Metalli e metallurgia antica – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 La daga di bronzo dell’ Uomo di Racton https://www.vitantica.net/2021/01/11/daga-bronzo-uomo-di-racton/ https://www.vitantica.net/2021/01/11/daga-bronzo-uomo-di-racton/#comments Mon, 11 Jan 2021 14:00:27 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5108 L’inizio dell’ età del bronzo non coincise con l’abbandono totale degli strumenti di pietra creati e perfezionati dai nostri antenati nell’arco di decine di migliaia di anni. La scoperta delle metodologie necessarie a lavorare il bronzo furono di certo un passo fondamentale nell’evoluzione tecnologica dei popoli antichi, ma la transizione da metallo a pietra non fu veloce e attraversò varie fasi di passaggio.

Il bronzo è certamente più pratico della pietra sotto molti aspetti. Consente la creazione di utensili e armi più lunghe, meno pesanti e molto meno fragili dei delicati frammenti di ossidiana o selce.

La lega di rame e stagno può mantenere un filo tagliente per diverso tempo se maneggiata con perizia, ed è meno sensibile al fallimento: rompere o deformare un utensile di bronzo non è un evento disastroso e può essere corretto con una fornace e olio di gomito.

L’ antica produzione di bronzo, tuttavia, non solo comportava una nuova sfida tecnologica, ma aveva un problema logistico importante: lo stagno, contrariamente al rame, non abbonda sulla crosta terrestre, ma è presente solo in alcune regioni del mondo, come in Cornovaglia e in specifiche aree del Medio Oriente.

Importare stagno lungo migliaia di chilometri di terre desolate e popolate da predatori e popoli ostili non era alla portata di tutti i fabbri, specialmente nella prima età del bronzo.

Con tutte le difficoltà tecniche e logistiche che questa lavorazione comportava, il bronzo iniziò a diffondersi per tutta Europa sotto forma di metallo semi-prezioso riservato ad utensili e armi per ranghi sociali elevati. La lama di Racton è uno dei primi esempi di pugnale bronzeo appartenuto ad un individuo socialmente rilevante.

Chi è l’Uomo di Racton?

Nel 1989 i rilevamenti al metal detector effettuati a Westbourne, nel Sussex occidentale, hanno portato alla luce il corpo di un uomo robusto di mezza età, sepolto circa 4.200 anni fa (tra il 2.300 e il 2150 a.C.) in posizione fetale in compagnia di una lama e di una serie di rivetti.

Le analisi dei reperti ossei ha mostrato che si trattava di un adulto di circa 180 centimetri di altezza, relativamente alto per la sua epoca, costantemente tormentato da infezioni respiratorie e ascessi dentali.

L’uomo iniziava a presentare segni di degenerazione spinale, probabilmente un problema legato all’età dell’individuo (tra i 40 e i 50 anni). Il braccio destro mostrava una profonda incisione subita poco prima della morte dell’uomo (non sono stati rilevati indizi di guarigione delle ossa).

Scheletro dell' Uomo di Racton
Scheletro dell’ Uomo di Racton

La ferita al braccio appare coerente con l’ipotesi che l’uomo sia stato ucciso mentre sollevava il braccio per proteggersi da un colpo potenzialmente fatale.

Secondo le ipotesi formulate nel 2015 dagli archeologi coinvolti negli scavi, l’Uomo di Racton potrebbe essere stato un personaggio di spicco all’interno della sua comunità. “Il fatto che quest’uomo avesse una daga di bronzo era incredibilmente raro per l’epoca” afferma James Kenny, lo scopritore dello scheletro. “E’ vissuto proprio all’inizio dell’introduzione di questo tipo di tecnologia. Era un membro prominente della società, qualcuno con grande esperienza.”

Stuart Needham, specialista di tecnologia dell’età del bronzo e membro del team coinvolto negli scavi, sostiene che “la daga affermava lo status sociale dell’individuo, probabilmente dimostrandone la capacità nel combattimento. La lama della daga, con la sua impugnatura bloccata da rivetti, veniva costantemente affilata”.

La daga di bronzo

Fortunatamente per l’Uomo di Racton e per il fabbro che realizzò la sua lama, lo stagno non doveva attraversare deserti desolati e mari in tempesta: in Cornovaglia, a circa 200 km di distanza, proprio in quel periodo stava fiorendo un’intensa attività estrattiva di rame e stagno, un’attività così intensa da portare i locali a vendere lo stagno estratto fino alle sponde del Mediterraneo.

In questo periodo il bronzo era divenuto un materiale di importanza strategica: le prime grandi civiltà iniziavano a sorgere basando il loro successo su strategie militari innovative o sulla pura superiorità bellica e tecnologica. Una lega più resistente del rame e meno fragile della pietra rappresentava un vero e proprio tesoro che poteva garantire la sopravvivenza o la vittoria sul campo di battaglia.

Lama della daga di Racton
Lama della daga di Racton

L’Uomo di Racton è uno dei primi possessori documentati di una daga risalente all’inizio dell’età del bronzo. Era uno dei pochi europei fortunati a possedere un’arma costituita da un metallo eccezionale per l’epoca, il primo passo verso un’escalation tecnologica che avrebbe portato alla futura lavorazione del ferro.

La lama del pugnale è lunga circa 15 centimetri e larga 6, con due fori laterali e uno centrale in corrispondenza dei punti di contatto con l’impugnatura, elemento che si è disintegrato nel tempo ma che potrebbe essere stata d’osso, di legno o di corno.

I rivetti di bronzo che univano l’impugnatura alla lama sono in totale 26, tutti perfettamente conservati considerata l’età che hanno. L’utilizzo di così tanti rivetti bronzei e l’innesto relativamente complesso della lama fanno pensare ad un oggetto realizzato appositamente per una figura importante per la comunità.

Il rame alla base della lega bronzea della lama di Racton è ad alto contenuto di arsenico, un elemento che rende il bronzo ancora più duro. Pur non conoscendo i dettagli dell’interazione chimica tra rame e stagno, gli antichi fabbri impararono a riconoscere e a sfruttare le contaminazioni del rame per ottenere leghe dalle differenti proprietà.

Daga di Racton completa di rivetti
Daga di Racton completa di rivetti

La lama dell’ Uomo di Racton ha molte analogie con la daga di Bush Barrow, rinvenuta a circa 1 km da Stonehenge, a partire dall’innesto con l’impugnatura: in entrambe le armi la lama viene assicurata tramite piccoli perni di bronzo.

Anche se simili per tecnologia costruttiva e design, la lama di Bush Barrow è un esemplare ancora più straordinario per via della sua decorazione: oltre 100.000 chiodi d’oro di minuscole dimensioni ornavano l’impugnatura.

Il pugnale di Racton, invece, era un utensile d’uso quotidiano: le analisi microscopiche della lama hanno evidenziato un costante lavoro di affilatura, supportando l’ipotesi di una daga per uso non cerimoniale, ma pratico.

Fonti

Revealed: Racton Man was Bronze Age warrior chief
The Racton Man
Mining in Cornwall and Devon
Chichester skeleton: Racton Man ‘was warrior chief killed in battle’
Story of man and dagger found in UK field is finally told – 4,200 years on

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Il Turco, l’automa che giocava a scacchi https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/ https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/#respond Mon, 09 Nov 2020 00:14:46 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4994 Nel 1770, l’inventore ungherese Wolfgang von Kempelen svelò al mondo un prodigio della meccanica: Il Turco, un automa in grado di giocare a scacchi. La macchina di von Kempelen non solo poteva accorgersi delle eventuali irregolarità messe in atto dal giocatore avversario, ma anche competere con i più abili scacchisti della corte di Maria Teresa d’Austria.

Il Turco girò l’Europa e le Americhe per oltre 80 anni, incontrando Napoleone e Franklin, e battendo avversari umani con strategie basate su versatilità e creatività. Per quasi un secolo, il mondo si convinse che un automa e il suo creatore fossero riusciti a riprodurre una sorta di intelligenza evoluta, impensabile per la scienza del XVIII e XIX secolo.

Breve riepilogo degli automi meccanici nella storia

Il concetto di automa meccanico, una realizzazione artificiale in grado di eseguire azioni ed elaborazioni in modo del tutto autonomo, non è recente: il termine deriva dal termine greco automatos (“che agisce di propria volontà”), e già in epoca ellenistica venivano costruiti giocattoli meccanici o attrezzature meccanico-idrauliche.

