navigazione – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il ruolo di Bristol nell’esplorazione dell’ America del Nord https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/ https://www.vitantica.net/2020/12/28/bristol-esplorazione-america-del-nord/#respond Mon, 28 Dec 2020 00:15:31 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5087 La città di Bristol ha rivestito una certa importanza durante i viaggi esplorativi del XV e XVI secolo. Nella narrazione moderna che riguarda l’era delle grandi esplorazioni oceaniche si sente spesso parlare (per giusti e ovvi motivi) di Colombo, Magellano e Vespucci; ma coloro che oggi consideriamo “grandi esploratori” rappresentano solo una parte della storia.

I grandi viaggi oceanici sono stati resi possibili non solo dalle figure di spicco che hanno dato nomi a regioni o interi continenti, ma anche da marinai comuni, armatori semi-sconosciuti e persone che per sbarcare il lunario erano costrette a seguire gli spostamenti del pesce, spingendosi verso mari ignoti e terre mai toccate da piede europeo.

I marinai e i pescatori di Bristol parteciparono a loro modo all’impulso esplorativo del XV-XVI secolo, da una parte costretti a trovare nuove fonti di pesce e stringere nuovi rapporti commerciali, dall’altra motivati dalla ricerca di terre leggendarie inesistenti.

I navigatori-mercanti di Bristol

Intorno al XIII secolo Bristol iniziò a diventare un porto marittimo di una certa rilevanza: il vino francese, le spezie orientali e la lana proveniente dall’Europa settentrionale rappresentavano le principali mercanzie che transitavano per il porto, ma all’inizio del XV secolo il merluzzo iniziò a diventare fonte di grossi guadagni.

Il merluzzo pescato in Islanda dai marinai di Waterford e Cork, congelato in blocchi solidi (stoccafisso) facili da trasportare e da conservare, raggiungeva Bristol e veniva smistato in tutta Inghilterra scambiandolo con vestiti, alimenti non presenti in Irlanda e metalli.

Tra il XIV e il XV secolo secolo, la città di Bristol era considerata la terza città più popolata d’Inghilterra, dopo Londra e York, con circa 15-20.000 abitanti quasi totalmente impegnati, direttamente o indirettamente, nel commercio via mare.

Il commercio lungo le rotte atlantiche vedeva coinvolti almeno 250 mercanti di Bristol, che quotidianamente venivano a conoscenza di nuove rotte marittime, nuove opportunità da sfruttare e storie leggendarie che circolavano tra i marinai dell’epoca.

William Canynge, il primo grande mercante di Bristol, fu per cinque volte sindaco della città e possedeva una flotta di 10 navi e 800 marinai totalmente impegnata nel commercio di vino e di merluzzo.

Anche se la Lega Anseatica cercò di limitare il traffico di merluzzo da e verso Bristol, specialmente del merluzzo islandese, i pescatori e i commercianti di Bristol continuarono a intrattenere rapporti con i porti islandesi, e si spinsero oltre le regolari rotte commerciali del pesce superare i limiti imposti dalla Lega.

Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell'epoca
Posizione del Cipango (Giappone) secondo i navigatori dell’epoca

Un altro colpo per l’economia di Bristol che spinse i commercianti della città a cercare nuove rotte marittime fu la cattura di Costantinopoli da parte dell’Impero ottomano nel 1453. Costantinopoli rappresentava il fulcro dei traffici di spezie tra Europa e Asia, ma l’arrivo dei Turchi vide l’applicazione di nuove e pesanti tasse sulle esportazioni verso Ovest.

I marinai di Bristol ritenevano possibile circumnavigare l’Africa per raggiungere l’Asia, o che esistesse una rotta verso Ovest per raggiungere il Cipango (Giappone) e il Catai (Cina). Si tratta di idee del tutto analoghe a quelle che motivarono Cristoforo Colombo ad intraprendere l’attraversata dell’Atlantico: il celebre esploratore approdò nel 1476 proprio a Bristol, dove potrebbe aver assorbito i racconti dei marinai inglesi che avrebbero costituito le fondamenta del suo primo viaggio esplorativo.

Spingendosi verso i mari sud-occidentali in cerca di pesce, di nuove rotte marittime e di località con cui intrattenere interessanti rapporti commerciali, i marinai di Bristol potrebbero aver raggiunto le Americhe qualche anno prima del primo viaggio di Colombo.

L’isola di Hy-Brasil

L’esistenza dell’isola di Brasil, o Hy-Brasil, iniziò a circolare tra i marinai di Bristol all’inizio del XIV secolo. Un portolano del 1325 redatto da Angelino Dulcert riporta un’isola chiamata “Bracile” oltre l’Irlanda, verso Ovest; la mappa veneziana di Andrea Bianco, redatta circa un secolo dopo (1436), mostra l’ Insula de Brasil come facente parte di un gruppo di isole nel mezzo dell’Atlantico (probabilmente le Azzorre).

Anche una mappa catalana del 1480 riporta la “Illa de brasil” a sud-ovest dell’Irlanda. Alcune mappe e portolani la disegnano circolare, con un fiume centrale che corre lungo tutto il diametro, da est a ovest.

Oggi sappiamo che Hy-Brasil è in realtà un’isola immaginaria, che non ha riscontri nella realtà; ma nella Bristol del XV secolo la possibile esistenza di un’isola inesplorata era apparentemente un’opportunità così golosa da spingere gli armatori più grandi della città a imbastire spedizioni esplorative con lo scopo di scoprire l’isola.

Verso la fine del 1400 a Londra, grazie ai rapporti del diplomatico spagnolo Pedro de Ayala, era ormai noto che la città di Bristol avesse sponsorizzato diverse missioni esplorative negli anni precedenti, tutte volte alla scoperta dell’isola di Brasil.

sizione dell'isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell'epoca
sizione dell’isola di Hy-Brasil secondo i navigatori dell’epoca

Nel 1480 e nel 1481 due spedizioni lasciarono il porto di Bristol alla ricerca di Hy-Brasil, sostenute dai finanziamenti di John Day e Thomas Croft.

La spedizione di John Day, un inglese molto attivo nel commercio con la Spagna, sosteneva in una lettera indirizzata ad un tale “Grande Ammiraglio” spagnolo (alcuni storici affermano che fosse Colombo) che le terre scoperte da Giovanni Caboto nel 1497 fossero le stesse scoperte dai marinai di Bristol qualche anno prima.

La seconda spedizione vedeva coinvolte due navi, la George e la Trinity; dai diari di bordo sappiamo che i due vascelli trasportavano sale, molto probabilmente in previsione di incontri con grandi banchi di pesce.

L’isola di Hy-Brasil non fu mai scoperta, ma le teorie del professor David Beers Quinn affermano che i pescatori inglesi scoprirono i Grandi Banchi al largo di Terranova, acque ricche di merluzzo e di fatto suolo americano.

William Weston

Il primo inglese a condurre una spedizione in Nordamerica potrebbe essere stato William Weston, un mercante di Bristol che tra il 1499 e il 1500 posò piede sul suolo canadese. E’ possibile che Weston possa essere stato membro dell’equipaggio di Caboto nel 1497, anno in cui si svolse la prima spedizione europea nell’ America settentrionale (se escludiamo i viaggi norreni di 500 anni prima).

William Wenton lavorò a bordo della Trinity, una delle navi di Bristol che partecipò alla spedizione verso Hy-Brasil nel 1480. La licenza per la missione esplorativa di Weston del 1499 sembra essere legata alla spedizione di Caboto, per cui è molto probabile che l’esploratore di Bristol fosse un compagno di viaggio, se non addirittura un amico, del viaggiatore veneziano.

La data esatta del viaggio esplorativo di Weston non è nota, anche se l’ipotesi dominante è che sia iniziata un anno dopo dal ritorno di Caboto. La destinazione raggiunta dalla spedizione è sconosciuta, ma sappiamo per certo che nel 1500 Weston fu ricompensato dal re con una somma di 30 sterline “per le spese sostenute durante la ricerca di nuove terre”.

Lo storico inglese Alwyn A. Ruddock ha sostenuto che Weston possa essersi spinto in profondità nell’Atlantico nord-occidentale, probabilmente raggiungendo la Baia di Hudson, località che riceverà il suo nome solo oltre un secolo dopo, nel 1610, quando Henry Hudson la raggiunse a bordo del veliero Discovery.

English Voyages before Cabot
William Weston: early voyager to the New World
Bristol’s Transatlantic Explorations Prior to 1497
Sebastian Cabot and Bristol Exploration

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Team giapponese replica l’antica (e ipotetica) migrazione da Taiwan a Okinawa https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/ https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/#comments Mon, 15 Jul 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4419 Secondo i maggiori esperti del Paleolitico giapponese, i primi insediamenti umani in Giappone risalirebbero a circa 30.000 anni fa. Ad oggi non abbiamo alcuna certezza su come le isole nipponiche siano state popolate dall’uomo in epoca paleolitica, ma gli studiosi della preistoria giapponese hanno formulato tre differenti ipotesi.

La prima ipotesi prevede che i primi abitanti del Giappone siano giunti dalla Corea attraverso lo stretto di Tsushima; la seconda, invece, sostiene che le comunità paleolitiche eurasiatiche abbiano attraversato il lembo di mare tra la Russia e Hokkaido per poi superare lo stretto di Tsugaru, che separa l’isola di Hokkaido da quella di Honshu.

La terza ipotesi, invece, afferma che gli esseri umani giunti in Giappone intorno a 30-40.000 anni fa provenissero da Taiwan. Per dimostrare la fattibilità dell’impresa, un team di ricercatori giapponesi e taiwanesi ha percorso il tratto di mare che separa Taiwan dall’isola giapponese di Yonaguni a bordo di una canoa a scafo monossilo.

Una traversata senza strumenti

La traversata di 200 km è stata compiuta a bordo di una canoa ricavata da un singolo tronco d’albero, lunga 7,6 metri e larga 70 centimetri. I cinque membri dell’equipaggio, un taiwanese e 4 giapponesi, hanno solcato il mare per due giorni consecutivi orientandosi esclusivamente con il sole, le stelle e i venti seguendo i metodi tradizionali di navigazione utilizzati nel Pacifico, come il sistema di navigazione polinesiano.

