insetti – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Terapia larvale: larve di mosca per la pulizia delle ferite https://www.vitantica.net/2019/07/10/terapia-larvale-larve-mosca-ferite/ https://www.vitantica.net/2019/07/10/terapia-larvale-larve-mosca-ferite/#comments Wed, 10 Jul 2019 11:10:13 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4407 In condizioni di sopravvivenza è spesso necessario fare tutto ciò che serve per salvarsi la vita, anche a costo di dover essere costretti a superare le nostre paure più profonde o un senso di disgusto considerato intollerabile dalla maggior parte di noi.

Nel post dedicato a Hugh Glass viene descritto un metodo di disinfezione e pulizia di una ferita aperta che moltissime persone rifiuterebbero senza la minima riflessione, anche in condizioni estreme: lasciare che le larve di mosca si nutrano della propria carne.

Quando è realmente efficace questo sistema di pulizia delle ferite? E’ davvero applicabile in condizioni di estrema necessità?

Breve storia della terapia larvale

Le larve di mosca sono state utilizzate in passato come efficace trattamento di disinfezione delle ferite: i Maya le utilizzavano comunemente per eliminare sporcizia e tessuti necrotici, e gli aborigeni australiani prevedono ancora questo trattamento nel loro complesso di medicina tradizionale.

Le ricerche antropologiche sulla medicina maya hanno ipotizzato che le ferite aperte venissero medicate tramite l’utilizzo di garze imbevute di sangue animale lasciate esposte al sole per favorire la deposizione di larve di mosca. Una volta applicati i bendaggi sulle lesioni, le uova si sarebbero schiuse dando modo alle larve di nutrirsi del tessuto necrotico.

Durante il Rinascimento, molti chirurghi militari si resero conto che le ferite invase dalle larve di mosca tendevano a causare meno complicazioni e ad essere meno fatali rispetto a quelle trattate soltanto secondo la scienza medica del tempo.

Ambroise Paré (1510–1590) fu il primo medico ad annotare gli effetti benefici delle larve di mosca all’interno di tessuti in stato di necrosi, anche se inizialmente le sue osservazioni si concentrarono sull’azione distruttiva delle larve. Dopo aver notato che alcuni pazienti traevano benefici dall’azione delle larve di mosca, divenne pratica comune di Paré lasciare che le larve si nutrissero dei tessuti morti per favorire il recupero dei pazienti.

Il barone Dominique Larrey, chirurgo francese al seguito di Napoleone, durante la campagna in Siria tra il 1798 e il 1801, osservò che alcune specie di larve di mosca consumavano esclusivamente solo i tessuti necrotici e contribuivano a mantenere pulite le ferite e a favorire il processo di guarigione.

La prima vera e propria terapia larvale documentata fu utilizzata dall’ufficiale medico John Forney Zacharias durante la Guerra civile americana. Il medico riportò nel suo diario che “In un solo giorno possono pulire una ferita molto meglio di ogni altro metodo a nostra disposizione…sono sicuro di aver salvato molte vite con il loro utilizzo, evitato la setticemia e favorito un recupero rapido”.

Quali larve di mosca?
Mosca verde (Lucilia sericata). Pete Hillman
Mosca verde (Lucilia sericata). Pete Hillman

Solo alcune larve appartenenti a specie che si nutrono di animali morti (come la Lucilia sericata, la mosca verde) sono indicate per la terapia larvale. Essendo una specie molto comune, la Lucilia sericata è probabilmente la larva più impiegata, ma le larve di Protophormia terraenovae creano delle secrezioni in grado di combattere infezioni di Streptococcus pyogenes e S. pneumoniae.

Le larve di mosca verde sono biancastre, di forma conica, e dotate di doppi uncini boccali che usano per cibarsi. Dopo essere uscite dalle loro uova, trovano un cadavere pronto ad essere sfruttato e attaccano gli strati più nutrienti del corpo ammorbidendoli tramite la secrezione di enzimi digestivi.

