veleno – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Veleni per frecce: caccia e guerra con tossine naturali https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/ https://www.vitantica.net/2020/11/30/veleni-per-frecce-caccia-guerra-tossine-naturali/#comments Mon, 30 Nov 2020 00:10:29 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5081 I popoli cacciatori-raccoglitori, presenti e passati, hanno tradizionalmente fatto uso di armi da lancio per la caccia alle specie animali in grado di fornire carne o materiali di prima necessità. Alcune culture fermarono la loro evoluzione tecnologica a proiettili come l’atlatl, letali a brevi distanze ma che richiedono metodi di caccia che consentono di avvicinarsi a pochi metri dalla preda; altre invece svilupparono l’arco, un’arma da lancio capace di colpire a decine di metri di distanza ma che rende difficile infliggere un unico colpo fatale ad animali di grossa taglia.

L’abbattimento veloce della preda è sempre stato un aspetto fondamentale per la caccia tradizionale. Non si trattava soltanto di rispetto per l’animale cacciato: una morte veloce non era desiderabile soltanto per limitare le sofferenze della preda, ma anche per evitare che il bersaglio, una volta colpito, potesse allontanarsi eccessivamente dai cacciatori, costringendoli ad un lungo ed estenuante inseguimento nel bel mezzo di un ambiente ostile.

I primi archi realizzati dai Sapiens erano tutt’altro che perfetti: legname non propriamente adatto, frecce non dritte o che mancano di impennaggio rendevano queste armi imprecise, meno potenti degli archi moderni e più propense a ferire che a uccidere.

Certo, gli archi semplificavano enormemente la caccia a piccole prede come uccelli e roditori, più facili da ferire mortalmente con un dardo impreciso e poco potente; ma per la caccia ai grandi mammiferi, agli albori dell’evoluzione della tecnologia venatoria, l’arco presentava diversi negativi che ne limitavano l’efficacia.

Veleno per la caccia

Occorre considerare che i grandi mammiferi, anche i meno pericolosi o di stazza relativamente ridotta, possiedono generalmente una pelle molto spessa e difficile da perforare profondamente con una freccia imperfetta scagliata da un arco imperfetto da distanze superiori ai 15-30 metri.

I popoli cacciatori-raccoglitori conducono un’esistenza basata su tecnologia primitiva o semi-primitiva. Prima dell’evoluzione dell’arcieria, gli archi erano poco potenti e difficilmente potevano uccidere una preda con un solo colpo ben assestato.

Chi pratica la caccia con metodi tradizionali è abituato al fallimento, specialmente coloro che usano l’arco in condizioni non ottimali. Le piccole frecce dei San possono solo perforare superficialmente la pelle di un grande mammifero africano, ma non possiedono il sufficiente potere di penetrazione per causare una ferita mortale, anche se scagliate da distanze ideali e dirette verso le regioni più “morbide” dell’animale.

Fu per queste ragioni che alcuni popoli cacciatori-raccoglitori iniziarono ad utilizzare il veleno sulle punte delle loro frecce. Non sappiamo con certezza quando fu introdotta la tecnologia delle frecce avvelenate, ma le analisi su alcuni artefatti preistorici fanno pensare che risalga ad almeno 40-60.000 anni fa.

Frecce avvelenate

Le culture di caccia e raccolta sopravvissute fino ad oggi, come gli Yanomami e i San, fanno quasi tutte uso di frecce avvelenate. I San africani potrebbero essere una delle ultime espressioni della tecnologia africana delle frecce avvelenate, una tecnologia già in uso a Zanzibar circa 13.000 anni fa.

Le culture che conducono uno stile di vita di caccia e raccolta conoscono estremamente bene il loro ambiente naturale. Sono in grado di determinare quali piante costituiscono una fonte di cibo o d’acqua, e quali invece rappresentano un pericolo per la salute umana; ad un certo punto della nostra evoluzione tecnologica, qualcuno ebbe l’idea di intingere le punte di freccia nelle stesse sostanze vegetali o animali che erano in grado di debilitare o uccidere un essere umano, allo scopo di abbattere più velocemente una preda.

L’uso del veleno sulle frecce è un aspetto della sfera venatoria e bellica presente in molte culture cacciatrici-raccoglitrici di tutto il pianeta. I veleni per frecce devono essere efficaci anche su grandi prede, agire in tempi accettabili e possedere una formulazione composta da ingredienti relativamente semplici da ottenere.

Veleni di origine vegetale

I veleni di natura vegetale furono probabilmente i primi ad essere impiegati per la caccia. Non solo esiste una vastissima gamma di piante dagli effetti debilitanti o fatali, ma i veleni vegetali sono anche più facili da reperire, raccogliere e lavorare.

Curaro

Il curaro è un termine che comprende le tossine presenti nella corteccia di Strychnos toxifera, S. guianensis, Chondrodendron tomentosum e Sciadotenia toxifera. Il curaro è da secoli il veleno di prima scelta per diverse popolazioni indigene delle Americhe e viene impiegato come agente paralizzante.

Una dose letale di curaro può provocare la morte per asfissia a causa della paralisi muscolare che segue l’avvelenamento. Se l’animale avvelenato riesce in qualche modo a mantenere una respirazione più o meno regolare, riuscirà a riprendersi completamente dopo che il veleno avrà perso la sua efficacia.

L’estrazione del curaro avviene tramite bollitura della corteccia di alcuni alberi; il residuo di questa bollitura è una pasta nera e densa che viene applicata sulle punte di freccia o sui dardi da cerbottana. Con l’uso del curaro estratto dal Chondrodendron tomentosum, gli Yanomami abbattono regolarmente diverse specie di scimmie con le loro cerbottane.