Ctesibio, Filone di Bisanzio, Archita ed Erone furono i più noti costruttori di automi nell’antica Grecia. Contemporaneamente a loro, nel III secolo a.C., il Libro del Vuoto Perfetto cinese riporta la descrizione dell’automa realizzato dall’ingegnere meccanico Yan Shi:

«Il re rimase stupito alla vista della figura. Camminava rapidamente, muovendo su e giù la testa, e chiunque avrebbe potuto scambiarlo per un essere umano vivo. L’artefice ne toccò il mento e iniziò a cantare perfettamente intonato. Toccò la sua mano e mimò delle posizioni tenendo perfettamente il tempo… Verso la fine della dimostrazione, l’automa ammiccò e fece delle avance ad alcune signore lì presenti, il che fece infuriare il re che avrebbe voluto Yen Shih giustiziato sul posto ed egli, per la paura mortale, istantaneamente ridusse in pezzi l’automa al fine di spiegarne il suo funzionamento. E, in effetti, dimostrò che l’automa era fatto con del cuoio, del legno, della colla e della lacca, bianco, nero, rosso e blu. Esaminandolo più da vicino il re vide che erano presenti tutti gli organi interni: un fegato completo, una cistifellea, un cuore, dei polmoni, una milza, dei reni, lo stomaco ed un intestino. Inoltre vide che era fatto anche di muscoli, ossa, braccia con le relative giunture, pelle, denti, capelli, ma tutto artificiale… Poi il re fece la prova di togliergli il cuore e osservò che la bocca non era più in grado di proferir parola. Gli tolse il fegato e gli occhi non furono più in grado di vedere; gli tolse infine i reni e le gambe non furono più in grado di muoversi. Il re ne fu deliziato.»

Questa macchina straordinaria (se davvero esistita) è l’espressione della costante curiosità umana nei confronti della vita artificiale. Nei secoli successivi non mancarono grandi inventori arabi, cinesi ed europei che, secondo le fonti, furono in grado di realizzare oggetti in grado di muoversi, animali artificiali e automi umanoidi apparentemente in grado di spostarsi secondo il comando del loro creatore.

Lu Ban, uno dei più celebri inventori della storia cinese, e Archita dopo di lui, pare fossero riusciti a costruire automi volanti di legno, come riportano diverse fonti autorevoli dell’epoca. Secondo Aulo Gellio, Archita fu capace di costruire un uccello meccanico in grado di volare per 200 metri (probabilmente grazie alla spinta propulsiva del vapore).

Jabir ibn Hayyan, alchimista del VIII secolo, si dichiarava in grado di costruire serpenti, scorpioni e umanoidi in grado di eseguire operazioni a comando; il Libro dei dispositivi ingegnosi (IX secolo) dei tre fratelli Banū Mūsā, tra i più grandi innovatori e inventori del loro tempo, racconta del primo automa flautista programmabile, basato sui concetti alla base dell’organo ad acqua.

La paternità del primo automa programmabile è stata comunque assegnata ad Al-Jazari, autore dell’opera “Compendio sulla teoria e sulla pratica delle arti meccaniche” e vero innovatore nel campo della meccanica. Realizzò una nave che ospitava 4 automi umanoidi che potevano eseguire diversi brani pre-programmati; ad ogni brano, i quattro musicisti meccanici eseguivano combinazioni espressive composte da oltre 50 movimenti facciali o degli arti.

Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons
Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons

Nel Rinascimento il concetto di automa divenne uno dei temi centrali della meccanica del tempo: Leonardo da Vinci progettò un cavaliere in armatura capace di muoversi sul posto, e i giardini europei si riempirono di congegni semi-automatici pneumatici o idraulici. Ma fu con il meccanicismo cartesiano che gli automi divennero ancora più complessi e bizzarri, come l’ “anatra digeritrice” (1737) di Jacques de Vaucanson, un automa in bronzo che sembrava digerire e defecare il cibo che ingeriva.

Fu proprio in questo periodo, nella seconda metà del 1700, che Wolfgang von Kempelen realizzò il Schachtürke, o più semplicemente “Il Turco”, un automa capace di giocare a scacchi, e risultare abile e competitivo, contro un avversario umano.

Il Turco

L’idea di realizzare un automa complesso e stupefacente nacque da un incontro, avvenuto nel 1769, tra Kempelen e François Pelletier alla corte di Maria Teresa d’Austria. Pelletier era considerato uno dei più abili illusionisti francesi del suo tempo, ed era noto per utilizzare grandi quantità di magneti per eseguire i suoi giochi di prestigio; Kempelen era convinto tuttavia di poter fare meglio, e promise di tornare alla corte con un’invenzione in grado di superare ampiamente tutte le illusioni di Pelletier.

Il Turco fece il suo debutto di fronte a Maria Teresa l’anno successivo, circa sei mesi dopo l’esibizione di Pelletier. Prima di mostrarne il funzionamento, Kempelen mostrò a tutti i presenti che i cassetti e gli sportelli della sua macchina contenevano esclusivamente ingranaggi, lasciando che fosse l’audience stessa ad assicurarsene.

Dopo l’ispezione, Kempelen dichiarò che la sua macchina era pronta a sfidare chiunque nel gioco degli scacchi, usando i pezzi bianchi e riservandosi il “diritto” alla prima mossa sulla scacchiera. La macchina si dimostrò incredibilmente capace, non solo nel gioco ma anche nel rilevare mosse irregolari.

Se l’avversario eseguiva una mossa irregolare, il Turco scuoteva la testa in segno di disapprovazione, muovendo poi il pezzo alla sua posizione originale. Lo scrittore Louis Dutens, presente durante l’esibizione, tentò di ingannare la macchina muovendo la regina come un cavallo, ma si vide rifiutare la mossa e riposizionare il pezzo nella sua casella di partenza.

Volantino dell'esibizione del Turco. Wikimedia Commons
Volantino dell’esibizione del Turco. Wikimedia Commons

Il Turco sconfisse tutti coloro che tentarono di batterlo in un tempo massimo di 30 minuti, compresi coloro con esperienza nel gioco degli scacchi. L’automa fu anche in grado di completare il “percorso del cavallo”, un problema matematico-scacchistico in cui un cavallo deve toccare ogni casella della scacchiera senza passare due volte per lo stesso punto.

La caratteristica più strabiliante del Turco era la sua capacità di conversare in inglese, francese e tedesco con gli spettatori e l’avversario usando una tavoletta. Inutile dire che ogni matematico e ingegnere del tempo furono estremamente colpiti dall’invenzione di Kempelen, alcuni a tal punto da tenere un diario delle conversazioni avute con il Turco, come fece il matematico Carl Friedrich Hindenburg.

Il Turco ebbe meno successo scacchistico in Europa, non per scarso interesse (in molti volevano sfidarlo) ma perché Kempelen, ad ogni occasione utile per esibirlo, escogitava una scusa per non farlo. Tra il 1770 e il 1780 il Turco giocò solo una partita con Sir Robert Murray Keith, e il suo inventore ripeteva in continuazione che la macchina fosse soltanto una sorta di passatempo, niente di così rilevante.

Dopo il match con Murray Keith, Kempelen smontò completamente la sua macchina, ma per ordine imperiale fu costretto a ricostruirla per esibirla durante la visita del Granduca di Russia. La macchina suscitò così tanto interesse da costringere Kempelen ad iniziare un tour europeo nel 1783.

A Versailles il Turco perse la sua prima partita contro Charles Godefroy de La Tour d’Auvergne, e le sconfitte continuarono ad accumularsi una volta giunto a Parigi, dove fu sconfitto da diversi scacchisti locali e da François-André Danican Philidor, considerato il miglior scacchista del suo tempo.

A Londra, il Turco e Kempelen incontrarono Philip Thicknesse, il primo ad avanzare pubblicamente sospetti sul funzionamento della macchina. Thicknesse descrisse il turco come una truffa molto elaborata che sfruttava una macchina complicata per nascondere un bambino capace di giocare a scacchi.

Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons
Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons

Anche Edgard Allan Poe nutrì diversi dubbi sul reale funzionamento automatico della macchina. Se il Turco fosse una macchina pura, obiettò Poe, vincerebbe ogni partita; dopo averci riflettuto, anche lo scrittore giunse alla conclusione che ci fosse un operatore umano all’interno dell’automa.

La scoperta dell’inganno

Dopo la morte di Kempelen, il Turco fu acquistato nel 1805 dal musicista bavarese Johann Nepomuk Mälzel, che proseguì con i tour per l’Europa dopo aver appreso il segreto del funzionamento della macchina ed effettuato alcune riparazioni. Il tour europeo ebbe così successo da spingere Mälzel a preparare un viaggio negli Stati Uniti, viaggio che si rivelò un vero successo.