Il progetto, iniziato nel 2017 grazie alla collaborazione del National Museum of Nature and Science giapponese e del National Museum of Prehistory di Taiwan, aveva l’obiettivo di verificare la fattibilità di un viaggio simile utilizzando la tecnologia paleolitica.

“E’ stato un viaggio perfetto” spiega Koji Hara, uno dei 5 membri dell’equipaggio. “La Corrente Nera ha trasportato la canoa e ci siamo limitati a manovrarla un pochino”. All’arrivo sull’isola di Yonaguni, la spedizione è stata accolta dalle celebrazioni dei residenti, lieti di vedere il progetto concludersi con successo.

Prima di questa spedizione erano stati effettuati altri due tentativi, uno nel 2017 e un altro nel 2018, partendo dall’isola di Yonaguni a bordo di imbarcazioni realizzate con paglia, bambù e rattan. La prima spedizione ha coperto solo 66 km, mentre la seconda ha resistito poco al mare aperto, costringendo l’equipaggio ad interrompere l’impresa.

Kuroshio, la Corrente Giapponese

Quella che viene definita come “Corrente Nera”, “Kuroshio” o “Corrente Giapponese” è una corrente oceanica nel Pacifico settentrionale che ha inizio nelle Filippine e fluisce verso Nord lungo la costa orientale del Giappone. Si tratta essenzialmente di una corrente che svolge una funziona analoga alla Corrente del Golfo atlantica, trasportando acqua calda tropicale verso le regioni polari.

La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan
La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan

Durante il suo passaggio, la Corrente Giapponese crea vasti vortici del diametro di 100-300 km che possono persistere per mesi interi. Questi vortici sembrano rappresentare un ambiente ideale per la sopravvivenza di molte specie di larve di pesce e favorire l’accumulo di plankton.

L’isola di Yonaguni, appartenente alla prefettura di Okinawa, si trova nel bel mezzo della corrente Kuroshio. Essendo l’ultima isola giapponese a Sud prima di Taiwan, potrebbe aver rappresentato il primo approdo per raggiungere le isole maggiori giapponesi.

Yonaguni costituisce infatti il primo passo per raggiungere Okinawa: superando tratti di mare di 50-100 km seguendo la Corrente Nera, è possibile raggiungere l’isola di Ishigaki, quella di Miyakojima e infine Okinawa. Spingendosi ancora più a nord sospinti dalla Kuroshio si raggiunge il Kyūshū, una delle isole maggiori del Giappone.

Diverse ondate migratorie

La maggior parte delle ricerche antropologiche sugli antichi abitanti del Giappone suggeriscono che le isole nipponiche siano state occupate in almeno due ondate migratorie; la più recente si è verificata circa 2.300 anni fa tra Corea e Giappone.

Per quanto riguarda il flusso migratorio più antico, le analisi della morfologia dentale degli antichi giapponesi suggerirebbero che le isole maggiori siano state popolate circa 30.000 anni fa da individui provenienti da Okinawa; la genetica, invece, propone l’ipotesi di un arrivo precedente, circa 40.000 anni fa, frutto di un’ondata migratoria partita dalla Siberia.

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Lo scenario più probabile è che le isole maggiori del Giappone siano state occupate da migrazioni provenienti dalla Siberia, dalla Corea e da Taiwan, e non da un singolo evento migratorio localizzabile con precisione. Alcuni archeologi ritengono inoltre che i primi abitanti giapponesi siano giunti 100.000 anni fa sfruttando ponti di terre emerse che collegavano la penisola coreana con Honshu e Hokkaido.

Team successfully replicates imagined ancient sea migration from Taiwan to Okinawa
Advanced maritime adaptation in the western Pacific coastal region extends back to 35,000-30,000 years before present
EARLY MAN IN JAPAN

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La navigazione oceanica polinesiana senza strumenti https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/ https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/#comments Mon, 08 Apr 2019 00:03:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3881 Di recente ho affrontato il tema della spedizione Kon-Tiki, una missione volta a dimostrare che i primi popoli polinesiani fossero giunti dal Sud America a bordo di zattere e senza alcuna tecnologia di navigazione.

Come citato in questo articolo sulla Kon-Tiki, le culture polinesiane sono note da secoli per la loro straordinaria abilità di navigare l’oceano senza l’uso di strumentazione moderna come bussole, sestanti o dispositivi satellitari; spesso non possono nemmeno fare affidamento sulla navigazione costiera, considerate le enormi distanze che spesso separano un’isola dall’altra.

Come è possibile coprire lunghe distanze per mare senza alcuno strumento di navigazione moderno? Nainoa Thompson della Polynesian Voyaging Society, allievo del celebre navigatore micronesiano Mau Piailug (scomparso nel 2010 all’età di 78 anni), afferma che la “bussola stellare” utilizzata dai polinesiani sia così efficace da permettere un orientamento pressoché perfetto anche senza alcuno strumento.

Gli insegnamenti di Mau Piailug

La bussola stellare è un costrutto mentale utilizzato per la navigazione: identificando le stelle, memorizzando il loro percorso e conoscendo direzione e velocità di navigazione, è possibile determinare la propria posizione nell’oceano.

“Come determiniamo la direzione? Usiamo i migliori indizi a partire da ciò che abbiamo a disposizione” spiega Thompson. “Usiamo il sole quando è basso sull’orizzonte. Mau ha stabilito nomi diversi in base alle dimensioni del sole e alle differenti colorazioni dell’acqua in corrispondenza del percorso solare. Quando il sole è basso, il percorso disegnato sull’acqua è stretto; quando è alto sull’orizzonte diventa sempre più largo. Quando il sole è troppo alto non si può determinare dove sia sorto e occorre basarsi su altri elementi”.

Bussola stellare polinesiana
Bussola stellare polinesiana

“L’alba è il momento più importante della giornata. All’alba si inizia ad osservare la forma dell’oceano, il carattere del mare. Si memorizza la direzione del vento. Il vento genera onde sulla superficie marina. Al tramonto si ripete l’osservazione. Il sole si abbassa e si guarda la forma delle onde. E’ cambiato il vento? Sono cambiate le onde oceaniche? Durante la notte si usano le stelle. Usiamo circa 220 stelle, memorizzando dove sono sorte e dove tramontano”.

“Quando sono tornato dal mio primo viaggio da Tahiti alle Hawaii come apprendista navigatore, Mau mi invitò in camera e mi disse: sono molto orgoglioso del mio studente. Hai fatto un buon lavoro, per te e per il tuo popolo. Tutto ciò che devi vedere è nell’oceano ma ti occorreranno altri vent’anni per vederlo”.

“Quando è nuvoloso e non si possono usare sole o stelle si può soltanto fare affidamento sulle onde. Uno dei problemi è che quando il cielo si oscura sotto nuvole pesanti durante la notte non si possono vedere le increspature della superficie marina. Non si riesce nemmeno a vedere la prua della canoa. Ed è in questa circostanza che persone come Mau si dimostrano così esperte. Anche se si trovasse all’interno dello scafo percepirebbe le onde del mare muoversi sotto la canoa e potrebbe determinare la direzione dell’imbarcazione. Io non riesco a farlo”.

La bussola stellare

La navigazione polinesiana usa il sole come punto di riferimento per la navigazione diurna. Due volte al giorno, all’alba e al tramonto, il sole fornisce un punto di riferimento per orientarsi in mare.

Per mantenere una rotta precisa il navigatore si allinea con i punti in cui il sole sorge o tramonta grazie a 16 segni sulla canoa, 8 per ogni lato, accoppiati con un singolo punto sulla poppa della canoa.

Le stelle del cielo notturno sorgono e tramontano in particolari direzioni. Il navigatore mantiene la rotta orientando la canoa verso le stelle che sorgono o tramontano nella direzione desiderata, effettuando continue correzioni per compensare la direzione del vento e il moto ondoso.

Bussola stellare polinesiana

“La Croce del Sud è molto importante per noi” spiega Thompson. “Sembra un aquilone. Due stelle sella Croce del Sud puntano sempre a sud (Gacrux e Acrux). Se si sta viaggiando in canoa verso sud, quelle stelle sembreranno spostarsi sempre più in alto nel cielo notturno. […] Se ci si dirige a nord verso le Hawai’i, ogni notte la Croce del Sud si sposta nel cielo seguendo un arco sempre più basso sull’orizzonte”.

Per trovare correttamente la direzione, i polinesiani usano coppie di stelle differenti in base all’emisfero in cui si trovano: una linea immaginaria tra queste coppie determinerà il nord o il sud.

La Luna

Anche la Luna segue un’eclittica, un percorso apparente sulla volta celeste, completando il suo ciclo in 29,5 giorni. Nel calendario tradizionale hawaiano, il mese lunare era determinato da questo ciclo e dal susseguirsi delle fasi lunari.

Il ciclo lunare veniva diviso in tre periodi di 10 giorni, chiamati “ho’onui“, “poepoe” e “‘emi“, a loro volta suddivisi in “fasi” in base alla visibilità del nostro satellite naturale.

Confrontando le fasi lunari, la posizione della Luna e quella delle stelle conosciute consentiva di determinare con una certa precisione la posizione nell’oceano e la rotta da seguire.

Il moto ondoso
"Mappa" che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine
“Mappa” che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine

Le onde generate da venti forti, più precisamente quelle che sono prodotte dalle tempeste e tendono a persistere oltre la durata del fenomeno atmosferico che le ha create, hanno una direzione più stabile rispetto a quelle generate dalla brezza marina o da venti locali.

Talvolta è più semplice percepire un’onda di questo tipo piuttosto che vederla. Le tempeste che nascono nel Pacifico del sud durante l’estata hawaiana tendono a generare un moto ondoso che punta a sud; quelle invece che si scatenano durante l’inverno nel Pacifico del nord producono onde che puntano nella direzione opposta.

Qesto tipo di moto ondoso può cambiare direzione con il tempo seguendo lo spostamento della tempesta che lo ha generato. E’ per questo che i polinesiani preferiscono incrociare le informazioni sul moto ondoso con quelle raccolte dall’osservazione delle stelle, ottenendo misurazioni più affidabili.