Acokanthera

Acokanthera è un genere di piante africane tradizionalmente utilizzate dai San per l’estrazione di veleno per frecce. Le Acokanthera contengono ouabaina, una tossina cardioattiva contenuta in ogni parte della pianta. I frutti maturi sono generalmente commestibili in caso di necessità, ma quelli ancora acerbi possono contenere quantità pericolose di tossine.

Gli Ogiek del Kenia tagliano piccoli rami dalla pianta e li fanno bollire aggiungendo rami di Vepris simplicifolia, ottenendo una pasta velenosa estremamente potente capace di abbattere un elefante con la giusta dose e sufficiente tempo per agire.

L’applicazione del veleno sulle frecce è un’operazione che richiede destrezza: ogni piccola ferita aperta a contatto con la pasta tossica può provocare un avvelenamento accidentale dalle conseguenze potenzialmente fatali.

L’unico animale indifferente alla pericolosità delle Acokanthera sembra essere il topo dalla criniera africano (Lophiomys imhausi), che mastica regolarmente radici e rami per distribuire la pasta prodotta dalla sua saliva su tutto il pelo e formare uno strato protettivo di pelliccia avvelenata.

Aconito

Pianta estremamente velenosa conosciuta in tutto il mondo antico per le sue proprietà tossiche. Diverse specie di aconito sono state impiegate come veleno per frecce: i Minaro dell’India lo hanno usato per secoli per cacciare gli stambecchi, mentre gli Ainu giapponesi usavano frecce avvelenate con l’aconito per la caccia agli orsi.

Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram
Aconitum napellus. Foto: Jason Ingram

Gli Aleuti dell’Alaska hanno impiegato l’aconito per la caccia alle balene: un solo uomo a bordo di un kayak si recava in mare armato di lancia avvelenata; non appena avvistava una balena, si avvicinava al cetaceo e lo colpiva, per poi attendere che il veleno facesse effetto causando la paralisi e l’annegamento dell’animale.

L’aconito era ben noto anche a Greci e Romani, che non solo lo utilizzavano sulle loro frecce avvelenate, ma lo elencavano tra gli ingredienti di alcuni medicinali.

Hippomane mancinella

Albero originario regioni tropicali americane, si è guadagnata il nome di “piccola mela della morte” (manzanilla de la muerte) a causa della sua estrema pericolosità.

Gli Arawak e i Taino usavano il veleno prodotto da questa pianta sia come tossina per frecce, sia per avvelenare le riserve d’acqua dei loro nemici. L’esploratore spagnolo Juan Ponce de Leon morì proprio a causa di una ferita di freccia avvelenata ricevuta durante la battaglia contro i Calusa.

Ogni parte dell’ Hippomane mancinella è velenosa. Sostare sotto un albero durante una giornata di pioggia può rivelarsi molto pericoloso: anche una piccola goccia di lattice sulla pelle può causare vesciche e dermatiti molto dolorose; i fumi emessi dalla combustione del suo legname può causare danni oculari permanenti, e il suo lattice è così corrosivo da poter danneggiare la verniciatura di un’auto in breve tempo.

Antiaris toxicaria

Albero indonesiano impiegato tradizionalmente per la produzione di veleno per frecce (upas in javanese) e cerbottane. La tradizione medicinale cinese considera questa pianta così potente da lasciare all’avvelenato solo il tempo di compiere una decina di passi prima di stramazzare al suolo.

Il lattice della pianta viene direttamente applicato sulle punte di freccia, oppure mescolato ad altre piante tossiche per aumentarne l’efficacia e ridurre i tempi d’azione. Il veleno attacca il sistema nervoso centrale entro pochi secondi, causando paralisi, convulsione e arresto cardiaco.

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Jabillo

Lo Hura crepitans è un albero del tutto particolare originario del Sud America. Può crescere fino a 60 metri, ha una corteccia ricoperta da grandi spine nere e produrre dei frutti che esplodono una volta maturi, scagliando i semi ad oltre 40 metri di distanza alla velocità di quasi 300 km/h.

I pescatori e i cacciatori dell’Amazzonia conoscono l’utilità del jabillo: il lattice è un potente veleno che può essere impiegato per avvelenare piccole pozze d’acqua, o per ricoprire la cuspide di una freccia.

I locali raccontano che il lattice dello Hura crepitans è così tossico da causare vesciche rosse se entra in contatto con la pelle, e cecità permanente se tocca gli occhi.

Veleni di origine animale

L’estrazione di veleni di natura animale probabilmente fu il frutto di una lunga serie di incidenti, tentativi ed errori. Alcuni animali espongono direttamente le loro tossine, ad esempio trasudandolo dalla pelle, mentre altri lo conservano all’interno del loro corpo e l’estrazione può rivelarsi complessa.

Rane

Le popolazioni tribali colombiane dei Noanamá Chocó e Emberá Chocó usano tre specie di rane del genere Phyllobates, dai colori sgargianti e note per trasudare dalla pelle tossine particolarmente potenti, per avvelenare i dardi delle loro cerbottane.

Queste tossine sono un meccanismo di difesa che le rane usano per proteggersi dai predatori. Il veleno, composto da almeno due dozzine di alcaloidi, sembra avere meno efficacia nelle rane cresciute in cattività, suggerendo l’idea che questi anfibi possano produrre la tossina solo a seguito di un’alimentazione basata su formiche e insetti tossici.

La tossina delle rane Phyllobates contiene anche rilassanti muscolari, soppressori dell’appetito e un potente antidolorifico, circa 200 volte più efficace della morfina. La Phyllobates terribilis produce una quantità di tossina sufficiente a uccidere da 10 a 20 uomini adulti.

