legno – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Video: costruire un arco da legno di scarsa qualità https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/ https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/#respond Sat, 31 Oct 2020 00:10:04 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4888 La costruzione di un arco funzionale richiede un primo passaggio fondamentale: la selezione del legname. Tasso, quercia, noce, osage, ginepro, frassino e olmo sono generalmente materiali di prima scelta per la fabbricazione di un arco efficace, veloce e duraturo; l’esperienza millenaria accumulata dai costruttori di archi di tutto il mondo insegna che occorre trovare il giusto compromesso tra durezza ed elasticità.

I materiali più adatti alla costruzione di un arco non sono sempre facilmente disponibili: in molte regioni d’Europa, ad esempio, il tasso è un albero protetto; l’osage orange o il noce americano non sono legnami a buon mercato e devono generalmente attraversare l’Atlantico per raggiungere il Vecchio Continente.

E’ possibile fabbricare un arco sufficientemente potente da cacciare animali di media o grossa taglia usando legname di seconda o terza scelta, come quello reperibile nei più comuni centri del “fai da te”?

Per esperienza personale, posso dire che si, è possibile. Occorre prestare attenzione alla direzione delle fibre del legno e spendere un po’ di tempo a cercare la qualità di legno adatta, ma con l’aiuto di un materiale sintetico e molto comune come la fibra di vetro si può ottenere un’arma relativamente veloce e performante.

Il canale YouTube Kramer Ammons ha pubblicato nel dicembre 2019 una guida pratica e chiara per realizzare un arco utilizzando legname comune e fogli di fibra di vetro. La fibra di vetro sostituisce l’applicazione di materiali di origine naturale, come il tendine animale, utilizzati per aumentare la resistenza alla rottura e la potenza degli archi tradizionali.

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Sia chiaro, nulla può sostituire il tipo di legno che da millenni viene impiegato per la costruzione di archi. Il tasso, ad esempio, per quanto non propriamente duro (è considerato il più duro tra i legni morbidi), ha una struttura a strati in cui il durame scuro e l’alburno biancastro sono distintamente separati, e le fibre corrono longitudinalmente per tutto il tronco senza curvature eccessive, aspetti che ne facilitano la lavorazione e non costringono a “seguire gli anelli” come altro legname costringe a fare.

Ma costruire un arco con legno di scarsa qualità è possibile. E’ stato fatto innumerevoli volte (il sottoscritto ne ha realizzati due partendo da materiali non propriamente adatti) e, talvolta, la qualità e l’efficacia di un’arma di questo genere può davvero sorprendere.

BOW WOODS (FROM A MATHEMATICAL PERSPECTIVE)

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Lo stadel, la casa walser a due piani https://www.vitantica.net/2019/10/16/stadel-casa-walser-a-due-piani/ https://www.vitantica.net/2019/10/16/stadel-casa-walser-a-due-piani/#comments Wed, 16 Oct 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4586 A poco meno di due ore da Milano si erge un muro di roccia e natura oltre il quale si aprono valli ricoperte di verde e percorse da mucche, torrenti e cascate. La Valle d’Aosta, una regione poco nominata ma apprezzata da chi ha avuto il piacere di esplorarla, offre panorami mozzafiato e un gruppo di comunità che per interi secoli hanno condotto uno stile di vita difficile ma particolarmente affascinante.

Nel corso del passato weekend sono riuscito ad esplorare una minuscola frazione della Valle del Lys, percorsa dal fiume omonimo lungo il quale si snodano paesini e piccoli agglomerati di case, alcune moderne ma dall’aspetto tipicamente alpino, altre molto più antiche, ma non per questo meno interessanti.

Lo stadel, la tipica casa rurale della cultura Walser, è un edificio curioso e funzionale, nato dall’ingegno e dalla necessità di un popolo costretto a negoziare con una natura spesso ostile.

La comunità Walser

Conosco ben poco la cultura Walser, ma sono così fortunato da avere una compagna cresciuta a Gressoney e che, lentamente, mi sta introducendo alle tipicità della cultura della Valle del Lys.

I Walser parlano il Titsch, una variante del dialetto tedesco meridionale chiamata “altissimo alemanno” presente in tre forme: il titsch di Gressoney-Saint-Jean e La-Trinité, il töitschu di Issime e il titzschu di Alagna Valsesia e Rimella in Valsesia.

Le comunità Walser si stabilirono in Piemonte, Valle d’Aosta e Svizzera nel XIII secolo. Il più antico documento che cita un insediamento Walser risale al 10 maggio 1253 ed è stato redatto nella colonia di Bosco Gurin, nel Canton Ticino.

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L’origine della comunità walser viene spiegata sul sito Monterosa4000.it:

“Spinte da ristrettezze economiche e da eccessiva concentrazione di popolazione, intere comunità Walser sin dal 1200 lasciarono la terra d’origine vallese e, attraverso dure e spesso inesplorate vie alpine, si crearono nuove patrie in un’ampia zona che va dalla Savoia francese al Vorarlberg austriaco, quasi sempre ad altitudini superiori ai 1000 metri. […]”

“[…]Le dure condizioni ambientali li costrinsero ad integrare sempre più la loro attività rurale con quella di allevatori che consentiva loro di entrare in commercio con le popolazioni più vicine, offrendo giovani capi di bestiame, oltre agli svariati prodotti della lavorazione del latte.Si tratta di un popolo nel quale sono altissimi il valore della libertà, dell’indipendenza e il senso dell’avventura; anche quando il prezzo da pagare è altissimo[…]”

“[…] La necessità di garantirsi un’alimentazione autonoma (latte, formaggi, carne salata ed essicata all’aria) ed il foraggio per il bestiame, li costrinsero ad una durissima opera di dissodamento del terreno, utilizzando scure e fuoco, ed ottenendo delle radure coltivabili chiamate macchie (Fleche). I walser furono portatori di una cultura del legno molto più avanzata e raffinata di quella delle popolazioni originarie.”

L’abilità dei walser nella lavorazione del legno fu alla base della costruzione dei primi stadel, le case tradizionali della Valle del Lys.