Navigazione imprecisa ma corretta

Navigare senza strumenti è un’operazione che porta a inevitabili errori di precisione. Conservare nella memoria tutte le informazioni necessarie a determinare la corretta posizione nell’oceano non è affatto facile; anche riuscendo a farlo, si commetteranno inevitavbilmente errori di approssimazione.

I navigatori polinesiani tuttavia non cercavano di navigare verso la loro destinazione con accuratezza assoluta. Le isole del Pacifico si trovano spesso in “cluster”, gruppi che possono estendersi anche per centinaia di chilometri.

I navigatori polinesiani facevano affidamento sull’avvistamento di questi cluster per correggere la loro rotta e puntare con più accuratezza la loro destinazione: l’arcipelago di Tuamotu, ad esempio, si estende per oltre 600 chilometri da nord a sud e per altrettanti chilometri da est a ovest.

Il "triangolo polinesiano", una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione
Il “triangolo polinesiano”, una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione

Viaggiando da Tahiti alle Hawaii (il viaggio effettuato da Mau Piailug e Thompson) è possibile fare rotta verso una direzione generica in un cono di circa 500 chilometri compreso tra le isole Manihi e Maupiti: raggiungendo una delle isole intermedie, il navigatore può orientarsi con più precisione e raggiungere la sua effettiva destinazione senza troppe difficoltà.

Se si dovesse capitare in un vasto tratto di mare tra due o più isole non visibili ad occhio nudo, i polinesiani cercavano di localizzare indizi di vicinanza con la terraferma, come vegetazione galleggiante, gruppi di nubi che tendono a concentrarsi sopra i picchi delle isole, uccelli marini o particolari caratteristiche del moto ondoso.

Polynesian Voyaging Society: Summary Wayfinding, or Non-Instrument Navigation

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La spedizione Kon-Tiki https://www.vitantica.net/2019/04/03/spedizione-kon-tiki/ https://www.vitantica.net/2019/04/03/spedizione-kon-tiki/#respond Wed, 03 Apr 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3832 Chi raggiunse per primo le isole polinesiane? Ad oggi, questa domanda non ha una risposta certa. Ma i tentativi di ricostruire l’arrivo dei primo esseri umani sulle isole del Pacifico, avvenuto intorno al 1200, non sono stati pochi nel corso della storia recente: è ormai oltre un secolo che gli archeologi cercano di spiegare come i primi abitanti della Polinesia avessero potuto percorrere una distanza così vasta via mare per sbarcare su atolli sperduti.

L’ipotesi di Thor Heyerdahl

Una delle ipotesi più affascinanti viene dall’archeologia sperimentale e da un viaggio compiuto dall’esploratore norvegese Thor Heyerdahl: Heyerdahl sosteneva che i primi abitanti polinesiani fossero giunti dal Sud America in epoca precolombiana partendo dal Perù e viaggiando via mare su imbarcazioni semi-primitive, basando la sua ipotesi su un’antica leggenda degli abitanti dell’Isola di Pasqua, quella relativa alla lotta tra gli Hanau epe (“orecchie lunghe”) e gli Hanau momoko (“orecchie corte”).

Secondo l’interpretazione di Heyerdahl, il mito narra che gli Hanau momoko facessero parte di una seconda ondata migratoria di nativi americani provenienti dalla costa occidentale peruviana, preceduta da una prima ondata che portò gli Hanau epe sulle stesse isole; dopo un periodo di convivenza pacifica, i due gruppi entrarono in conflitto nel XVII secolo per ragioni ancora parzialmente misteriose.

La maggior parte degli storici moderni è concorde sul fatto che, in realtà, il mito di Hanau epe sia soltanto una leggenda legata a scontri tribali e lotte di classe degli abitanti dell’isola. L’analisi genetica dei nativi di Rapa Nui, tuttavia, ha evidenziato che esiste nel loro genoma l’8% di DNA nativo americano, penetrato nel loro patrimonio genetico tra il XIII e il XV secolo.

E’ possibile che Heyerdahl avesse ragione? Non possiamo dichiararlo con certezza. Possiamo tuttavia affermare che il viaggio dal Perù alle isole polinesiane era alla portata degli antichi peruviani, come dimostrerebbe la spedizione Kon-Tiki.

La spedizione Kon-Tiki

Per aggiungere una prova sperimentale alla sua ipotesi, Heyerdahl decise di imbarcarsi in un’impresa senza precedenti: attraversare il Pacifico a bordo di un’imbarcazione realizzata con tecnologie e materiali a disposizione dei peruviani del XIII secolo.

La zattera Kon-Tiki esposta al Museo di Oslo
La zattera Kon-Tiki esposta al Museo di Oslo

Il corpo principale dell’imbarcazione era composto da nove tronchi di balsa lunghi 14 metri e dal diametro di 60 centimetri, legati tra loro con corde di canapa. Per mantenere solida la struttura, altri tronchi di balsa lunghi oltre 5 metri e larghi 30 centimetri furono disposti trasversalmente a intervalli di 91 centimetri.

L’albero principale era alto 8 metri e sorretto da un telaio a forma di “A”. La vela era lunga 4,6 metri, alta 5,5 e sorretta da fusti di bambù, un materiale utilizzato anche per ricoprire il ponte dell’imbarcazione.

A poppa fu costruita una cabina di bambù lunga 4,3 metri, larga 2,4 metri e alta da 1,2 a 1,5 metri, dotata di un tetto di foglie di banano. Il timone, realizzati in legno di mangrovia e abete, era lungo quasi sei metri.

Per costruire la zattera non furono impiegati chiodi, viti o materiali metallici, ma solo legname, bambù e corde di canapa. Gli unici elementi moderni a bordo erano la radio, le batterie che la alimentavano, un generatore elettrico a manovella, un sestante e una bussola, tecnologia di certo non disponibili ai navigatori polinesiani del 1200 ma indispensabili per garantire la sopravvivenza dell’equipaggio

Per garantire la sopravvivenza dei sei membri dell’equipaggio, a bordo furono immagazzinati 1.040 litri d’acqua in 56 contenitori e diversi fusti di bambù, per testare l’efficacia di contenitori antichi e moderni. Furono inoltre caricati decine di noci di cocco, patate dolci e frutta assortita; l’esercito americano fornì anche razioni di cibo di sopravvivenza.

Il viaggio della Kon-Tiki

La Kon-Tiki partì da Callao, Perù, il 28 aprile 1947 scortata per circa 80 km dalla marina peruviana per evitare il traffico costiero. Trasportata dalla corrente di Humboldt, iniziò quindi a navigare verso Ovest a vela spiegata solcando il Pacifico in solitaria.

Il percorso della spedizione Kon-Tiki
Il percorso della spedizione Kon-Tiki

Il primo avvistamento di un’isola si verificò il 30 luglio: l’equipaggio riuscì ad intravedere l’atollo di Puka-Puka, ma non sbarcò preferendo proseguire verso l’atollo di Angatau, dove furono impossibilitati a sbarcare per via della conformazione dell’isola.

Il 7 agosto il viaggio giunse al termine quando la zattera colpì il reef che circondava l’isola disabitata di Raroia, facente parte del gruppo di atolli di Tuamotu. L’equipaggio aveva percorso quasi 7.000 chilometri in 100 giorni ad una velocità media di 1,5 nodi (circa 2,8 km/h).

L’equipaggio era stanco ma in salute: durante la navigazione aveva avuto occasione di pescare pesce in abbondanza e il consumo di scorte alimentari era in linea con le previsioni di Heyerdahl.

Dopo qualche giorno sull’atollo deserto, l’equipaggio fu raggiunto dalle canoe degli abitanti di un villaggio posto su un atollo vicino, allarmati dallo spiaggiamento sulle loro spiagge di alcune parti della Kon-Tiki. Heyerdahl e i suoi compagni furono condotti in salvo nel villaggio per poi essere trasferiti a Tahiti dalla goletta Tamara.

Una spedizione apripista

La Kon-Tiki aprì la strada ad altre spedizioni simili: nel 1954 William Willis si imbarcò sulla zattera Seven Little Sisters viaggiando dal Perù a Samoa, percorrendo 10.800 km; in un secondo viaggio dieci anni dopo, la stessa imbarcazione viaggiò per 12.000 km dal Sud America all’Australia.

La Kantuta, ideata dall’esploratore ceco Eduard Ingris, tentò di replicare il viaggio della Kon-Tiki nel 1955 ma fallì; quattro anni dopo costruì la Kantuta II, riuscendo a raggiungere la Polinesia.

spedizione Kon-Tiki

Il navigatore francese Éric de Bisschop tentò invece di fare il viaggio da Tahiti al Cile a bordo di una zattera polinesiana, la Tahiti-Nui. Partì nel novembre del 1956 da Papeete in compagnia di altre cinque persone e raggiunse le Isole di Juan Fernandez cilene nel maggio 1957.

Nel 1973 lo spagnolo Vital Alsar condusse la “spedizione Las Balsas”, l’unica spedizione di zattere multiple sul Pacifico nella storia recente volta a dimostrare che gli antichi navigatori conoscessero le correnti oceaniche quanto gli esseri umani moderni conoscono la rete stradale.

Nel novembre 2015 è stata organizzata una spedizione commemorativa della Kon-Tiki, la Kon-Tiki2, composta da due imbarcazioni, la Rahiti Tane e la Tupac Yupanqui, ed altrettanti equipaggi internazionali. L’obiettivo era quello di replicare il viaggio effettuato da Heyerdahl aggiungendo il percorso di ritorno.

Ognuna delle due zattere era composta da 11 tronchi di balsa tenuti insieme da circa 2 km di corde di canapa. Dopo aver incontrato condizioni avverse e onde alte fino a sei metri, gli equipaggi furono costretti ad abbandonare le imbarcazioni salendo a bordo della Hokuetsu Ushaka dopo 115 giorni di navigazione.

Le obiezioni alla spedizione

Lo scetticismo sulla capacità di navigazione degli antichi polinesiani è sempre vivo, fin da prima della spedizione di Thor Heyerdahl.

Dal punto di vista geografico, la Polinesia è la nazione più vasta del pianeta: si tratta di oltre un migliaio di isole disperse in milioni di chilometri quadrati di oceano, ben più grande della superficie Russia, Canada e Stati Uniti.

Gli abitanti delle isole sono linguisticamente connessi da idiomi comprensibili anche a migliaia di chilometri di distanza, tra culture che apparentemente non hanno mai avuto contatti per svariati secoli.

