, i pomodori furono coltivati in Italia a puro scopo ornamentale per via della capacità di questa pianta di mutare in continuazione, creando frutti con forme e colori sempre differenti.

Raffigurazione del pomodoro ("Poma amoris fructu rubro") del 1620
Raffigurazione del pomodoro (“Poma amoris fructu rubro”) del 1620

I pomodori non furono inizialmente considerati una risorsa alimentare per via del loro scarso potere nutritivo (saziano meno di altra frutta) e per la confusione causata dalla coltivazione sia di specie commestibili che tossiche.

A Firenze fu utilizzato solo come pianta ornamentale per la tavola fino al tardo XVII secolo, mentre il primo libro di ricette che prevede l’impiego del pomodoro fu scritto a Napoli nel 1692 (“Lo scalco alla moderna”), circa 150 anni dopo l’arrivo del pomodoro in Italia.

In Inghilterra il pomodoro non fu coltivato fino agli anni ’90 del 1500. Uno dei primi coltivatori fu John Gerard, un barbiere che pubblicò nel 1597 un erbario (copiato quasi interamente dall’erbario The Herball, or Generall Historie of Plantes del naturalista olandese Rembert Dodoens) che rappresenta la prima documentazione storica relativa al pomodoro inglese.

Gerard riteneva che il pomodoro fosse deleterio per la salute e le sue valutazioni sulla pericolosità della pianta bloccarono il consumo di pomodoro sia in Gran Bretagna che nelle colonie inglesi in America almeno fino al termine del XVII secolo.

Nel XVIII secolo, il pomodoro aveva comunque conquistato il gusto inglese e verso la fine del 1700 era diventato un ingrediente comune in zuppe, brodi e contorni, anche se non faceva parte della dieta dell’inglese medio perchè veniva generalmente impiegato nell’alta cucina.

La paura del pomodoro

Come accennato qualche riga più sopra, la paura della velenosità del pomodoro rallentò la diffusione di questo frutto prelibato nel Vecchio Continente. Non era soltanto John Gerald a ritenere che fosse velenoso, ma era una credenza diffusa in molti circoli aristocratici europei.

La presenza di tomatina nel pomodoro è una scoperta relativamente recente; inoltre, la gente comune abbastanza fortunata da aver mangiato pomodori si dimostrò apparentemente immune alla sua velenosità. Quale furono le ragioni che portarono a ritenere tossica questa pianta?

La sua somiglianza con alcune piante considerate velenose o “peccaminose”, come la melanzana, contribuì di certo alla fama negativa del pomodoro, ma la tossicità di questo frutto tra i benestanti dei secoli passati era legata ad un problema molto più pratico: piatti in peltro.

Il peltro è una lega a base di stagno che in antichità veniva prodotta aggiungendo fino al 15% di piombo, anche se generalmente gli oggetti per la tavola prodotti fino al XVIII secolo contenevano circa il 4% di piombo.

I succhi del pomodoro sono noti per la loro acidità: una volta a contatto con i piatti in peltro così comuni sulle tavole di chiunque potesse permetterseli, scioglieva parte del piombo favorendone l’assimilazione nell’organismo e causando un lento ma progressivo avvelenamento.

The History of the Arrival of the Tomato in Europe: An Initial Overview
Why the Tomato Was Feared in Europe for More Than 200 Years

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La Guerra dei Fiori degli Aztechi https://www.vitantica.net/2018/11/09/guerra-dei-fiori-aztechi/ https://www.vitantica.net/2018/11/09/guerra-dei-fiori-aztechi/#respond Fri, 09 Nov 2018 00:10:57 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2568

Alcuni popoli antichi intraprendevano guerre cerimoniali, scontri ritualizzati che avevano da una parte l’obiettivo di evitare eccessivi spargimenti di sangue, dall’altra di soddisfare il fabbisogno di sacrifici umani dettati dalle loro credenze religiose.

La Guerra dei Fiori (in linguaggio Nahuatl xochiyaoyotl) rientra in questa categoria di scontri cerimoniali nati da necessità religiose: si trattava di una guerra rituale combattuta tra la Triplice Alleanza Azteca e i loro rivali locali a partire dalla metà del XV secolo fino all’arrivo degli Spagnoli nel 1519.

L’origine delle Guerre dei Fiori

Tra il 1450 e il 1454 l’impero azteco fu colpito da numerosissime carestie dovute alla siccità. Fame, inedia e morte si diffusero tra gli abitanti della Triplice Alleanza, decimando la popolazione che dopo breve tempo iniziò a chiedere ai suoi governanti risposte concrete alla situazione di crisi.

La risposta giunse dai sacerdoti di Tenochtitlan: le divinità sono furiose con l’impero azteco e per placarle è necessario sacrificare molti uomini e in modo regolare. Ma come compiere sacrifici umani quando la città-stato locali non dispongono di sufficienti prigionieri di guerra da mandare nell’aldilà?

Fu così che nacque la Guerra dei Fiori: Tenochtitlan e le sue città alleate Texcoco e Tlacopan stabilirono con le città di Tlaxcala, Choula e Huejotzingo di creare un evento sanguinario in grado di procurare vittime sacrificali senza tuttavia spargere troppo sangue e rischiare il collasso di intere città-stato.

All’ arrivo di Cortes, Cholula era una città seconda solo a Tenochtitlan in quanto a dimensioni e popolazione: era abitata da circa 100.000 persone, ospitava oltre 300 templi ed era sede di una classe sacerdotale molto influente nella regione, tanto che i principi aztechi furono incoronato da sacerdoti Cholula fino alla caduta della Triplice Alleanza.

Cholula rimaneva tuttavia una città rivale di Tenochtitlan, come lo erano Tlaxcala e Huejotzingo; queste ultime finirono per cadere sotto l’influenza azteca durante il XV secolo e i loro rapporti con la Triplice Alleanza non furono mai idilliaci: all’arrivo di Cortes, Tlaxcala e Huejotzingo ruppero i loro legami con Tenochtitlan per allearsi con gli Spagnoli.

Le caratteristiche di una Guerra dei Fiori

Guerra dei Fiori azteca

La Guerra dei Fiori aveva diversi punti di distinzione con una guerra tradizionale. In primo luogo, le armate erano composte da un numero fisso di guerrieri che stabilivano di comune accordo il luogo dello scontro, luoghi che col tempo assunsero un’aura di sacralità sotto il nome di cuauhtlalli o yaotlalli.