Gli scettici sul reale funzionamento autonomo del Turco non mancarono, ma le descrizioni che fornirono sul presunto funzionamento della macchina erano incorrette e basate solo su una semplice osservazione esterna del congegno. Fu solo nella seconda metà del 1800 che il segreto del turco fu rivelato in un articolo pubblicato sulla rivista “The Chess Monthly“.

Nel 1854 il Turco bruciò in un incendio scoppiato nel Chinese Museum di Charles Willson Peale, dove era ospitato, e il figlio del suo precedente possessore, Silas Mitchell, ritenne che fosse il momento adatto per svelare il segreto dell’automa.

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L’interno del Turco era composto da meccanismi molto complessi studiati per attirare l’attenzione dell’osservatore e distrarre dal vero funzionamento della macchina. La sezione a sinistra era studiata in modo tale da mostrare l’interno della macchina tenendo segreta la parte destra, in cui risiedeva il giocatore umano che manovrava l’automa.

L’abitacolo era provvisto di un cuscino e consentiva una visuale completa della scacchiera e dell’avversario. Il manichino di un turco ottomano, con tanto di tunica, turbante e pipa nella mano sinistra, nascondeva due porte che ospitavano altri ingranaggi; la macchina era pensata per illudere gli spettatori che non ci fosse alcun trucco, e che la sua capacità di gioco fosse totalmente attribuibile alla meccanica interna.

La scacchiera era sufficientemente sottile da consentire il movimento dei pezzi tramite magneti. Ogni pezzo era dotato di un piccolo magnete alla base che si attaccava ad un magnete sotto la scacchiera corrispondente alla casella in cui era posizionato, in modo tale da dare un quadro completo della partita al giocatore nascosto nella macchina.

Nel vano nascosto era presente anche una sorta di pantografo che consentiva di manovrare il braccio sinistro del Turco. Muovendo il pantografo sul una scacchiera interna, il braccio si spostava nella posizione corrispondente della scacchiera esterna. Il braccio poteva muoversi in alto e in basso, e afferrare pezzi sulla scacchiera; durante questi movimenti, alcuni ingranaggi facevano rumore per dare l’impressione che l’automa si stesse muovendo solo grazie alla sua meccanica interna.

Ma chi era lo scacchista nascosto all’interno del Turco? Nessuno lo sa. L’ipotesi ritenuta più credibile è che Kempelen reclutasse giovani scacchisti ad ogni tappa del suo viaggio, istruendoli velocemente sul funzionamento della macchina e lasciando che la meccanica interna li nascondesse da un’attenta ispezione.

The Mechanical Chess Player That Unsettled the World
The Turk
The Turk (Automaton)
Debunking the Mechanical Turk Helped Set Edgar Allan Poe on the Path to Mystery Writing

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Il kit di sopravvivenza delle popolazioni dell’Artide https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/ https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/#respond Mon, 08 Jun 2020 00:12:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4905 Per giugno 2020 avevo previsto un breve weekend a Londra per una visita al British Museum in occasione della mostra “Arctic“, un’esposizione incentrata sugli stili di vita tradizionali dei popoli che vivono nei pressi del circolo polare artico. Per ragioni legate al coronavirus questo viaggio è stato rimandato a data indefinita, se non del tutto annullato, ma il sito del British Museum ha reso disponibile una raccolta di foto e informazioni relativi alla mostra, come l’articolo “10 things you need to live in the Arctic“.

Cosa serve per sopravvivere all’ecosistema artico? Le popolazioni che tradizionalmente occupano le regioni più fredde del pianeta sono eccellenti nello sfruttare i pochi materiali naturali a loro disposizione per realizzare oggetti fondamentali per la sopravvivenza nella tundra o tra i ghiacci polari, come indumenti e utensili.

Stivali
Stivali Gwich'in in pelle d'alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.
Stivali Gwich’in in pelle d’alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.

Un buon paio di stivali è fondamentale per la sopravvivenza nell’Artico, non solo per tenere al caldo le estremità inferiori, ma anche per facilitare l’attraversamento di ghiaccio o di spesse coltri di neve.

Il popolo Gwich’in, che vive tra il Canada e l’Alaska, realizza splendidi stivali dalla pelliccia di castoro e di caribù, decorandoli con piccole perline ottenute da piccole pietre, vetro o conchiglie. Le suole degli stivali sono invece realizzate in pelle d’alce affumicata, un trattamento che la rende spessa, resistente e simile al velluto.

Gli Inuit, gli Inupiat e gli Yupic fabbricano da secoli i mukluks (o kamik), stivali soffici in pelle di renna o di foca tenuti insieme da filamenti di tendine animale, un materiale particolarmente resistente e adatto al clima artico.

Questi stivali rappresentavano lo strato intermedio della calzatura: sotto di essi si trovava uno strato di pelliccia, con il pelo rivolto verso l’interno per migliorare l’isolamento termico, mentre il piede veniva rivestito esternamente da una soletta semi-rigida in pelle conciata e affumicata.

Occhiali da neve
Occhiali da neve in poelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.
Occhiali da neve in pelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.

Uno dei pericoli più sottovalutati durante le escursioni tra il ghiaccio o la neve è l’esposizione alla luce solare. La cecità da neve è una patologia che si sviluppa a seguito dell’esposizione prolungata della cornea alla luce ultravioletta riflessa dai cristalli di ghiaccio.

Gli occhi iniziano a lacrimare senza sosta, il dolore nella zona oculare diventa persistente e si può arrivare alla cecità totale momentanea. I sintomi di solito non sono permanenti: dolore e cecità possono svanire entro una o due settimane, a patto di evitare ulteriore esposizione alla luce ultravioletta.

I Dolgan della Russia settentrionale e centrale fabbricano occhiali da neve in pelle di renna. Pur essendo privi di lenti ottiche, offrono una semplice ma efficace protezione per gli occhi: le fessure limitano l’ingresso dei raggi ultravioletti ma garantiscono un buon grado di visibilità.

Parka
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.

L’abbigliamento necessario nelle regioni artiche deve essere resistente all’usura, isolante ma allo stesso tempo traspirante, per evitare che si formi della pericolosa umidità tra gli indumenti e il corpo umano. L’umidità condensata abbassa la temperatura corporea, condizione non ideale in un ecosistema in cui il calore è raro ed estremamente prezioso.

I parka, eskimo o anorak sono originari delle popolazioni Inuit, Inupiat e Yupik e venivano generalmente realizzati con pelli di renna o di foca, materiali che ancora oggi sono competitivi, in quanto a resistenza e isolamento termico, con i tessuti più moderni.

Alcuni parka, anche se non molto efficienti nell’ isolamento termico, erano completamente impermeabili: il materiale con cui venivano realizzati, interiora di foca, è totalmente idrorepellente, offre una buona protezione dall’umidità atmosferica e costituisce una barriera invalicabile per le zanzare che popolano l’estate della tundra.

Slitte
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.

Viaggiare sulla neve o sul ghiaccio è faticoso e pericoloso. Le popolazioni nomadi o seminomadi, inoltre, devono muovere grandi quantità di materiale durante i loro spostamenti stagionali: cibo, tende, utensili e indumenti non possono essere trasportati su lunghe distanze con la sola forza di braccia e gambe.

Dopo aver compreso che più la superficie a contatto con la neve o il ghiaccio è estesa, più si ottiene stabilità e movimento fluido, i popoli dell’Artico iniziarono a realizzare slitte capaci di coprire distanze notevoli scivolando sulle superfici che il piede umano affronta con difficoltà.

Per le loro slitte i popoli artici sfruttavano ogni materiale a loro disposizione: ossa di animali marini o terrestri per il telaio, tendine, cuoio o fibre vegetali per il cordame, e pelle di foca per creare una copertura isolante.

Aghi
Aghi d'avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.
Aghi d’avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.

Gli Inuit e le popolazioni dell’Artico sono abili costruttori di meravigliosi aghi d’osso e di legno, con i quali possono riparare tende, indumenti e oggetti di varia natura. Gli aghi d’osso e di legno, per la natura stesse del materiale da cui vengono realizzati, non hanno le dimensioni e le caratteristiche meccaniche degli aghi moderni, ma sono incredibilmente efficaci.

Gli aghi sono utensili utilissimi per la vita quotidiana dei popoli artici: parka, stivali, canoe e tende (come i tupiq Inuit) richiedevano l’impiego di fibre resistenti (come il tendine) e di strumenti in grado di perforare con facilità cuoio e pelliccia.

Ottenere un ago efficace da un osso è un’operazione lunga e tediosa; gli aghi erano quindi beni preziosi, e venivano conservati in appositi contenitori generalmente portati sulla cintura, per essere pronti all’uso e limitare la possibilità di perderli.