Coleotteri

Nel deserto del Kalahari le culture tribali locali hanno imparato che un particolare genere di coleotteri, i Diamphidia, produce una tossina così potente da abbattere anche i grandi mammiferi africani.

Le larve e le pupe di questi coleotteri producono una tossina ad effetto emolitico, che può causare la riduzione dei livelli di emoglobina del 75%. Il veleno ha efficacia solo sui mammiferi una volta iniettato nel flusso sanguigno, ma non se ingerito o semplicemente toccato.

Per applicare la tossina sulle frecce, il coleottero viene spremuto direttamente sulle cuspidi oppure preparato secondo modalità più complesse. L’insetto può essere schiacciato ancora vivo, oppure lasciato essiccare al sole e tritato fino ad ottenere una polvere da mescolare al succo di alcune piante locali, che agisce da adesivo creando una pasta scura e collosa che verrà cosparsa sulle punte di freccia.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

I San, che cacciavano con frecce dalla punta d’osso e, in tempi più recenti, di ferro, mirano a seguire la loro preda per poi ferirla più profondamente possibile con una e più proiettili avvelenati; una volta iniettata la tossina, i Boscimani attendono che faccia effetto inseguendo l’animale, che generalmente si da alla fuga subito dopo essere stato colpito.

Se lasciato agire il tempo necessario, la tossina presente su una singola punta di freccia è in grado di debilitare completamente una giraffa adulta in qualche giorno; per prede più piccole, come le antilopi, sono necessarie solo poche ore.

Rettili

Diversi autori greci, come Ovidio, parlano di frecce avvelenate usate dagli Sciti, celebri nel mondo antico per essere ottimi arcieri. Secondo Ovidio, gli Sciti intingevano le cuspidi nel veleno e nel sangue di vipera, ma Aristotele sostiene che ci fosse anche un altro ingrediente al veleno: sangue umano.

Alessandro Magno ebbe a che fare con nuvole di frecce avvelenate durante la sua campagna di conquista dell’India. I guerrieri locali, analogamente agli Sciti, bagnavano le punte delle loro frecce in una mistura a base di veleno di vipera, probabilmente quello della vipera di Russell (Daboia russelii).

Corpi umani e deiezioni

Alcuni popoli delle isole del Pacifico usano frecce e lance avvelenate tramite le tossine create dalla decomposizione di un corpo umano. Secondo il libro “Cannibal Cargoes” di Hector Holthouse, la pratica di creare veleno dai cadaveri prevedeva l’uso di una canoa forata contenente una cadavere lasciata al sole per diverse settimane.

L’esposizione al sole e l’umidità atmosferica causano la fuoriuscita di liquidi dal corpo, liquidi che si raccolgono sul fondo all’interno di un contenitore in cui verranno intinti i dardi da caccia o da guerra. Le ferite causate da frecce e lance avvelenate in questo modo causano infezioni da tetano dai risultati letali.

Escrementi umani e animali sono stati comunemente impiegati in guerra e nella caccia come agenti debilitanti. Le infezioni causate da tossine frutto della putrefazione o da batteri che proliferano nelle deiezioni umane e animali provocano gravi infezioni debilitanti e potenzialmente fatali.

Fonti

Arrow poison
Acokanthera
Do Not Eat, Touch, Or Even Inhale the Air Around the Manchineel Tree
Fecal Ecology in Leaf Beetles: Novel Records in the African Arrow-Poison Beetles, Diamphidia Gerstaecker and Polyclada Chevrolat (Chrysomelidae: Galerucinae)
Humans Have Been Making Poison Arrows For Over 70,000 Years, Study Finds
Aconite Arrow Poison in the Old and New World

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Giulia Tofana, avvelenatrice professionista https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/ https://www.vitantica.net/2020/09/13/giulia-tofana-avvelenatrice-professionista/#comments Sun, 13 Sep 2020 00:25:56 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4967 Nell’autunno del 1791, Wolfgang Amadeus Mozart iniziò ad ammalarsi seriamente, presentando sintomi che lui stesso attribuiva all’avvelenamento da parte di una delle sostanze tossiche più curiose e subdole della storia recente: l’ acqua tofana.

Anche se le vere cause della morte del celebre compositore sono ancora oggi fonte di dibattito, alcuni ricercatori, come gli esperti di manoscritti antichi Oliver Hahn e Claudia Maurer Zenck, hanno concluso che Mozart fu deliberatamente ucciso utilizzando un particolare veleno ideato da un’avvelenatrice professionista, Giulia Tofana, vissuta oltre un secolo prima.

Veleno leggendario

Le ipotesi sulla morte di Mozart spaziano dalla sifilide alla febbre reumatica; c’è anche chi ha ipotizzato che il musicista fu ucciso da costolette di maiale poco cotte. Ma Hahn e Zencks hanno rilevato tracce di arsenico sui manoscritti del compositore, un elemento utilizzato come ingrediente per la fabbricazione di un veleno incolore, inodore, insapore e che uccideva lentamente, fugando quasi ogni sospetto di avvelenamento da un occhio poco attento.

L’ acqua tofana potrebbe essere il veleno responsabile di centinaia, se non migliaia, delle morti per avvelenamento verificatesi nell’arco degli ultimi quattro secoli. Il suo ingrediente principale era l’arsenico, e solo 4-6 gocce di questo potente veleno era in grado di uccidere un uomo nell’arco di una settimana facendo apparire il decesso come legato ad una malattia difficilmente identificabile.

