Video – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Video: costruire un arco da legno di scarsa qualità https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/ https://www.vitantica.net/2020/10/31/costruire-arco-legno-scarsa-qualita/#respond Sat, 31 Oct 2020 00:10:04 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4888 La costruzione di un arco funzionale richiede un primo passaggio fondamentale: la selezione del legname. Tasso, quercia, noce, osage, ginepro, frassino e olmo sono generalmente materiali di prima scelta per la fabbricazione di un arco efficace, veloce e duraturo; l’esperienza millenaria accumulata dai costruttori di archi di tutto il mondo insegna che occorre trovare il giusto compromesso tra durezza ed elasticità.

I materiali più adatti alla costruzione di un arco non sono sempre facilmente disponibili: in molte regioni d’Europa, ad esempio, il tasso è un albero protetto; l’osage orange o il noce americano non sono legnami a buon mercato e devono generalmente attraversare l’Atlantico per raggiungere il Vecchio Continente.

E’ possibile fabbricare un arco sufficientemente potente da cacciare animali di media o grossa taglia usando legname di seconda o terza scelta, come quello reperibile nei più comuni centri del “fai da te”?

Per esperienza personale, posso dire che si, è possibile. Occorre prestare attenzione alla direzione delle fibre del legno e spendere un po’ di tempo a cercare la qualità di legno adatta, ma con l’aiuto di un materiale sintetico e molto comune come la fibra di vetro si può ottenere un’arma relativamente veloce e performante.

Il canale YouTube Kramer Ammons ha pubblicato nel dicembre 2019 una guida pratica e chiara per realizzare un arco utilizzando legname comune e fogli di fibra di vetro. La fibra di vetro sostituisce l’applicazione di materiali di origine naturale, come il tendine animale, utilizzati per aumentare la resistenza alla rottura e la potenza degli archi tradizionali.

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Sia chiaro, nulla può sostituire il tipo di legno che da millenni viene impiegato per la costruzione di archi. Il tasso, ad esempio, per quanto non propriamente duro (è considerato il più duro tra i legni morbidi), ha una struttura a strati in cui il durame scuro e l’alburno biancastro sono distintamente separati, e le fibre corrono longitudinalmente per tutto il tronco senza curvature eccessive, aspetti che ne facilitano la lavorazione e non costringono a “seguire gli anelli” come altro legname costringe a fare.

Ma costruire un arco con legno di scarsa qualità è possibile. E’ stato fatto innumerevoli volte (il sottoscritto ne ha realizzati due partendo da materiali non propriamente adatti) e, talvolta, la qualità e l’efficacia di un’arma di questo genere può davvero sorprendere.

BOW WOODS (FROM A MATHEMATICAL PERSPECTIVE)

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Zuppa tascabile degli esploratori del XVIII secolo https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/#comments Tue, 13 Oct 2020 00:10:26 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4981 L’hardtack non era l’unico cibo a disposizione dei marinai che solcavano il mare nei secoli passati: carne e pesce salati, farina, avena, olio, formaggio e alcolici erano comuni nelle stive di mercantili, navi da guerra o vascelli dediti all’esplorazione di mari sconosciuti.

Tra il XVIII e il XIX secolo le navi francesi e britanniche iniziarono ad includere nelle loro stive quella che veniva definita “zuppa portatile”, “zuppa di vitello” o “zuppa tascabile”, un alimento disidratato utile ad insaporire ed arricchire di nutrienti le razioni di cibo disponibili a bordo. La zuppa tascabile era del tutto simile, per impiego culinario, ai dadi da brodo moderni.

L’origine della zuppa portatile

L’esistenza della zuppa portatile viene documentata ben prima del XVIII secolo. Un resoconto del XIV secolo descrive come i cavalieri ungheresi utilizzassero una sorta di zuppa istantanea che veniva prodotta facendo bollire grandi quantità di carne salata per lungo tempo, fino a quando le fibre si staccavano da sole dall’osso, per poi lasciar asciugare e rapprendere questo brodo allo scopo di ottenere un composto rigido da tagliare o sbriciolare quando necessario.

Tra il 1500 e il 1600 Sir Hugh Plat, agricoltore e inventore inglese autore di svariati libri sulle materie più disparate, cita il potenziale militare della zuppa tascabile per l’esercito e la marina inglesi.

Plat suggerisce che l’uso di tavolette di zuppa portatile renderebbe molto più digeribili i pasti dei soldati in marcia, o dei marinai diretti verso lidi lontani; questo alimento disidratato era inoltre ideale per il trasporto: consumava poco spazio rispetto a quello occupato dagli ingredienti necessari per produrlo, un vantaggio per nulla trascurabile specialmente se si considerano gli spazi limitati di una stiva.

L’ideatrice della produzione di massa della zuppa portatile fu Mrs Dubois, che operava da una locanda in Fleet Street, Londra, chiamata “Golden Head“. Nel 1756, insieme all’inventore William Cookworthy e al marito Edward Bennet, ottenne un contratto con la Royal Navy per rifornire ogni equipaggio delle navi militari inglesi con razioni di zuppa tascabile.

Le alte cariche militari dell’epoca ritenevano che la zuppa portatile potesse prevenire lo scorbuto, una malattia tragicamente comune per i marinai durante i lunghi viaggi oceanici: il contratto di fornitura con Mrs Dubois consentì di inserire la zuppa tascabile nelle razioni di ogni marinaio a partire dalla fine degli anni ’50 del 1700.

La zuppa portatile non era esclusivamente un alimento destinato alla vita sul mare: Lewis e Clark, durante la loro spedizione attraverso il continente nordamericano, acquistarono a Philadelphia un carico di quasi 90 kg di zuppa, carico che si rivelò provvidenziale secondo il diario di Patrick Grass, il carpentiere della spedizione:

“Nessuno dei cacciatori ha avuto successo ad eccezione di 2 o 3 fagiani; senza un miracolo era impossibile sfamare 30 uomini affamati. Quindi il capitano Lewis distribuì parte della zuppa tascabile che aveva acquistato in caso di necessità”.