Ulu e coltelli
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.

Per gli Inuit e gli Yupik, l’ ulu non è un semplice coltello, ma un utensile multiuso impiegato per recidere, per la pulizia delle pelli, per il taglio dei capelli o per rifinire blocchi di neve in assenza di un vero e proprio coltello da ghiaccio.

Gli ulu moderni sono in acciaio, ma la lama veniva anticamente realizzata con corno di renna o avorio di tricheco. Il tipico ulu ha dimensioni che variano in base all’impiego a cui è destinato: gli ulu più piccoli (circa 5 centimetri di lunghezza della lama) sono utilizzati per il taglio dei tendini o per la decorazione della pelle, mentre quelli più grandi trovano molteplici applicazioni nella vita quotidiana degli Inuit.

Nelle regioni artiche in cui veniva praticata la metallurgia, il coltello rappresentava l’utensile di prima scelta per la maggior parte delle attività quotidiane. Gli allevatori di renne lo usavano per castrare o macellare i loro animali, per marchiare le orecchie dei capi di bestiame in modo da riconoscerli, per incidere il legno e, se necessario, per la difesa personale.

Utensili da cucina
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all'inizio del 1900.
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all’inizio del 1900.

Buona parte della dieta dei popoli artici è composta da nutrienti di origine animale. Alcuni possono essere consumati crudi, altri invece necessitano di cottura prima di essere ingeriti. Anche alcune delle poche fonti vegetali di nutrienti, come erbe, tuberi, bacche e alghe necessitano di cottura per risultare commestibili o gradevoli al palato.

La cottura non consisteva esclusivamente nell’esposizione degli alimenti alla fiamma vita: gli Inuit utilizzavano bollitori di roccia metamorfica, blocchi di pietra che venivano scavati con pazienza e perizia per consentire la bollitura di cibo e acqua.

10 things you need to live in the Arctic

Eskimo Lamps and Pots

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Ferro di torba, il metallo delle torbiere https://www.vitantica.net/2020/04/13/ferro-di-torba-metallo-torbiera/ https://www.vitantica.net/2020/04/13/ferro-di-torba-metallo-torbiera/#respond Mon, 13 Apr 2020 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4850 L’estrazione e la lavorazione del ferro segnarono un passo fondamentale per l’avanzamento tecnologico dei nostri antenati. Dopo aver realizzato che il ferro non è soltanto reperibile all’interno di rari meteoriti ferrosi, ma anche abbondante all’interno di depositi naturali e minerali, questo metallo rivoluzionò l’agricoltura, l’architettura, l’arte e la guerra.

In antichità, i minerali ferrosi più comuni impiegati per l’estrazione del ferro erano tre: magnetite, ematite e limonite. Questi tre minerali sono quelli che generalmente contengono la maggior quantità di ferro, ma ne esistono altri come la goethite, un idrossido di ferro relativamente ricco di prezioso metallo.

La goethite forma masse compatte che si generano grazie all’ossidazione di minerali ricchi di ferro. In alcune aree del pianeta, la goethite si forma attraverso la precipitazione dell’acqua presente nel suolo e forma agglomerati, assieme alla magnetite, che vengono definiti “ferro bruno”, o “ferro di torba”.

La formazione del ferro di torba

Le masse di ferro di torba hanno origine quando flussi d’acqua ricca di ferro, a basso pH e poco ossigenati raggiungono la superficie in prossimità di una torbiera o di una palude sfruttando fratture nel terreno o i punti di giunzione tra acqua ipogea e acqua di superficie.

Una volta raggiunta la luce, il ferro presente nell’acqua viene ossidato da batteri come il Thiobacillus ferrooxidans o il Thiobacillus thiooxidans, o legandosi con l’ossigeno secondo fenomeni naturali, causando la precipitazione di piccoli granuli ferrosi verso bacini di raccolta naturali.

Il processo di ossidazione viene favorito anche dalla presenza di alcune piante acquatiche o di superficie: queste forniscono ossigeno all’acqua e tendono ad attrarre sulle loro radici gli ossidi di ferro, facilitandone l’accumulo e la raccolta.

Il ferro di torba si forma tramite un procedimento lungo ma rinnovabile: in una torbiera sana, ricca d’acqua ferrosa e di piante, è possibile raccogliere agglomerati di minerali ferrosi circa una volta ogni generazione.

L’estrazione del ferro di torba

Le prime forme di estrazione del ferro di torba risalgono a circa il IV secolo a.C.. Il ferro di torba può essere lavorato con una tecnologia relativamente povera, dato che non deve essere fuso totalmente per rimuovere la maggior parte delle impurità.

Frammento di ferro di torba appena estratto
Frammento di ferro di torba appena estratto

Gli agglomerati di ferro di torba sono inoltre facilmente individuabili da un occhio esperto. Nell’antichità di identificavano i siti più promettenti osservando l’ambiente: vegetazione decolorata, ecosistema umido dominato da piante idrofile, e soluzioni o depositi rossastri in prossimità delle radici degli alberi.

Per estrarlo, si praticava un buco nel terreno con un bastone da scavo fino a raggiungere il deposito. Una volta raggiunto, si procedeva alla rimozione di strati di torba utilizzando appositi coltelli; dalle zolle di torba era possibile estrarre granuli ferrosi grandi quanto piselli.

La fusione tramite fornace o basso fuoco produceva generalmente il 10-20% di ferro rispetto alla massa iniziale di materiale, mentre il resto si accumula sotto forma di scorie. Durante la fusione, è possibile che venisse aggiunta calce per facilitare la lavorazione di materiale ricco di silicati: il ferro di torba tende a contenerne molti, e dopo la fusione creano una patina resistente alla ruggine, ideale per alcune applicazioni ma indesiderata per altre.

Nel sito scandinavo di Mosstrond, in Norvegia, sono state scoperte alcune fosse nei pressi di depositi di ferro di torba, impiegate per pretrattare i minerali ferrosi prima di fonderli. Le fosse, chiamate hellegyter, erano profonde 45 centimetri, larghe 60 cm e ricche di scorie (fino a 50 kg per fossa), suggerendo che siano state utilizzate per procedimenti di fusione di portata considerevole.

Il ferro di torba in Europa

Quando la lavorazione del ferro raggiunse la Danimarca e la Scandinavia intorno al 500 a.C., i popoli nordici iniziarono ad utilizzare il ferro di torba come materia prima. Anche in epoca vichinga il ferro di torba fu il materiale dominante nella produzione di utensili e armi, tanto da lasciar supporre che molti insediamenti norreni abbiano avuto origine grazie alla presenza di ferro di torba.

In Islanda si stabilì una fiorente industria della lavorazione del ferro di torba tramite le “fattorie del ferro”, grandi strutture dedicate alla fusione del metallo. Le piccole fattorie abitate da famiglie allargate erano sostanzialmente autosufficienti per quanto riguarda la produzione del ferro necessario a fabbricare attrezzi da lavoro.

Il ferro di torba è un ottimo materiale per fabbricare utensili per l’agricoltura. La facilità di raccolta e di lavorazione lascia supporre che qualunque contadino fosse potenzialmente in grado di produrre lingotti o barre di ferro da consegnare nelle mani di un fabbro di fiducia.

La colorazione rossiccia dell'acqua suggerirebbe la presenza di minerali di ferro
La colorazione rossiccia dell’acqua suggerirebbe la presenza di minerali di ferro

Il ferro di torba possiede inoltre caratteristiche che lo rendono ideale per l’impiego sulle navi: arrugginisce molto lentamente grazie ad una patina di silicati che protegge il metallo dall’attacco dell’acqua salata. Con il miglioramento della metallurgia norrena, il ferro di torba trovò quindi impiego anche sulle navi, sotto forma di chiodi o di giunture rinforzate resistenti all’ ossidazione.

Anche dopo il miglioramento delle procedure di fusione, il ferro di torba rimase fondamentale per la metallurgia medievale, specialmente per la fabbricazione di utensili a basso costo. In Russia il ferro di torba costituì la principale fonte di metallo fino al XVI secolo.

Il ferro di torba in America

Gli scavi condotti a L’Anse aux Meadows in Canada lasciano supporre che i primi esploratori norreni, intorno all’anno 1000, possano aver fuso e lavorato ferro di torba nel continente nordamericano. Nel sito è stato scoperto un blocco di scorie da 15 kg, formatosi a seguito della produzione di circa 3 kg di ferro lavorabile, e un cumulo di 98 chiodi di ferro, un metallo che i nativi non conoscevano e non sapevano lavorare.