La ricetta esatta dell’acqua tofana non è nota, anche se conosciamo i suoi ingredienti principali da alcuni scrittori dell’epoca: arsenico, limatura di piombo, limatura di antimonio e probabilmente belladonna. Questo veleno poteva essere facilmente mescolato all’acqua o al vino, essendo totalmente incolore e non alterando i sapori di bevande e pietanze.

Altri autori del XVII-XVIII secolo sostengono invece che il veleno avesse come ingredienti anche la linajola comune (Linaria vulgaris), estratto di “mosca spagnola” (Lytta vesicatoria, un coleottero verde smeraldo), estratto di Antirrhinum majus e arsenico.

L’acqua tofana era un veleno che agiva lentamente e che doveva essere somministrato in più dosi consecutive, alimentando l’idea che a causare la morte della vittima fosse stata una malattia o altre cause naturali. I sintomi di un primo dosaggio erano simili a quelli di un’influenza comune, ma già al secondo dosaggio i sintomi peggioravano sensibilmente: vomito, disidratazione, diarrea e una sensazione di bruciore lungo il tratto digestivo.

La terza o quarta dose generalmente uccidevano la vittima. Si riteneva che i primi dosaggi di acqua tofana potessero essere annullati dalla somministrazione di aceto o succo di limone, ma al quarto dosaggio la quantità di arsenico e piombo accumulata dall’organismo era tale da provocare quasi certamente la morte.

Boccetta di "Manna di San Nicola" ritratta da Pierre Méjanel.
Boccetta di “Manna di San Nicola” ritratta da Pierre Méjanel.
Veleno per mogli

L’acqua tofana fa la sua apparizione nella documentazione storica nel 1632. Commercializzata con il nome “Manna di San Nicola” per nascondere il suo vero utilizzo alle autorità locali, veniva venduta all’interno di fiale come cosmetico o offerta votiva a San Nicola.

A quanto pare l’acqua tofana era considerato il veleno ideale per le mogli che subivano abusi dai mariti ed erano intenzionate a liberarsi definitivamente del consorte. Essendo incolore, inodore e insapore, poteva essere somministrata al marito durante i pasti senza suscitare alcun sospetto.

Anche se l’avvelenamento è certamente un metodo infido e criminale per risolvere un problema coniugale, occorre ricordare che tre secoli fa le donne italiane non erano giuridicamente tutelate dagli abusi, domestici e non, come accade oggi, e il divorzio era un’eventualità nemmeno lontanamente contemplata in molte comunità.

Secondo l’economista campano Ferdinando Gagliani (1728 – 1787), a Napoli non esisteva donna che non fosse provvista di una fiala di acqua tofana disposta accuratamente tra i suoi cosmetici. Solo la proprietaria poteva riconoscere la fiala e distinguerla dalle altre in caso di bisogno.

Una famiglia di avvelenatrici

L’ideatrice dell’acqua tofana fu probabilmente Giulia Tofana, avvelenatrice professionista che prima di essere giustiziata a Roma nel 1659 confessò di essere coinvolta in almeno 600 morti causate a Roma dal suo veleno tra il 1633 e il 1651.

Giulia Tofana nacque nel 1620 a Palermo, probabilmente figlia di Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633 con l’accusa di aver ucciso il marito. Secondo la documentazione dell’epoca, Giulia era una ragazza di bell’aspetto costantemente interessata al lavoro di farmacisti e speziali, spendendo molto tempo nei loro laboratori e apprendendo i segreti delle erbe e dei minerali.

Fu così che Giulia sviluppò la formula dell’acqua tofana. E’ possibile tuttavia che il veleno fosse frutto del lavoro della madre Thofania, e sia stato passato come eredità alla figlia prima della sentenza di morte.

Giulia Tofana iniziò a vendere veleno alle mogli siciliane in difficoltà, aiutata dalla figlia Girolama Spera, nota come “Astrologa della Lungara”. Le voci sull’efficacia dell’acqua tofana uscirono ben presto dalla Sicilia per raggiungere Napoli e Roma, dove madre e figlia riuscirono a creare un mercato di “Manna di San Nicola”.

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Giulia Tofana viene spesso descritta come amica delle donne in difficoltà, spesso intrappolate in matrimoni di convenienza con uomini violenti e pericolosi. Raggiunse una tale popolarità da arrivare ad essere indirettamente protetta dalle autorità locali, ma il suo business tossico fu alla fine scoperto, costringendola alla fuga.

Giulia si rifugiò con la figlia in una chiesa, dove le fu garantito asilo. Ma ben presto l’asilo le venne revocato non appena iniziò a circolare la voce che avesse avvelenato l’acqua di alcuni pozzi di Roma. Le autorità fecero irruzione nella chiesa, catturando Giulia, la figlia Girolama e loro tre aiutanti.

Le affermazioni di Giulia sulle morti provocata dal suo veleno nell’arco di 18 anni, e nella sola città di Roma, sono sconcertanti ma difficili da confermare. Si tratta di dichiarazioni rilasciate sotto tortura, ed è estremamente complesso tenere traccia del suo veleno nel mercato nero romano del XVII secolo; ma considerata l’apparente diffusione dell’acqua tofana riportata da alcuni autori dell’epoca, 600 vittime potrebbe essere un numero più o meno accurato.

L’eredità di Giulia Tofana

Il veleno noto come acqua tofana, e altri veleni sotto il nome di “acquetta” o “liquore arcano d’aceto” circolarono per tutta la penisola italiana per almeno un altro secolo dopo la morte di Giulia.

Una mistura di aceto, vino bianco e arsenico iniziò ad essere venduta a Palermo all’inizio della seconda metà del 1700 da Giovanna Bonanno. Il tipico cliente di Giovanna era una donna che voleva liberarsi del marito per poter stare col proprio amante: la prima dose veniva somministrata al consorte per causare dolori di stomaco, la seconda per mandarlo all’ospedale e la terza per porre fine ai suoi tormenti.