Nel 1815, tuttavia, il medico britannico Gilbert Blane analizzò lo stato di salute dei membri della Royal Navy tra il 1779 e il 1814, scoprendo che la zuppa portatile non era per nulla efficace nella lotta contro lo scorbuto, e non portava evidenti miglioramenti nella salute dei marinai che trascorrevano molto tempo in mare; la marina britannica iniziò a rimuovere la zuppa tascabile dalle razioni standard in favore della carne in scatola, più nutriente e protetta da involucri metallici.

La produzione di zuppa tascabile

La ricetta di base esposta da Plat prevedeva la bollitura di zampe bovine per lungo tempo e a bassa temperatura, fino ad ottenere un brodo saporito e denso. Hannah Glasse e William Gelleroy suggeriscono di bollire le proteine animali fino a quando “la carne ha perso tutte le sue proprietà”, suggerimento che non contribuisce a fornire delle tempistiche esatte; dalla produzione ottocentesca e dalle moderne riproduzioni di zuppa tascabile sappiamo tuttavia che i tempi di bollitura erano compresi tra le 8 e le 12 ore.

La ricetta di Hannah Glasse, riportata nel libro “The Art of Cookery Made Plain and Easy” (1747), elenca tra gli ingredienti: due zampe di vitello, acciughe, chiodi di garofano, pepe bianco e nero, cipolle, maggiorana e timo.

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Il brodo veniva quindi filtrato e ridotto, tramite ulteriore bollitura, ad una gelatina (se già le 12 ore di cottura non avevano ottenuto lo stesso risultato), successivamente esposta a luce solare e vento invernali per perdere la maggior parte dell’acqua che conteneva; il prodotto così ottenuto veniva tagliato in pezzi, e ogni frammento veniva coperto di farina per evitare che si appiccicasse agli altri.

Secondo Plat era necessario non aggiungere sale o zucchero durante la preparazione del brodo, perché durante il procedimento di riduzione i sapori si sarebbero concentrati. Era inoltre fondamentale sgrassare il brodo rimuovendo il più possibile il grasso, per evitare che diventasse rancido e ottenere una consistenza più rigida.

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Il brodo tascabile veniva prodotto durante i primi mesi dell’anno, sfruttando il gelo invernale per far solidificare più agevolmente la gelatina in un unico blocco dalla consistenza uniforme. I frammenti di zuppa tascabile potevano conservarsi per almeno un anno, e venivano generalmente disciolti in acqua per creare in poco tempo un brodo saporito in cui cuocere le razioni di cibo.

Cibo d’emergenza

La zuppa tascabile fu per molto tempo utilizzata per insaporire zuppe, o consumata come alimento d’emergenza. Ingerire frammenti di brodo solidificato era un’eventualità che ogni soldato o marinaio voleva scongiurare a causa del sapore poco appetibile.

Bisogna considerare che le condizioni igieniche dell’epoca non sempre consentivano la produzione di brodo tascabile partendo da ingredienti di prima qualità: la carne impiegata era spesso di seconda o terza scelta, e in buona parte non propriamente conservata.

James Cook, prima del suo viaggio verso l’Australia nel 1772, caricò a bordo circa mezza tonnellata di zuppa portatile nella speranza di poter prevenire eventuali emergenze alimentari e fornire nutrienti ai suoi marinai malati. Dopo aver servito all’equipaggio zuppa tascabile sciolta nell’acqua e mescolata a farina di piselli, alcuni marinai rifiutarono il pasto per via del suo sapore disgustoso, accettando di buon grado la fustigazione pur di non ingerire la brodaglia.

Patrick Grass, subito dopo aver descritto l’impiego di zuppa portatile come cibo d’emergenza durante la spedizione di Lewis e Clark, continua dicendo che “alcuni uomini non apprezzarono questa zuppa e decisero di uccidere un puledro”.

Portable Soup – Wikipedia
Portable Soup
Who Put the Paprika in Goulash…and Other Hungarian Soup Tales
The Luke-Warm, Gluey, History of Portable Soup

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Hardtack, la galletta navale a lunga conservazione https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/ https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/#respond Mon, 07 Sep 2020 00:18:50 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4965 I lunghi viaggi per mare degli antichi esploratori e gli estenuanti spostamenti via terra degli eserciti del passato erano legati a doppio filo alla capacità umana di creare cibo a lunga conservazione. Pur non avendo frigoriferi moderni o e possedendo scarse nozioni di igiene alimentare, i nostri antenati furono in grado di conservare alimenti per lunghi periodi di tempo utilizzando l’ingegno e i materiali a loro disposizione.

Nel corso della storia gli espedienti utilizzati per conservare gli alimenti furono molti: celle frigorifere come lo yakhchal, salamoie e salagioni, affumicatura e fermentazione potevano garantire mesi o anni di conservazione se si rispettavano poche ma necessarie regole su temperatura o esposizione all’aria. Alcuni prodotti alimentari erano invece pensati per mantenersi pressoché intatti anche anche in condizioni sfavorevoli.

L’ hardtack, ad esempio, era una semplice galletta di farina e acqua in grado di mantenersi commestibile per molto tempo, poco costosa da produrre, resistente a condizioni ambientali avverse e facile da immagazzinare e trasportare.

La storia dell’ hardtack

Dall’introduzione dei cereali nei regimi alimentari di molti popoli antichi, la farina iniziò a ricoprire un ruolo sempre più fondamentale nella cucine di tutto il mondo. Farina e pane, tuttavia, possono essere attaccati da muffe, insetti, o semplicemente accumulare l’umidità atmosferica favorendo i processi di decomposizione.

La necessità di avere alimenti nutrienti e facilmente conservabili portò gli Egizi alla creazione della dhourra, una galletta di miglio in grado di mantenersi intatta per lunghi periodi di tempo. Col tempo la dhourra si trasformò nel “biscotto musulmano”, come lo descrive Re Riccardo I dopo la Terza Crociata (1189-1192): un mix di farina d’orzo, farina di fagioli e farina di segale.

Nell’antica Roma, invece, il Codex Theodosianus prevedeva che ogni soldato coinvolto in una spedizione militare dovesse essere fornito di “bucellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam.”, traducibile come “gallette e pane, anche vino (o posca) e aceto, ma anche lardo e montone”.