Lo stadel
Stadel walser nella Valle del Lys
Stadel walser nella Valle del Lys. Fonte

I walser erano contadini e allevatori e necessitavano di un’abitazione in grado di proteggere esseri umani e animali in egual modo: senza il bestiame, la sopravvivenza all’isolamento invernale sarebbe stata estremamente difficile.

La stadel risponde alle esigenze pratiche dei walser con un edificio su due livelli isolati l’uno dall’altro. Il piano più basso, in pietra, rappresentava allo stesso tempo la stalla, la residenza “di lavoro”, il locale della stufa e la cucina: le zone destinate alla vita quotidiana umana, chiamate collettivamente “wongade“, erano il cuore dello stadel.

La cucina, chiamata firhus, non era un locale per il soggiorno diurno o notturno, ma una stanza in cui si lavoravano i prodotti caseari, su preparavano le carni o si cucinava il pasto della giornata. La stalla era separata dal wongade da una parete di legno chiamata “läno”, utile a mantenere un certo livello d’igiene pur lasciando filtrare all’interno della casa il calore prodotto dal bestiame.

L’accesso al piano superiore era possibile grazie ad una scala interna. Al primo piano si trovava il fienile e le camere da letto all’interno di una struttura interamente lignea, realizzata con assi di larice unite a incastro.

Il larice è il legno dominante nella stadel: veniva impiegato non solo per realizzare la struttura del piano superiore, ma anche per rivestire il pavimento e le pareti del piano inferiore.

Le camere del primo piano si trovano in corrispondenza del wongade per sfruttare il calore generato dalle attività svolte al piano inferiore e dal bestiame.

Il tetto, dalla struttura portante il legno di larice, era ricoperto da lose di pietra, tegole ottenute da ardesia o altri materiali di natura scistosa (propensi a fratturarsi in lastre).

I “funghi” di supporto
Colonne dalla tipica forma a fungo
Colonne di supporto dello stadel, dalla tipica forma a fungo. Fonte

Il piano superiore e quello inferiore, in un tipico stadel, non si toccano e non condividono pavimento e soffitto, ma sono separati da piccole colonne dalla tipica forma a fungo.

Queste colonne vengono realizzate con legno e pietra: il gambo è costituito da un tronco di legno, mentre il cappello viene ottenuto da un disco di pietra (chiamato “musblatte” in dialetto walser) su cui poggia il primo piano.

Questa separazione aveva due scopi principali: il primo era quello di isolare il fienile e la zona notte per evitare l’infiltrazione di umidità dal piano sottostante; il secondo, invece, era prevenire l’ingresso dei roditori, amanti dei fienili e tipici coinquilini di molte strutture rurali.

Fonti:

Cultura Walser della Valle d’Aosta
Casa walser
La civiltà Walser
Gli stadel, antiche costruzioni walser
Architettura Walser

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Documentario: come intagliare un kuksa https://www.vitantica.net/2019/09/13/documentario-intagliare-kuksa/ https://www.vitantica.net/2019/09/13/documentario-intagliare-kuksa/#respond Fri, 13 Sep 2019 00:10:44 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4514 Il guksi (in finlandese, kuksa) è una coppa tradizionale del popolo Sami ottenuta da legno di betulla, generalmente utilizzando come materia prima un grosso nodo presente sul tronco dell’albero.

L’utente YouTube Zed Outdoors spiega in questo video il procedimento per la creazione di un kuksa, dalla selezione del legno all’impermeabilizzazione del prodotto finito.

La selezione del nodo è fondamentale per ottenere un kuksa di lugna durata. Se è troppo umida, occorre farla seccare per 2-3 estati; se è troppo secca e presenta crepe, non produrrà un buon guksi; se è troppo irregolare, troppo piccola o troppo grande, sarà scartata.

Traditional Sami Kuksa
Traditional Sami Kuksa

Il nodo dell’albero viene plasmato in modo grezzo e lasciato ad essiccare per evitare che si manifestino fratture durante la lavorazione. I kuksa realizzati con nodi di betulla durano più a lungo di quelli ottenuti a partire dal semplice legno del tronco.

Se lasciato seccare all’aria dopo l’utilizzo, e con una breve pulizia regolare con acqua, il kuksa può durare una vita intera. L’utilizzo di detergenti potrebbe danneggiarlo irreparabilmente, creando fratture o rovinando la venatura del legno.

Il tipico kuksa ha un manico allo stesso livello del bordo della coppa, una forma caratteristica dei guksi finlandesi. Il manico consente una presa comoda e salda della mano; talvola, in base alle dimensioni della coppa, è dotato di più fori per l’inserimento delle dita.
La coppa del kuksa può resistere senza problemi all’acqua bollente e non risente degli sbalzi di temperatura.

Per evitare che il legno si secchi eccessivamente, il guski viene modellato nell’arco delle prime 24 ore dal taglio del nodo o del tronco. Prima di rifinirlo, viene immerso in acqua salata per circa 1 ora o avvolto in fogli di carta o tessuto per due settimane; in questo modo si evita che il legno perda umidità troppo velocemente, causando fratture.

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Dopo la rifinitura e l’eventuale decorazione, il kuksa viene levigato e oliato per impregnare il legno e renderlo impermeabile. Anche se inizialmente ciò che si beve potrebbe avere un sapore “legnoso”, con il passare del tempo e l’utilizzo costante ogni resto vegetale scomparirà, lasciando inalterato l’aroma della bevanda.

Kuksa
KUKSA – CRAFTING THE TRADITIONAL WOODEN CUP
Guksi

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Coracle, antica imbarcazione fluviale https://www.vitantica.net/2019/07/08/coracle-antica-imbarcazione-fluviale/ https://www.vitantica.net/2019/07/08/coracle-antica-imbarcazione-fluviale/#respond Mon, 08 Jul 2019 00:10:32 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4397 La storia delle imbarcazioni fluviali è ricca di esempi di ingegno: sapersi adattare con i materiali a disposizione era una virtù fondamentale nell’antichità, a maggior ragione quando l’adattabilità poteva fare la differenza tra la vita e la morte.

Anche se la canoa a scafo monossilo è un’ imbarcazione non troppo complessa da realizzare, resistente e adatta all’uso fluviale, in realtà non è il natante più facile e veloce da costruire: è necessario un duro lavoro di scavo, lavoro che può essere mitigato dall’uso del fuoco ma che in ogni caso richiede una buona dose di pazienza.