Le larve usano un procedimento noto come “digestione extracorporea”: producono enzimi in grado di liquefare il tessuto necrotico, che verrà succcessivamente assorbito tramite il loro apparato boccale. Nell’arco del loro periodo di attività, le larve passano da 1-2 millimetri di lunghezza a 8-10 millimetri, aumentando anche la circonferenza del loro corpo.

Nel caso non fosse disponibile un punto d’ingresso alla carcassa, una una ferita o un’ulcerazione, le larve iniziano a secernere i loro succhi digestivi in un unico punto, favorendo la degradazione della pelle e praticando una lacerazione che consentirà loro di accedere agli strati più nutrienti del cadavere.

Quando e come praticare la terapia larvale

L’uso di larve è indicato in presenza di ferite umide: le lacerazioni secche o non molto ossigenate non costituiscono un buon ambiente di sviluppo delle larve. In alcuni casi è possibile creare un ecosistema gradevole per le larve di mosca inumidendo la ferita con un impacco di acqua salata per 48 ore.

Le larve di mosca svolgono principalmente quattro funzioni: ripuliscono la ferita da tessuto necrotico e da impurità organiche, disinfettano la ferita, stimolano la guarigione e limitano la produzione di biofilm che favoriscono la crescita di batteri potenzialmente nocivi.

Un sufficiente numero di larve è in grado di ripulire una ferita molto più precisamente della pulizia chirurgica, impiegando solo un giorno o due per svolgere il loro lavoro. Nell’arco di 48-72 ore le larve di mosca lasciano una ferita sostanzialmente pulita e priva di tessuto necrotico.

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Il monitoraggio di ferite trattate secondo metodi tradizionali o tramite terapia larvale ha mostrato inoltre che le larve di mosca possono ripulire completamente un’ulcerazione vasta e profonda in meno di 14 giorni, mentre le terapie tradizionali non riuscivano a rimuovere circa la metà del tessuto necrotico.

Gli studi clinici e in vitro hanno infine dimostrato che le larve di mosca inibiscono la crescita o distruggono alcuni batteri patogeni resistenti alla meticillina, ma risultano inefficaci contro i batteri Pseudomonas aeruginosa e E. coli.

Mechanisms of Maggot-Induced Wound Healing: What Do We Know, and Where Do We Go from Here?

Larval therapy from antiquity to the present day: mechanisms of action, clinical applications and future potential

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La zecca, il parassita per eccellenza https://www.vitantica.net/2018/07/11/la-zecca/ https://www.vitantica.net/2018/07/11/la-zecca/#respond Wed, 11 Jul 2018 02:00:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1889 Stare immersi nella natura comporta innegabili vantaggi per il corpo e per la mente: migliora l’umore, acuisce i sensi e dona un benessere psicofisico spesso sottovalutato dagli stili di vita moderni. Ma ogni ecosistema comporta rischi: piante velenose o irritanti, funghi letali e animali che possono mettere fine alle nostre sofferenze.

Gli animali più grandi, come tigri, lupi o orsi, costituiscono un pericolo concreto in determinate circostanze; spesso tuttavia sono gli animali più piccoli a comportare il rischio maggiore: ad esempio, le malattie trasmesse dalle zanzare uccidono ogni anno milioni di persone, una cifra ben superiore alla somma delle vittime causate da tutti i mammiferi, rettili e pesci conosciuti.

Ci sono poi animaletti e parassiti che nessuno di noi vuole conoscere per via dell’innata repulsione che suscitano a causa del loro aspetto o dei loro comportamenti istintivi.

Un parassita onnipresente

La zecca è uno degli animali che molti di noi preferirebbero non conoscere mai: ha un aspetto orribile, succhia sangue per sopravvivere e può trasmettere malattie potenzialmente fatali; ma se vogliamo accettare la natura nel suo insieme, dobbiamo anche accettare che la zecca sia parte di moltissimi ecosistemi e che, se visitiamo questi ecosistemi, prima o poi le zecche visiteranno noi.