E’ possibile che questi primi esploratori nordeuropei avessero la necessità di produrre chiodi e altri utensili di metallo per effettuare le riparazioni necessarie alla nave che li aveva condotti sulle coste canadesi; l’ipotesi è supportata anche dal fatto che, secondo le analisi degli archeologi, la fusione del ferro è stata condotta in modo grossolano, probabilmente da persone non esperte di metallurgia.

Nel XVII secolo, il ferro era ormai indispensabile nella vita quotidiana, da quella del contadino a quella del nobile. Considerata la vasta richiesta, la produzione di ferro era alla portata solo delle imprese estrattive più ricche. Le colonie nordamericane non producevano ferro e tutto il metallo veniva importato dall’Europa sotto forma di prodotto finito.

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John Winthrop si accorse che in Massachusetts era presente un’enorme quantità di ferro di torba in attesa di essere estratto e lavorato. Dopo aver ottenuto i fondi necessari, Winthrop fondò la Saugus Iron Works sul fiume Saugus, una rotta fluviale navigabile e ricco d’acqua ideale per la produzione di ferro di torba nei terreni umidi lungo le sponde.

L’impresa si rivelò vincente: la Saugus Iron Works iniziò a produrre ferro per tutte le colonie all’inizio del 1646. Al tempo si trattava di uno degli impianti più tecnologicamente avanzati del mondo e lavorava circa una tonnellata di metallo al giorno a partire dal ferro di torba estratto lungo le rive del fiume.

Bog Iron
VIKING EXPANSION AND THE SEARCH FOR BOG IRON
Saugus Iron Works National Historic Site
Iron Production in the Viking Age

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Il machete, arma bianca multiuso, robusta e affidabile https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/ https://www.vitantica.net/2019/11/04/machete-arma-bianca-multiuso-robusta-affidabile/#respond Mon, 04 Nov 2019 00:10:25 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4639 Chiunque sia stato nella giungla potrà essere testimone dell’estrema utilità e versatilità di un machete. Per molti esperti di survival, un machete di buona qualità è l’unico strumento in grado di garantire la sopravvivenza in una giungla o foresta densamente popolata da vegetazione.

Definizione di machete

Il machete (chiamato cutlass nelle regioni caraibiche anglofone) può vantare numerosissime variazioni regionali e imitazioni, ma tipicamente si tratta di un’arma bianca robusta e potente lunga da 32 a 60 centimetri, dotata di una lama spessa meno di 3 millimetri in corrispondenza del dorso.

La robustezza di un machete è la sua dote primaria. Essendo uno strumento da taglio utilizzato per recidere con potenza liane e piante dal fusto di piccolo-medio diametro, la lama deve essere in grado resistere a numerosi impatti violenti.

L’affilatura di un machete è considerata un aspetto secondario, al contrario dei coltelli di precisione, in quanto la forza dell’impatto con il materiale ligneo è spesso sufficiente a causare tagli profondi.

La maggior parte dei machete vengono temprati fino a raggiungere una buona robustezza e un discreto grado di flessibilità. In questo modo potranno resistere meglio alle fratture e alla scheggiatura, saranno più facili da affilare ma saranno incapaci di trattenere per molto tempo un filo tagliente.

Il produttore di machete storicamente più celebre nell’ America Centrale fu la Collins Company: dal 1845, l’azienda specializzata in asce iniziò a produrre machete di ottima qualità, così robusti e affidabili che ancora oggi una lama di buona qualità viene definita “una Collins”.

Machete collins su invaluable.com
Machete collins su invaluable.com

A metà del 1900 la produzione su larga scala coincise con un declino dei materiali e delle tecniche di fabbricazione del machete. Oggigiorno la maggior parte dei machete fatti in serie vengono realizzati un un’unico pezzo di acciaio di spessore uniforme che viene lavorato con macchinari abrasivi lungo uno dei lati allo scopo di ottenere una lama.

Variazioni del machete

Il machete è molto simile come forma al falcione medievale, una spada corta e tozza divenuta popolare a partire dal XIII secolo. Al contrario del falcione, il machete non possiede una guardia ed è dotato di un’elsa semplice priva di protezione per la mano.

Nelle Filippine si utilizza tradizionalmente il bolo, una sorta di machete dalla lama affusolata che si allarga in corrispondenza della punta per rendere più efficiente il taglio di potenza. Il bolo viene impiegato ancora oggi nella quotidianità rurale, ma fu utilizzato anche come arma per scontri armati, come accadde durante la Rivoluzione Filippina contro le autorità coloniali spagnole.

Il Malesia e in Indonesia si usano rispettivamente il parang e il golok, armi simili al machete ma dalla lama più corta e tozza, adatte per il taglio di vegetazione legnosa.

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Il machete barong, comune nel Sud-est asiatico, ha invece una configurazione più affusolata, con una lama a forma di foglia. La sua punta non consente di concentrare al meglio tutta la potenza del fendente, ma è capace di creare tagli netti e precisi, oltre che perforare efficacemente.

Il kukri nepalese, anche se non viene tecnicamente considerato un machete, riveste spesso il ruolo di “abbattitore” di rami e liane. Il kukri è il coltello tradizionale dei Gurkha e l’arma da taglio d’ordinanza dell’esercito nepalese.

Il taiga è un machete multiuso di origini russe in dotazione alle forze speciali. Può fungere da machete, ascia, coltello, sega e pala grazie alla forma della lama, che si allarga verso la punta per facilitare il taglio.

L’importanza del machete nelle culture rurali

Il machete moderno è un’invenzione abbastanza recente. Prima della metallurgia industriale, fabbricare un’arma da taglio come il machete richiedeva molte ore-lavoro; la costruzione di un machete diventa di gran lunga più semplice se questo utensile viene prodotto su larga scala tramite processi meccanizzati.

Nonostante la sua “breve” vita, il machete moderno ha subito riscosso un grande successo tra i popoli che vivevano negli ambienti più inospitali della Terra, o nelle regioni rurali in cui era necessario l’impiego di uno strumento da taglio robusto e affidabile.

I cacciatori-raccoglitori di tutto il mondo si adattarono molto velocemente all’uso del machete, arrivando a considerarlo uno strumento indispensabile per la vita nella natura selvaggia.

Il machete semplifica enormemente ogni lavoro che richiede l’impiego di uno strumento da taglio: è utile per il taglio di prodotti alimentari di grandi dimensioni, per sfoltire il sottobosco o per recidere le canne da zucchero. Se manovrato con perizia, può costituire un’arma bianca vera e propria, oltre che un pratico strumento da taglio in sostituzione di un’ascia o una lama da intaglio.

Gli Aka africani, ad esempio, insegnano a maneggiare il machete ai propri figli quando raggiungono questi la tenera età di 8-11 mesi. Imparando a perforare il terreno con bastoni da scavo, a scagliare piccole lance o a tagliare col machete la vegetazione del sottobosco, i piccoli Aka vengono quasi immediatamente immersi nella realtà quotidiana che vivranno durante l’adolescenza e l’età adulta, e iniziano ad affinare le abilità che garantiranno la loro sopravvivenza in futuro.

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Ancora oggi molte persone che vivono nelle regioni rurali di Ecuador, Brasile e Mesoamerica usano quotidianamente il machete per ripulire i campi, tagliare legna, canne da zucchero e liane, o per lavori che richiedono una certa precisione.

Il machete e l’abilità nel manovrarlo sono sempre stati considerati un’accoppiata simbolo di mascolinità e il suo utilizzo non è limitato all’agricoltura: può rivelarsi un’arma da taglio estremamente pericolosa, come testimonia l’uso barbaro del machete durante diversi conflitti bellici e guerre civili accaduti nell’ultimo secolo.

Fonti per: “Il machete, arma bianca multiuso, robusta e affidabile”

What Is a Machete, Anyway?
Give Your Baby a Machete and Other #BabySlatePitches
LIFE HACK: USING THE MACHETE AS AN EFFECTIVE WEAPON
Machete History: The Rise of a Super Tool

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Equipaggiamento da guerriero scoperto sul sito della battaglia di Tollense https://www.vitantica.net/2019/10/18/equipaggiamento-guerriero-battaglia-tollense/ https://www.vitantica.net/2019/10/18/equipaggiamento-guerriero-battaglia-tollense/#comments Fri, 18 Oct 2019 00:14:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4608 Nel 1996 fa un team di archeologi ha scoperto la località di un antico campo di battaglia dell’Età del Bronzo all’interno della Valle di Tollense, nella regione nord-orientale della Germania.

Il sito, risalente al II millennio a.C., ospitava i resti di oltre 140 individui e un’incredibile quantità di oggetti d’uso quotidiano; un gruppo di questi artefatti, in totale 31 oggetti, potrebbe costituire l’equipaggiamento personale di un guerriero.