Un’imbarcazione più semplice e veloce da realizzare è il coracle: anche se meno stabile e resistente di un solido tronco di legno scavato con cura, garantisce il galleggiamento e una certa manovrabilità anche in acque molto basse.

L’origine del coracle

“Coracle” è un termine che deriva dalla parola gallese cwrwgl, presente nella documentazione storica inglese fin dal XVI secolo. Abbiamo tuttavia la certezza che questo genere di imbarcazione sia stato utilizzato per millenni dagli abitanti delle isole britanniche.

In Scozia sono stati ritrovati resti di imbarcazioni molto simili ai coracle inglesi del XVI secolo e databili alla prima Età del Bronzo. Queste imbarcazioni non erano impiegate esclusivamente per lo spostamento lungo corsi fluviali, ma anche per la pesca: coppie di coracle si dedicavano alla cattura di pesci d’acqua dolce distendendo una rete che veniva tenuta saldamente con una mano, mentre la mano libera veniva impiegata per manovrare un remo.

Le più antiche istruzioni per la realizzazione di un coracle è contenuta in una tavoletta cuneiforme mesopotamica risalente a circa 4.000 anni fa: le istruzioni fanno riferimento alla costruzione di un quffa (noto come “coracle iracheno”) ordinata da Enki ad Atra-Hasis per salvare l’uomo dal Grande Diluvio.

Coracle indiano usato presso le cascate di Hogenakkal
Coracle indiano usato presso le cascate di Hogenakkal

Anche gli indiani realizzavano coracle, più bassi e larghi di quelli inglesi, fin dall’epoca preistorica. Ancora oggi sulle cascate di Hogenakkal si usano coracle larghi da 2 a 3 metri per trasportare turisti o per la pesca di fauna ittica d’acqua dolce.

La struttura del coracle

La struttura tipica di un coracle europeo è costituita da un reticolo di rami di salice tenuti insieme da corteccia estratta dallo stesso albero. Il telaio viene quindi ricoperto da pelle animale, tradizionalmente cuoio bovino, rivestita da catrame di conifere o di betulla.

I coracle di origine orientale hanno un telaio di bambù, materiale ideale per flessibilità e resistenza, e sono anch’essi rivestiti di pelle e impermeabilizzati tramite l’uso di resina o di olio di cocco.

Le strisce di betulla (o frassino) che formano il telaio, lunghe mediamente 2-2,5 metri, vengono immerse in acqua per circa una settimana prima del loro utilizzo, per aumentarne la flessibilità.

Le bull boat nordamericane, un mix di tecnologia nativa ed europea, avevano un telaio di ossa di bisonte (Lewis e Clark descrivono un coracle dal telaio composto da 15 costole di bisonte) e una copertura impermeabilizzata di pelle estratta dallo stesso animale.

Il coracle ha una forma arrotondata, spesso tondeggiante o ovale, che ricorda quella di un guscio di noce. Il fondo dell’imbarcazione è piatto e fornisce allo scafo un pescaggio molto limitato, spesso di soli pochi centimetri rispetto alla superficie dell’acqua.

Coracle antico custodito al Field Museum of Natural History, Chicago
Coracle antico custodito al Field Museum of Natural History, Chicago

Ogni coracle viene costruito specificamente per le condizioni fluviali che dovrà affrontare. Ad esempio, i coracle costruiti per affrontare il fiume gallese Teifi hanno un fondo piatto adatto ad affrontare rapide; quelli realizzati per il fiume Tywi, invece, sono più tondeggianti e profondi.

Il design del coracle rende l’imbarcazione poco stabile rispetto ad una canoa. Dato che “siede” sulla superficie dell’acqua invece di solcarla, il coracle può essere spostato facilmente dalle correnti o dal vento e tende ad inclinarsi sulla base degli spostamenti del centro di massa del suo contenuto.

Uso del coracle

I coracle sono imbarcazioni perfette per la pesca in acque basse: disturbano poco la superficie se manovrati da un esperto e possono facilmente essere orientati con un braccio solo, lasciando libera una mano che verrà impiegata per gestire una rete da pesca o impugnare una lancia.

Il coracle può essere facilmente trasportato sulla terraferma da una persona sola, caricandolo sulle spalle o sopra la testa. La trasportabilità è un aspetto molto importante, dato che la maggior parte dei coracle sono di dimensioni tali da poter ospitare solo un occupante (anche se in India non è raro che coracle di 2,5 metri di diametro riescano a trasportare fino a otto persone).

I quffa che ancora oggi percorrono il Tigri o l’Eufrate, usati da almeno 3.000 anni e per nulla differenti in quanto a struttura da quelli europei, possono raggiungere il diametro di 5,5 metri e trasportare fino a 4-5 tonnellate di carico.

Un coracle pesa generalmente tra i 15 e i 20 kg, caratteristica che rendeva queste imbarcazioni un mezzo di trasporto ideale per i viaggi solitari di cacciatori di pelli ed esploratori.

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Coracle
The Tradition of Coracle Fishing in Wales
Coracles: The surprising history of Britain’s strangest boat
Pagine dedicate alla Marina Militare e Mercantile ed alla marineria etnica e storica

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Il wigwam (o wikiup), la capanna dei nativi americani https://www.vitantica.net/2019/05/06/wigwam-wikiup-capanna-nativi-americani/ https://www.vitantica.net/2019/05/06/wigwam-wikiup-capanna-nativi-americani/#respond Mon, 06 May 2019 00:03:50 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4089 Quando i primi esseri umani anatomicamente moderni sentirono la necessità di trovare riparo dalle intemperie e dalle minacce dell’ecosistema in cui vivevano, iniziarono a sfruttare ogni risorsa naturale a loro disposizione: anfratti nella roccia, fronde spinose disposte a cerchio, cavità naturali nel terreno e ogni tipo di materiale vegetale e animale a loro disposizione.

Uno dei rifugi più versatili e diffusi in Nord America fu quello che i nativi chiamarono wigwam, wickiup o wetu, una capanna semi-permanente a cupola realizzata con legno, cordame ottenuto da fibre vegetali o animali e qualunque materiale di copertura facilmente ottenibile nell’ecosistema di residenza.