L’inizio dello scontro era determinato dall’accensione di una grossa pira di carta e incenso posta in mezzo agli schieramenti. Contrariamente alle guerre tradizionali, le Guerre dei Fiori venivano combattute utilizzando principalmente armi bianche non da lancio: atlatl, fionde e pietre erano escluse dallo scontro, mentre dominavano il campo armi in grado di mettere in mostra l’abilità guerriera dei contendenti, come macuahuitl (leggi questo post per la descrizione del macuahuitl), clave e lance.

Le Guerre dei Fiori iniziarono come tradizione in cui i decessi avvenivano in numero limitato, ma col tempo aumentarono di numero fino a raggiungere tassi di mortalità simili ad una vera battaglia.
La guerra rituale combattuta tra Aztechi e Chalcas, ad esempio, registrò al suo inizio poche vittime, principalmente guerrieri di basso rango catturati e sacrificati come offerte alle divinità.
Col passare degli anni, le schiere di prigionieri si popolarono sempre più di membri della nobiltà e le morti illustri si fecero sempre più numerose.

Per la cultura azteca era obbligatorio partecipare ad una battaglia per essere definiti veri guerrieri. Gli Aztechi apprezzavano enormemente l’ abilità marziale dei loro soldati e le Guerre dei Fiori erano il luogo ideale per dimostrare la superiorità dei combattenti aztechi sui loro rivali Chalcas o provenienti da altre città-stato.

Gli Aztechi tenevano in grande considerazione la morte durante le Guerre dei Fiori. Morire durante un evento simile era considerato più nobile e glorioso rispetto al decesso in battaglia: era credenza diffusa che perdere la vita durante una Guerra dei Fiori aprisse le porte d’accesso alla casa di Huitzilopochtli, dio del sole, del fuoco e della guerra.

Controllo e propaganda

Guerra dei Fiori azteca

L’origine della Guerra dei Fiori non è esclusivamente religiosa, ma ha ragioni politiche e sociali. Anche se è vero che il sacrificio umano era parte integrante della ritualità degli Aztechi, è altrettanto vero che le vittime sacrificali non si trovavano dietro ogni angolo del Messico.

Una guerra rituale era un metodo, concordato tra le parti, per limitare le perdite di guerrieri e ottenere allo stesso tempo prigionieri di guerra da sacrificare sugli altari divini. In questo modo, inoltre, gli Aztechi potevano dedicare buona parte delle loro risorse militari alla difesa dei confini da eventuali minacce impreviste, mentre i loro nemici ne uscivano debilitati e sottomessi alla potenza militare della Triplice Alleanza.

Se solo Tenochtitlan si fosse dedicata interamente a sconfiggere i Chalcas, avrebbe potuto ottenere una vittoria adecisiva in breve tempo, essendo militarmente e numericamente superiore ai rivali. Anche se non sappiamo la ragione esatta per cui non schiacciarono mai il loro avversario storico, è ragionevole supporre che la Guerra dei Fiori fosse un modo meno cruento e più pratico di mantenere il proprio nemico in inferiorità decimando i suoi guerrieri migliori in uno scontro in campo aperto, in un luogo prefissato e senza dover affrontare tattiche di guerriglia difficilmente gestibili da un esercito vasto e organizzato come quello azteco.

La Guerra dei Fiori era sostanzialmente un metodo efficace per continuare un conflitto troppo costoso e complesso da potersi concludere in breve tempo. Disponendo di un numero fisso di guerrieri per ogni schieramento, gli Aztechi davano l’impressione di voler giocare ad armi pari col nemico; poco dopo l’inizio dello scontro, la superiorità marziale azteca emergeva in tutta la sua ferocia, falciando i soldati nemici e debilitando indirettamente le forze militari dei popoli rivali.

La vittoria nelle Guerre dei Fiori otteneva quindi due risultati: manteneva deboli le forze d’attacco di potenziali avversari militari e propagandava l’idea che i guerrieri aztechi fossero superiori agli altri, mettendo in guardia le altre città-stato sulle conseguenze di un conflitto con la Triplice Alleanza.

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Flower war

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Miti sull’esplorazione e la conquista dell’ America https://www.vitantica.net/2018/03/31/miti-esplorazione-conquista-america/ https://www.vitantica.net/2018/03/31/miti-esplorazione-conquista-america/#respond Sat, 31 Mar 2018 02:00:49 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1538 Colombo inaugurò l’epoca delle grandi scoperte e delle grandi conquiste americane. Spagna, Portogallo e altre potenze europee iniziarono a spingersi nel Nuovo Mondo facendo leva sulla loro superiorità tecnologica e strategica, conquistando interi regni con manipoli di soldati e convertendo milioni di indigeni che, prima del contatto con i conquistatori del Vecchio Mondo, vivevano in armonia con la natura e in culture semi-primitive. Questo è generalmente il quadro dipinto per l’ epoca delle grandi esplorazioni americane, ma quanto c’è di vero in tutto questo?

 

Le Americhe furono conquistate grazie alla superiorità tecnologica degli Europei?

L’ Europa ha un’antichissima e raffinata tradizione bellica che potrebbe far pensare ad una sua “superiorità militare assoluta” durante il periodo delle grandi esplorazioni. Per alcuni aspetti non è un’affermazione molto distante dalla realtà, ma è un errore supporre che nel resto del mondo si combattesse senza riguardo per la strategia o la tecnologia disponibile.

Molti popoli nativi americani non conoscevano l’uso dei metalli e leghe superiori, come bronzo, ferro e acciaio, ma questo non significa che le loro armi fossero poco raffinate o efficaci. Le cronache del tempo riportano numerosissimi episodi in cui l’invasore europeo fu ferocemente respinto verso l’oceano con armi di legno o pietra e l’uso di tattiche di guerriglia in grado di rendere controproducente la superiorità tecnologica dei conquistatori.

Uno scenario molto comune era il seguente: avvolti da protezioni metalliche come pettorali o elmi e appesantiti dalla necessità di trasportare provviste, utensili e armi in terra sconosciuta e ostile, i conquistatori europei non potevano muoversi agilmente in territori paludosi o nel fitto della foresta, dando modo ai nativi di compiere manovre veloci e furtive che in breve tempo decimavano gli invasori.