La battaglia di Tollense

La battaglia della Valle di Tollense rappresenta il teatro del più antico conflitto violento dell’Età del Bronzo avvenuto nelle regioni settentrionali d’Europa. Dal sito chiamato Weltzin 20 sono state recuperate punte di freccia di selce e di bronzo, oltre a numerosissimi frammenti di oggetti di legno e di ossa umane.

La maggior parte delle ossa appartengono a maschi adulti in buone condizioni fisiche. Considerate le tracce di traumi ossei guariti da tempo e quelli “freschi”, gli archeologi ritengono che si tratti di guerrieri coinvolti in uno scontro violento combattuto con l’uso di armi da mischia e da lancio; la battaglia potrebbe aver visto la partecipazione di oltre 2.000 – 4.000 guerrieri.

Resti umani scoperti in uno dei siti della Valle di Tollense
Resti umani scoperti in uno dei siti della Valle di Tollense

Nei sedimenti fluviali del sito Weltzin 20 sono stati rinvenuti 31 oggetti che, in origine, erano probabilmente avvolti in un contenitore di materiale organico, contenitore ormai dissolto a causa dei naturali processi di decomposizione.

Le ricerche condotte alla Aarhus University hanno mostrato come le due fazioni appartenessero probabilmente a due distinti gruppi etnici: uno schieramento proveniva da una regione distante e aveva una dieta a base di miglio, una pianta poco conosciuta a Tollense. E’ possibile che lo scontro sia avvenuto lungo una delle “strade dello stagno”, una delle rotte commerciali su lunghe distanze utilizzate per scambiare questo metallo, indispensabile per produrre bronzo di buona qualità.

Il kit del guerriero

In cima al cumulo di oggetti è stato trovato un punteruolo di bronzo dal manico di betulla e un coltello. Sotto questi due utensili c’erano uno scalpello, frammenti di bronzo, tre oggetti cilindrici, tre frammenti di lingotti e una gamma di piccoli scarti di bronzo, probabilmente il risultato della lavorazione di questa lega.

In aggiunta, sono stati rinvenuti un contenitore da cintura, tre spilloni, una spirale di bronzo, un cranio umano e una costola. A distanza di 3-4 metri sono stati scoperti una punta di freccia di bronzo, un coltello di bronzo dal manico in osso, una spilla con testa a spirale e una seconda punta di freccia di bronzo con una parte dell’asta di legno ancora attaccata.

Inventario del gruppo di oggetti scoperti nel sito Weltzin 20
Inventario del gruppo di oggetti scoperti nel sito Weltzin 20

I 31 oggetti pesano in totale 250 grammi. “Si tratta della prima volta in cui si scopre una dotazione personale sul campo di battaglia, e fornisce indizi sull’equipaggiamento di un guerriero” spiega Thomas Terberger del Dipartimento di Preistoria dell’Università di Göttingen.

La datazione degli artefatti ha dimostrato che gli oggetti appartengono all’epoca in cui si svolse la battaglia. “Il bronzo sotto forma di frammenti” continua Terberger, “era probabilmente utilizzato come forma di moneta. La scoperta di un set di artefatti ci fornisce inoltre indizi sull’origine degli uomini che parteciparono a questa battaglia, e ci sono sempre più prove che alcuni di questi guerrieri fossero originari delle regioni meridionali dell’Europa Centrale.”

Un’enorme battaglia

Considerando che la densità della popolazione della regione si attestava a circa 5 individui per chilometro quadrato, i reperti rinvenuti nei siti della battaglia della valle di Tollense suggerirebbero che si sia trattato di uno scontro di proporzioni enormi per l’Età del Bronzo.

Si stima che nello scontro siano morti tra i 750 e i 1.000 guerrieri, con una mortalità pari al 20-25%. In una sola zona di 12 metri quadrati sono state trovate quasi 1.500 ossa, suggerendo che quella particolare zona lungo il fiume possa essere stata occupata da una pila di cadaveri, o che abbia rappresentato l’ultima postazione difensiva degli sconfitti.

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Nella battaglia furono impiegate lance, mazze, coltelli, archi e spade. Anche se non ci sono resti di spade all’interno del sito, alcune ferite sono coerenti con i danni causati da queste armi. Alcuni combattenti scesero in campo a cavallo, come testimoniano le ossa di almeno cinque cavalli: la posizione di una testa di freccia su un omero indicherebbe che un cavaliere sia stato colpito da un arciere a piedi.

Il fatto che non siano stato trovati altri oggetti tra le ossa, ad eccezione di punte di freccia, lascia supporre che i corpi siano stati depredati dopo la battaglia. I resti non presentano connessioni anatomiche, suggerendo che le vittime siano state gettate nel fiume per liberare il campo.

Fonti per “Kit del guerriero scoperto sul sito della battaglia di Tollense”

Tollense valley battlefield
Lost in combat?
Lost in combat? A scrap metal find from the Bronze Age battlefield site at Tollense

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La biacca, o bianco di piombo https://www.vitantica.net/2019/10/04/biacca-cerussa-bianco-di-piombo/ https://www.vitantica.net/2019/10/04/biacca-cerussa-bianco-di-piombo/#respond Fri, 04 Oct 2019 00:10:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4558 La biacca, o bianco di piombo, fu uno dei pigmenti più impiegati nel corso della storia antica. Le sue caratteristiche cromatiche e la relativa semplicità del metodo di produzione la resero un colorante molto popolare per la fabbricazione di cosmetici o di colori per utilizzi artistici.

Pigmento e cosmetici

La biacca è composta in buona parte da un sale di piombo (carbonato basico di piombo II) bianco e inodore, che in natura si trova in un minerale chiamato cerussite (da cui deriva il nome “cerussa”). Estrarre il carbonato basico di piombo dalla cerussite non è un procedimento semplice quanto estrarre il metallo “puro” dai minerali che lo contengono, metodo conosciuto da almeno 3.500 anni e documentato in alcuni papiri egizi.

Il piombo riscosse un enorme successo nel mondo antico per via della sua facilità di lavorazione: è tenero, denso, duttile e malleabile, può essere lavorato a temperature relativamente basse rispetto ad altri metalli (fonde a 327 °C) e si trova spesso in minerali che contengono rame e argento, due metalli particolarmente importanti nell’antichità.

La cerussa fu utilizzata per secoli come pigmento bianco (di fatto, uno dei due pigmenti bianchi – insieme al carbonato di calcio – realmente coprenti disponibili nell’antichità), sia per la pittura che per la produzione di cosmetici come la cerussa di Venezia, uno sbiancante per la pelle molto in voga nel XVI – XVII secolo.

Elisabetta I d’Inghilterra fu una delle più assidue utilizzatrici della cerussa veneziana, che applicava sul volto ad ogni occasione pubblica. La contessa Maria Coventry, morta all’età di 27 anni nel 1760, fu anch’essa un’amante della cerussa, pigmento che probabilmente fu la causa principale della sua morte: per coprire l’acne, usava in modo massiccio pomate al bianco di piombo senza sapere che, in realtà, erano proprio quei cosmetici a causare gli sfoghi cutanei sul viso; Maria Coventry morì per avvelenamento da piombo causato dall’uso costante di biacca.

Come si produceva la biacca

Il bianco di piombo si ottiene tramite un processo di corrosione del piombo causato da un acido; in passato si utilizzava l’acido acetico. Il procedimento di corrosione fu descritto per la prima volta da Teofrasto di Ereso nel III secolo a.C. e prevedeva l’utilizzo di contenitori di terracotta riempiti con l’aceto più potente a disposizione, recipienti in cui venivano inserite scaglie o spirali di piombo per esporle alla corrosione per circa 10 giorni.

Successivamente, i contenitori venivano aperti, il piombo estratto e il carbonato di piombo (cristalli bianchi formatisi sul metallo) asportato e conservato; il piombo rimanente veniva riutilizzato per produrre altra cerussa.

Il sale di piombo subiva quindi una tritatura molto fine e una lunga bollitura in acqua. Al termine della bollitura, la mistura di acqua e carbonato di piombo veniva lasciata a decantare per far precipitare i sali sul fondo del contenitore e lasciar evaporare l’acqua, ottenendo così polvere di biacca.

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Ciò che viene definito “metodo olandese” si basa sullo stesso procedimento descritto da Teofrasto e usato da Greci, Egizi e Romani, ma utilizza l’anidride carbonica per catalizzare la corrosione e incrementare la produzione di biacca.