Meno trasportabile del tipi ma più resistente ad ogni evento atmosferico, il wigwam si diffuse rapidamente in tutte le culture cacciatrici-raccoglitrici semi-nomadi perché costituiva un riparo semplice da realizzare e risultava molto efficace contro la maggior parte dei pericoli ambientali.

Struttura del wigwam

La struttura del wigwam è costituita da un telaio di pali di legno flessibili disposti a cupola, e da una copertura di fogliame, erba, corteccia o pelli in grado di rendere impermeabile e termicamente isolato questo tipo di rifugio.

Le caratteristiche costruttive del wigwam variano in base alla cultura, disponibilità di materiali e al clima: i wigwam costruiti in aree desertiche, ad esempio, spesso presentano una copertura solo accennata, data la scarsità di precipitazioni; i wigwam realizzati in regioni più fredde, invece, possono presentare strati di copertura multipli per isolare gli occupanti dal gelo e dalle intemperie.

Wigwam del popolo Ojibwe in una foto del XIX secolo
Wigwam del popolo Ojibwe in una foto del XIX secolo

Il telaio del wigwam viene generalmente realizzato con rami verdi o fusti d’albero sottili lunghi da 3 a 5 metri. La flessibilità è una proprietà meccanica di primaria importanza, senza la quale non è possibile costruire una struttura a cupola resistente e duratura.

I pali vengono piantati verticalmente nel terreno lungo un perimetro circolare del diametro di 3-5 metri e poi incurvati e conficcati nella terra in modo tale da formare un telaio a cupola.

I pali strutturali più lunghi formeranno le arcate che attraverseranno il centro del perimetro circolare, mentre quelli più corti verranno disposti all’esterno.

Per rendere la struttura più resistente, gli archi vengono assicurati tra loro da altri pali flessibili disposti parallelamente al terreno, formando un telaio a griglia in grado di resistere a vento, pioggia e neve.

Una volta terminato il telaio, sarà necessario ricoprire la struttura con erba, fogliame, pelli o corteccia in modo tale da isolarla dall’ambiente esterno.

Stili differenti di wigwam

I wickiup delle culture nordamericane della costa occidentale presentavano notevole varietà in quanto a dimensioni, forme e materiali impiegati per la loro realizzazione.

Wigwam in grado di ospitare un'intera famiglia
Wigwam in grado di ospitare un’intera famiglia

Gli Acjachemen californiani, ad esempio, costruivano rifugi conici sfruttando la flessibilità dei rami di salice e impiegando come copertura stuoie intessute con foglie di tule (Schoenoplectus acutus). Questi wickiup, chiamati localmente kiichas, erano rifugi temporanei utilizzati soltanto per dormire o per trovare riparo in caso di pioggia forte.

Gli apache Chiricahua, invece, costruivano strutture a cupola alte circa 2,5 metri e larghe oltre 2 metri usando arbusti freschi di quercia o di salice disposti a intervalli di 30 centimetri lungo la pianta circolare della capanna.

I pali erano poi legati tra loro con fibre di foglie di yucca e ricoperti da erba; al centro della capanna veniva realizzata un’apertura per lasciar fuoriuscire il fumo prodotto dal focolare interno, mentre l’ingresso era chiuso da una pelle animale sospesa in corrispondenza dell’entrata.

Secondo l’antropologo Morris Opler, il wickiup dei Chiricahua era quasi interamente costruito e gestito dalle donne:

“La donna non solo realizza l’arredo della casa ma è responsabile della costruzione, del mantenimento e della riparazione del rifugio e per la pianificazione di ogni cosa che lo riguardi. Ottiene l’erba e gli arbusti per i letti e li sostituisce quando sono troppo vecchi e secchi”.

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Vantaggi del wigwam rispetto al tipi

Il tipico wigwam degli Stati Uniti nord-occidentali ha una superficie a cupola in grado di resistere anche a fenomeni atmosferici violenti.

Il wickiup è più complesso da realizzare rispetto ad un tipi, necessita di più tempo ed è meno trasportabile, elementi non ideali per una cultura che fa del totale nomadismo il suo stile di vita.

Ma per le società semi-nomadi che risiedono in ambienti caratterizzati da eventi atmosferici di una certa rilevanza, il wigwam costituisce il riparo perfetto per un’intera famiglia.

I wigwam potevano assumere forme e dimensioni molto variabili, dipendenti dalle necessità del momento e dalla disponibilità di materiale: dai piccoli wickiup adatti ad ospitare 2-3 persone per la notte fino a grandi wigwam in grado di accogliere un’intera famiglia allargata composta da oltre una dozzina di individui.

Quando un wigwam o un wickiup terminavano la loro “vita operativa” venivano semplicemente abbandonati o dati alle fiamme; trovata una nuova località più adatta ad accamparsi, venivano facilmente ricostruiti in una giornata di lavoro con la collaborazione dell’intera famiglia o della tribù d’appartenenza.

 

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Rihards Vidzickis: nascita di una canoa https://www.vitantica.net/2018/11/03/rihards-vidzickis-nascita-di-una-canoa/ https://www.vitantica.net/2018/11/03/rihards-vidzickis-nascita-di-una-canoa/#respond Sat, 03 Nov 2018 00:10:01 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2555 Costruire una canoa a scafo monossilo (leggi questo articolo per la storia delle canoe monossile) è tutt’altro che semplice: serve esperienza, pazienza e una buona dose di precisione. Questo documentario mostra l’intero processo di costruzione di una canoa a partire da un tronco d’albero, utilizzando strumenti e metodi della tradizione.

Rihards Vidzickis è un esperto nella lavorazione del legno, uno scultore e un appassionato di canoe realizzate seguendo metodologie tradizionali. La passione di Rihards nasce con il padre, carpentiere e scultore che ha insegnato i trucchi del mestiere al figlio fin dalla tenera età.

In questo video, Rihards ci guida nella costruzione di una canoa a scafo monossilo, una delle più antiche imbarcazioni della storia. Questo tipo di canoa ha radici antichissime: appare per la prima volta 8.000 anni fa in pieno Neolitico e fu largamente impiegata dai nostri antenati per via della sua resistenza rispetto a canoe di corteccia e zattere.