James Cook dimostrò questa connessione linguistica portando Tupaia, il gran sacerdote di Tahiti, fino all’isola di Ra’iatea, ad oltre 3.000 chilometri di distanza, scoprendo che poteva comprendere perfettamente il linguaggio degli isolani.

E’ quindi indubbio che ci siano affinità non solo linguistiche ma anche culturali tra le popolazioni delle isole polinesiane. E’ tuttavia molto più difficile dimostrare il perché esistano queste connessioni e come si siano originate.

Sir Peter Buck, in origine noto col nome maori Te Rangi Hiroa, presentò nel 1938 una prima ipotesi sulla migrazione di popoli dal sud-est asiatico, popoli che divennero in seguito gli abitanti della Polinesia. Le sue teorie non fugarono i dubbi degli antropologi, ma ad oggi sembrano più fondate dell’ipotesi di Heyerdahl.

La Hōkūle‘a
La Hōkūle‘a

Sappiamo infatti che i polinesiani raggiunsero le Americhe, ma non abbiamo alcuna prova di un viaggio in direzione opposta se non una componente genetica presente nella popolazione delle isole del Pacifico.

I polinesiani riuscivano a navigare per lunghissime distanze orientandosi con il sole, le stelle e una profonda conoscenza delle correnti oceaniche, elementi che, come dimostrato dal viaggio di Mau Piailug del 1976, erano sufficienti a coprire migliaia di miglia marine.

Mau Piailug, esperto di navigazione senza strumenti, si imbarcò sulla Hōkūle‘a (una canoa a doppio scafo costruita dalla Polynesian Voyaging Society) nelle Hawaii senza alcuno strumento di navigazione e riuscì a raggiungere Tahiti, fornendo ulteriore supporto ad un’ipotesi differente da quella di Heyerdahl: i polinesiani provenivano dall’ Asia, non dalle Americhe.

Kon-Tiki expedition
How the Voyage of the Kon-Tiki Misled the World About Navigating the Pacific

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Le navi vichinghe https://www.vitantica.net/2018/11/26/navi-vichinghe/ https://www.vitantica.net/2018/11/26/navi-vichinghe/#comments Mon, 26 Nov 2018 00:10:38 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2821 Le navi vichinghe rappresentarono una delle massime espressioni della tecnologia navale nordeuropea tra il IX e il XIII secolo. Costruite per essere veloci, leggere e resistenti, possedevano caratteristiche che le resero imbarcazioni adatte sia al mare aperto sia alla navigazione nelle acque basse di coste e fiumi.

Le caratteristiche delle navi vichinghe

I popoli norreni utilizzavano principalmente due tipi di navi: navi da guerra e imbarcazioni per il trasporto di merci. Le prime erano lunghe, leggere e veloci, mentre le seconde venivano realizzate concentrando l’attenzione sulla resistenza e la capacità di carico.

Le imbarcazioni utilizzate per le spedizioni di guerra non erano vere e proprie navi da guerra nel senso moderno del termine, ma navi per il trasporto di truppe. Non disponendo di armi pesanti o rostri in grado di danneggiare le navi avversarie, spesso diventavano vere e proprie piattaforme galleggianti che consentivano alla fanteria norrena di attaccare corpo a corpo il nemico.

Le navi vichinghe impiegate in guerra erano caratterizzate da uno scafo lungo, sottile e leggero, dotato di un pescaggio spesso inferiore al metro che consentiva non solo di superare un fondale basso e insidioso, ma anche di approdare su qualunque spiaggia semplicemente trascinando l’imbarcazione sulla riva. Il rapporto tra lunghezza e larghezza era generalmente di 7 a 1.

Una delle caratteristiche di molte navi vichinghe (ad eccezione di quelle impiegate per il trasporto merci o per i lunghi viaggi per mare) era la struttura simmetrica: poppa e prua erano pressoché identiche e consentivano di manovrare l’imbarcazione in modo agile e veloce, effettuando veloci cambi di rotta senza dover compiere manovre circolari.

Questa caratteristica risultava molto utile durante la navigazione tra gli iceberg e il ghiaccio marino, situazione in cui sono richieste manovre veloci e repentini cambi di direzione.

Knarr vichinga, imbarcazione per i lunghi viaggi in mare aperto

Le navi da guerra disponevano di due metodi di propulsione: vela e remi. In mare aperto le vele consentivano di viaggiare molto più velocemente dei remi e di coprire lunghe distanze senza stancare inutilmente l’equipaggio.

Le vele potevano essere issate o ammainate molto velocemente: secondo alcuni test effettuati su riproduzioni moderne di imbarcazioni norrene, in soli 90 secondi era possibile installare l’albero e dispiegare la vela.

Le navi non erano fornite di panche per rematori: per risparmiare spazio, l’equipaggio sedeva su casse che contenevano i loro beni personali, casse di dimensioni tali da consentire ad un rematore di sedere all’altezza giusta per manovrare il suo remo.

La struttura dello scafo di una nave da guerra consentiva di raggiungere velocità incredibili per un’imbarcazione dell’epoca: la media di navigazione si attestava a circa 9-18 km/h, ma in condizioni favorevoli una nave vichinga poteva raggiungere la velocità massima di quasi 30 km/h.

I tipi di navi vichinghe

Le navi vichinghe possono essere classificate in base alle caratteristiche dello scafo o ai dettagli di costruzione, ma la classificazione più comune è quella basata sul numero di postazioni per rematori.

Karvi

L’imbarcazione karvi (o karve) è la più piccola tra le navi vichinghe: per essere adatta all’uso militare doveva avere almeno 13 posti per rematori, anche se qualunque imbarcazione con 6 o più posti (fino a 16) veniva generalmente classificata come karvi.

Queste navi avevano un rapporto lunghezza/larghezza di 4:5:1 ed erano navi “multifunzione”, utilizzate per il commercio come per il trasporto di truppe in guerra. L’evoluzione delle navi karvi, le knarr, consentirono lunghi viaggi oceanici durante l’epoca dell’espansione vichinga.

Knarr

Le navi di tipo knarr furono impiegate per i lunghi viaggi in mare e per il trasporto di merci. Lo scafo ampio, profondo e più corto rispetto alle navi da battaglia (con un rapporto lunghezza/larghezza molto simile a quello delle karvi) rendevano queste imbarcazioni capienti e manovrabili da un equipaggio ridotto.

I knarr erano generalmente lunghi 16 metri, larghi 5 e potevano trasportare fino a 24 tonnellate di carico. Utilizzando i knarr i popoli norreni esplorarono tutto il Mediterraneo, scambiarono merci lungo il Baltico e trasportarono provviste alle colonie più lontane dell’ Atlantico, come l’Islanda e la Groenlandia.

Snekkja vichinga, imbarcazione per la guerra
Snekkja

La snekkja era una nave militare sottile dotata di almeno 20 posti per rematori e capace di trasportare 41 uomini. Era generalmente lunga 17 metri, larga 2-3 metri e dotata di un pescaggio di solo mezzo metro.

La snekkja era l’imbarcazione militare più comune. I Norvegesi costruivano snekkja con pescaggio più profondo rispetto ai Danesi, per riuscire ad attraversare agevolmente i fiordi e superare senza troppi problemi il clima dell’Atlantico.

Queste navi non avevano bisogno di porti per attraccare: venivano semplicemente trasportate sulla riva o spiaggiate. Il loro peso ridotto consentiva anche un trasporto “a braccia” per superare piccoli tratti di terraferma.

Skeid

Navi da guerra più grandi delle snekkja e dotate di almeno 30 posti per rematori. Una skeid poteva trasportare 70-80 uomini e poteva superare la lunghezza di 30 metri. La Roskilde 6, una skeid vichinga scoperta nel 1996 e risalente all’anno 1052, era lunga ben 37 metri.

Drakkar

Le informazioni che abbiamo sui drakkar vichinghi vengono principalmente dalle fonti storiche e dalle saghe. Apparentemente, l’unica differenza tra una skeid e un drakkar era il tipo di decorazioni dello scafo: i drakkar avevano prue intagliate, dalla forma di bestie minacciose come serpenti o draghi.

Secondo una delle interpretazioni fornite dall’archeologia, queste decorazioni servivano a tenere a bada i mostri marini che, stando alla mitologia norrena, popolavano il mare; le decorazioni del drakkar di Oseberg invece sembrano essere state eseguite come parte del rituale funebre delle due donne sepolte nel’imbarcazione.

La costruzione di una nave vichinga

Le navi da guerra vichinghe erano beni estremamente preziosi: la loro costruzione veniva generalmente commissionata in momenti di necessità, come durante una guerra o in preparazione dei raid primaverili ed estivi. Solo una persona dotata di grande ricchezza poteva possedere imbarcazioni da battaglia: generalmente erano di proprietà dell’intera comunità.

La prima, vera nave lunga norrena è la nave di Nydam, risalente al IV secolo. In questa imbarcazione si notano tutte le caratteristiche di base che, tra il VII e il XII secolo, avrebbero portato alla costruzione di snekkja, skeid e drakkar.

Sezione di una tipica nave vichinga che mostra la struttura dell'imbarcazione
Sezione di una tipica nave vichinga che mostra la struttura dell’imbarcazione

I costruttori di navi vichinghi non stendevano progetti o piani di costruzione, ma basavano tutto sull’esperienza maturata in passato. La chiglia e le costole che componevano lo scafo erano realizzate preferibilmente in legno di quercia (ma veniva impiegato anche frassino, olmo, pino e abete) tagliato seguendo le venature del tronco per sfruttare al massimo la resistenza e la flessibilità del materiale.

Il legname, prima di essere utilizzato, non veniva fatto stagionare ma era lasciato umido, talvolta collocato all’interno di paludi di torba per tutto l’inverno (periodo in cui venivano sospesi i lavori di costruzione) per evitare che si potesse seccare o che potessero generarsi crepe. L’uso di legno umido permetteva di piegarlo più agevolmente e di fargli mantenere la forma una volta asciutto.

L’albero che supportava la vela era alto fino a 16 metri e largo circa 25 centimetri. Era supportato da una struttura semicircolare chiamata kerling (“vecchia donna” nel linguaggio norreno) realizzata in legno di quercia e lunga fino a 6 metri.