Gli indigeni furono anche molto veloci ad imparare i punti deboli del nemico e ad adottare alcune delle sue armi: un esempio è l’introduzione del cavallo in Nord America, che contribuì ad un cambiamento radicale nelle tecniche di guerriglia dei nativi, fino ad allora limitati negli spostamenti dall’assenza totale di mammiferi cavalcabili.

 

Spagnoli, Portoghesi e Inglesi decimarono la popolazione nativa americana?

Miti sull'esplorazione e la conquista dell' America

Di certo i conquistatori europei non contribuirono alla crescita demografica dei nativi americani durante l’epoca delle grandi esplorazioni. Lo sterminio di interi villaggi non era affatto raro, ma la colpa della scomparsa di intere civiltà non è attribuibile alla sola bellicosità degli invasori europei.

Le malattie furono le vere protagoniste della sparizione dei popoli che da secoli vivevano e prosperavano nelle Americhe, alcune importate dal Vecchio Continente mentre altre già esistenti e attive prima del viaggio di Colombo. Con l’arrivo dei primo stranieri sul suolo americano, diverse epidemie colpirono violentemente la popolazione indigena uccidendo milioni di persone, raggiungendo in alcune regioni una mortalità superiore al 90%.

Tra le malattie più letali si registrano il vaiolo, il tifo, il morbillo, l’influenza, la peste bubbonica, la malaria e la pertosse, malattie ormai croniche in Eurasia al momento della “scoperta” dell’America; i popoli del Vecchio Continente e dell’Asia avevano ormai sviluppato una sorta di resistenza ad alcune di queste malattie grazie alla condivisione degli spazi vitali con i grandi mammiferi domestici (vacche, capre, maiali, ecc…), animali del tutto inesistenti nelle Americhe prima dello sbarco dei primi coloni.

In aggiunta alle “malattie d’importazione”, i cambiamenti climatici in atto già dal XIV secolo provocarono la ricomparsa, in forme particolarmente virulente, di agenti patogeni già esistenti nel Nuovo Mondo, come la sequenza di pestilenze cocoliztli che decimò gli Aztechi nel XVI secolo.

 

Tenochtitlan, la capitale azteca, fu conquistata da una manciata di conquistadores spagnoli alla guida di Cortés?

Anche se è vero che Tenochtitlan cadde dopo 10 settimane di assedio da parte dell’esercito di Cortés, la fase finale della città non corrisponde al primo incontro tra gli spagnoli e l’impero azteco: il primo incontro tra Cortés e gli Aztechi non fu affatto trionfale, e nemmeno un assedio.

Il mito dice che quando Hernán Cortés arrivò per la prima volta a Tenochtitlan riuscì a conquistare una delle città più popolate del mondo con un centinaio di uomini, la superiorità militare e tecnologica spagnola e facendo leva sulla superstizione religiosa dei Mexica: gli abitanti della città scambiarono addirittura gli uomini a cavallo per centauri, adorandoli come creature soprannaturali, e l’imperatore Montezuma II pensò che Cortés fosse l’incarnazione (o un discendente) del dio Quetzalcoatl.

La documentazione storica dice invece che la vicenda si sviluppò diversamente: quando Montezuma II decise finalmente di incontrare Cortés dopo numerosi rifiuti, lo spagnolo si diresse verso Tenochtitlan con 600 soldati, 15 cavalieri, 15 cannoni e quasi un migliaio di portantini e guerrieri indigeni arruolati dalle parti di Veracruz. Durante il percorso verso Tenochtitlan Cortés riuscì a stipulare alleanze con i Totonac, i Nahuas e i Tlaxcalan arruolando almeno altri 3.000-4.000 combattenti.

L’ 8 novembre 1519 Cortés entrò pacificamente nella capitale azteca con tutto il suo esercito e incontrò l’imperatore Montezuma II (che molto probabilmente temeva che lo spagnolo fosse un ambasciatore di un regnante più potente, e non l’incarnazione del dio Quetzalcoatl), ricevendo regali d’oro che non fecero altro che eccitare le truppe spagnole (e i loro alleati nativi) frementi nell’ attesa di saccheggiare ogni prezioso in città.

Hernán Cortés e il suo esercito non conquistarono la città, ma furono accolti pacificamente con un misto di diffidenza e riverenza da parte degli abitanti locali. Ciò che accadde dopo può essere definito, più che un assedio, una barricata destinata a fallire e una delle notti più disastrose per la Spagna del XVI secolo (la “Noche Triste“): gli Aztechi, infuriati per il massacro del Templo Mayor, assediarono Cortés rinchiuso nel palazzo reale costringendolo alla fuga durante la notte.

La fuga andò male: i numeri relativi alle vittime cambiano in base alle fonti, ma qualche centinaio di spagnoli e qualche migliaio di nativi alleati morirono sotto i colpi di lance, propulsorie mazze degli Aztechi. Nessun soldato uscì illeso dalla battaglia.

Quando Cortés ebbe una nuova occasione per cingere d’assedio Tenochtitlan lo fece in grande stile: il 26 maggio del 1521 si presentò di fronte alla città con 86 cavalieri, 700 fanti, 118 tra archibugieri e balestrieri, 16 cannoni e ben 50.000 nativi alleati, contro un esercito di 75-100.000 guerrieri aztechi armati di mazze, lance e archi. Le perdite furono gravissime per entrambe le parti: 20.000 nativi e 400-800 soldati da parte di Cortés e 200.000 tra guerrieri e civili per gli Aztechi.

 

I nativi americani vivevano in armonia con la natura prima dell’arrivo degli Europei?
Cahokia Monks Mound
Rappresentazione di Cahokia, una delle città precolombiane più grandi

Generalizzare la popolazione di un intero continente non può fare altro che creare errori di valutazione e miti che durano per secoli, e i nativi delle Americhe non fanno eccezione. E’ vero che le popolazioni indigene spesso vivevano a contatto più stretto con la natura rispetto agli Europei, ormai abituati ad una vita cittadina o di campagna; è anche vero tuttavia che all’arrivo dei primi esploratori da Oriente i nativi vivevano in culture molto elaborate e spesso organizzate in agglomerati urbani molto popolati e non così diversi dalle città del Vecchio Continente.