I medici dell’epoca non riuscivano a determinare le cause della morte provocata da questo veleno, ma una lunga serie di decessi registrati a Palermo portarono all’arresto della Bonanno per stregoneria. Alcuni farmacisti che collaboravano con lei furono condotti a testimoniare al suo processo, svoltosi nel 1788, e si giunse alla condanna a morte per impiccagione il 30 luglio 1789.

 

Aqua Tofana: slow-poisoning and husband-killing in 17th century Italy
Aqua Tofana
Giulia Tofana
A Cyclopaedia of Practical Receipts: And Collateral Information in the Arts

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Scoperti tre libri avvelenati in una biblioteca danese https://www.vitantica.net/2018/07/03/tre-libri-avvelenati-biblioteca-danese/ https://www.vitantica.net/2018/07/03/tre-libri-avvelenati-biblioteca-danese/#comments Tue, 03 Jul 2018 02:00:01 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1883 Nel romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, un monastero benedettino è teatro di alcune morti misteriose e apparentemente prive di alcun legame. Dopo le indagini di Guglielmo da Baskerville e del suo novizio Adso da Melk, si scopre che il colpevole degli omicidi era un manoscritto avvelenato (il secondo libro della Poetica di Aristotele).

Per quanto l’opera sia realistica, alcuni potrebbero aver rifiutato l’idea di un “avvelenamento da libro” nel 1327, ma come spesso accade la realtà supera abbondantemente la fantasia: anche se non specificamente realizzati per intossicare l’essere umano, alcuni libri antichi possono davvero rappresentare un pericolo letale.

Una recente analisi dei manoscritti custoditi nella libreria della University of Southern Denmark ha rivelato che tre volumi rari custoditi all’interno della collezione e risalenti al XVI-XVII secolo hanno copertine intrise di arsenico, un veleno noto fin dai tempi antichi per la sua mortalità.

L’analisi dei manoscritti è partita da tutt’altri presupposti: i curatori della biblioteca volevano verificare se le copertine dei volumi fossero state realizzate riciclando frammenti di pergamena, una pratica spesso utilizzata durante il XVI-XVII secolo. I raggi X hanno infatti mostrato che le copertine sono un “collage” di vari pezzi di pergamena dal contenuto in latino, testi ormai illeggibili per via di una copertura verdastra che oscura quasi totalmente ogni tratto d’inchiostro.

Verde di Parigi a base di arsenico
Verde di Parigi a base di arsenico

E’ stato proprio questo curioso strato verde l’origine della scoperta: nel tentativo di superare gli strati opachi che nascondono il contenuto dei frammenti di pergamena, i ricercatori hanno determinato che la patina verdastra è composta principalmente da arsenico e rame che dona alla copertina una colorazione definita “verde di Parigi” o “verde smeraldo”.

L’arsenico è un elemento ancora ampiamente utilizzato per alcune leghe metalliche e impiegato in passato in numerose formule per erbicidi e insetticidi. Gli effetti letali dell’arsenico sono ben conosciuti fin dall’antichità, tanto da essere stato uno dei veleni preferiti per gli omicidi politici. Il corpo umano può sviluppare col tempo una certa resistenza (mitridatismo) alla velenosità dell’arsenico, ma si tratta pur sempre di un veleno estremamente potente che attacca il sistema digestivo e quello nervoso causando danni irreversibili anche a piccole dosi.

Problemi causati dall'esposizione a coloranti a base di arsenico, dal "Annales d'hygiène publique et de médecine légale" del 1859
Problemi causati dall’esposizione a coloranti a base di arsenico, dal “Annales d’hygiène publique et de médecine légale” del 1859

Il pigmento a base di arsenico scoperto sulle copertine dei tre libri era relativamente semplice da produrre nel XIX secolo, e fu proprio in quel periodo che le copertine dei tre volumi furono intrise di arsenico per scopi non collegati all’estetica.

In determinate circostanze i composti di arsenico possono essere trasformati in arsina, un gas altamente tossico con un distinto odore di aglio e che in epoca Vittoriana causò non pochi problemi, specialmente quando impiegato per decorare le carte da parati. Lo strato di arsenico delle copertine non si trova in superficie ma su uno degli strati inferiori: l’intento degli artigiani fu probabilmente quello di protegge queste rare opere dall’azione di insetti e microrganismi.

I tre libri sono attualmente custoditi in scatole separate all’interno di un armadio ventilato, per evitare qualunque contaminazione di altri volumi ed eventuali intossicazioni accidentali per i frequentatori della biblioteca. In futuro i volumi saranno digitalizzati per limitare al minimo il contatto con le copertine avvelenate.

How we discovered three poisonous books in our university library

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L’uso di frecce avvelenate risale alla preistoria https://www.vitantica.net/2017/11/14/uso-frecce-avvelenate-preistoria/ https://www.vitantica.net/2017/11/14/uso-frecce-avvelenate-preistoria/#respond Tue, 14 Nov 2017 02:00:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=809 Moltissimi popoli cacciatori-raccoglitori sopravvissuti fino all’era moderna utilizzano frecce avvelenate allo scopo di aumentare il successo della caccia. Quando è nata questa pratica?

E’ da diverso tempo che gli archeologi sospettano che i cacciatori-raccoglitori della preistoria utilizzassero il veleno estratto da alcune piante per aumentare l’efficacia delle loro armi da caccia. Si tratta di una tecnologia in uso ancora oggi tra molte popolazioni tribali moderne e che ha dimostrato la sua validità innumerevoli volte nella caccia di persistenza.