Le vele erano in lana grezza, spesso rivestite da catrame di pino per impermeabilizzarle (la stessa procedura veniva applicata anche allo scafo). Anche se non abbiamo alcun esemplare di vela vichinga sopravvissuto fino ad oggi, si ipotizza che fossero larghe 11-12 metri e avessero una forma quadrata.

Le navi vichinghe avevano un timone laterale lungo circa 2,4 metri e fornito di una lama (la sezione immersa) lunga quasi due metri e larga 20-40 centimetri. Il più comune sistema di ancoraggio era costituito da un segmento di legno piegato a “U” e dotato di una pietra per appesantirlo.

Navi vichinghe celebri e repliche

drakkar

La nave di Nydam

Nave in legno di quercia scoperta nella torbiera di Nydam e risalente all’anno 310-320 d.C.. La nave è lunga 23 metri e larga 4; poteva ospitare fino a 15 coppie di rematori e pesava circa tre tonnellate.

Il drakkar di Oseberg

Non propriamente un drakkar ma un karvi, è lunga 21 metri e larga 5, con un albero alto 10 metri. Si calcola che la vela avesse una superficie di 90 metri quadrati e consentisse all’imbarcazione di raggiungere una velocità di 10 nodi. La nave fu utilizzata per la sepolture di due donne la cui identità resta ancora un mistero.

Nave di Gokstad

Imbarcazione del IX secolo scoperta a Gokstad, Norvegia. Attualmente è la più grande nave vichinga norvegese mai portata alla luce: è lunga 23,80 metri, larga 5 e probabilmente era in grado di ospitare 32 rematori e una vela di 110 metri quadrati, capace di spingere la nave ad una velocità di circa 12 nodi.

Roskilde 6

La nave vichinga più grande mai scoperta: lunga ben 36 metri, è stata scoperta a Roskilde, Danimarca. Nel’anno 1070 la nave fu fatta affondare deliberatamente, assieme ad altre quattro imbarcazioni, per bloccare l’accesso via mare alla città di Roskilde.

Draken Harald Hårfagre

Nave varata nel 2012 e costruita seguendo il più possibile le antiche tecniche norrene. E’ lunga 35 metri e ha un pescaggio di 2,5 metri. E’ in grado di ospitare 25 coppie di remi (ogni remo è manovrato da 2 rematori) e dispone di una rete dalla superficie di 300 metri quadrati.

Nel 2014, la nave ha compiuto il suo primo viaggio salpando dalla Norvegia per raggiungere, tre settimane dopo, le coste inglesi di Merseyside.

Nel 2016 invece iniziò la sua prima traversata atlantica seguendo una rotta che la portò a toccare le coste dell’Islanda, della Groenlandia, del Canada e degli Stati Uniti, raggiungendo in circa tre mesi il porto di Green Bay, Wisconsin.

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Trasporti e spostamenti nell’antico Egitto https://www.vitantica.net/2018/11/16/trasporti-spostamenti-antico-egitto/ https://www.vitantica.net/2018/11/16/trasporti-spostamenti-antico-egitto/#comments Fri, 16 Nov 2018 00:10:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2512 Gli antichi Egizi non amavano particolarmente viaggiare verso terre straniere. Il Nordafrica non è una regione che consente facili spostamenti per terra o per mare, ma le necessità commerciali, amministrative e militari costringevano a muoversi da Nord a Sud, principalmente seguendo il lungo percorso del Nilo.

La maggior parte degli spostamenti via terra o Nilo avvenivano su distanze inferiori ai 90 km. Il 17% dei viaggi erano inferiori ai 260 km mentre il 13% superiori e principalmente effettuati da rappresentanti del governo centrale in viaggio verso località straniere o province lontane, o membri dell’esercito impegnati in qualche campagna militare.

Uno spostamento via terra richiedeva mediamente una giornata di viaggio nel deserto per percorrere 30 km, mentre il viaggio fluviale consentiva spostamenti più rapidi: era possibile coprire 40-70 km al giorno lungo il Nilo a patto che le condizioni fossero favorevoli.

Le vie di trasporto utilizzati dagli Egizi erano subordinate a due fattori fondamentali: facilità di spostamento e pericolosità del tragitto. Tutto il mondo antico, salvo rare eccezioni, era popolato da bande di predoni che pattugliavano le rotte commerciali più battute in attesa di un carico prezioso o facilmente rivendibile sui mercati del regno.

Viaggiare in compagnia riduceva il rischio di essere attaccati. Le carovane che si muovevano via terra potevano contare decine o centinaia di persone per ridurre al minimo la pericolosità del viaggio.

Anche se il governo centrale condusse diverse spedizioni per contrastare l’attività dei predoni del deserto e i pirati che solcavano il Nilo, fu quasi impossibile eliminare totalmente il brigantaggio e ogni spostamento comportava un fattore di rischio non indifferente.

Gli spostamenti fluviali

Egitto trasporto fluviale

Viaggiare sul Nilo era un metodo di spostamento molto comune: consentiva di trasportare grossi carichi lungo distanze considerevoli. La gente comune costruiva piccole zattere di papiro per effettuare spostamenti brevi come il trasporto di merce verso il mercato, ma per le spedizioni commerciali più significative era necessario servirsi di vere e proprie imbarcazioni in grado di resistere alle correnti e di immagazzinare grossi carichi.

Il Nilo era certamente più sicuro del mare aperto, ma lasciava esposte le piccole imbarcazioni all’attacco di ippopotami e coccodrilli, oltre che alle imboscate dei pirati fluviali che sfruttavano banchi di sabbia nascosti e insenature per tendere agguati ai bastimenti più proficui.

Lungo il tratto meridionale del Nilo era difficile perdere la strada: si poteva viaggiare solo verso Nord o verso Sud. Ma in prossimità del delta la navigazione era resa più complessa dell’intricata rete di canali naturali che costituivano la foce del fiume. In questo caso era talvolta più semplice viaggiare per terra, specialmente se condotti da una guida locale.

Gli spostamenti via terra

Egitto spostamento via terra

Lo scriba Ankhsheshonq consigliava di camminare sempre in compagnia di un bastone da viaggio, sia come aiuto per attraversare le zone più impervie o sabbiose, sia come ultima arma di difesa contro eventuali aggressori.

Per evitare di dover camminare per decine di chilometri portando in spalla o sulla testa carichi pesanti, si usavano spesso bestie da soma come asini e muli, non propriamente mansueti anche se largamente utilizzati specialmente nel caso di trasporto di merci.

Sotto i Ramessidi, il tempio di Amon ospitava nelle sue proprietà oltre 11 milioni di asini e muli; per quanto riguarda i cammelli, erano ben noti agli Egizi ma non abbiamo alcuna traccia scritta del loro impiego come mezzo di trasporto comune ad eccezione di quelli usati dagli stranieri, come le popolazioni arabe provenienti da Oriente.

Il viaggio via terra non era semplice: l’assenza di strade ben definite e pavimentate e la mancanza di riferimenti spaziali rendeva complessa la navigazione nel deserto, anche se molti dei villaggi egizi erano raggiungibili in una giornata di cammino.

Nei punti in cui c’era la possibilità di perdere la direzione, gli Egizi costruirono dei “segnaposti”, dei tumuli di pietra per indicare la distanza percorsa e il giusto percorso per raggiungere la propria destinazione.

Mappe poco affidabili
Mappa di papiro custodita al Museo Egizio di Torino e risalente al 1160 a.C.
Mappa di papiro custodita al Museo Egizio di Torino e risalente al 1160 a.C.

Le mappe disponibili all’epoca non erano ciò che definiremmo oggi come “mappa”. I principi della cartografia erano noti anche nell’ antico Egitto, ma le mappe non rappresentavano una vera e propria rete stradale ma un insieme di itinerari con punti di riferimento vaghi e proporzioni inadeguate a descrivere con precisione le distanze di viaggio.

Dopotutto, in un deserto roccioso e sabbioso in cui il territorio può cambiare da un giorno all’altro, segnare punti di riferimento lascia il tempo che trova.

In Egitto esistevano vere e proprie strade, anche se la maggior parte di esse era sostanzialmente un piccolo canale scavato nel terreno; spesso l’utilizzo delle strade meglio manutenute era tassato e la maggior parte degli spostamenti compiuti dalla gente comune avveniva su sentieri poco battuti o in aree che mutavano spesso d’aspetto. Anche il traffico commerciale era soggetto a tassazione, sia quello condotto sul Nilo sia quello via terra.

Come si orientavano gli antichi Egizi? Bene o male sfruttavano le stesse nozioni impiegate dai navigatori del Mediterraneo: Sole, Luna e stelle. Il viaggio notturno per terra aveva due vantaggi: evitare il caldo nordafricano e avere una volta celeste in grado di fornire una direzione verso cui muoversi.

Anche orientarsi all’interno di un villaggio o di una città non era semplice a causa dell’assenza della segnaletica che oggi consideriamo scontata. Nei papiri di Ossirinco, risalenti al III secolo d.C., sono riportare le istruzioni per la consegna di una lettera:

Dalla Porta della Luna cammina verso i granai e quando raggiungi la prima strada gira a sinistra dietro le terme, dove troverai un tempietto, quindi vai a ovest. Scendi la scalinata e sali la successiva e gira a destra e dopo il tempio sulla destra c’è una casa di sette piani e sulla cima della porta una statua della Fortuna e di fronte un negozio di cesti. Chiedi all’inserviente e otterrai le informazioni.

Travel in ancient Egypt

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Chi fu Bjorn Ragnarsson “Fianchi di ferro”? https://www.vitantica.net/2018/11/10/bjorn-ragnarsson-fianchi-di-ferro/ https://www.vitantica.net/2018/11/10/bjorn-ragnarsson-fianchi-di-ferro/#respond Sat, 10 Nov 2018 10:30:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2636 Nel telefilm Vikings, Bjorn è una figura centrale negli eventi che coinvolgono la famiglia di Ragnar Lothbrok. Viene dipinto come un personaggio di grande stazza e forza fisica, un guerriero formidabile e uno stratega capace e astuto grazie al’esperienza di guerra maturata in compagnia del padre. Ma chi fu realmente Bjorn?