La vita delle popolazioni che vivevano negli attuali Stati Uniti era regolata da ritmi naturali alterati dall’attività umana: zucche e mais venivano regolarmente coltivati negli stessi campi, campi ottenuti tramite la tecnica del “taglia e brucia” che fu fondamentale per la creazione delle Grandi Praterie e di foreste facilmente attraversabili e percorse da sentieri battuti.

In Centro America la situazione non era molto differente, anzi: nel Messico dei Maya, ricoperto in buona parte da foreste tropicali, era estremamente difficile vivere in isolamento totale da un insediamento umano. La maggior parte della popolazione viveva in villaggi e cittadine distanti gli uni dalle altre non più di 10 chilometri e animati da un ricco commercio di cibo, preziosi e materie prime.

 

Colombo scoprì per primo l’America nel 1492 perchè solo nel XV secolo gli Europei iniziarono ad essere curiosi sul mondo?

Primo: Colombò non fu il primo a mettere piede sul continente americano e per lungo tempo non si rese nemmeno conto di aver scoperto un nuovo continente; tecnicamente, non sbarcò nemmeno nel continente, essendo giunto nelle Bahamas durante il suo primo viaggio.

Secondo: il primo europeo a sbarcare su suolo americano fu molto probabilmente norreno. Vinland, il nome norreno per il Nord America, fu scoperta da Leif Erikson, che sbarcò nell’area dell’attuale Boston intorno alla fine del X secolo. Vinland viene descritta in diverse saghe ben 500 anni prima che Colombo decidesse di imbarcarsi nel suo viaggio e ospitò anche un insediamento permanente di 100-300 persone per almeno due anni, fino a quando i nativi decisero di averne abbastanza dei norreni e dei loro saccheggi.

Non bisogna inoltre dimenticare che ben prima di Colombo i Portoghesi avevano iniziato da almeno un secolo ad esplorare i confini del mondo conosciuto, navigando ad esempio lungo le coste inesplorate dell’Africa; lo stesso avevano fatto i Cinesi, raggiungendo il Madagascar tra il 1431 e il 1433 con un viaggio così avventuroso da far impallidire le 10 settimane di viaggio di Colombo. L’epoca delle grandi esplorazioni oceaniche sarebbe iniziata con o senza Colombo e il navigatore non fu di certo il primo a sbarcare nelle Americhe.

 

Colombo voleva dimostrare che la Terra era sferica?
Mappa della Terra piatta creata da Orlando Ferguson nel 1893

Questo è un mito che persiste con forza ancora oggi, ma non ha nulla di reale. Come spiegato in questo post sulla teoria (non scientifica) della Terra piatta, nel XV secolo era ormai un fatto ampiamente accettato e dimostrato che il pianeta fosse una sorta di sfera.

Le principali discussioni cosmologiche riguardavano invece suo il posto nell’universo: si trattava di una specie di mela che galleggiava nell’oceano? Era semplicemente sferica e qualche forza impediva alle acque dei mari di cadere verso il basso?

I dotti della corte spagnola che esaminarono i dettagli sul viaggio verso Occidente non lo giudicarono impossibile perché ritenevano che la Terra fosse piatta, ma per un errore matematico ben evidente commesso da Colombo.

Il navigatore intendeva raggiungere il Cipango (Giappone) navigando verso Ovest per circa 68° di longitudine, ma aveva male interpretato la lunghezza di un miglio marino arabo da quello italiano, riducendo enormemente la circonferenza reale del pianeta: secondo Colombo, il Giappone distava dalla Spagna solo 5.000 chilometri, quando in realtà si trattava di ben 20.000 chilometri.

Gli esperti della corte spagnola, pur non sapendo esattamente quanto fosse distante il Giappone, si resero immediatamente conto dell’errore di calcolo di Colombo. Sapevano per certo che navigando ad Ovest prima o poi si sarebbe giunti in Giappone, ma non credevano che una caravella potesse percorrere quell’enorme distanza senza conseguenze fatali per l’equipaggio: una nave così piccola non avrebbe avuto a disposizione sufficienti viveri per attraversare quell’enorme distesa di mare.

Fu esattamente quello che si verificò durante il primo viaggio di Colombo: dopo aver percorso l’Atlantico, i viveri erano quasi esauriti e l’equipaggio era sulla via dell’ammutinamento; Colombo si salvò grazie all’immenso colpo di fortuna di scoprire una terra sconosciuta nel punto esatto in cui aveva calcolato di trovare le coste del Giappone.

Myths about the colonization of Spanish America
10 Myths About Famous Explorers
American History Myths Debunked: Columbus Discovered America

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Le più grandi città dell’antichità dal X secolo al 1700 https://www.vitantica.net/2018/03/27/grandi-citta-antichita-x-secolo-1700/ https://www.vitantica.net/2018/03/27/grandi-citta-antichita-x-secolo-1700/#respond Tue, 27 Mar 2018 02:00:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1524
Baghdad, Iraq

Baghdad è inclusa in questa lista e in quella precedente (Città più grandi dell’antichità fino al X secolo) perché intorno all’XI secolo raggiunse proporzioni colossali per una città mediorientale del tempo: oltre 1.000.000 di abitanti.

Córdoba, Spagna

città più grandi dal X secolo: Cordoba

Le origini di Córdoba sono antichissime e il primo insediamento umano nell’area risale a circa 40.000 anni fa. Il primo villaggio stabile sembra essere sorto intorno all’ VIII secolo a.C. e nel 206 a.C. la città diventò possedimento romano. Dopo la conquista araba del 716 d.C., Córdoba crebbe fino a diventare una delle città più popolate d’Europa: intorno all’anno 1000 ospitava una popolazione di circa 500.000 abitanti ed era una delle città culturalmente più avanzate del mondo. (Fonte)

Kaifeng, Cina

città più grandi dal X secolo: Keifeng

Kaifeng è una delle Otto Antiche Capitali della Cina ed è stata ricostruita diverse volte nell’arco di un millennio. Durante la dinastia Song (960-1279) la città, nota sotto i nomi di Dongjing o Bianjing, Kaifeng passò da 400.000 abitanti nel X secolo a oltre 700.000 durante l’XI secolo, periodo in cui la città fu circondata da tre cinte murarie e fu costruita la celebre Pagoda Youguosi (1049), detta anche “Pagoda di Ferro”. Keifeng fu probabilmente la città più densamente popolata del pianeta tra il 1013 e il 1127, secolo in cui divenne un importante centro commerciale e il punto di giunzione tra diversi canali navigabili utilizzati per il trasporto di merci e persone durante la dinastia Song. (Fonte)