Il bucellatum romano era un mix di farina, sale e acqua, cotto a lungo per due volte a bassa temperatura. Veniva consumato dai soldati accompagnandolo con la posca, per due giorni consecutivi; al terzo giorno, la truppa poteva finalmente consumare vino e pane di buona qualità.

L’hardtack è una delle innumerevoli versioni della galletta a lunga conservazione. Il nome  di questo biscotto, entrato nel lessico comune tra il 1700 e il 1800, deriva da “tack”, il termine slang che i marinai britannici usavano per riferirsi al cibo; col tempo iniziò ad assumere altri nomi, come “biscotto di mare”, “pane per cani”, “spaccamolari” o “castello per vermi”.

La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)
La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)

La Royal Navy britannica del XVI secolo forniva ai suoi marinai una razione giornaliera di mezza libbra di hardtack, qualche pezzo di maiale salato e un gallone di birra a bassa gradazione alcolica. Nel tardo XVIII secolo, l’hardtack entrò a far parte anche della dieta dei pescatori del New England: veniva utilizzato come addensante per le zuppe di mare, sbriciolandolo e mescolandolo agli altri ingredienti.

Grazie a John Billingas, soldato della guerra di secessione americana e autore di un libro di memorie intitolato “Hardtack and Coffee” (1887), abbiamo una descrizione dell’hardtack dal punto di vista di un soldato:

Cos’era la galletta? Era un semplice biscotto di farina e acqua. Due di esse, che ho in mio possesso come ricordo, misurano 3 pollici e 1/8 per 2 pollici e 7/8, e sono spesse quasi mezzo pollice. Sebbene questi biscotti venissero venduti a peso, venivano distribuiti agli uomini in numero, nove gallette costituivano una razione in alcuni reggimenti, dieci in altri reggimenti; ma di solito ce n’erano abbastanza per chi ne voleva di più, poiché alcuni non li utilizzavano. Per quanto l’ hardtack fosse nutriente, un uomo affamato poteva mangiare i suoi dieci in breve tempo ed essere ancora affamato.

Le proprietà dell’hardtack

Per quanto poco appetibile, l’hardtack fornisce un discreto quantitativo di calorie in poco spazio e senza la preoccupazione della conservazione. Una galletta da 24 grammi fornisce circa 100 kilocalorie, circa 5-6 grammi di grassi, due grammi di proteine e quasi nessuna fibra; il resto del peso è costituito da carboidrati.

Come tutti i prodotti realizzati con farine di cereali, biscotti e gallette tendono ad assorbire l’umidità ambientale. Per rallentare questo processo, i fornai tentavano di creare biscotti e gallette estremamente duri, cuocendoli da due a quattro volte e preparandoli in anticipo di 6 mesi dal loro effettivo consumo.

Se non viene inumidito, l’hardtack è così solido da risultare sostanzialmente immangiabile; viene descritto da coloro che lo consumarono come “denso a tal punto da essere quasi in grado di fermare una pallottola di moschetto”. Se addentato a secco, prosciuga completamente la bocca di ogni goccia di saliva, rendendo ancora più difficile la masticazione.

Per renderlo più masticabile, il biscotto veniva immerso in salamoia, caffè, alcolici o zuppe; non veniva solo consumato come semplice biscotto da inzuppare in qualche liquido, ma anche sbriciolato e impiegato come addensante per le zuppe.

Un altro modo per consumare l’hardtack era quello di sbriciolarlo il più possibile con il calcio di un fucile, o tramite un oggetto duro e pesante, aggiungendo quindi acqua, zucchero e whiskey per creare una pudding denso e grumoso da cuocere in pentola.

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La secchezza dell’hardtack è una proprietà indispensabile alla  lunga conservazione: se mantenuta intatta e all’asciutto, una galletta di hardtack può rimanere commestibile per anni, sopravvivere a sbalzi di temperatura estremi e resistere ad una manipolazione violenta.

Sulle navi del XVI-XVII secolo, tuttavia, non era semplice mantenere il cibo in condizioni ottimali. L’infestazione delle riserve alimentari da parte di insetti, batteri e muffe erano relativamente comuni durante i lunghi viaggi per mare, ma i marinai britannici escogitarono un semplice espediente per rimuovere i parassiti dal loro hardtack.

Immergendo l’hardtack nel caffè mattutino non solo si rendeva masticabile la galletta, ma si costringeva la maggior parte degli insetti infestanti, come il tonchio, a risalire in superficie per tentare di sopravvivere; dopo essersi liberati di tutti gli insetti galleggianti, i marinai erano finalmente pronti a consumare il loro biscotto accompagnato da caffè caldo.

Preparazione dell’hardtack

Non esiste un’unica ricetta per l’hardtack: ogni regione del pianeta lo chiamava in modo diverso, ma la base comune  era una miscela di farina e acqua, in proporzioni che variano da 3:1 a 5:1.

Per ottenere un hardtack durevole è necessario utilizzare poca acqua, e cercare di eliminarne il più possibile durante la cottura. La pasta, in fase di preparazione, non deve essere troppo dura, ma nemmeno attaccarsi alle mani; prima di cuocerla, occorre modellarla per ottenere gallette o crackers.

Dopo aver steso la pasta fino ad uno spessore di circa 1 centimetro, occorre tagliarla creando pezzi più o meno regolari. I soldati della guerra di secessione americana ricevevano gallette di 3 x 3 pollici (7,5 x 7,5 centimetri), dimensioni che facilitavano la cottura e il trasporto.

Creare dei piccoli fori sulle due superfici del cracker impedisce che la farina possa subire una piccola lievitazione, e aiuta cuocere uniformemente l’hardtack. La cottura delle gallette deve essere lunga e a bassa temperatura, cercando di evitare che imbruniscano troppo o si brucino.

La cottura, come suggerisce questa ricetta, dura circa 25-35 minuti a 190°C, e si cerca di ottenere una leggera brunitura della superficie delle gallette. A questo punto occorre rimuovere i biscotti dal forno per farli raffreddare completamente prima di procedere con una seconda cottura o con l’essiccazione all’aria per qualche giorno.