Le fonti che citano Bjorn

Bjorn Ragnarsson (“figlio di Ragnar”) fu un comandante norreno semi-leggendario vissuto intorno al IX secolo d.C.. “Semi-leggendario” perché le informazioni sul suo conto provengono dalle principalmente dalla saga Ragnarssona þáttr (“La Storia dei Figli di Ragnar”), un documento la cui storicità è stata messa in discussione in numerose occasioni.

Una citazione di Bjorn la si trova anche nella saga Hervarar saga ok Heiðreks (“La saga di Hervör e Heidrek”), del XIII secolo, una delle basi d’ispirazione di Tolkien per la sua Terra di Mezzo.

Questa saga è stata considerata una fonte preziosa d’informazioni storiche generiche (come la guerra tra Goti e Unni nel IV secolo d.C.), ma in quanto ad attendibilità storica sui personaggi norreni che celebra lascia molto a desiderare.

La saga di Hervör and Heidrek cita l’uccisione del sovrano danese Eysteinn Beli da parte di Bjorn e i suoi fratelli (un evento descritto anche nella saga di Ragnar Lodbrok) allo scopo di ottenere il controllo della Svezia.

Altre tre fonti, in questo caso di origine non scandinava, citano Bjorn “Fianchi di Ferro”:

  • Annales Bertiniani: annali Franchi redatti dall’abbazia francese di San Bertin, stilati come proseguimento degli Annali Reali Franchi (741 – 829) e riferiti al periodo storico che va dall’anno 830 all’anno 882. Queste cronache citano un leader vichingo di nome “Berno” che saccheggiò villaggi lungo la Senna negli anni ’50 dell’anno 800;
  • Annales Fontanellenses: o Chronicon sancti Wandregesili, una breve ricostruzione storica redatta dall’abbazia di Saint-Wandrille intorno all’anno 856. Anche queste cronache citano “Berno”, un grande leader vichingo giunto in Francia intorno alla metà del IX secolo;
  • Guillaume de Jumièges, vissuto nell’ XI secolo e autore del Gesta Normannorum Ducum, che cita “Bier Costae ferreae” (Bjorn Fianchi di Ferro) come figlio di Re Lodbrok.
La storia di Bjorn nella Saga dei Figli di Ragnar
Bjorn e i suoi fratelli nella serie televisiva Vikings
Bjorn e i suoi fratelli nella serie televisiva Vikings

Secondo la saga, Ragnar e Aslaug ebbero 6 figli: Bjorn, Hvitserk, Ubba, Ivar il Senz’ossa, Halfdan e Sigurd “Serpente nell’occhio”. Insieme ai suoi fratelli, Bjorn lasciò la Svezia per intraprendere campagne di conquista in Danimarca sotto la guida di Ivar.

Nel frattempo i fratellastri Fridleif, Eric e Agnar tentarono di convincere alla sottomissione Re Eysteinn di Svezia organizzando un matrimonio tra Eric e la principessa Borghild.

Dopo essersi consultato con i leader svedesi, Eysteinn rifiutò l’offerta e attaccò in massa le truppe dei fratellastri di Bjorn uccidendo Agnar e facendo prigioniero Eric, che fu giustiziato poco dopo impalandolo sulla lancia che lo aveva reso un grande guerriero (come lui stesso aveva richiesto).

In risposta alla morte di Agnar ed Eric, Bjorn e Aslaug organizzarono quindi un’armata per invadere la Svezia. Aslaug stessa, sotto il nome di Randalin, condusse la carica di cavalieri durante la battaglia che terminò con l’uccisione di Eysteinn.

Terminato lo scontro in Svezia, Bjorn si riunì ad Ivar per la conquista dell’ Inghilterra. Lo scontro con re Ælla terminò, secondo la tradizione, con l’aquila di sangue descritta in questo post.

La (forse) vera storia di Bjorn Ragnarsson

La vera madre di Bjorn non fu Lagertha (leggi questo post per la sua storia), ma la principessa Aslaug, e non era il più anziano dei figli di Ragnar.

Un aspetto forse troppo sottovalutato nella serie televisiva è il gran numero di raid di successo condotti da Bjorn nel corso della sua carriera di vichingo. In compagnia di Hastein, amico del padre Ragnar e celebre capo norreno del suo tempo, condusse numerose incursioni in Francia per poi spostare la sua attenzione verso il Mediterraneo.

Tra l’anno 859 e l’anno 862 si dedicò al saccheggio della costa iberica atlantica con le sue 62 navi fino a raggiungere lo stretto di Gibilterra; penetrò quindi nel Mediterraneo seguendo la costa francese e fermandosi per l’inverno prima di raggiungere l’Italia.

La rotta seguita da Bjorn Ragnarsson durante il suo viaggio nel Mediterraneo
La rotta seguita da Bjorn Ragnarsson durante il suo viaggio nel Mediterraneo verso la città di Luni

Sbarcò sulla penisola italica nei pressi di Pisa, conquistando la città e venendo a conoscenza di una città colma di ricchezze, il sogno di ogni vichingo: Roma, che secondo le indicazioni (volutamente errate) della popolazione locale si trovava a Nord rispetto a Pisa.

Seguendo le indicazioni sbagliate, giunse quindi a Luni, città fortificata romana al tempo conosciuta come Luna. In questa circostanza fu utilizzato un “trucco” che dimostra l’astuzia di Bjorn: pensando di essere finalmente giunto a Roma, tentò invano di superare la cinta muraria che difendeva la città, ma non perse la fiducia ed escogitò uno stratagemma che lo rese celebre tra la sua gente.

La finta morte di Bjorn

Hastein inviò un messaggio al vescovo di Luni sostenendo che Bjorn fosse morto durante gli scontri sotto le mura; in punto di morte, il condottiero vichingo si era convertito al Cristianesimo e aveva espresso il desiderio di ricevere una funzione funebre cristiana e di essere sepolto in terra consacrata.

Il vescovo accettò, non senza riserve, che il corpo di Bjorn fosse condotto all’interno della chiesa scortato da un piccolo manipolo di vichinghi disarmati.

Stupendo e scioccando i presenti, al momento opportuno Bjorn emerse dal suo feretro distribuendo armi ai suoi compagni, che si fecero strada fino alla porta della città lasciando entrare il resto delle armate norrene in attesa fuori dalle mura.

Una volta conquistata la città, Bjorn pretese che i cittadini si inginocchiassero di fronte al nuovo regnante di Roma. Solo uno dei presenti ebbe il coraggio di far notare che non si trovavano a Roma, ma in una città ben più a Nord delle coste laziali.

Hastein non la prese molto bene e decise di prendere come schiavi il maggior numero di abitanti in grado di essere stivati sulle navi, sterminando il resto della popolazione che non riuscì a lasciare in tempo la città.

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Il trucco di Bjorn è stato “riciclato” per l’assedio di Parigi nel telefilm Vikings: in questo caso è Ragnar a fingersi morto.

La fama di Bjorn

La storia di Bjorn non termina con il saccheggio di Luni, ma prosegue fino a raggiungere la Sicilia e le coste del Nord Africa. Durante le sue spedizioni nel Mediterraneo, la flotta di Bjorn subì la perdita di circa 40 vascelli, alcuni affondati durante una tempesta e la maggior parte perduti sulla via del ritorno, durante un raid delle forze andaluse che bombardarono i drakkar vichinghi con le loro catapulte.

Il resto della flotta, venti navi in totale, tornò in Scandinavia trasportando il ricco bottino accumulato durante qualche anno di incursioni.

Al suo ritorno, secondo le saghe, Bjorn aveva acquisito una fama superiore a quella di Ragnar; lo scontro con Re Eysteinn di Svezia lo rese ancora più celebre, mandando su tutte le furie il padre.

Per conquistare nuovamente la posizione gloriosa del passato, Ragnar si imbarcò nuovamente verso la Northumbria, finendo per essere catturato e giustiziato da re Ælla e dando il via alla formazione della Grande Armata Danese comandata da Ivar il Senz’ossa.

Bjorn non partecipò alla spedizione in Inghilterra con la Grande Armata e probabilmente prese il posto di suo padre Ragnar, assumendo le redini del regno di Svezia e, secondo la saga di Eric il Rosso, avendo due figli, Refil ed Erik Björnsson.

Björn Ironside Ragnarsson
Björn Ironside

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Il catrame di pino dei Vichinghi https://www.vitantica.net/2018/11/02/catrame-pino-vichinghi/ https://www.vitantica.net/2018/11/02/catrame-pino-vichinghi/#respond Fri, 02 Nov 2018 00:10:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2548 Oggi sappiamo che i popoli norreni erano abili navigatori, conoscevano i segreti delle pietre del sole, disponevano di abili fabbri ed erano esperti lavoratori del legno. Tutto questo consentì loro di spingersi verso il cuore d’Europa, in Islanda, in Groenlandia, fino a raggiungere le coste dell’ America settentrionale.

Le imbarcazioni vichinghe, come qualunque altra nave dell’epoca, possedevano uno scafo ligneo e dovevano essere impermeabilizzate in qualche modo per poter resistere ad anni di navigazione in mare. Con l’umidità o a contatto diretto con l’acqua, il legno si gonfia e le sue fibre tendono a sfaldarsi, compromettendo l’integrità strutturale del legname.

Il catrame di legno
Ancora oggi in Scandinavia si produce catrame di legna seguendo metodi tradizionali, probabilmente identici a quelli utilizzati dagli antichi popoli norreni.
Ancora oggi in Scandinavia si produce catrame di legna seguendo metodi tradizionali, probabilmente identici a quelli utilizzati dagli antichi popoli norreni.

Come si poteva rendere impermeabile un’imbarcazione del primo millennio d.C.? Utilizzando catrame di legno, una sostanza ottenibile dalla combustione di legna in condizioni di scarsa ossigenazione. Il procedimento per la produzione di catrame (leggi questo post per il catrame di betulla) è noto fin dal Neolitico e sono molti gli alberi che si prestano a questa operazione; due in particolare sembrano fornire il miglior catrame e in quantità abbondanti: betulle e conifere.