Hangzhou, Cina

città più grandi dal X secolo: Hangzhou

Città natale di Shen Kuo, Hangzhou diventò una città enorme durante il regno della dinastia Song: all’epoca di Shen Kuo (XI secolo), la città contava oltre 2 milioni di residenti e nel 1089 il governatore Su Shi ordinò l’uso di 200.000 operai per la costruzione di una strada rialzata lunga circa 3 km per consentire all’imperatore Qianlong di visitare il Lago Occidentale durante l’alba primaverile.
Fin dall’inizio del XII secolo Hangzhou iniziò ad espandersi commercialmente diventando uno dei centri di scambio più importanti dell’intera Asia. Il fatto che circa 2 milioni di persone vivessero principalmente in case di legno fece diventare la città il bersaglio di numerosi incendi tra il 1132 e il 1275: il solo incendio cittadino del 1237 sembra aver distrutto 30.000 abitazioni, costringendo le autorità a prendere provvedimenti costruendo torri di guardia per l’avvistamento dei focolai d’incendio e investendo del ruolo di pompieri oltre 30.000 soldati.
Nel 1270, il censimento condotto dalle autorità cinesi registrò 186.330 famiglie residenti, non includendo nel conteggio soldati, milizie cittadine e non residenti. Per quasi un secolo e mezzo, dal 1180 al 1315, Hangzhou fu probabilmente la città più grande del pianeta.  (Fonte)

Costantinopoli, Turchia

città più grandi dal X secolo: Costantinopoli

Costantinopoli fu per secoli una delle città più grandi e importanti del mondo. Sotto Giustiniano I (VI secolo) raggiunse il mezzo milione di abitanti, il 40% dei quali fu abbattuto dalla “Peste di Giustiniano” del 541-542. Alla fine del X secolo la popolazione si era ripresa raggiungendo i 500-800.000 abitanti; alla fine del XII secolo era invece di 400-500.000 unità.
Sappiamo che verso la fine del regno di Manuele I Comneno (morto nel 1180), a Costantinopoli vivevano circa 60-80.000 stranieri provenienti da Occidente tra cui i Veneziani, che intrattenevano fitti scambi commerciali nella città. (Fonte)

Il Cairo, Egitto

città più grandi dal X secolo: Il Cairo

La città egiziana fu per molto tempo un centro culturale ed economico che metteva in comunicazione l’Oriente con l’Occidente. Nel 1340 Il Cairo raggiunse il mezzo milione di abitanti, diventando la città più popolata dell’epoca ad Ovest della Cina. Nel corso del successivo secolo e mezzo, la peste colpì la città in almeno 50 occasioni, uccidendo 1-200.000 persone. (Fonte)

Pechino, Cina

città più grandi dal X secolo: Pechino

Pechino ha una storia antichissima: i primi insediamenti stabili di Homo sapiens risalgono a circa 27.000 anni fa e la prima città fortificata fu edificata tra l’ XI e il VII secolo a.C. Già nei primi secoli d’esistenza Pechino era una città imponente e ospitava circa mezzo milione di abitanti. A partire dal XIV secolo d.C. la città registrò una crescita incredibile passando da 1 milione di abitanti a oltre 3 milioni (includendo nel conteggio anche chi viveva fuori dalla cinta muraria).
All’inizio della dinastia Ming (1368) la popolazione della città si era ridotta a circa 200.000 unità, ma a partire dal XV secolo ci fu un’impennata demografica che riportò il numero degli abitanti ad oltre 3 milioni, rendendo Pechino la più grande città del mondo tra il 1425 e il 1635. (Fonte)

Tenochtitlan

città più grandi dal X secolo: Tenochtitlan

Quando Hernán Cortés raggiunse Tenochtitlan nel 1519, la popolazione era compresa tra i 200.000 e i 300.000 abitanti ed era probabilmente una delle città più grandi del mondo conosciuto. Città come Parigi, Venezia e Costantinopoli erano le uniche sufficiente vaste e popolate da poter rivaleggiare in grandezza con Tenochtitlan. Secondo alcuni archeologi, oltre 200.000 persone erano concentrate in un’area di 13,5 km quadrati e l’intero impero di Montezuma II comprendeva probabilmente quasi 5 milioni di persone che più o meno regolarmente andavano e venivano dalla città. (Fonte)

Edo (Tokyo), Giappone

città più grandi dal X secolo: Edo

La città di Edo ebbe origine nel 1457 da un piccolo villaggio di pescatori e nel corso dei secoli successivi crebbe fino a diventare una delle più grandi città del mondo nel 1721 con oltre un milione di abitanti (e un numero spaventoso di samurai). Fino al 1600, Edo non figurò tra le città più grandi del Giappone e raramente superò i 50.000 abitanti: al tempo erano Osaka (280.000 abitanti) e Kyoto (oltre 300.000 abitanti) le città più popolate del Sol Levante. (Fonte)

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Cocoliztli, l’epidemia che sterminò gli Aztechi https://www.vitantica.net/2018/03/14/cocoliztli-epidemia-aztechi/ https://www.vitantica.net/2018/03/14/cocoliztli-epidemia-aztechi/#respond Wed, 14 Mar 2018 02:00:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1476 Dopo l’arrivo dei primi conquistatori spagnoli nell’impero azteco del XVI secolo, il Nuovo Mondo si abituò con relativa velocità alla superiorità tecnologica e tattica degli invasori.

Cavalli, acciaio e armi da fuoco furono inizialmente accolti dai nativi con stupore e sgomento, ma ben presto si rivelarono armi estremamente utili per sfuggire all’oppressione straniera, o controproducenti se impiegate dal nemico negli habitat più estremi delle Americhe.

Cocoliztli, l’epidemia misteriosa

Furono le malattie le vere protagoniste dell’estinzione delle popolazioni americane, non i conquistadores (che certamente fecero la loro parte). Nel volgere di circa 40 anni, la popolazione azteca si ridusse del 90% passando da circa 20 milioni nel 1521 a 2 milioni di individui nel 1576.

Un’ epidemia in particolare, la cui origine è rimasta un mistero fino a qualche anno fa, sterminò tra i 5 e i 15 milioni di nativi nel 1545.