L’hardtack viene prodotto ancora oggi, anche se con un occhio orientato al mercato moderno: pur rispettando la ricetta di base, vengono spesso aggiunti aromi, spezie o altri ingredienti per renderlo più piacevole al palato.

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FOODS OF WAR: HARDTACK
Bucellatum – Roman Army Hardtack
Hardtack – The Ultimate Survival Food
#Hardtack: A Food to Break a Tooth On
Hardtack Described
Bucellatum (Roman hardtack)

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Birra di betulla e Medovukha https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/ https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/#respond Mon, 17 Aug 2020 00:09:32 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4955 La linfa di betulla, una bevanda zuccherina apprezzata da millenni come preziosa fonte di vitamine e zuccheri, si presta anche alla produzione di liquidi fermentati se correttamente lavorata.

La birra di betulla è un prodotto dal sapore fresco, sostanzialmente privo di alcol o a bassissima gradazione alcolica (2-4%). La fermentazione non è esclusivamente funzionale all’aumento del contenuto alcolico, ma è un procedimento innescato naturalmente o artificialmente allo scopo di rendere la bevanda leggermente frizzante.

Oggi esistono numerose varietà di birra di betulla, differenti sia per colore che per sapore. Il colore dipende dalla specie di betulla da cui è stata estratta la linfa o dalla presenza di coloranti naturali o artificiali, mentre il sapore è determinato dalla miscela di erbe impiegata per aromatizzare la bevanda.

Birra di betulla e bevande affini

La birra di betulla iniziò ad essere prodotta dai primi esploratori e coloni occidentali in Nord America, spesso come sostituto a liquori dalla più alta gradazione alcolica e più costosi. John Mortimer, nel suo libro “The Whole Art of Husbandry” del 1707, afferma che la birra di betulla veniva prodotta in casa dalla fascia più povera della popolazione, dato che necessitava di ingredienti poco costosi e disponibili in quasi ogni cucina.

Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvania
Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvaniacicib

Una delle più antiche ricette della birra di betulla risale al 1676 e si trova nell’opera Vinetum Britannicum, di John Worlidge:

Ad ogni gallone, aggiungi una libbra di zucchero raffinato e fai bollire per circa un quarto d’ora o mezz’ora; fai raffreddare e aggiungi un po’ di lievito per far fermentare la bevanda e liberarla dalle scorie che il liquore e lo zucchero possono produrre: poi metti la bevanda in un barile e aggiungi un pizzico di cannella e noce moscata, circa una mezza oncia per entrambi ogni dieci galloni; circa un mese dopo il composto va imbottigliato; e in pochi giorni si avrà un vino frizzante molto delicato, dal sapore simile a quello del Reno. […] Questo liquore non è di lunga durata, a meno che non venga conservato al fresco.

Fino alla fine del 1800 in Russia, Ucraina e Bielorussia, fu molto popolare la medovukha, una bevanda simile all’idromele ma più economica e veloce da produrre. I due ingredienti principali sono la linfa di betulla e il miele fermentato. Il miele fermenta naturalmente nell’arco di 15-50 anni, ma oltre 700 anni fa le popolazioni slave escogitarono un metodo per velocizzare la fermentazione del miele sfruttando il calore.

Preparazione della birra di betulla

Il primo passo è quello di ottenere grandi quantità di linfa di betulla, estratta generalmente da metà inverno fino a metà primavera. Ogni albero, dipendentemente dalla specie, può arrivare a produrre oltre 4 litri di linfa ogni giorno, buona parte della quale può essere estratta dal tronco senza rischiare di uccidere la pianta. Per produrre una quantità minima di birra di betulla occorre partire da almeno 4-5 litri di linfa.

L’albero preferito per produrre birra è la “betulla nera” (Betula lenta), chiamata anche “betulla dolce”, una pianta tipicamente nordamericana che può raggiungere i 30 metri di altezza e che produce grandi quantità di linfa molto zuccherina. Sono tuttavia adatte anche altre specie, come la comune betulla bianca (Betula alba o pendula).

La finestra temporale per la raccolta della linfa corrisponde al periodo in cui il liquido zuccherino percorre in grandi quantità i capillari dell’albero. Se raccolta prima della comparsa delle prime foglie verdi, o in tarda primavera, la linfa di betulla può risultare amara.

La linfa deve essere versata in un contenitore capiente, addizionata di zucchero (o miele) e scaldata a fuoco basso. La quantità di zuccheri da aggiungere alla linfa varia in base alla tipologia: occorrono circa 5 litri di miele o 4 kg di zucchero ogni 20 litri di linfa per ottenere una corretta fermentazione.

Portare a ebollizione continuando a mescolare per sciogliere completamente lo zucchero: una volta dissolto tutto lo zucchero, rimuovere dalla fiamma e lasciar raffreddare il composto prima di travasarlo nel contenitore destinato alla fermentazione. A questo punto occorre aggiungere il lievito di birra (17-25 grammi), per poi coprire il recipiente con un panno per proteggerlo da insetti, batteri e muffe.

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Il composto deve riposare e fermentare per una o due settimane, fino a quando si schiarisce; a questo punto è pronto per l’imbottigliamento. Se mantenuta chiusa in un luogo fresco, asciutto e buio, la birra di betulla può conservarsi per circa 3 mesi.

In alternativa alla linfa di betulla è possibile utilizzare rametti e corteccia prelevati dallo stesso albero, immergendoli in acqua e portando il tutto a ebollizione prima di rimuovere la materia vegetale e aggiungere zucchero. La bollitura della corteccia richiede più tempo rispetto alla linfa: lo scopo è quello di ammorbidire il materiale e forzare il rilascio degli olii essenziali che contiene.

Medovukha

La medovukha viene tradizionalmente preparata all’inizio della primavera partendo da contenitori da 20 litri pieni di linfa di betulla mescolata a 3 litri di miele. I contenitori vengono quindi chiusi da panni di cotone e lasciati al buio e al caldo per diverse settimane.

Una volta iniziata la fermentazione la superficie della miscela di linfa e miele inizierà a produrre schiuma, che pian piano diminuirà di volume fino a sparire; a quel punto viene aggiunto un altro litro di miele per innescare nuovamente la fermentazione.