Veleno debilitante per semplificare la caccia

La caccia di persistenza consiste principalmente nell’inseguire una preda nella speranza di affaticarla a tal punto da impedirle di poter proseguire la sua fuga a causa dell’eccessivo affaticamento. Le armi primitive non hanno le stesse prestazioni di quelle moderne, quindi abbattere un animale in un sol colpo è quasi sempre impossibile.

Alcune prede si affaticano molto facilmente: a differenza dell’essere umano, non hanno sistemi di termoregolazione che consentono loro di dissipare il calore corporeo. Altre, invece, possono percorrere decine di chilometri senza stancarsi eccessivamente.

Utilizzando una sostanza tossica debilitante o letale, tuttavia, i nostri antenati si resero conto che gli inseguimento duravano molto meno e che la combattività della preda si riduceva, rendendo la caccia molto meno faticosa e rischiosa. Alcune delle tossine potevano addirittura uccidere un animale di grossa taglia se dosate accuratamente e lasciate agire per il tempo necessario ad ucciderlo.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

Le oltre 250 piante del genere Aconitum, come l’ aconito napello (Aconitum napellus), sono diffuse in tutto il territorio eurasiatico e la loro tossicità è nota da millenni. Sappiamo che in Europa i Galli e i Germani usavano l’aconito per avvelenare frecce e lance da usare in guerra; se le ferite inferte al nemico non erano sufficienti ad ucciderlo, il veleno inoculato dalle armi avvelenate avrebbe di certo terminato il lavoro.

In Africa, il lattice delle piante del genere Acokanthera è tradizionalmente impiegato per avvelenare le frecce utilizzate dalle popolazioni tribali semi-primitive di Tanzania, Sud Africa e Zimbabwe. Il popolo San della Namibia usa invece il veleno estratto da una larva parassita mescolato con frammenti della corteccia di una pianta di piselli che cresce spontaneamente nella savana africana.

Quando furono ideate le frecce avvelenate?

Il problema nello stabilire la “data di nascita” delle prime armi da caccia avvelenate è sempre stato rappresentato dall’impossibilità di analizzare le tracce di veleno sulle armi rinvenute nei vari siti archeologici dislocati su tutto il pianeta: spesso chi opera sul campo si trova costretto a dover ripulire i reperti dal terreno che li seppelliva utilizzando strumenti archeologici molto comuni (come spazzole e pennelli), che tendono però a cancellare le poche ed eventuali tracce di veleno un tempo presente sui reperti.

Come tutti i materiali di natura organica, inoltre, i veleni vegetali o di origine animale si degradano col tempo e tendono a lasciare tracce chimiche difficilmente analizzabili tramite le tecnologie disponibili fino a qualche anno fa.

Aconito - Aconitum napellus
Aconito – Aconitum napellus

La dottoressa Valentina Borgia del McDonald Institute for Archaeological Research, specializzata in armi da caccia del Paleolitico, ha combinato le sue competenze in campo archeologico con le conoscenze di chimica forense di Michelle Carlin (Northumbria University) allo scopo di rilevare e analizzare eventuali tracce di veleno applicato su armi risalenti a migliaia di anni fa.

Le due ricercatrici hanno elaborato un metodo non distruttivo per prelevare campioni di materiale organico dai reperti e confrontarli con un database di piante tossiche popolato dai dati relativi alle tossine prelevate dalle piante del celebre “Giardino dei Veleni” di Alnwick.

Rilevale il veleno su frecce vecchie di millenni

Borgia e Carlin hanno trascorso gli ultimi tre anni a perfezionare la loro tecnica di prelievo sperimentandola inizialmente con successo su artefatti vecchi di un secolo; nel 2015 hanno iniziato ad analizzare alcune frecce egizie dalla punta di pietra risalenti a circa 6.000 anni fa (ad oggi non è stato pubblicato alcun risultato), nella speranza di ottenere la prima prova sull’ipotesi avanzata da Borgia: l’utilizzo di veleno vegetale sulle punte di freccia è vecchio di millenni e la tecnologia fu ideata probabilmente qualche decina di migliaia di anni fa.

“Sappiamo che i Babilonesi, Greci e Romani usavano veleni di origine vegetale per cacciare animali e in guerra” spiega Borgia. “Oggi rimangono poche società cacciatrici-raccoglitrici ma tutti i gruppi sopravvissuti utilizzano veleni. Gli Yanomami della foresta pluviale amazzonica usano il curaro, un mix di piante del genere Strychnos, per avvelenare le loro frecce. In Africa, vengono utilizzate varietà di piante differenti per creare veleni. Acokanthera, Strophantus e Strychnos sono le più comuni”.

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Il metodo messo a punto da Borgia e Carlin non si basa solo sul riconoscimento delle tossine ma anche sull’ analisi delle particelle di amido: le dimensioni, la forma e la struttura dei granuli di amido variano in base al taxon (unità tassonomica della pianta) e costituiscono una sorta di impronta digitale che può far risalire al tipo di veleno utilizzato.

“Le armi del Paleolitico dotate di punte di pietra potrebbero non essere state sufficientemente letali da immobilizzare o uccidere un animale di grossa taglia come un cervo rosso. Le piante velenose erano abbondanti in passato e le popolazioni preistoriche conoscevano l’ambiente in cui vivevano, sapevano quali piante erano commestibili e il loro potenziale impiego come medicinali o veleni. Fabbricare veleno è facile ed economico e i rischi sono minimi. In aggiunta, la fabbricazione del veleno diventa speso parte della tradizione e dei rituali di caccia”.