I biologi moderni hanno cercato per intere decadi di determinare il responsabile dell’epidemia che causò il collasso della popolazione azteca.

E’ ormai noto da tempo che gli Europei scaricarono nel Nuovo Mondo una pletora di agenti patogeni del tutto sconosciuti nel continente, come il vaiolo e la febbre tifoide; ma nessuna di queste malattie sembra riconducibile alla serie di epidemie che decimò gli Aztechi, una sequenza di eventi definiti cocoliztli (parola generica usata nella lingua Nahuatl per definire una pestilenza).

Vittime dell'epidemia cocoliztli raffigurate nel Codice Fiorentino di fra' Bernardino de Sahagún
Vittime dell’epidemia cocoliztli raffigurate nel Codice Fiorentino di fra’ Bernardino de Sahagún

L’analisi del genoma prelevato dai denti di 10 vittime dell’epidemia del 1545 (ricerca pubblicata sulla rivista Nature Ecology and Evolution) sembra suggerire che il responsabile della malattia sia stato il batterio Salmonella enterica, che causa i sintomi descritti nei resoconti dell’epoca: febbre, sanguinamento, dissenteria, lingua e urina scure ed eruzioni cutanee rossastre.

Ma contrariamente a quanto si possa essere indotti a supporre, il batterio Salmonella enterica non fu un dono indesiderato da parte del Vecchio Continente, ma era già presente nel Nuovo Mondo all’arrivo dei primi esploratori europei.

L’analisi genetica sulle vittime della febbre paratifoide

Kirsten Bos e Johannes Krause, ricercatori del Max Planck Institute for the Science of Human History e autori della ricerca, hanno elaborato una nuova tecnologia (chiamata MALT) che consente di confrontare il genoma danneggiato di virus e batteri con copie di genoma intatto prelevate dalle moderne colture batteriche o virali.

Dopo il prelievo del materiale genetico dai denti di 10 vittime dell’ epidemia del 1545 riportate alla luce durante gli scavi nel sito di Teposcolula-Yucundaa, i ricercatori hanno confrontato i campioni con un database di 6.247 genomi batterici, scoprendo corrispondenze con il batterio Salmonella enterica Paratyphi C.

Questo particolare sierotipo di Salmonella enterica causa sintomi simili alla febbre tifoide (il cui insieme è definito “febbre paratifoide”), sintomi molto simili a quelli descritti per la pestilenza cocoliztli.

Collasso della popolazione messicana nel XVI secolo causato dalle epidemie di cocoliztli
Collasso della popolazione messicana nel XVI secolo causato dalle epidemie di cocoliztli. Wikipedia

La serie di epidemie cocoliztli, celebre in passato sotto il nome di “grande pestilenza”, si verificò in 12 ondate consecutive tra il XVI secolo e il XIX secolo: gli eventi cocoliztli più gravi si sono verificati nel 1520, 1545, 1576, 1736 e 1813.

Cocoliztli, siccità e roditori

La comparsa periodica del batterio che causò i sintomi della febbre paratifoide nel XVI secolo sembra essere stata la conseguenza di anni di forte siccità: l’epidemia del 1576, che colpì il continente americano dal Venezuela al Canada, si scatenò al termine di un periodo di estrema aridità che colpì Nord e Sud America.

A mettere in relazione la siccità con l’emergenza ciclica del batterio Salmonella enterica sono piccoli roditori del genere Calomys e la dendrocronologia: con l’arrivo delle piogge dopo un lungo periodo di aridità (fluttuazioni climatiche che rimangono impresse negli accrescimenti annuali, o anelli, dei tronchi degli alberi), i piccoli Calomys subirono un’impennata demografica e favorirono la diffusione della febbre paratifoide che decimò i nativi americani.

Dopo la ripresa dell’economia agricola nei mesi successivi ai periodi di siccità, i roditori trovarono habitat ideali nei campi e nelle case della regione, rilasciando escrementi che probabilmente scatenarono il contagio nella popolazione umana.

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La serie di epidemie cocoliztli più mortale fu il mix di malattie iniziato nel 1519: la popolazione messicana fu inizialmente colpita da un’ epidemia (probabilmente di vaiolo, malattia che entrò in America anche grazie al contributo di Hernán Cortés) che decimò da 5 a 8 milioni di persone in un solo anno.

Dopo circa 25 anni una nuova piaga, la Salmonella enterica Paratyphi C, colpì la regione uccidendo da 5 a 15 milioni di individui: se messa a confronto con la Peste Nera europea del 1347-1351, epidemia con una mortalità pari al 50% degli infetti, la cocoliztli del 1545 provocò la dipartita dell’ 80% della popolazione messicana.

Megadrought and Megadeath in 16th Century Mexico
Gut bacteria linked to cataclysmic epidemic that wiped out 16th-century Mexico

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Ascolta l’ antica ocarina precolombiana https://www.vitantica.net/2017/10/25/ascolta-l-antica-ocarina-precolombiana/ https://www.vitantica.net/2017/10/25/ascolta-l-antica-ocarina-precolombiana/#respond Wed, 25 Oct 2017 02:00:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=769 L’ ocarina è uno degli strumenti musicali a fiato più antichi della storia: alcuni esemplari cinesi risalirebbero a circa 12.000 anni fa. L’ocarina è stato strumento particolarmente importante per le culture mesoamericane almeno dal 2500 a.C. e sia Maya che Aztechi producevano svariate versioni di ocarine d’argilla, spesso raffiguranti animali sacri e utilizzate in rituali o celebrazioni religiose.

L’ocarina è un “flauto globulare”, essendo dotata di una camera di risonanza tonda e chiusa; per questa ragione è necessario regolare l’intonazione intervenendo sul numero e sulle dimensioni dei buchi e sul volume della camera di risonanza, operazioni spesso delicate che richiedono mani esperte e un orecchio attento.

Il suono dell’ocarina è caratteristico e lo strumento non è esente da difetti: è difficile trovare l’intonazione corretta intervenendo sul diametro dei fori e sull’ampiezza della cavità di risonanza, ed garantisce una scarsa flessibilità nella modulazione dell’intensità dei suoni prodotti.