La seconda fermentazione dura 1-2 settimane. Una volta pronta, la medovukha viene versata in piccole bottiglie che verranno sigillate dopo aver aggiunto polline fresco.

La quantità di alcol e il sapore della medovukha variano col tempo: una bevanda “giovane” avrà uno scarso contenuto alcolico e un sapore di limonata; dopo averla lasciata invecchiare per diversi mesi e aggiungendo altro miele, la medovukha può arrivare ad avere un contenuto alcolico pari al 16%.

Birch beer
Vinetum Britannicum
Birch Beer Recipe
Birch Mead Medovukha

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I cristalli di zucchero della dinastia Tang https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/ https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/#respond Tue, 14 Jul 2020 00:14:43 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4919 Lo zucchero cristallizzato (chiamato comunemente “rock candy” o “rock sugar” in inglese) è un composto cristallizzato di zucchero usato comunemente per dolcificare cibi e bevande. I cristalli di zucchero divennero un ingrediente particolarmente comune nella cucina cinese almeno mille anni fa: veniva impiegato per dolcificare zuppe e tisane, o per marinare la carne.

Nella Cina di circa un millennio fa lo zucchero cristallizzato (chiamato “ghiaccio di zucchero”) era considerato un bene di lusso, nonostante la predisposizione climatica di alcune regioni asiatiche meridionali, più che adatte alla coltivazione di canna da zucchero. Solo alcuni distretti cinesi erano in grado di produrre zucchero cristallizzato di qualità, come racconta lo Tangshuang pu (“Manuale dello zucchero cristallizzato”), l’opera di uno dei più prolifici scrittori e poeti del medioevo cinese.

Costoso regalo

La lavorazione della canna da zucchero, nata in India circa 2.000 anni fa, prevedeva un procedimento relativamente semplice ma che richiedeva pazienza e forza lavoro: dopo aver raccolto e spremuto le canne da zucchero, il liquido zuccherino veniva mescolato ad acqua bollente creando una soluzione zuccherina supersatura, lasciando poi ridurre la soluzione tramite il calore fino ad ottenere cristalli di zucchero.

Le tecniche di lavorazione dei cristalli di zucchero giunsero in Cina intorno al VII secolo d.C. dall’India: prima di allora lo “zucchero sabbioso” (sharkara), composto da minuscoli cristalli, veniva importato dal subcontinente indiano dopo lunghe e costose spedizioni commerciali.  La letteratura sanscrita risalente al periodo compreso tra il 1500 e il 500 a.C. fornisce le prime prove documentali sulla coltivazione della canna da zucchero e sulla lavorazione dei cristalli.

Wang Zhuo, morto intorno all’anno 1160, non si limita a mettere su carta istruzioni pratiche per la produzione dello zucchero, dalla coltivazione della canna alla procedura di cristallizzazione, ma fornisce anche un quadro storico dei cristalli di zucchero cinesi.

E’ un fatto universale che un prodotto raro e difficile da ottenere sia visto come un tesoro” sostiene Wang Zhuo nel Tangshuang pu. “Per questo motivo le castagne, le pere, le arance, i litchi e le prugne, prodotti che il mondo non produrrà mai a sufficienza, sono considerati molto preziosi“.

Lo zucchero veniva quindi prodotto in quantità sufficientemente limitate da essere considerato un bene di lusso. La cristallizzazione dello zucchero forniva diversi vantaggi commerciali: i cristalli di zucchero erano facili da trasportare e da immagazzinare, e potevano sopravvivere a lunghi viaggi.

Lo zucchero cristallizzato era anche considerato un regalo appropriato da inviare ad amici e parenti distanti: numerose lettere di ringraziamento citano i cristalli di zucchero come dono da parte di congiunti distanti, come si può leggere tra le righe scritte da Huang Tingjian durante il suo esilio:

Il tuo ghiaccio di zucchero inviato da lontano
supera il cristallo di sale del maestro Cui
nella sua bontà.

Eccellenze dello zucchero

Come capita per numerose attività artigianali o industriali, anche nel caso dello zucchero nacquero diversi centri d’eccellenza. I migliori di questi centri produttivi erano obbligati per legge ad inviare ogni anno un tributo in zucchero di alta qualità alla corte centrale.

Ma la produzione di zucchero cristallizzato aveva un limite: richieste eccessive potevano mettere in ginocchio intere economie locali. Wang Zhuo cita un caso verificatosi nella regione oggi chiamata Sichuan, la cui produzione di zucchero andò in crisi quando il governo centrale ordinò la produzione di diverse tonnellate di zucchero cristallizzato; non riuscendo a competere con le imprese più grandi, i produttori di ghiaccio di zucchero più piccoli finirono sul lastrico.

Al tempo di Wang Zhuo, il Suining (Sichuan) era la regione più rinomata per la produzione di ghiaccio di zucchero. Anche altre regioni producevano cristalli zuccherini, ma di qualità apparentemente molto inferiore, nonostante l’abbondante disponibilità di canne da zucchero di eccellente qualità.

“Lo zucchero cristallizzato del Suining è il migliore” afferma Zhuo. “Quello prodotto dalle altre quattro regioni che distribuiscono il ghiaccio di zucchero è molto sottile e fragile. E’ chiaro nel colore e senza profondità di sapore, e può essere paragonato al peggior zucchero di Suining. Le canne da zucchero che circondano queste regioni sono di alta qualità, ma il loro zucchero non è rinomato”.

Dalle parole dell’autore dello Tangshuang pu, si deduce che la tradizione di ghiaccio di zucchero del Sichuan poteva vantare un processo di caramellizzazione particolare che rendeva i cristalli incredibilmente saporiti e apprezzati dai palati cinesi. La limitata disponibilità di cristalli di zucchero di ottima fattura non era quindi un problema legato alla qualità della materia prima, ma alle tecniche di lavorazione delle canne da zucchero.

Come si producevano i cristalli di zucchero?

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La canna da zucchero fu inizialmente impiegata in Cina per produrre uno sciroppo zuccherino da mescolare a bevande calde o fredde. Dopo l’introduzione delle prime tecniche di lavorazione dello zucchero, fu possibile trasformare lo sciroppo di canna in blocchi solidi (shi mi) o piccoli cristalli (sha tang).