Per produrre grandi quantità di biacca si utilizzavano contenitori d’aceto e piombo posizionati a strati che si estendevano verticalmente: ogni livello di recipienti veniva ricoperto da uno strato di letame e corteccia da concia che fornivano anidride carbonica ai processi corrosivi del piombo grazie alla decomposizione naturale della materia organica.

Dopo aver raschiato i recipienti per rimuovere i sali di piombo, i cristalli venivano tritati con apposite macine contenenti olio di semi di lino. In questo modo, non era necessario far bollire ed essiccare la polvere di biacca, ma si otteneva una crema oleosa facile da trasportare e già pronta per l’utilizzo come cosmetico.

Grande richiesta e grandi rischi per la salute

Pigmenti bianchi come la biacca non erano comuni nel mondo antico. Il bianco di piombo era considerato il miglior pigmento in circolazione, specialmente per la decolorazione della pelle e per l’impiego nella pittura a olio, dato che il carbonato di calcio, chiamato “bianco San Giovanni“, era meno coprente.

I cosmetici a base di cerussa, spesso un semplice mix di bianco di piombo, acqua e aceto, divennero i pigmenti per la pelle più ricercati e desiderati dalle donne dei secoli passati. L’utilizzo della biacca risale addirittura all’antico Egitto, dove veniva impiegata come fondotinta; nel teatro antico la biacca era uno dei trucchi di scena più comuni.

Margot Robbie nei panni della regina Elisabetta I, assidua utilizzatrice di cerussa
Margot Robbie nei panni della regina Elisabetta I, assidua utilizzatrice di cerussa

Nel corso del XVIII secolo divenne pratica comune utilizzare vernici a base di bianco di piombo per rivestire le chiglie delle navi della Royal Navy britannica, per impermeabilizzare il legname della struttura e limitare le infestazioni da parassiti.

Anche se, nel mondo antico, il legame tra piombo e avvelenamento era cosa abbastanza nota, durante il Medioevo la letteratura medica dimenticò quasi completamente il problema. Ad esempio, l’acetato di piombo veniva comunemente impiegato come dolcificante per vino e sidro, con conseguenze terribili per la salute.

A partire dal XV secolo l’avvelenamento da piombo divenne una vera e propria piaga; nel XVI secolo Paracelso riporto alla luce la problematica dell’avvelenamento da piombo (che lui definiva “malattia del minatore”), ma trascorsero altri secoli prima di vedere seri interventi per limitare l’uso di questo metallo.

Fonti per “La biacca, o bianco di piombo”

White lead
Lead paint
Venetian ceruse
Lead Poisoning in a Historical Perspective

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Survival Skills Primitive: produzione del bronzo (video) https://www.vitantica.net/2019/09/26/survival-skills-primitive-produzione-del-bronzo-video/ https://www.vitantica.net/2019/09/26/survival-skills-primitive-produzione-del-bronzo-video/#comments Thu, 26 Sep 2019 00:10:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4548 Come già esposto in questo post, l’ascia di bronzo si è dimostrata un discreto strumento da taglio in diverse prove sul campo. Anche se le differenze tra l’acciaio e la lega di rame e stagno sono ben evidenti a tutti, il bronzo ha come vantaggio una maggiore facilità di produzione e di lavorazione rispetto al ferro e alle sue leghe.

Con una temperatura di fusione di circa 300 °C inferiore a quella del ferro, il bronzo può essere prodotto in un basso forno alimentato a legna. Un forno di questo tipo può essere realizzato con materiali poveri e facilmente reperibili in natura, come dimostrano i due autori del canale YouTube “Survival Skills Primitive”.

Il video mostra tutto il procedimento di lavorazione del bronzo, dalla costruzione del forno alla selezione dei minerali grezzi, fino alla fusione della lega per la costruzione di un’ascia e uno scalpello funzionanti e incredibilmente efficaci contro legname tenero.

Anche se, in questo caso, il forno viene alimentato con carbone di legna, risulta ugualmente efficace nella lavorazione del bronzo anche usando legname come combustibile.

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La daga di Bush Barrow https://www.vitantica.net/2019/06/28/la-daga-di-bush-barrow/ https://www.vitantica.net/2019/06/28/la-daga-di-bush-barrow/#respond Fri, 28 Jun 2019 00:10:28 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4374 La quasi totalità di spade metalliche risalenti all’Età del Bronzo custodite nei musei di tutto il mondo è costituita sostanzialmente da lame bronzee munite di un’elsa metallica; l’impugnatura poteva essere rivestita di cuoio o legno, per renderla più confortevole per l’utilizzatore. Il materiale ligneo, o comunque di origine biologica, sopravvissuto fino ad oggi è spesso talmente degradato dai processi di decomposizione da risultare irriconoscibile, o del tutto assente.

C’è tuttavia una spada di bronzo la cui impugnatura è sopravvissuta per circa 4.000 anni. Non solo il legno si è conservato pressochè intatto fino a poche ore dopo il suo ritrovamento, ma si tratta di un’impugnatura che non ha eguali in alcun museo del mondo: la daga di Bush Barrow è un esemplare che dimostra l’incredibile manualità dei fabbri europei dell’ Età del Bronzo.

Il sito Bush Barrow

Bush Barrow si trova nel complesso funerario di Normanton Down Barrows, a circa 1 km dalla celebre Stonehenge. Si tratta di uno dei più importanti siti dell’Età del Bronzo britannica e negli anni ha fornito all’archeologia artefatti spettacolari e unici.

I primi scavi di Bush Barrow iniziarono nel 1808 sotto la guida di William Cunnington, mercante del Wiltshire con la passione per l’antiquariato e l’archeologia. Si scoprì che il sito conteneva lo scheletro di un uomo adulto, circondato da un corredo funerario tra i più ricchi e significativi dell’intera Gran Bretagna.

L’analisi dei reperti colloca la sepoltura tra il 1.900 e il 1.700 a.C.; tra gli oggetti ritrovati ci sono due lamine d’oro a losanga finemente decorate, una testa di mazza in pietra, alcuni rivetti molto probabilmente appartenuti ad un coltello e una daga di bronzo passata alla storia per la sua impugnatura decorata con precisione millimetrica.

Il sito Bush Barrow
Il sito Bush Barrow

Non sappiamo con certezza perché questa sepoltura contenesse oggetti così preziosi, specialmente se paragonata alle altre tombe del complesso. E’ possibile che l’individuo sepolto a Bush Barrow fosse un capo o un individuo particolarmente apprezzato dalla sua comunità; ma se fosse questo il caso, non ci si spiega perché il suo tumulo funerario non sia il più alto e imponente del complesso, o non sia stato collocato al centro del Normanton Down Barrows.

La daga di Bush Barrow

La daga di Bush Barow potrebbe sembrara un’arma da taglio relativamente insignificante, con una lama simile a molte altre prodotte nello stesso periodo. Ma l’ impugnatura la rendeva un oggetto unico nel suo genere: realizzata in legno, era interamente ricoperta da minuscoli perni d’oro lunghi un millimetro e larghi 0,2 mm, inseriti individualmente nel manico da mani abilissime e capaci di manipolare oggetti così minuti.

L’impugnatura, andata distrutta a poche ore dal suo ritrovamento anche a causa delle tecniche di scavo di Cunnington, ha fortunatamente lasciato alcuni frammenti di legno ancora ricoperti da perni d’oro, frammenti che chiariscono perfettamente il duro e minuzioso lavoro di decorazione effettuato dai fabbri dell’Età del Bronzo.

Ogni centimetro quadrato dell’impugnatura ospitava circa un migliaio di microscopici perni d’oro, per un totale di circa 140.000 “chiodini” che ricoprivano l’intera lunghezza del manico. L’eccezionalità di questa lavorazione non risiede esclusivamente nella realizzazione di decine di migliaia di minuscoli oggetti d’oro, ma anche nel loro preciso collocamento sull’impugnatura.

“I perni d’oro sono una prova eccezionale dell’abilità e dell’artigianato dei fabbri dell’Età del Bronzo” spiega David Dawson, diretore del Wiltshire Heritage Museum in cui è custodita la daga. “Viene descritta a ragione come ‘l’opera degli dei'”.

Frammento dell'impugnatura della daga di Bush Barrow
Frammento dell’impugnatura della daga di Bush Barrow

“Il vero lavoro di precisione prevedeva la fabbricazione e il posizionamento di decine di migliaia di componenti microscopici realizzati individualmente, ognuno lungo circa un millimetro e largo 1/5 di millimetro” continua Dawson. “La conseguenza è che c’era quasi sicuramente una piccola parte di artigiani dell’Età del Bronzo che diventavano miopi una volta raggiunta un’età adulta. Non erano quindi in grado di fare altri lavori a parte la realizzazione di piccoli artefatti e dovevano essere costantemente supportati dalla loro comunità”.