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L’efficacia della clava di legno preistorica https://www.vitantica.net/2017/12/11/clava-di-legno-preistorica/ https://www.vitantica.net/2017/12/11/clava-di-legno-preistorica/#respond Mon, 11 Dec 2017 12:00:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1113 Nell’immaginario collettivo, la clava è l’arma tipica dell’uomo delle caverne: uno strumento contundente non sofisticato realizzato con metodi semplici e materiali facilmente lavorabili da strumenti di pietra. Ma quanto era realmente efficace la clava primitiva?

I ricercatori della University of Edinburgh hanno recentemente pubblicato una ricerca sulla rivista specializzata Antiquity che dimostra che la clava dell’ Età della Pietra si rivelava un’arma letale in molte circostanze, specialmente negli scontri violenti con altri esseri umani.

La clava primitiva: un’arma comune ed efficace

Gli scontri violenti tra piccole comunità di cacciatori-raccoglitori in conflitto per le risorse non sono eventi rari nel Paleolitico o nel Neolitico, anche se è difficile parlare di vere e proprie guerre per via del numero ristretto di individui che costituiva un tipico gruppo comunitario dell’Età della Pietra.

Alcuni teschi scoperti in Europa centrale e occidentale mostrano evidenti fratture craniche, alcune rimarginate mentre altre decisamente fatali, provocate da armi contundenti quasi certamente manovrate da altri esseri umani.

Considerata l’età di questi reperti ossei, la conclusione più ovvia è che le ferite siano state provocate da clave di legno o di pietra, armi facilmente realizzabili da chiunque e sorprendentemente efficaci nelle mani di un esperto combattente.

frattura cranica clava
Confronto tra frattura prodotta dalla riproduzione della clava del Tamigi sul cranio sintetico e la ferita rilevata su un teschio risalente al Neolitico appartenuto ad un adulto di 35-40 anni ucciso nel sito di Asparn/Schultz

Nell’arco della fase primitiva del genere umano la clava ha rappresentato l’arma contundente per eccellenza e si è presentata sotto svariate forme e materiali, alcuni tipicamente connessi alla cultura d’appartenenza.

La clava Maori, ad esempio, è generalmente realizzata da un blocco di giada che viene lavorato con strumenti di pietra fino ad ottenere una piccola mazza a forma di spatola.

Ma la maggior parte delle clave del Neolitico veniva realizzata con materiali di origine naturale come legni duri e densi o pietra non pregiata, materiali che, ad eccezione di quelli litici, sono facilmente deperibili e lasciano poche tracce archeologiche.

Clava di legno delle culture native delle isole del Pacifico
Clava di legno delle culture native delle isole del Pacifico. Fonte: Don’s Maps
La clava del Tamigi

Gli esemplari di clava primitiva in legno giunti fino a noi non sono molti, ma costituiscono una preziosissima fonte d’informazioni. Una delle clave di legno più antiche è la “mazza del Tamigi”, una clava che si è conservata nel fango del fiume londinese per circa 5.500 anni e che oggi è conservata al Museum of London.

“Le clave di legno sono state utilizzate come armi anche durante l’Età del Bronzo, per cui è molto probabile che siano state uno strumento importante nell’arsenale del Neolitico” spiega Christian Meyer, ricercatore dell’ Osteo-Archaeological Research Center di Goslar, Germania, ma non coinvolto nello studio.

Per comprendere l’efficacia della clava neolitica, Meaghan Dyer e Linda Fibigerturned hanno realizzato modelli sintetici del cranio umano utilizzando il gel balistico solitamente impiegato per verificare la penetrazione dei proiettili delle armi da fuoco.

Ogni teschio è stato ricoperto da uno strato esterno di pelle di gomma e da uno intermedio in poliuretano per simulare il tessuto osseo che protegge il cervello.

Clava del Tamigi originale e riproduzione
Clava del Tamigi originale (sopra) e riproduzione realizzata da un carpentiere per la ricerca di Dyer e Fibigerturned
Il test della clava preistorica

La replica della clava del Tamigi, del peso di circa 1,2 kg, è stata quindi messa alla prova: alcune delle fratture inflitte alle repliche del cranio umano sono risultate molto simili alle ferite osservate su molti resti ossei risalenti al Neolitico, in particolare i resti scoperti nel sito austriaco di Asparn/Schletz, dove almeno 26 tra adulti e bambini furono uccisi a colpi di clava circa 7.000 anni fa per ragioni ancora sconosciute.

Il sito di Nataruk in Kenya, risalente a circa 10.000 anni fa, sembra inoltre essere stato il teatro di un massacro condotto da una tribù rivale, massacro che portò alla morte 27 persone, tra cui 6 bambini.

Ogni scheletro finora riportato alla luce mostra segni evidenti di traumi da corpo contundente coerenti con i dati della ricerca di Dyer e Fibigerturned e ferite riconducibili ad oggetti appuntiti come lance o giavellotti.

“La violenza è un fenomeno più complesso di quanto abbiamo ritenuto fino a questo momento” spiega Dyer. “Sono dell’opinione che forse la parola ‘guerra’ non si possa applicare a questo periodo perché le comunità erano ristrette. Ma possiamo iniziare a comprendere eventi come scorrerie, assalti, infanticidi e omicidi. Analizzandoli nel dettaglio possiamo capire molto meglio cosa significasse essere un membro di una cultura neolitica in Europa”.

5,500-Year-Old Wooden Clubs Were Deadly Weapons

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Il carbone vegetale (o carbone di legna) https://www.vitantica.net/2017/11/11/carbone-vegetale-di-legna/ https://www.vitantica.net/2017/11/11/carbone-vegetale-di-legna/#comments Sat, 11 Nov 2017 15:00:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=792 Il carbone di legna è un tipo di carbone prodotto a partire da materia vegetale che subisce un lento processo di pirolisi: la legna, sottoposta a temperature di 200-300°C in presenza di scarso o zero ossigeno, perde la sua umidità e si carbonizza, evitando di bruciare completamente e assumendo le proprietà che rendono il carbone così speciale.

Origine del carbone di legna

L’origine del carbone di legna è probabilmente collegata ai primi impieghi complessi del fuoco: sappiamo ad esempio che molti tatuaggi o pitture rupestri utilizzavano il carbone vegetale come pigmento per il colore nero.