La produzione di ghiaccio di zucchero richiedeva numerose fasi che Wang Zhuo affronta nel dettaglio. Tra le quattro varietà di canna da zucchero presenti in Cina, solo due erano adatte alla produzione di cristalli. Le canne venivano piantate durante il secondo mese del calendario lunare, e raccolte durante il decimo mese; i terreni adibiti alla coltura di canne subivano una rotazione biennale per dare modo al suolo di arricchirsi nuovamente di nutrienti.

Dopo aver raccolto e tagliato le canne (procedimento fatto interamente a mano), queste venivano schiacciate e spremute per estrarne il succo: impiegando una macina e un bue si potevano processare svariati quintali di canne da zucchero ogni giorno. I residui della spremitura delle canne da zucchero venivano impiegati per la produzione di aceto.

In tempi moderni, da una singola canna da zucchero si possono estrarre 100-150 grammi di succo zuccherino, ma probabilmente nella Cina medievale la capacità di estrazione era inferiore. Il succo estratto dalle canne veniva quindi mescolato ad acqua e lasciato a bollire per svariate ore, fino ad ottenere grossi cristalli di zucchero.

L’umidità tendeva a rovinare facilmente lo zucchero cristallizzato, specialmente nel trasporto su lunghe distanze. Per evitare di rovinare un carico di cristalli di zucchero, sul fondo delle urne che lo contenevano veniva depositato uno strato di cereali coperto da un disco di bambù.

Il disco veniva quindi rivestito di corteccia di bambù, dura e impermeabile, prima di riversare lo zucchero nel contenitore. Una volta riempita, l’urna veniva sigillata con uno strato di cotone prima di applicare un coperchio.

A Tang dynasty monk and his secret candy recipe
Sugarcane and Sugar

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Lo zoo di Montezuma https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/ https://www.vitantica.net/2020/05/18/lo-zoo-di-montezuma/#respond Mon, 18 May 2020 00:06:44 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4861 Prima dell’istituzione moderna dello zoo, alcuni sovrani o uomini particolarmente ricchi amavano collezionare animali nel loro serraglio privato. Collezionare animali rari o esotici era uno status symbol: dimostrava ricchezza, potere e connessioni commerciali ed economiche molto rilevanti con il resto del mondo.

Carlo Magno aveva ben tre serragli a Aachen, Nijmegen e Ingelheim, serragli che ospitavano scimmie, leoni, orsi, cammelli, falchi, uccelli esotici di ogni tipo e un esemplare di elefante, il primo registrato in Europa dai tempi dell’ Impero Romano.

Il serraglio dell’ imperatore Montezuma, spesso definito un vero e proprio zoo, merita tuttavia una menzione particolare per le sue dimensioni, per le risorse impiegate nel suo mantenimento e per la varietà di animali presenti al suo interno.

Serraglio, l’antenato del giardino zoologico

Il primo serraglio della storia sembra essere stato quello di Ieraconpoli, o Nekhen, una città egizia che si trova lungo la riva occidentale del Nilo e centro di culto del dio Horus (Nekhen significa “Città del Falco”). All’interno del serraglio, in attività circa 5.500 anni fa, si potevano osservare ippopotami, gnu, elefanti, babbuini e felini selvatici africani.

Nel II secolo a.C. l’imperatrice cinese Tanki istituì la “Casa del Cervo”, un serraglio dedicato in particolar modo ai cervidi, ma circa un millennio prima di lei il re Wen di Zhou aveva destinato una fetta di 6 km quadrati dei suoi possedimenti a quello che lui chiamava “Ling-Yu” (“Giardino dell’Intelligenza”, o “Parco Divino”), un serraglio in cui erano custodite alcune delle specie animali più curiose e rare del continente asiatico: antilopi, capre, cervidi, pesci, uccelli dai colori sgargianti e animali considerati sacri.

Sembra che i Greci amassero particolarmente l’istituzione del serraglio: molte città-stato avevano strutture adibite a zoo o voliere, e il serraglio di Alessandria arrivò a contenere una collezione di animali che farebbe impallidire alcuni zoo moderni: elefanti, felini di ogni tipo, giraffe, rinoceronti, diverse specie di antilopi, orsi, e probabilmente un enorme pitone africano.

La passione per il collezionismo di animali nella Roma antica si sviluppò intorno al III secolo a.C. ma pian piano perse di valore: la maggior parte dei serragli si occupavano principalmente di custodire animali destinati alle arene. Con il crollo dell’impero, il serraglio divenne sempre più un inutile e costosissimo show di potere che ben pochi potevano o volevano permettersi.

Intorno al XIII secolo iniziano ad apparire nuovamente serragli in tutta Europa: a Napoli, Firenze, Milano, Lisbona e Nicosia erano presenti serragli invidiati in tutto il Vecchio Continente. A Oriente, invece, Marco Polo visitava la personale collezione di animali di Kublai Khan, un serraglio che conteneva animali provenienti dall’Asia e dall’Africa.

Lo zoo di Montezuma

Nel libro VIII del Codice Fiorentino, ultima versione in spagnolo e lingua nauhatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España” di Bernardino de Sahagun, è presente l’illustrazione di alcuni “guardiani” addetti alla cura degli animali presenti nel serraglio di Montezuma, sovrano azteco con l’evidente passione per le bestie rare.

Secondo i resoconti in nostro possesso, Montezuma avrebbe posseduto un serraglio/zoo contenente un’infinità di animali: uccelli di ogni tipo e provenienza, leoni di montagna, ocelot e orsi. Il serraglio era così grande da richiedere la cura costante di almeno 300 guardiani.

Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577
Alcuni animali presenti nello zoo di Montezuma, dal Codice Fiorentino, 1577

Gli animali dello zoo consumavano quotidianamente la carne di oltre 500 tacchini, in particolar modo i grandi felini e gli uccelli rapaci. Un edificio era interamente dedicato a falchi e aquile, mentre una seconda struttura ospitava uccelli di altre specie; all’interno di queste strutture vivevano i guardiani, il cui unico scopo nella vita era quello di mantenere in salute gli animali sotto la loro custodia.