Un lavoro per giovani e miopi

Il posizionamento dei perni d’oro sembra essere avvenuto in almeno quattro fasi. Nella prima fase, l’artigiano realizzava un sottile cavo d’oro, fine quanto un capello umano; nella seconda fase di lavorazione, una delle estremità del cavo veniva appiattita per ottenere la testa del chiodino e tagliata a circa un millimetro di distanza dalla testa usando una lama di ossidiana o di selce. Questo procedimento era ripetuto decine di migliaia di volte per ottenere tutti i perni necessari a ricoprire l’impugnatura dell’arma.

A questo punto, l’impugnatura veniva forata con un punteruolo dotato di una punta estremamente fine, creando le sedi per i perni d’oro. Inutile sottolineare quanto l’operazione fosse delicata: ogni errore poteva compromettere il risultato finale e la tenuta dei perni.

Nell’ultima fase, immediatamente precedente al posizionamento dei perni, l’impugnatura veniva ricoperta da un sottile strato di resina vegetale: l’adesivo avrebbe assicurato i chiodini nella loro sede impedendone la fuoriuscita.

Frammento dell'impugnatura della daga di Bush Barrow a confronto con la cruna di un ago
Frammento dell’impugnatura della daga di Bush Barrow a confronto con la cruna di un ago

L’inserimento dei perni avveniva quasi sicuramente tramite l’uso di pinzette d’osso o di legno, dato che i chiodini erano troppo piccoli per essere posizionati a mano. “Abbiamo stimato che l’intera operazione – la fabbricazione del cavo, dei chiodini, la foratura, la deposizione della resina e il posizionamento dei perni – avrebbe richiesto almeno 2.500 ore-lavoro per essere completata” sostiene Dawson.

Il livello di manualità necessario per questo genere di lavorazione suggerirebbe che questo tipo di artefatti non fosse unico o estremamente raro, ma rientrasse nella tradizione della lavorazione dell’oro dell’Europa occidentale.

Secondo l’ottico Ronald Rabbets “solo bambini e adolescenti, e adulti divenuti miopi per cause naturali o legate al loro lavoro in giovane età, sarebbero stati in grado di creare questi oggetti così piccoli”. Solo i più giovani e i più miopi, quindi, avrebbero avuto la giusta capacità di vedere da vicino necessaria a posizionare questi minuscoli frammenti d’oro.

Bush Barrow
Stonehenge’s most intricate archaeological finds were ‘probably made by children’
Where did the gold from the time of Stonehenge come from? Analysing the Bush Barrow dagger.

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Inquinamento da piombo degli antichi Romani https://www.vitantica.net/2019/05/13/inquinamento-piombo-antichi-romani/ https://www.vitantica.net/2019/05/13/inquinamento-piombo-antichi-romani/#comments Mon, 13 May 2019 00:10:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4213 Circa un mese fa ho pubblicato un post sulla deforestazione del verde europeo compiuta in epoche remote. Non ho tralasciato di sottolineare come questo cambiamento negli ecosistemi europei sia stato causato da tre esigenze fondamentali: la necessità di combustibile, l’estrazione di materiali per la costruzione di case e navi, e le attività minerarie.

Le attività minerarie, principalmente quelle legate all’estrazione di piombo, sembrano essere una delle componenti principali dell’inquinamento atmosferico rilevato nei carotaggi effettuati sui ghiacciai del Monte Bianco. I Romani, circa 2.000 anni prima della rivoluzione industriale, inquinarono l’aria europea con metalli pesanti per circa 500 anni.

Uso massiccio del piombo

Anche se le attività di estrazione di metalli risalgono a ben prima delle miniere d’epoca romana, i Romani furono i primi ad estrarre piombo in grandi quantità. Il piombo veniva estratto da diversi siti minerari disseminati in tutta Europa, inclusa la penisola iberica e la Gran Bretagna.

Il piombo era utilizzato per costruire condutture, stoviglie, monete e utensili; ma l’estrazione e la lavorazione di questo metallo causarono il rilascio di sostanze nocive nell’aria e nell’acqua, con conseguenze dirette sulla popolazione europea che quotidianamente si trovava a stretto contatto con il piombo.

E’ ormai noto da tempo che l’estrazione mineraria di metalli d’uso comune, come ferro e piombo, nell’antichità deve aver necessariamente avuto un impatto ambientale, ma fino ad ora nessuno era certo della portata di questo impatto.

Cronologia delle emissioni di piombo in Europa registrate in Groenlandia e appartenenti ad un periodo compreso tra il 1.100 a.C. e l' 800 d.C.
Cronologia delle emissioni di piombo in Europa registrate in Groenlandia e appartenenti ad un periodo compreso tra il 1.100 a.C. e l’ 800 d.C. Pb for Lead

Un indizio sugli effetti atmosferici dell’attività mineraria romana ce lo hanno fornito i ghiacci groenlandesi, che hanno intrappolato i metalli pesanti prodotti anticamente in Europa. Ma la distanza dai siti minerari europei non ha mai reso possibile effettuare stime precise sulle concentrazioni di piombo nell’aria di 2.000 anni fa.

Inquinamento atmosferico durato secoli

Uno studio pubblicato di recente sulla rivista Geophysical Research Letters è il primo a quantificare i metalli pesanti nell’aria europea tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C., concentrandosi particolarmente sul piombo.

Secondo i ricercatori coinvolti nello studio, i Romani provocarono un inquinamento da piombo molto più diffuso e duraturo di quanto si sospettasse in precedenza, circa 100 volte più grande di quello registrato nei ghiacci della Groenlandia.

Nei carotaggi effettuati sul ghiacciaio Col du Dome del Monte Bianco si trovano alte concentrazioni di metalli pesanti all’interno del ghiaccio risalente all’epoca romana. I ricercatori hanno rilevato due picchi: uno intorno al secondo secolo a.C., il secondo nel II secolo a.C., suggerendo che l’inquinamento causato dall’attività mineraria romana sia stato un fenomeno durato circa 500 anni.

Concentrazioni di piombo nell'emisfero settentrionale prima del 1950
Concentrazioni di piombo nell’emisfero settentrionale prima del 1950. Ancient Pollution

“Il nostro studio sull’ inquinamento dell’antichità rilevato nei ghiacci alpini ci consente di valutare più correttamente l’impatto delle emissioni romane su scala europea, e di paragonare questo inquinamento antico con quello recente, connesso all’utilizzo di gasolio contenente piombo in Europa tra il 1950 e il 1985” sostiene Michel Legrand della Université Grenoble Alpes, co-autore della ricerca.

“Questo ghiaccio alpino mostra che le emissioni di piombo durante l’antichità hanno aumentato i livello naturale di piombo di un fattore 10. Come metro di paragone, le attività umane recenti legate all’uso di gasolio contenente piombo in Europa hanno aumentato i livelli naturali di piombo di un fattore 50 o 100″.

“Di conseguenza” continua Legrand, “l’inquinamento causato dai Romani è da 5 a 10 volte meno di quello provocato recentemente dall’uso del gasolio, ma rimase costante per molto tempo, diversi secoli contro i 30 anni del gasolio”.

Il problema dei livelli naturali di piombo

Perché preoccuparsi dell’inquinamento causato dai Romani? Perché l’inquinamento da piombo moderno viene generalmente misurato basandosi sui livelli di piombo registrati prima della rivoluzione industriale, un periodo considerato virtualmente privo di inquinamento atmosferico da piombo.

Ma sempre più ricerche stanno evidenziando il fatto che i livelli di metalli pesanti nell’atmosfera dell’epoca pre-industriale non rappresentano un dato “naturale”; sarebbe quindi più accurato basarsi sui livelli di metalli pesanti presenti prima dell’inizio della metallurgia.

“L’inquinamento atmosferico causato dall’uomo è esistito per molto tempo, e i livelli di base che pensavamo fossero naturali, di fatto, non lo sono” spiega Alex More, storico della Harvard University non coinvolto nella ricerca di Legrand. “Tutti gli standard di inquinamento che si basano sull’assunto di un livello naturale pre-industriale sono sbagliati”.

Il problema della misurazione dei metalli pesanti non riguarda solo il piombo: nella ricerca di Legrand sono stati misurati anche i livelli di antimonio, registrando concentrazioni fino a 6 volte superiori rispetto a quelle presenti in natura.

Lead and Antimony in Basal Ice From Col du Dome (French Alps) Dated With Radiocarbon: A Record of Pollution During Antiquity
Roman mining activities polluted European air more heavily than previously thought

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