Jose Cuellar, professore della San Francisco State University, è uno dei massimi esperti americani di ocarine d’argilla precolombiane, strumenti musicali molto comuni nelle società mesoamericane. Il video qui sotto mostra Cuellar mentre suona alcune delle ocarine reperite in diversi siti archeologici del Centro America.

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Il tesoro nascosto del Tempio del Serpente Piumato https://www.vitantica.net/2017/10/06/il-tesoro-nascosto-del-tempio-del-serpente-piumato/ https://www.vitantica.net/2017/10/06/il-tesoro-nascosto-del-tempio-del-serpente-piumato/#respond Fri, 06 Oct 2017 02:00:21 +0000 https://www.vitantica.net/?p=586 Nel 2003, un team di archeologi guidati Sergio Gómez Chávez scoprì un misterioso tunnel sotto il Tempio del Serpente Piumato di Teotihuacan grazie ad un sinkhole apertosi a causa delle piogge torrenziali; solo oggi, a distanza di 14 anni dalla scoperta, è possibile ammirare alcuni dei reperti recuperati in una mostra al museo de Young di San Francisco.

Il tunnel, rimasto bloccato per circa 1.800 anni senza che nessuno sospettasse della sua esistenza, è connesso a tre camere segrete in cui furono deposti decine di migliaia di artefatti come offerta per gli dei, artefatti che comprendono sculture di pietra e cristalli a forma di bulbi oculari.

Uno degli aspetti più sorprendenti della scoperta riguarda il ritrovamento della ricostruzione di un paesaggio montuoso all’interno di una camera sotterranea: piccole pozze di mercurio rappresenterebbero fiumi e laghi, e le pareti sono interamente ricoperte di polvere di pirite per dare l’impressione, alla luce delle fiaccole, di trovarsi circondati da un cielo stellato.

Teotihuacan è una delle città-simbolo delle popolazioni mesoamericane: edificata intorno al 100 a.C., raggiunse l’apice all’inizio VI secolo d.C. con una popolazione tra 125.000 e i 200.000 abitanti; al tempo era probabilmente uno dei 6 insediamenti urbani più estesi del mondo con i suoi 30 km quadrati di superficie cittadina.

A partire dalla metà del VI secolo, tuttavia, Teotihuacan subì ripetuti incendi e sacchi della città, la popolazione si ridusse gradualmente nel corso dei due secoli successivi e il clima globale iniziò a cambiare (il “raffreddamento del 535-536“, dovuto probabilmente ad un’ eruzione vulcanica in Nord America).

Anche se il reale colpevole (o il mix di elementi) che portò all’abbandono di Teotihuacan deve ancora essere individuato, sappiamo che per lungo tempo la città non fu soltanto un enorme insediamento urbano, ma anche un luogo sacro costellato di templi ed edifici di culto.

Tra questi luoghi religiosi c’era il Tempio del Serpente Piumato, uno degli edifici più antichi della città e quasi sicuramente teatro di migliaia di sacrifici umani.

Tunnel sotto il Tempio del Serpente Piumato
Tunnel sotto il Tempio del Serpente Piumato

L’apertura di un sinkhole nel 2003 rivelò la presenza di un tunnel sotto il tempio, un passaggio di cui nessuno sospettava l’esistenza e che espose uno dei tesori più strabilianti del Nuovo Mondo.

Il vero accesso al tunnel, scoperto negli scavi successivi, è un pozzo verticale largo 5 metri per lato e profondo 14 metri; il tunnel è lungo quasi centro metri e termina con una serie di gallerie sotterranee scavate nella roccia che portano a tre camere che furono riempite quasi 2.000 anni fa con un bottino dal valore archeologico incalcolabile.

Gli oggetti ritrovati comprendono:

  • Maschere cerimoniali di legno ricoperto da giada e quarzo
  • Cristalli a forma di bulbo oculare
  • Collane, bracciali e anelli di giada, o di conchiglie provenienti dai Caraibi
  • Collane di denti umani
  • Frammenti di pelle umana
  • Statuette di forma umana
  • Ali di scarabeo riposte all’interno di una scatola
  • Sculture di giaguaro
  • Centinaia di sfere di argilla ricoperte da minerale di pirite
  • Palle di gomma usate durante i giochi religiosi
  • Vasi di terracotta probabilmente ottenuti tramite il commercio con i regni confinanti
  • Ossa di animali come uccelli, giaguari e lo scheletro di un orso

La scoperta più sensazionale, tuttavia, è il “plastico” ritrovato a circa 17 metri di profondità. Mostra un paesaggio di montagna (probabilmente una rappresentazione dell’aldilà) e piccole pozze piene di mercurio, pozze che rappresenterebbero laghi.

Le pareti e il soffitto della stanza furono ricoperti da una polvere minerale composta da magnetite, pirite ed ematite per ottenere l’effetto di un cielo stellato che brilla alla luce delle torce.

La scoperta di mercurio all’interno di antichi edifici precolombiani non è nuova ed è già stata rilevata la presenza di questo metallo in almeno altri tre siti del Centro America. Il mercurio ha rappresentato per molti popoli antichi un collegamento tra il mondo terreno e quello dell’aldilà, uno specchio da cui osservare il mondo dei morti o prevedere il futuro.

I popoli mesoamericani ottenevano il mercurio dal riscaldamento del cinabro, un minerale che forma bellissimi cristalli rosso sangue e probabilmente utilizzato per decorare oggetti e corpi della famiglia reale o di alcuni sacerdoti.

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La gomma dei popoli precolombiani https://www.vitantica.net/2017/09/24/la-gomma-dei-popoli-precolombiani/ https://www.vitantica.net/2017/09/24/la-gomma-dei-popoli-precolombiani/#respond Sun, 24 Sep 2017 07:00:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=341 I popoli mesoamericani sono noti per essere stati i primi a lavorare la linfa dell’ albero della gomma locale (Castilla elastica) quasi 2.000 anni prima di Cristo. La linfa di quest’albero è un mix di acqua, impurità organiche e polimeri di isoprene, ed è un colloide dal colore biancastro, appiccicoso, che sgorga naturalmente da incisioni praticate sulla corteccia dell’albero.

Il lattice dell’ albero della gomma, una volta rappreso, crea un materiale elastico e impermeabile, dall’aspetto simile alla gomma dei nostri tempi. Le sue proprietà, tuttavia, non sono paragonabili alla gomma moderna: è appiccicoso e difficile da lavorare agevolmente, si deforma con facilità se esposto al calore e tende a diventare fragile al freddo; un mix di caratteristiche che rende la gomma naturale un buon sigillante, ma nulla di più.