L’ipotesi di Borgia sembra essere supportata da diversi artefatti provenienti da tutto il mondo, come punte di freccia africane risalenti a circa 13.000 anni fa. Sebbene non sia stato possibile rilevare tracce di veleno su questi reperti, la forma delle punte e la presenza di resti carbonizzati di alcune piante tossiche  suggerirebbero che i veleni vegetali fossero impiegati comunemente nella caccia verso la fine del Pleistocene.

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Cacciatori di miele allucinogeno (documentario) https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/ https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/#respond Wed, 18 Oct 2017 02:00:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=704 Le graianotossine sono un gruppo di tossine prodotte da rododendri e azalee, piante diffuse in Europa, Asia e America che hanno acquisito nella storia la fama di piante meravigliose ma dal nettare potenzialmente molto tossico.

Il miele prodotto da api che raccolgono nettare da queste piante, infatti, è noto fin dall’antichità per essere tossico e allucinogeno, anche se consumato in piccole quantità.

A citare il miele tossico di rododendro sono Senofonte, Aristotele, Strabone e Plinio il Vecchio: proprio quest’ultimo racconta un episodio, citato più tardi anche da Strabone, che vede l’impiego del miele di rododendro in battaglia.

Nel 69 a.C. le truppe romane di Pompeo si trovavano a combattere in Turchia e furono le tra le prime vittime storiche di un’arma biologica: la milizia nemica disseminò il percorso di marcia dei Romani di alveari selezionati appositamente per la loro vicinanza alle piante di rododendro locali; le truppe di Roma, sfruttando ogni occasione per ingerire calorie preziose, fecero incetta del miele avvelenato mostrando in seguito i sintomi tipici dell’avvelenamento (come gli stati allucinatori tipici del miele di rododendro) e perdendo la battaglia contro il nemico.

I sintomi di avvelenamento da miele di rododendro sono salivazione, sudorazione abbondante, confusione, debolezza e vomito (come vedrete nel documentario), mentre una dose eccessiva può provocare allucinazioni che possono durare anche per 24 ore.

Al giorno d’oggi gli apicoltori conoscono bene quali piante sono adatte al prelievo di nettare da parte delle loro api e quali invece possono rappresentare un rischio per la produzione di miele. In Nepal, tuttavia, la tribù Gurung che vive isolata tra le montagne del Paese è probabilmente l’unica sopravvissuta fino ad oggi ad aver trovato un impiego medicinale per il miele allucinogeno di rododendro.

Conosciuto come “miele pazzo”, questo tipo di miele viene prodotto dalla specie di ape selvatica più grande del mondo (Apis dorsata laboriosa, fino a 3 centimetri di lunghezza) che tende a nidificare sulla cima di una collina che gli abitanti del villaggio scalano ogni anno per raccogliere qualche chilogrammo di prezioso miele allucinogeno.

La raccolta di questo miele non è priva di rischi: l’arrampicata e la raccolta avvengono utilizzando corde di radici e scale di bambù (oltre all’immancabile machete) e il rischio di una caduta rovinosa da una dozzina di metri d’altezza è sempre dietro l’angolo.

Perché tutta questa fatica e un rischio così grande per raccogliere miele tossico? Per i Gurung, l’assunzione quotidiana di una dose minima di miele di rododendro causa un leggero e piacevole senso di inebriamento e rafforzerebbe il sistema immunitario.

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Punture di insetti, le più dolorose https://www.vitantica.net/2017/09/06/punture-di-insetti-le-piu-dolorose/ https://www.vitantica.net/2017/09/06/punture-di-insetti-le-piu-dolorose/#respond Wed, 06 Sep 2017 18:36:15 +0000 https://www.vitantica.net/?p=138 Lo Schmidt Sting Pain Index è una scala numerica che categorizza il dolore provocato dalla puntura di insetti, dai più comuni ai più rari e temibili.

Questa scala è stata messa a punto da Justin O. Schmidt, un entomologo del Carl Hayden Bee Research Center. Grazie al suo lavoro, che per forza di cose lo porta al contatto ravvicinato con una moltitudine di insetti come api, vespe e calabroni, Schmidt ha collezionato negli anni una serie di dolorose punture che lo hanno indotto a creare la scala di dolore che porta il suo nome.

All’atto della sua pubblicazione nel 1983, il Pain Index non era altro che un resoconto dettagliato delle proprietà emolitiche del veleno di alcuni insetti: partiva da 0 (nessun effetto sull’essere umano) fino a raggiungere il numero 4, numero che rappresenta il dolore totale, quasi indescrivibile ed estremamente difficile da sopportare.

Scala del dolore delle punture di insetto di Schmidt
Scala del dolore delle punture di insetto di Schmidt

Successivamente la scala è stata modificata e corretta, diventando la moderna classifica del dolore causato dalle punture di insetti; ad oggi contiene i resoconti sulle punture di ben 78 specie di api, vespe, calabroni e formiche. Il valore medio è 2, valore che indica il dolore provocato dalla puntura di un’ ape o di una vespa.

Qui sotto riporto una versione parziale dello Schmidt Sting Pain Index, partendo da insetti relativamente comuni e innocui per finire con le punture più dolorose mai sperimentate dall’essere umano.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.0 – Ape del sudore

Nome comune che viene dato a tutte quelle api che sono attratte dalla salinità del sudore umano. In particolare ci si riferisce ad una famiglia di api, le Halictidae, che vive in molte regioni del mondo. La puntura di questa ape è quasi del tutto indolore, anche perché spesso non riesce a bucare la pelle umana.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.2 – Formica di fuoco

Una specie di formiche (Solenopsis invicta) in grado di iniettare veleno e di causare dolore lieve e irritazione. Il grosso problema con queste formiche non è il dolore che provocano le loro punture, ma il fatto che attacchino in massa, lasciando segni su tutto il corpo in grado di infettarsi.