Secondo S.L. Washburn, del Dipartimento di Antropologia dell’ Università della California, Berkeley, i resti umani ottenuti dai sacrifici rituali venivano utilizzati per alimentare i grandi predatori dello zoo di Montezuma. I predatori di grossa taglia, come i leoni di montagna, ricevevano ogni giorno svariati chilogrammi di carne umana, viscere comprese, ottenendo un apporto di proteine sufficiente alla loro sopravvivenza.

L’area esterna dello zoo conteneva 20 stagni, 10 di acqua salata e i rimanenti pieni d’acqua dolce, che fornivano gli habitat ideali per pesci, anfibi, rettili e uccelli acquatici. Il serraglio ospitava anche grandi predatori come giaguari, puma, coccodrilli, orsi e lupi, e animali di taglia media o piccola, come scimmie, bradipi, armadilli e tartarughe.

Non solo: era presente un piccolo edificio nel quale erano rinchiuse diverse specie di serpenti a sonagli e viperidi, tenuti per cautela all’interno di contenitori di terracotta. Nel giardino, infine, vagava ciò che venne descritto “toro messicano”, considerato dagli Aztechi l’animale più raro e descritto come un animale del tutto simile al bisonte nordamericano.

Ma il diario di Cortez e i resoconti di alcuni dei suoi compagni di conquista citano anche alcune particolari sezioni di questo zoo destinate agli esseri umani.

La “Casa degli Umani”

Le descrizioni contemporanee e di poco posteriori non sono sempre concordi nei dettagli dello zoo di Montezuma, ma il resoconto di Cortez viene considerato uno dei più singolari perché cita una “Casa degli Umani”, un’area dello zoo adibita alla custodia di esseri umani.

Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali
Mappa di Tenochtitlán nel 1524: il serraglio è il quadrato sotto il centro della città, suddiviso in 8 riquadri e popolato da uccelli e altri animali

Nel corso della descrizione di uno dei palazzi in cui Montezuma custodiva i suoi uccelli, Cortez afferma che:

“In questo palazzo c’è una stanza in cui ci sono uomini e donne e bambini, con viso, corpo, capelli, sopracciglia e ciglia tutti bianchi dalla nascita…Aveva un’altro edificio in cui c’erano molti uomini e donne mostruosi, tra i quali nani, persone con arti deformi, gobbi e altri con differenti deformità, e ogni persona aveva una stanza personale, e c’erano persone dedicate a fornire loro assistenza”

Secondo Francisco López de Gómara, storico e cappellano di Cortez che tuttavia mai accompagnò il conquistatore spagnolo nelle Americhe, le persone affette da nanismo o da deformità fisiche avevano un ruolo rilevante nella corte di Montezuma: venivano impiegati come confidenti, spie, servitori o intrattenitori. Alcuni godevano di uno status sociale così elevato da poter mangiare subito dopo il sovrano e i suoi commensali, prima di servitori e guardie.

Cortez tuttavia non cita il ruolo dei disabili fisici all’interno della corte o del sistema politico azteco. Li descrive rinchiusi in un edificio, ben nutriti e serviti ma pur sempre proprietà imperiali, non rispettati come esseri umani ma come possedimenti.

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Zoo History: The Halls of Montezuma
Menagerie
Animals and the Law: A Sourcebook
Were humans included in Moctezuma’s Zoo?
Cartas y relaciones de Hernan Cortés al emperador Carlos V

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Video: Combattimento dei Trenta https://www.vitantica.net/2020/03/11/video-combattimento-dei-trenta/ https://www.vitantica.net/2020/03/11/video-combattimento-dei-trenta/#respond Wed, 11 Mar 2020 00:05:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4820 Il Combattimento dei Trenta fu una battaglia-torneo organizzata dalle due grandi potenze europee coinvolte nella guerra di successione bretone, Francia e Inghilterra, svoltasi il 26 marzo 1351.

Lo scontro concordato fu organizzato sotto forma di grande torneo nei pressi di una grande quercia, a metà strada tra Ploërmel e Josselin, con tanto di spettatori e nobiltà locale chiamati ad assistere allo scontro e a godere del grande rinfresco preparato per l’occasione.

Lo schieramento dei Blois, che contava 31 uomini, era capeggiato da Beaumanoir; quello dei Montfort, composto dallo stesso numero di combattenti, aveva come capitano Bemborough. Beaumanoir aveva a disposizione trenta guerrieri bretoni, mentre il suo rivale poteva contare su 20 inglesi, sei mercenari tedeschi e quattro bretoni.

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Il filmato qui sotto mostra una messa in scena del Combattimento dei Trenta.

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Video: come rimuovere una freccia https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/ https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/#respond Wed, 04 Mar 2020 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4843 Come si può rimuovere una freccia medievale incastrata nei tessuti umani? Quanto è complicato rimuovere frecce dotate di barbigli o dalla cuspide non tradizionale? Questo video mostra una particolare tecnica di rimozione delle frecce impiegata durante il Medioevo.

Questa tecnica, esposta dal medico fiammingo Jan Ypermans all’inizio del 1300, prevede l’impiego di due penne d’oca per facilitare le operazioni di estrazione del dardo.

Durante il Medioevo furono definite due principali metodologie di rimozione di una freccia: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

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Come si allenavano i guerrieri medievali? https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/ https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/#respond Mon, 03 Feb 2020 00:03:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4773 Cavalieri e soldati del Basso Medioevo scendevano in battaglia indossando un equipaggiamento ingombrante e pesante. La dotazione da guerra prevedeva, oltre al peso dell’armatura, svariati chilogrammi di armi e oggetti d’utilità quotidiana; tutto questo peso richiedeva necessariamente una buona forma fisica e una discreta dose di forza e resistenza.

Combattere con armi bianche, inoltre, stanca molto velocemente, come spiegato in questo post sulle spade. Brandire una spada, una lancia o una mazza per qualche minuto contro una serie di combattenti motivati ed esperti richiede necessariamente grande resistenza, anche senza l’ingombro dell’armatura.