La rivoluzione dell’ Età del Ferro non sarebbe stata possibile senza l’utilizzo del carbone di legna, che brucia a temperature più alte del legno.

Il carbone ha anche trovato impiego nella medicina tradizionale come rimedio all’avvelenamento per ingestione, dato che si lega alle tossine impedendo il loro assorbimento da parte del tratto gastrointestinale.

E’ possibile che il carbone di legna sia stato “inventato” dai primi produttori di catrame di betulla: il processo di pirolisi che porta all’estrazione del catrame genera come sottoprodotto un mucchio di legna carbonizzata dalle proprietà molto simili al carbone vegetale prodotto secondo il metodo tradizionale.

Carbonaia primitiva a terra
Carbonaia primitiva a terra
La carbonaia

Il metodo tradizionale per produrre carbone di legna è quello della carbonaia, un cumulo di legna e terra che, se correttamente supervisionato e manutenuto, mantiene una combustione controllata per diversi giorni.

Sul terreno viene inizialmente piantato un palo alto circa 3 metri attorno al quale si accatastano pezzi di legna di dimensione crescente man mano che ci si allontana dal palo, inizialmente disposti orizzontalmente e sovrapposti e, in seguito, disposti verticalmente. Lo scopo è quello di ottenere una catasta a forma di cono alta circa due metri e dal diametro di 5-6.

Attorno alla catasta si posiziona quindi una siepe di rami per favorire la circolazione dell’aria all’interno della carbonaia. Il tutto viene poi ricoperto con uno strato di fogliame spesso una decina di centimetri e uno di terra altrettanto profondo, sigillando quasi completamente il mucchio di legna per impedire che entri in contatto con una quantità eccessiva di ossigeno.

Lungo il perimetro inferiore della carbonaia vengono generalmente praticati alcuni fori la cui apertura e chiusura consentirà di controllare il flusso d’aria in ingresso.

Carbonaia e carbone
Carbonaia in fase di costruzione

Una volta terminata la costruzione della carbonaia, si rimuove il palo centrale creando un camino in cui saranno inserire braci ardenti con un’esca sufficiente ad innescare la combustione della legna; il camino viene quindi chiuso parzialmente inserendo altra legna, foglie e terriccio per far uscire il fumo molto lentamente dalla struttura.

Il processo di carbonizzazione

La produzione di carbone vegetale con le antiche carbonaie era un processo lungo che normalmente richiedeva 6-10 giorni per essere completato (diverse settimane se la carbonaia aveva dimensioni superiori a quelle indicate sopra) e necessitava di un monitoraggio costante dello stato di carbonizzazione del legname.

In condizioni ideali, a partire da 4 tonnellate di legname si potevano ottenere da 600 a 800 kg di carbone di legna, ma il procedimento era suscettibile a numerosi fattori che potevano compromettere la quantità e la qualità di carbone ottenuta.

In molte culture del mondo, questo lavoro delicato era lasciato nelle mani esperte di professionisti del settore, che spesso vivevano isolati dal resto della comunità in apposite capanne (chiamate Köhlerhütte o Köte in Germania, Austria e Svizzera) per controllare costantemente lo stato di lavorazione del carbone che producevano.

Il controllo della carbonizzazione richiedeva l’aggiustamento delle temperature di funzionamento della carbonaia in un periodo in cui i termometri erano del tutto assenti: carbonizzando ad una temperatura di 250-300 °C, infatti, il carbone diventa marrone e prende fuoco facilmente a circa 380 °C; se fatto carbonizzare ad oltre 310 °C, invece, la temperatura di accensione aumenta fino a raggiungere i 700°C.

I carbonai regolavano la temperatura della carbonaia osservando la quantità e la qualità del fumo che fuoriusciva dalla ciminiera: se il fumo era denso e grigio, il legname della carbonaia era ancora troppo umido; un fumo rado e azzurrino, quasi trasparente, indicava invece un ottimo stato di carbonizzazione.

Fase finale della produzione di carbone al festival di Kohlenmeiler a Dachsber, Germania
Fase finale della produzione di carbone al festival di Kohlenmeiler a Dachsber, Germania

Dopo diversi giorni di carbonizzazione, la carbonaia assumeva un colore molto scuro e il suo volume si riduceva notevolmente a causa della riduzione in volume del legname al suo interno.

Per evitare la formazione di vuoti d’aria capaci di “risucchiare” ossigeno dall’esterno rischiando di incenerire il legname, i carbonai battevano regolarmente con un bastone l’involucro esterno della carbonaia.

Una volta cotto a puntino, il carbone veniva estratto dalla carbonaia (distruggendola a colpi di vanga o bastoni da scavo) e lasciato raffreddare per un paio di giorni sotto uno strato di terra. Il suono che produceva se colpito da una pietra o da un pezzo di metallo indicava al carbonaio la qualità dello stock di carbone prodotto.

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Utilizzo del carbone di legna

Oltre al classici utilizzi (calore e cottura di cibo), oggi come in antichità il carbone di legna era il combustibile preferito per la lavorazione tradizionale del ferro, del vetro e dei metalli preziosi.

Il carbone di legna brucia a temperature elevate, raggiungendo i 2700 °C nelle giuste condizioni. Per via della sua porosità è sensibile al flusso d’aria che lo colpisce e il calore generato può essere regolato controllando la quantità d’aria che raggiunge le braci.

Nell’antichità non era raro che intere foreste venissero devastate per produrre carbone da utilizzare per la produzione di ferro e acciaio: nel XVI secolo, in Inghilterra entrò in vigore una legge che limitava l’abbattimento di alberi per la produzione di carbone allo scopo di evitare che l’intera isola fosse denudata dai boschi che la ricoprivano in tempi più remoti.

Il carbone di legna era anche uno dei tre ingredienti di base utilizzati per la produzione di polvere nera, un mix di carbone vegetale, zolfo e nitrato di potassio all’origine di tutte le armi da fuoco antiche e moderne.

Un altro impiego del carbone di legna, osservato anche nel regno animale, è quello di miscela disintossicante: la porosità del carbone di legna intrappola alcune delle tossine presenti nel tratto gastrointestinale (o nell’ acqua) limitando gli effetti nocivi di molti veleni conosciuti.