Le Solenopsis invicta sono considerate tra le 100 specie invasive più dannose del mondo e possono distruggere intere piantagioni in brevissimo tempo costruendo formicai in corrispondenza delle radici delle piante.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.8 – Formica dell’acacia (Pseudomyrmex ferrugineus)

Vive su un’acacia nativa del Messico (Acacia cornigera), chiamata “corna di toro” per alcune escrescenze che crescono alla base del fogliame. Questo albero vive in simbiosi con la Pseudomyrmex ferrugineus, una formica che attacca qualunque cosa possa minacciare la pianta utilizzando un pungiglione decisamente doloroso. La puntura di questa formica causa una sensazione descritta da Schmidt “come se qualcuno ti avesse sparato un punto chirurgico sulla guancia”.

Nella medicina tradizionale Maya, le formiche dell’acacia sono impiegate per curare la depressione facendosi pungere diverse volte in corrispondenza di una vena, generalmente nell’incavo del gomito.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 2.0 – YellowJacket

Vespa appartenente ad un genere chiamato “yellojackets” (Dolichovespula maculata) e che vive in Nord America. Si tratta di vespe che difendono aggressivamente il proprio nido: se un essere umano si avvicina troppo (situazione relativamente comune, dato che costruiscono spesso il nido in prossimità delle abitazioni umane), attaccano con forza pungendo ripetutamente.

Queste vespe sono anche capaci di spruzzare veleno dal pungiglione, spesso puntando agli occhi dell’aggressore per causare cecità temporanea e un’abbondante lacrimazione. Secondo Schmidt, la puntura di questa vespa “è come farsi chiudere una mano in mezzo ad una porta” o “farsi spegnere un sigaro sulla lingua”.

miele e api

Scala del Dolore: 2.x – Ape del miele

Al livello 2 della Scala di Dolore si trovano l’ape del miele, l’ape africanizzata e il calabrone. Se le api europee tendono a difendersi non appena la colonia viene attaccata, quelle africanizzate attaccano con maggiore aggressività e in massa.

Il veleno delle api africanizzate non è più potente di quello delle api europee, ma viene inoculato in dosi maggiore perché l’insetto attacca in gran numero. Il dolore di una puntura d’ape o di calabrone viene descritto da Schmidt come “un fiammifero acceso che brucia la pelle”.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 3.0 – Formica rossa raccoglitrice

La Pogonomyrmex barbatus è una formica del Nord America che raccoglie e accula semi. E’ una specie estremamente aggressiva che attacca non appena ha la sensazione che la colonia sia minacciata. La sua puntura è molto dolorosa e può causare reazioni allergiche: l’effetto del veleno si estende al sistema linfatico.

Può anche mordere ferocemente con le sue potenti mascelle. Il dolore viene descritto da Schmidt “come se qualcuno usasse un trapano per scavare l’unghia dell’alluce”.

punture dolorose di insetti

Scala del Dolore: 3.0 – Formica velluto

In realtà non è una formica, ma una vespa il cui aspetto ricorda una formica ricoperta da fitta peluria. Si sono guadagnate il nome di “ammazza mucche”, ma la tossicità del loro veleno è inferiore a quella di un’ape del miele, anche se provoca un dolore acuto.

Le femmine di queste vespe, in particolare quelle della specie Dasymultila klugii, sono prive di ali ma armate di un pungiglione in grado di causare una puntura dolorosissima che provoca dolore per circa 30 minuti.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 4.0 – Tarantula Hawk (vespe parassite dei generi Pepsis e Hemipepsis)

Vespa che caccia tarantole per darle in pasto alle sue larve. Con il suo pungiglione lungo ben 7 millimetri cattura e paralizza le tarantole, per poi trascinarle nel nido. Con l’essere umano non è aggressiva, a meno che non si senta minacciata.

Quando punge, tuttavia, il dolore è uno dei più acuti dell’intero mondo degli insetti. Il dolore persiste per 3 minuti circa e viene descritto come “immediato, lancinante dolore che semplicemente non ti rende in grado di fare qualunque cosa, eccetto gridare. La disciplina mentale non funziona in queste situazioni”.

formica proiettile

Scala del Dolore: 4.x – Formica Proiettile

Ecco l’insetto più doloroso in assoluto. Si trova addirittura fuori scala, il dolore che provoca la sua puntura è ai limiti della tollerabilità (leggi questo post sulla formica proiettile). Si chiama “formica proiettile” proprio per il fatto che il dolore provocato dal suo pungiglione sembra sia paragonabile a quello provocato da un proiettile sparato da una pistola di grosso calibro. Viene anche chiamata “formica 24 ore” per la durata del dolore dopo la puntura, 24 ore appunto.

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Scolopendra heros
Scala del Dolore: 4.x – Centopiedi del deserto (Scolopendra heros)

La scolopendra del deserto (Scolopendra heros), o centopiedi gigante dalla testa rossa, è un insetti nativo delle regioni meridionali degli Stati Uniti ed è il più grande centopiedi del continente nordamericano.

Possiede dalle 21 alle 23 paia di zampe e può raggiungere la lunghezza di 20 centimetri. Il veleno della scolopendra del deserto è più potente di quello degli altri centopiedi, una tossina che risulta estremamente dolorosa per i vertebrati ma che non sembra essere letale per gli esseri umani.

La potenza del veleno di un centopiedi del deserto è stata messa alla prova dal naturalista Coyote Peterson; stando al video qui sotto, il dolore “supera di gran lunga tutti gli insetti che ho provato”.

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