Il catrame ottenuto dagli alberi delle foreste nordeuropee era essenziale per lo stile di vita dei popoli norreni: era un ottimo collante, un impermeabilizzante di prima qualità per la chiglia delle barche, per le vele e per qualunque cosa stesse a contatto con l’acqua per lungo tempo. Veniva utilizzato come medicinale, come spezia, come lubrificante, come sostanza idrorepellente per i tetti delle case o cosparso sul cuoio per proteggerlo dal gelo e dall’acqua.

Un’imbarcazione vichinga di medie dimensioni richiedeva quasi 500 litri di catrame per essere sufficientemente impermeabile da poter essere messa in mare. Dopo l’esposizione alle intemperie, era inoltre necessario ripetere la procedura ogni anno per evitare che il legno marcisse.

Per produrre i 500 litri di catrame necessario a impermeabilizzare una nave vichinga occorrevano 18 metri cubi di legna e circa 1600 ore lavoro totali. Grandi quantità di catrame erano inoltre utilizzate per impermeabilizzare le vele di lana, molto comuni nelle imbarcazioni norrene e che potevano raggiungere i 100 metri quadrati di superficie.

Produrre tali quantità di catrame non è affatto semplice: se per ottenere qualche litro è sufficiente un forno di dimensioni “casalinghe”, migliaia di litri di catrame necessitano di un’operazione su larga scala la cui organizzazione ed esecuzione, fino ad ora, hanno eluso gli archeologi.

“Penso che la produzione di catrame nella Svezia orientale si sia sviluppata da un’attività casalinga su piccola scala durante l’ Età del Ferro ad una produzione su vasta scala ricollocata nei pressi delle foreste durante il periodo dei Vichinghi” sostiene Andreas Hennius, archeologo della Uppsala University e autore di una ricerca che analizza la produzione di catrame dei popoli norreni.

Forni per il catrame
Forno per la produzione di catrame di legno utilizzato durante l' Età del Ferro
Forno per la produzione di catrame di legno utilizzato durante l’ Età del Ferro

Intorno ai primi anni del 2000 sono stati trovati in Svezia diversi forni di piccole dimensioni per la produzione di catrame, tutti databili tra il 100 e il 400 d.C.. In questo periodo, il catrame veniva prodotto in quantità tali da soddisfare i bisogni di una fattoria; i forni avevano un diametro di circa 1 metro e riuscivano a produrre 10-15 litri di catrame da una singola accensione.

Qualche anno dopo sono emersi alcuni forni di dimensioni più grandi, costruiti tra il 680 e il 900 d.C., l’epoca che corrisponde alla comparsa dei Vichinghi nelle cronache europee. Questi forni, dal diametro 10-15 volte superiore a quelli casalinghi, potevano produrre da 150 a 300 litri di catrame in una sola accensione, una quantità immensamente superiore a qualunque necessità familiare.

Questi forni si trovavano nei pressi di foreste di pino, albero che fornisce materiale di prima qualità per la produzione di catrame grazie al suo alto contenuto di resine. Attorno a questi forni non erano presenti cimiteri o villaggi, suggerendo che si trattasse di siti puramente industriali incentrati sulla produzione di catrame; a confermare questa ipotesi c’è il fatto che i grossi forni di estrazione del catrame scoperti finora si trovano a circa 8-10 km da insediamenti norreni accertati.

Versione evoluta del forno per la produzione di catrame di legno nel VII - X secolo
Versione evoluta del forno per la produzione di catrame di legno nel VII – X secolo

I forni norreni per la produzione di catrame consistevano in pozzi conici scavati nella terra lungo pendii naturali. Il calore della combustione alimentata dal carbone faceva “trasudare” l’olio di conifera o di betulla dal legname; per gravità, l’olio scendeva verso il basso e veniva convogliato in barili di raccolta.

L’analisi del contenuto dei forni ha mostrato che il legname utilizzato proveniva generalmente da tronchi di pini di 30-40 anni d’età. I tronchi non hanno evidenti segni di attività da parte di insetti, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da alberi caduti o morti.

Gli alberi selezionati per la produzione di catrame venivano probabilmente preparati qualche anno prima incidendo la corteccia per promuovere la creazione di resina e massimizzare l’estrazione di catrame.

L’estrazione di catrame di pino su larga scala richiese necessariamente un’organizzazione puntuale e una forza lavoro composta da centinaia di uomini. Occorreva preparare i pini con anni di anticipo, abbatterli in grandi quantità, accatastarli correttamente per evitare che il legno si deteriorasse, monitorare costantemente il processo di combustione dei forni e, non per ultimo, trasportare barili in abbondanza da e verso i siti di produzione del catrame.

Questa produzione massiccia e ben organizzata generò anche un surplus di catrame: le eccedenze venivano spedite da Svezia e Finlandia in altre regioni d’Europa, come dimostrerebbero numerosi barili scoperti in Danimarca o in Germania e oltre un centinaio di spazzole per l’applicazione di catrame di pino, abete o larice, in aree in cui non c’è abbondanza di conifere.

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Viking Age tar production and outland exploitation

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Chi fu realmente Floki? https://www.vitantica.net/2018/07/25/chi-fu-realmente-floki/ https://www.vitantica.net/2018/07/25/chi-fu-realmente-floki/#respond Wed, 25 Jul 2018 11:00:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1979 Uno dei personaggi più amati dal pubblico di Vikings è Floki, amico di Ragnar e costruttore della flotta che sbarcò in Gran Bretagna trasportando la Grande Armata norrena.

Riguardo alle figure di Ragnar e di Lagertha esistono ancora molti dubbi sulla loro reale identità o sull’attendibilità storica delle fonti che li citano; per Floki invece la situazione è un po’ diversa: si tratta di un personaggio realmente esistito, conosciamo abbastanza bene la sua storia e sappiamo che fu il primo a navigare volontariamente verso l’Islanda con lo scopo di fondare un nuovo insediamento.

Flóki Vilgerðarson e i primi islandesi

Flóki Vilgerðarson (questo era il suo nome) visse in Norvegia nel IX secolo e la sua storia è documentata dal manoscritto medievale Landnámabók, che descrive i dettagli dell’insediamento dei popoli norreni in Islanda tra il IX e il X secolo.

Il Landnámabók è un documento straordinario: nei suoi oltre 100 capitoli descrive con dovizia di particolari oltre 3.000 coloni e circa 1.400 insediamenti islandesi, fornendo anche una breve genealogia di tutti i 435 primi colonizzatori dell’Islanda.

Floki, probabilmente a capo del primo gruppo che si insediò sull’isola, fu il terzo nordeuropeo a raggiungere l’Islanda: Garðarr Svavarsson, svedese con possedimenti nella moderna Danimarca, fu costretto ad approdare sull’isola nei primi anni dell’ 860 dopo il naufragio causato da una tempesta.

Naddoddr, anno 850, è invece considerato il primo vichingo a scoprire l’esistenza dell’Islanda (anche lui in modo fortuito) oltre che il primo norreno ad insediarsi sulle Isole Faroe (Fær Øer).

I viaggi intrapresi da Naddodd, Garðarr Svavarsson e Floki
I viaggi intrapresi da Naddodd, Garðarr Svavarsson e Floki
Il viaggio di Flóki

Flóki Vilgerðarson fu però il primo europeo a navigare verso l’Islanda con il preciso intento di fondare una colonia. Nell’anno 868 Floki partì dalla Norvegia in direzione Nord-Ovest nel tentativo di trovare la terra scoperta qualche anno prima da Garðarr Svavarsson, accompagnato dalla moglie Gró, dai suoi figli e da qualche centinaio di coloni.

In corrispondenza delle Isole Shetland una delle sue figlie annegò in mare, ma l’avvenimento non fece desistere il navigatore norreno: continuò fino alle Isole Faroe, dove un’altra delle sue figlie si sposò.

Durante la sosta alle Faroe Floki prese a bordo tre corvi per aiutarlo a localizzare l’Islanda in mare aperto: da questo momento verrà conosciuto come Hrafna-Flóki (Corvo-Floki).

Dopo aver guadagnato nuovamente il mare aperto, Floki iniziò a liberare i corvi nella speranza di localizzare l’Islanda: il primo corvo tornò alle Faroe, il secondo volteggiò per qualche tempo sopra la nave per poi atterrare sul ponte, mentre il terzo corvo volò verso Nord-Ovest senza fare più ritorno.

Secondo Floki, il mancato ritorno del terzo corvo poteva avere un solo significato: la terra era vicina. Decise quindi di seguire la rotta verso Nord-Ovest fino a quando raggiunse una vasta baia che dava l’impressione di appartenere ad una grande massa di terraferma, scoprendo per primo la baia di Reykjavík.

Riserva naturale di Vatnsfjörður
Riserva naturale di Vatnsfjörður
Insediamento, abbandono e ritorno in Islanda

Dopo aver individuato una località adatta allo sbarco (Barðaströnd, nella riserva naturale di Vatnsfjörður) i coloni costruirono un accampamento invernale in previsione della stagione rigida.

Durante l’inverno, Floki riuscì a localizzare dalla cima di una montagna un grande fiordo (Ísafjörður) completamente ricoperto da frammenti di ghiaccio galleggiante; fu in questo momento che l’Islanda ottenne il suo nome: Floki battezzò l’isola Ísland, terra dei ghiacci.

Il fiordo ghiacciato convinse Floki e altri coloni a fare ritorno in Norvegia nell’estate successiva: secondo lui quella terra era quasi del tutto inutilizzabile, troppo poco fertile e fredda da poter sostenere una comunità di esseri umani.

L’ abbandono dell’Islanda non fu però causato soltanto dal terreno povero di nutrienti ma da problemi ben più gravi: sembra che Floki e i coloni avessero totalmente trascurato il bestiame e i piccoli orti dell’accampamento spendendo tutta l’estate a pescare e a cacciare; l’arrivo dell’inverno colse i norreni impreparati, il bestiame e gli orti finirono per cedere al gelo e l’accampamento si trovò a dover razionare i viveri.

Per quanto Floki parlasse male dell’Islanda al suo ritorno in Norvegia, altri coloni la descrivevano come una terra dura ma ricca di opportunità: Herjolf riteneva che l’isola avesse lati negativi bilanciati da altrettanti aspetti positivi, mentre Thorolf si meritò l’appellativo di “Thorolf di Burro” dopo aver sostenuto che ogni filo d’erba islandese fosse cosparso di burro.