Questo metodo di disintossicazione è utilizzato anche dai colobi rossi (Piliocolobus badius), piccole scimmie africane la cui dieta è composta principalmente da foglie contenenti cianuro; queste scimmie ingeriscono regolarmente frammenti di carbone di legna naturale o argilla per limitare gli effetti della tossina.

Utilizzando legno particolarmente denso, come quello dei gusci di noce o dei noccioli di pesca, era possibile produrre ciò che oggi viene definito carbone attivo: la struttura vascolare dei legni densi, svuotata dai gas emessi durante la pirolisi, crea una sorta di spugna fornita di un’infinità di minuscoli pori che migliorano l’azione disintossicante del carbone.

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Canoe a scafo monossilo https://www.vitantica.net/2017/10/19/canoe-a-scafo-monossilo/ https://www.vitantica.net/2017/10/19/canoe-a-scafo-monossilo/#respond Thu, 19 Oct 2017 02:00:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=641 Una canoa monossila (chiamata anche “a scafo monossilo”, “dugout” o semplicemente “monossilo”) è un’imbarcazione realizzata da un singolo tronco d’albero scavato in modo tale da ottenere uno scafo lungo, sottile e affusolato. Si tratta probabilmente della più antica imbarcazione mai realizzata dall’essere umano, dato che non richiede abilità complesse se non un’abbondante dose di pazienza e una dotazione minima di strumenti necessari a scavare e lavorare il legno.

Il più antico esemplare di canoa a scafo monossilo è la piroga di Pesse, scoperta in Olanda nel 1955 e datata a circa 8000 prima di Cristo. L’imbarcazione è lunga quasi 3 metri, larga 44 centimetri ed è stata realizzata a partire da un singolo tronco di pino silvestre (Pinus sylvestris).

Le canoe a scafo monossilo sono state realizzate in ogni parte del mondo nel corso della storia antica e l’Europa ha fornito numerosissimi esemplari-modello rinvenuti nel corso dell’ultimo secolo.

Questo tipo di canoe erano generalmente impiegate in acque calme come quelle di stagni, laghi e fiumi a lento scorrimento; il loro scafo attraversava agevolmente le paludi che occupavano buona parte del territorio dell’epoca ed era trasportabile sulla terraferma da un piccolo gruppo di persone. Se dotate di bilancieri montati ai lati dello scafo, inoltre, queste canoe potevano percorrere brevi tragitti in mare o in acque fluviali turbolente.

Canoa monossile slava del X° secolo
Canoa monossila slava del X secolo
Scelta del legno per la canoa

Per costruire una canoa a partire da un tronco d’albero, il primo passo è selezionare la pianta adatta. I nostri antenati preferivano sfruttare alberi morenti, già morti o addirittura caduti se il legno era sufficientemente ben conservato. Il legno non deve essere troppo denso da avere una scarsa galleggiabilità, e sufficientemente resistente da non rompersi se sottoposto a stress o a carichi.

Gli alberi adatti ad una canoa monossila cambiavano in base alla località geografica: in Nord Europa, ad esempio, quercia, tiglio, pino e faggio erano considerati i legni migliori, mentre in altre località del mondo veniva comunemente utilizzato il tronco di cedro (Nord America) o il teak (Africa).

La corteccia che ricopre il tronco deve essere completamente rimossa prima di lavorare la pianta per evitare che insetti e muffe attacchino il legno sottostante durante i giorni (o le settimane) necessari a terminare la canoa.

Le dimensioni del tronco sono ovviamente legate alla capacità di carico dell’imbarcazione: una canoa lunga 3-4 metri e larga circa 50 centimetri è sufficiente a trasportare due persone senza comprometterne il galleggiamento in acque calme.

Le canoe di cedro costruite in Nord America, utilizzate per il trasferimento dell’accampamento o per le spedizioni di guerra, superavano i 15 metri di lunghezza e i 2 di larghezza e potevano trasportare fino a 20 persone o un peso equivalente; le canoe slave del X secolo, invece, trasportavano agevolmente 40-60 guerrieri in tenuta da battaglia.

canoa monossile fuoco
Scavo di canoa monossila usando il fuoco
Costruzione della canoa

Esistono principalmente due metodi per ottenere una canoa monossila:

  • Fuoco: dato che uno strumento di pietra intacca il legno molto più difficilmente di quanto possa fare il metallo, il metodo più comune durante l’ Età della Pietra quello di usare il fuoco per svolgere la maggior parte del lavoro. Dopo aver delimitato l’area del tronco in cui dovrà essere effettuato lo scavo, sulla superficie vengono deposte braci ardenti che, con il passare del tempo, consumeranno lentamente il legno sotto di loro. Questo processo dura svariati giorni dipendentemente dalle dimensioni del tronco e richiede un controllo costante delle braci per evitare che producano crepe o fori sullo scafo. Dopo aver raggiunto la profondità desiderata, lo scavo veniva rifinito usando strumenti di pietra e osso.
  • Ascia e olio di gomito: con l’arrivo delle prime asce di rame e bronzo, la lavorazione del legno fu immensamente più facile: un’ ascia simile a quella di Ötzi è più efficiente e veloce di qualunque strumento di pietra quando si tratta di scavare il legno, specialmente se l’operazione viene effettuata in team. E’ possibile che i nostri antenati abbiano utilizzato una combinazione di fuoco e metallo per ottenere molto più velocemente ciò che producevano in passato con fuoco e pietra.

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Il semplice scavo dello scafo non basta. E’ possibile (anzi, molto probabile) che le imperfezioni del tronco costringano ad optare per un design non propriamente simmetrico, o che durante lo scavo si generino piccole crepe o vengano messi in risalto fori del tronco in precedenza invisibili.

E’ anche possibile che la canoa abbia dimensioni ridotte rispetto alle aspettative iniziali: la rimozione eccessiva di legno interno ed esterno ha reso la parte interna dello scafo troppo stretta, o le pareti troppo sottili.