Per quanto i secoli passati possano essere stati turbolenti, non c’era costantemente una guerra da combattere. Soldati e cavalieri trascorrevano buona parte del loro tempo a riposo, svolgendo mansioni di routine o semplicemente lavorando nei campi o in città. Come facevano i guerrieri medievali a mantenere una robusta forma fisica anche durante i periodi di pace?

Il Castello della Salute

La risposta alla necessità di mantenersi in forma anche durante i periodi più pacifici arrivò da Sir Thomas Elyot, che nel 1537 (forse già nel 1534) pubblicò The Castell of Helth. Chiamato modernamente “The Castle of Health“, si tratta di un volume incentrato sul mantenimento della salute fisica dei guerrieri e indirizzato a chiunque non fosse familiare con il greco, la lingua solitamente impiegata per diffondere la conoscenza scientifica. Anche se tecnicamente la pubblicazione dell’opera non è collocabile nel Basso Medioevo, le fondamenta dei suoi contenuti derivano dalle esperienze e dalle conoscenze maturate durante l’ “età di mezzo”.

Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane
Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane

The Castle of Health riscosse un notevole successo, venendo pubblicato in ben 17 edizioni, ma fu inizialmente sottoposto a censura a causa della critica da parte dei medici del tempo, che temevano la diffusione di conoscenze riservate tra il grande pubblico.

In modo simile ad un moderno personal trainer, Elyot consiglia una serie di esercizi ed attività capaci di mantenere forte e in salute un guerriero, basandosi sul livello di partenza del combattente e collocando gli esercizi in quattro categorie distinte.

Secondo la teoria degli umori in voga al tempo di Elyot, le personalità “flemmatiche” o “sanguigne” tendono ad essere rispettivamente lente e grasse, o grasse e appassionate; per queste personalità, secondo l’autore, sono più indicati esercizi orientati allo sviluppo della forza o della resistenza.

I consigli per il mantenimento di un buono stato di salute prevedevano una dieta equilibrata, riposo, purghe e aria di buona qualità. Enfatizzavano inoltre il valore dell’esercizio fisico regolare, anche se  alcuni suggerimenti potrebbero sembrare bizzarri o privi di fondamenta scientifiche ad un lettore moderno.

The Castle of Health non è l’unica opera a descrivere il regime d’allenamento di un cavaliere: la biografia di Jean II Le Maingre (1409), noto col nome di Boucicaut e celebre combattente del suo tempo, espone alcuni esercizi eseguiti dal cavaliere per mantenersi in forma. Nell’allenamento di Boucicaut sono previsti esercizi contemplati anche nel The Castle of Health, come l’arrampicata, la pratica con armi bianche, il sollevamento di carichi pesanti e la danza.

Copertina del "The Castel of Helth"
Copertina del “The Castel of Helth”
Esercizi forti o violenti

Con “forti e violenti” Elyot intendeva ciò che oggi viene comunemente definito allenamento per la forza, una selezione di esercizi mirati a irrobustire la muscolatura.

Tra questi esercizi erano inclusi:

  • Lotta, “soltanto per i giovani uomini inclini alla guerra”;
  • Scavare terreno pesante, ricco d’argilla;
  • Trasportare o sostenere carichi pesanti;
  • Arrampicarsi o camminare lungo un pendio scosceso;
  • Afferrare una corda e arrampicarsi;
  • Rimanere appeso con le mani su qualunque cosa posizionata sufficientemente in alto da lasciare il corpo in sospensione;
  • Alzare le mani in posizione verticale, stringendo i pugni e mantenendo questa posa per qualche tempo;
  • Tenere salde le braccia sui fianchi mentre un compagno cerca di allontanarle dal corpo.
Esercizi veloci

Questi esercizi non hanno uno scopo ben preciso, ma sono probabilmente poco indicati per le personalità “flemmatiche” o “sanguigne”. Elyot suggerisce che siano più adatti a persone propense alla collera, malinconiche o neurotiche, spesso dalla corporatura esile e dominate da umori come bile gialla e bile nera.

  • Corsa;
  • Esercizi con le armi;
  • Lancio della palla;
  • Camminare sulle punte dei piedi tenendo le mani in alto;
  • Muovere le mani in alto e in basso senza utilizzare pesi.

Prefazione del The Castel of Helth

Esercizi veementi

Gli “esercizi veementi” sono una combinazione di esercizi veloci ed esercizi violenti. Elyot suggerisce che questo tipo di esercizi sia adatto a persone di corporatura normale già abituate a movimenti intensivi e veloci.

  • Ballare danze che prevedano il sollevamento della partner;
  • Lanciare una palla e rincorrerla;
  • Lanciare un giavellotto;
  • Corsa con finimenti, una sorta di allenamento di resistenza dove un compagno d’armi tenta di frenare il movimento tramite un’imbragatura.
Esercizi moderati

Tra gli esercizi moderati rientrano le attività di resistenza, come lunghe camminate o l’allenamento per il combattimento a cavallo. Questi esercizi sono adatti a chiunque, specialmente a chi è ancora stremato da esercizi violenti o veloci e ha bisogno di un training più moderato, o agli anziani.

Isolamento muscolare

Elyot introduce anche un concetto alla base del moderno bodybuilding, l’isolamento di un gruppo muscolare. Questo tipo di allenamento può appianare gli squilibri muscolari presenti in un individuo concentrando lo sforzo su alcune aree specifiche del corpo.

Per le gambe, le braccia e le spalle, Elyot raccomanda stretching e l’uso di pesi, insieme alla pratica con armi bianche come lance o picche. Per il petto e i polmoni, invece, l’autore prescrive una respirazione ritmica come quella praticata durante il canto, allo scopo di espellere l’eccesso di umori.

“Elyot aveva capito chiaramente le differenti necessità d’esercizio per i differenti tipi di corporatura. Anche se i nostri antenati si sbagliavano nel credere che l’esercizio dovrebbe essere contestualizzato nel modello umorale di come corpo e mente funzionano, avevano sicuramente ragione sul fatto che l’esercizio contribuisce alla salute fisica e mentale” afferma Joan Fitzpatrick, autrice di un’ analisi del The Castle of Health.

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