Per applicazioni pratiche e frequenti, tuttavia, i popoli precolombiani avevano bisogno di gomma resistente, elastica e che non perdesse le sue proprietà distintive con il cambio della temperatura: come fare senza la conoscenza del processo di vulcanizzazione, inventato a millenni di distanza?

Trattamento chimico della gomma precolombiana

Una ricerca condotta dal MIT sembra indicare che non solo le civiltà precolombiane fossero a conoscenza di metodi per lavorare la linfa estratta dagli alberi della gomma locali, ma che avessero addirittura perfezionato un trattamento chimico in grado di amplificare le proprietà della gomma naturale in base al suo impiego finale.

Per esempio, per fabbricare suole per sandali gli abili artigiani maya realizzavano una gomma resistente e tenace, priva di una grande elasticità. Per costruire palle di gomma utilizzate nei giochi tradizionali e religiosi, invece, trattavano la gomma in modo tale da ottenere una sostanza estremamente elastica e massimizzare il rimbalzo delle palle. Per la fabbricazione di elastici e adesivi utilizzati negli ornamenti e per la fabbricazione di armi, producevano gomma ottimizzata per la resistenza e l’aderenza.

Estrazione del lattice dall'albero della gomma
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Tutto ciò era possibile intervenendo sui due ingredienti principali impiegati nella fabbricazione della gomma: il lattice estratto dall’ albero della gomma e il succo dei viticci di Ipomea locali, come sostengono Dorothy Hosler e Michael Tarkanian del Dipartimento di Scienze ed Ingegneria dei Materiali del MIT. Grazie all’analisi di diversi artefatti in gomma vecchi di secoli, è stato possibile stabilire che le civiltà precolombiane potessero intervenire sulle proprietà chimiche della gomma.

Gli Aztechi, gli Olmechi e i Maya, ben prima che Charles Goodyear inventasse la vulcanizzazione, si rivelarono abili fabbricatori di gomma, materiale che utilizzavano per realizzare una vasta gamma di utensili e ornamenti, oltre che le palle impiegate durante i giochi cerimoniali.

Alcune di queste palle sono state ritrovate durante scavi archeologici in Centro-America e in Messico, le più antiche risalenti a circa 1600 anni prima di Cristo. “Erano davvero spettacolari, davvero enormi” dice Hosler riferendosi alle palle di gomma mesoamericane, che andavano dal diametro di pochi centimetri fino alle dimensioni di una palla da calcio.

Raffigurazione maya del gioco della palla
Raffigurazione maya del gioco della palla
Come si alteravano le proprietà della gomma naturale

Fino ad oggi, nessuno era riuscito a dimostrare che fosse possibile manipolare le proprietà della gomma precolombiana intervenendo sugli elementi fondamentali della ricetta per fabbricarla. Al contrario delle palle di gomma, l’esistenza di sandali con suole di gomma (e della gomma dalle caratteristiche necessarie per fabbricarli) non è mai stata dimostrata prima d’ora, anche se queste calzature vengono descritte nei diari dei conquistadores spagnoli e dei missionari.

La gomma mesoamericana sopravvissuta fino ad oggi è così degradata e secca che è estremamente difficile stabilire quali siano state le sue proprietà meccaniche. Per poter capire di più sulla gomma precolombiana, Tarkanian e Hosler hanno messo in piedi un laboratorio di fabbricazione della gomma secondo gli antichi metodi precolombiani: utilizzando diverse proporzioni di lattice e di succo di Ipomea, sono stati in grado di creare campioni con differenti proprietà meccaniche, e di misurare la loro elasticità, resistenza e forza.

Una combinazione di 50% di lattice e 50% di succo di Ipomea, ad esempio, produce la massima elasticità, perfetta per le palle di gomma. Per fabbricare adesivi o per congiungere materiali di diversa natura, come ceramiche o legno, le proporzioni devono essere differenti, con una maggiore quantità di lattice rispetto al succo di Ipomea. Per le suole dei sandali, applicazione in cui la resistenza è la proprietà primaria, il rapporto Ipomea-lattice si fa di 3 a 1.

I mesoamericani ebbero molto tempo, più di 2.000 anni, per perfezionare queste tecniche attraverso prove ed errori. Quando arrivarono gli Spagnoli, “c’era una grossa industria della gomma” spiega Tarkanian, industria che produceva 16.000 palle ogni anno ed un grande numero di statue di gomma, sandali, elastici e altri prodotti di uso comune.

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Maestri nei polimeri della gomma

Come se non bastasse, pare che il trattamento chimico non si limitasse alla sola gomma: Hosler ha studiato altri artefatti mesoamericani, giungendo alla conclusione che, molto probabilmente, il trattamento chimico fosse utilizzato anche nella metallurgia per intervenire sulle proprietà meccaniche dei metalli.

“Ci sono altre aree di produzione in cui le culture preispaniche combinavano diversi materiali per ottenere prodotti perfezionati.” afferma Frances Berdan, professore di antropologia della California State University. “La ricerca di Tarkanian e Hosler sull’antica gomma precolombiana dovrebbe avere l’effetto di rivolgere la nostra attenzione sulle metodologie utilizzate da queste culture, e riconoscere che svilupparono risposte sofisticate ai loro problemi quotidiani”.

John McCloy, ricercatore del Pacific Northwest National Laboratory, sostiene che “Tarkanian e Hosler hanno portato le prove che gli antichi mesoamericani furono i primi scienziati dei polimeri, avendo un controllo sostanziale sulle proprietà meccaniche della gomma per diverse applicazioni”.

“Quello che rimane da fare” continua McCloy, “è trovare prove archeologiche di sandali nell’antica America Centrale, e studiare i metodi di produzione della gomma mesoamericana utilizzata come adesivo e come calzatura. Sarebbe inoltre interessante fare analisi chimiche sulle palle di gomma, sugli adesivi e sui sandali (se dovessero essere trovati) per vedere se la quantità di additivi a base di Ipomea confermano lo studio in laboratorio sulle proprietà meccaniche”.) quasi 2000 anni prima di Cristo.

Per saperne di più: Mesoamerican people perfected details of rubber processing more than 3,000 years ago: study

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