I nostri antenati avevano elaborato alcune soluzioni a questo genere di problemi:

  • Fori e crepe: qualunque imperfezione dello scafo, se non considerata strutturalmente rilevante, poteva essere riempita e sigillata utilizzando resina di pino, o meglio ancora catrame di pino o betulla. Una volta scaldato e usato per sigillare, questo collante riempiva buchi e crepe alle perfezione e impermeabilizzava la parte che copriva;
  • Impermeabilizzazione: il legno rimane comunque un materiale capace di assorbire acqua, proprietà non ideale se si vuole utilizzare frequentemente un’imbarcazione. L’ impermeabilizzazione dello scafo poteva essere effettuata con catrame di betulla o pino, oppure utilizzando grasso animale, cera d’api o oli vegetali dalle proprietà idrorepellenti;
  • Scafo troppo piccolo: era possibile modificare leggermente l’ampiezza dello scafo prima di procedere all’impermeabilizzazione. La canoa veniva immersa in acqua per uno o due giorni per impregnare il legno; dopo averla estratta dall’acqua, venivano inseriti all’interno dello scafo dei rami robusti e leggermente flessibili in modo tale da forzare le pareti verso l’esterno. Una volta ottenuta la larghezza desiderata, si lasciava la canoa esposta al sole per qualche giorno con lo scopo di farle perdere la maggior parte dell’acqua accumulata e rendere permanente la distanza tra le pareti.
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Contenitori di corteccia https://www.vitantica.net/2017/09/23/contenitori-di-corteccia/ https://www.vitantica.net/2017/09/23/contenitori-di-corteccia/#respond Sat, 23 Sep 2017 06:00:27 +0000 https://www.vitantica.net/?p=317 I contenitori di corteccia sono stati probabilmente il primo tipo di recipiente utilizzato dai nostri progenitori: per produrre un contenitore di corteccia non è nemmeno necessario saper manipolare il fuoco, solo una buona dose di pazienza, ingegno e manualità.

Le comunità di cacciatori-raccoglitori erano note per sfruttare ogni risorsa disponibile nell’ambiente che li circondava, in primo luogo gli alberi. Seguendo con occhio attento lo scorrere delle stagioni, i nostri antenati si accorsero che durante la primavera, specialmente con l’approssimarsi dell’estate, la corteccia degli alberi, un materiale flessibile e spesso impermeabile, poteva essere facilmente separata dal tronco in grosse sezioni.

Questi fogli di corteccia, impiegati anche per la costruzione di canoe dai nativi nordamericani, si prestavano particolarmente alla realizzazione di contenitori per liquidi come acqua o linfa.

Gli alberi migliori per ottenere corteccia

Nella nostra fascia temperata, gli alberi che forniscono ottimi fogli di corteccia sono la betulla e il pioppo, anche se la betulla, nell’arco di millenni, si è fatta un nome come miglior materiale per contenitori.

In realtà, sono molti gli alberi che possono offrire corteccia adatta alla fabbricazione di recipienti, ma spesso tende ad essere più difficile da distaccare dal tronco o da lavorare rispetto a quella della betulla.

corteccia di betulla
Estrazione della corteccia di betulla
corteccia olmo
Corteccia di olmo, più rigida di quella di betulla

Occorre selezionare un albero relativamente giovane tra maggio e luglio, dotato di corteccia flessibile e sottile e dal diametro di 10-20 centimetri. I nostri antenati non solo selezionavano alberi con queste caratteristiche perché risultava più facile abbatterli a colpi di asce di pietra o di strumenti litici ancora più primitivi, ma anche perché è più semplice estrarre un intero foglio di corteccia da un albero dal diametro contenuto. Spesso inoltre si servivano di alberi caduti la cui corteccia si poteva ottenere con poco sforzo ed evitando di danneggiare alberi vivi.

Separazione della corteccia

Dopo aver praticato due incisioni circolari distanti quanto la larghezza del foglio di corteccia che volete ottenere, fermandosi prima di raggiungere lo strato fibroso, si procede ad incidere il tronco lungo una linea verticale da cui si inizierà a separare la corteccia dall’albero.

La separazione della corteccia dal resto della pianta è la fase più delicata perché il foglio potrebbe spezzarsi durante l’operazione e si corre il rischio di danneggiare irreparabilmente l’albero. La procedura di base è la seguente:

  • Colpire gentilmente la corteccia con una pietra o un bastone per facilitare la separazione delle fibre del legno;
  • Fare leva sull’incisione verticale con un bastone appuntito o uno strumento d’osso, iniziando a sollevare un lembo del foglio di corteccia;
  • Prestare attenzione a non danneggiare eccessivamente lo strato fibroso: un albero generalmente ha discrete possibilità di sopravvivenza se si rimuove soltanto lo strato superficiale, ma danneggiando il livello più interno si interrompe il flusso di linfa dalle radici alla cima, condannando la pianta a morte certa;
  • Tirare gentilmente la corteccia per “sfogliarla” dal tronco, aiutandosi con il bastone quando il foglio diventa difficile da separare.

Una volta ottenuto il foglio di corteccia, si può dare spazio alla fantasia realizzando ogni tipo di contenitore facendo “origami” e cucendo i punti di giuntura con fibre vegetali ricavate da piante spontanee o radici.

piegare corteccia di betulla

La corteccia di betulla

La corteccia di betulla fornisce un materiale inizialmente soggetto a fratture, ma scaldandolo brevemente vicino ad una fiamma o esponendola a vapore diventa molto più flessibile e lavorabile.

Questa corteccia è impermeabile, dura come il cartone ed è stata impiegata fin dalla preistoria anche per scopi artistici; può essere facilmente lavorata con strumenti da taglio in pietra e piegata ad angolo retto senza comprometterne la resistenza.

I contenitori di corteccia di betulla erano chiamati “wiigwaasi-makak” (“scatola di betulla”) dai Chippewa e costituivano un oggetto fondamentale per la loro vita quotidiana, usato anche per la raccolta della linfa d’ acero e di betulla; alcuni recipienti di corteccia erano addirittura adatti alla cottura di zuppe.

La realizzazione di questi contenitori non era molto differente dalla tecnica impiegata anche per la costruzione di canoe: un foglio di corteccia veniva piegato secondo la forma desiderata e cucito con cordame ottenuto da radici di conifere. Eventuali fori o fratture potevano essere facilmente riparati applicando catrame o colla di betulla o pino.

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Per saperne di più: In Praise of the Birch

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