Nonostante il suo iniziale parere negativo sull’abitabilità dell’isola, Floki fece ritorno in Islanda qualche anno dopo, vivendo nella terra dei ghiacci fino al giorno della sua morte. La valle in cui stabilì la propria dimora porta ancora oggi il suo nome: Flókadalur, la Valle di Floki.

Flókadalur, la Valle di Floki
Flókadalur, la Valle di Floki

Il viaggio di Floki ispirò molti norreni: il primo abitante permanente d’Islanda, Ingólfur Arnarson, prese il mare in compagnia della moglie e del fratello dopo aver sentito della scoperta di una nuova isola nell’Atlantico da parte di Flóki Vilgerðarson.

Nell’anno 874 raggiunse l’Islanda per fuggire ad una faida iniziata in terra norvegese, trovò la baia che Floki aveva scoperto nel corso del suo primo viaggio e fondò la città di Reykjavík.

17 exhibits from the Icelandic Sagas
Hrafna-Flóki Vilgerðarson
Landnámabók – Fyrsti hluti

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Il fuoco greco, l’arma incendiaria più temibile dell’antichità https://www.vitantica.net/2018/06/18/fuoco-greco-arma-incendiaria/ https://www.vitantica.net/2018/06/18/fuoco-greco-arma-incendiaria/#comments Mon, 18 Jun 2018 15:00:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1801 Il fuoco greco fu una temibile arma incendiaria sviluppata dall’ impero bizantino nella seconda metà del VII secolo d.C. e tipicamente utilizzata durante le battaglie navali, con conseguenze disastrose e terrificanti per il nemico. Il fuoco greco regalò diverse vittorie agli eserciti di Costantinopoli, contribuì a respingere gli assedi arabi e rappresentò uno degli sviluppi tecnologici più rilevanti e determinanti della storia bellica europea.

La definizione “fuoco greco” entrò in uso a partire dalle Crociate; a Costantinopoli, prima della popolarità del termine utilizzato ancora oggi, questa tecnologia veniva definita come “fuoco marino”, “fuoco romano”, “fuoco di guerra”, “fuoco liquido” o “fuoco appiccicoso”.

La nascita del fuoco greco

Occorre precisare che la tecnologia delle armi incendiarie non nacque con l’invenzione del fuoco greco: per secoli Greci, Romani e popoli mesopotamici utilizzarono misture a base di zolfo, petrolio o bitume per appiccare fuochi a imbarcazioni o edifici del nemico sfruttando granate o frecce per scagliare proiettili incendiari anche a grande distanza. Le armi incendiarie esistono da quando l’essere umano imparò a manipolare il fuoco a piacimento, anche se i primi resoconti scritti risalgono a circa 3.000 anni fa.

L’invenzione del fuoco greco viene attribuita da Teofane, monaco o storico bizantino del VIII secolo, a Kallinikos (latinizzato in Callinicus), un architetto e artificiere di origine libanese che intorno all’anno 672 ideò per conto dei Bizantini una mistura di “fuoco marino” in grado di bruciare completamente le navi arabe che minacciavano il Mediterraneo.

Restano diversi dubbi sulla paternità dell’invenzione: Kallinikos giunse a Costantinopoli circa due anni dopo il primo rapporto di un’arma incendiaria del tutto identica al fuoco greco, ed è assai più probabile che la tecnologia sia stata il frutto del lavoro di diversi alchimisti e artificieri che vivevano nell’ impero bizantino.

Sifone portatile per il fuoco greco, una sorta di lanciafiamme antico, mentre viene utilizzato dalla cima di una torre d'assedio. L'illustrazione proviene dal manoscritto Codex Vaticanus Graecus 1605 (IX-XI secolo)
Sifone portatile per il fuoco greco, una sorta di lanciafiamme antico, mentre viene utilizzato dalla cima di una torre d’assedio. L’illustrazione proviene dal manoscritto Codex Vaticanus Graecus 1605 (IX-XI secolo)

Kallinikos, quindi, potrebbe essersi limitato a perfezionare il fuoco greco trasformandolo in un’arma più pratica e meno pericolosa per coloro che la manovravano. La data dell’invenzione è inoltre arbitraria se si considera che il 672 è l’anno in cui si registrò il primo l’impiego di questa tecnologia: il mondo arabo, dopo aver occupato Siria, Palestina ed Egitto, cinse d’assedio Costantinopoli per due volte, venendo respinto in entrambi i casi e subendo gravi perdite di uomini e navi proprio a causa del fuoco greco.

Fuoco greco: arma navale avvolta nel segreto

La formula del fuoco greco era un segreto custodito gelosamente dai Bizantini, così gelosamente da non lasciare alcuna documentazione scritta in grado di sopravvivere fino all’epoca moderna. Ad oggi, nessuno conosce con precisione la composizione chimica del fuoco greco, anche se nel corso del tempo sono state formulate diverse ipotesi. Qualche secolo dopo il primo utilizzo in battaglia del fuoco greco, l’imperatore Costantino VII, nella sua opera De Administrando Imperio, avverte i suoi eredi di non rivelare mai il segreto di quest’arma perché “è stato mostrato e rivelato da un angelo al grande e santo primo imperatore cristiano, Costantino”.

Sappiamo però che la sola mistura incendiaria era fondamentalmente inservibile se non supportata dalla giusta attrezzatura: era necessario modificare i dromoni (navi simile alle galee) per trasportare in modo sicuro la sostanza incendiaria; occorreva installare a bordo diverse armi a sifone in grado di “sparare” il fuoco greco verso le imbarcazioni nemiche; era indispensabile infine sottoporre ad un addestramento speciale gli operatori che avrebbero utilizzato queste armi per evitare di mettere a rischio l’intero equipaggio o danneggiare irreparabilmente il dromone.

Granate utilizzate per contenere fuoco greco risalenti al X-XII secolo ed esposte al National Historical Museum di Atene
Granate utilizzate per contenere fuoco greco risalenti al X-XII secolo ed esposte al National Historical Museum di Atene

L’intero apparato-arma del fuoco greco si basava, secondo un manoscritto della biblioteca di Wolfenbüttel, su una fornace posizionata sulla prua del dromone: il fuoco greco veniva scaldato da una fiamma all’interno di un contenitore di rame ed espulso tramite sifoni, che aspiravano una parte della miscela incendiaria attraverso un tubo di bronzo e la espellevano dall’estremità opposta.
Anche il vichingo Ingvar il Viaggiatore descrisse in modo simile il sistema di sparo del fuoco greco dopo un incontro con alcune navi che utilizzavano quest’arma.

La conoscenza dell’intero sistema che consentiva di utilizzare il fuoco greco era strettamente compartimentalizzata: i tecnici conoscevano solo alcuni aspetti dell’arma mentre gli operatori ne conoscevano altri, in modo tale che un tecnico non sarebbe mai riuscito a manovrare un’arma a sifone e un operatore a replicare l’intero sistema per conto del nemico o per qualunque altro scopo non gradito all’impero. Nell’anno 814 i Bulgari riuscirono a catturare ben 36 sifoni e una certa quantità di materiale incendiario, ma non furono in grado di comprendere il funzionamento del sistema e non riuscirono mai a padroneggiare il fuoco greco.

Cosa sappiamo del fuoco greco

Sebbene non siano sopravvissuti documenti in grado di fornire una ricostruzione accurata della composizione della mistura incendiaria del fuoco greco, la principessa bizantina Anna Comnena riporta una descrizione della miscela impiegata contro i Normanni nel 1108:

“Dal pino e da altri alberi sempreverdi si raccoglie resina infiammabile. La si strofina con lo zolfo e la si inserisce in tubi di canne e viene soffiata da uomini con respiri violenti e continui. In questo modo incontra la fiamma all’estremità [della canna], prende fuoco e ricade come un mulinello selvaggio sulle facce del nemico”

Incrociando i vari riferimenti al fuoco greco risalenti all’ epoca bizantina o posteriori, l’archeologia moderna ha delineato alcune caratteristiche di quest’arma chimica:

  • Era una sostanza liquida e non una sorta di proiettile;
  • Continuava a bruciare sull’acqua. Secondo alcune fonti, addirittura prendeva fuoco a contatto con l’acqua;
  • Poteva essere estinto solo con l’utilizzo di sabbia, aceto o urina;
  • La fiamma del fuoco greco produceva una gran quantità di fumo.

Per molto tempo l’ipotesi più popolare sul fuoco greco fu quella che vedeva l’arma come una sorta di “bomba” alimentata da una versione rudimentale della polvere da sparo; per quanto affascinante, l’ipotesi non teneva in considerazione il fatto che non c’è alcuna prova che gli Europei o gli Arabi (al tempo, i leader mondiali in campo chimico) conoscessero la polvere nera nel VII secolo.

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Una seconda ipotesi basata principalmente sull’ apparente impossibilità di estinguere il fuoco greco parla di una mistura di acqua e calce viva, una sostanza ben nota ai Bizantini ma che ha bisogno del contatto con l’acqua per prendere fuoco. Molti resoconti dell’epoca parlano invece del fuoco greco come di una sostanza liquida che veniva spesso versata direttamente sui ponti delle navi nemiche o inserita in contenitori di terracotta per realizzare qualcosa di simile ad una granata. Anche se i ponti delle navi erano generalmente bagnati e potenzialmente reattivi nei confronti della calce viva, l’effetto non sarebbe stato sufficiente ad innescare fuochi tali da incendiare completamente un’imbarcazione.

La maggior parte degli archeologi moderni ritiene che il fuoco greco fosse una mistura a base di petrolio crudo o raffinato, qualcosa di simile al napalm moderno. Sappiamo che i Bizantini potevano contare su affioramenti naturali di petrolio nelle regioni del Mar Nero e che intorno al VI-VII secolo alcuni storici dell’epoca citarono sostanze come “l’ olio dei Medi” o “nafta” impiegate in battaglia come armi incendiarie; è molto probabile quindi che la nafta o il petrolio non raffinato fossero ingredienti essenziali per la miscela del fuoco greco. Questa idea sembra essere supportata dal trattato militare del 1187, scritto da Mardi ibn Ali al-Tarsusi per Saladino, che riporta la versione araba del fuoco greco (chiamata “naft“), una mistura di petrolio, zolfo e resine vegetali.

Greek Fire
Greek fire – Wikipedia

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