La zecca è un aracnide parassita rimasto sostanzialmente invariato dal Cretaceo e diffuso su tutto il pianeta, specialmente in ambienti caldi e umidi. Esistono sostanzialmente due tipi di zecche: dure (famiglia Ixodidae, dal carapace resistente e dall’apparato boccale a rostro) o molli (famiglia Argasidae, prive di protezione dura per gli organi interni e con la bocca sul ventre).

Specie comuni di zecche Ixodidae
Tre delle specie comuni di zecche Ixodidae

Le zecche non fanno distinzione tra ospiti, siano essi mammiferi, uccelli, rettili o anfibi. Questo loro adattamento a quasi qualunque specie animale ha consentito alla zecca di popolare ogni fascia climatica, ad eccezione di quelle polari, seguendo gli spostamenti dei suoi ospiti.

Il ciclo vitale delle zecche

Per sostenere le zecche un ecosistema deve possedere due caratteristiche fondamentali: abbastanza popolazione animale da parassitare e umidità sufficiente da indurre la fase di metamorfosi verso la forma adulta e mantenere idratato il corpo di questi parassiti.

La zecca attraversa quattro stadi di crescita (uovo, larva, ninfa e adulto) e ogni passaggio di stadio richiede almeno un pasto a base di sangue. Le larve di zecca nascono con sei zampe, acquisendo un’altra coppia di arti dopo il primo pasto a base di sangue e passando alla fase di ninfa.

Ogni zampa è dotata di uncini e di un organo sensoriale unico, l’organo di Haller, capace di rilevare gli odori e i segnali chimici degli ospiti preferiti e avvertire cambiamenti di temperatura e correnti atmosferiche. Una ricerca condotta nel 2017 ha inoltre dimostrato che l’organo di Haller delle zecche consente alle zecche di percepire la luce infrarossa.

Con il passare delle settimane, il corpo di una zecca “dura” si indurisce nell’area dorsale mentre quello di una zecca “molle” tende a diventare più spesso, simile a cuoio sottile. A questo punto, la zecca adulta è pronta a fare quello per cui si è evoluta negli ultimi 120 milioni di anni: cibarsi di sangue senza sosta.

Come le zecche si attaccano agli ospiti

Le zecche non possono volare o saltare, ma hanno escogitato un sistema semplice ed efficiente per attaccarsi ai loro ospiti. Dopo aver rilevato la presenza di animali nelle vicinanze, si avvicinano il più possibile e attendono su foglie o erba aggrappandosi solo con le quattro zampe posteriori e protendendo in avanti quelle anteriori, nella speranza di poter rimanere impigliate nella peluria o di potersi attivamente aggrappare alla pelle dell’obiettivo.

Alcune zecche si attaccano rapidamente sulla pelle dell’animale-bersaglio mentre altre cercano zone di pelle più sottile: le operazioni di ricerca del punto più adatto al prelievo di sangue possono durare da 10 minuti a 2 ore.

Una volta localizzato il punto d’ingresso, la zecca inserisce il suo rostro e inizia a cibarsi, emettendo continuamente una sostanza anticoagulante per mantenere fluido il sangue.

Dimensioni di una zecca prima e dopo il pasto
Dimensioni di una zecca Ixodidae prima e dopo il pasto

Nelle Ixodidae (dure), il pasto dura fino a quando la zecca non è completamente piena: il suo peso può aumentare dalle 200 alle 600 volte rispetto a peso a “stomaco vuoto”. Per poter sopportare questa espansione smisurata del corpo, l’organismo della zecca cresce a livello cellulare durante un pasto, che può durare giorni o intere settimane. Nelle zecche molli (Argasidae) questo non si verifica e il loro peso aumenta da 5 a 10 volte.

Per raggiungere l’età adulta e la fase riproduttiva, una zecca Ixodidae ha bisogno di almeno tre ospiti e circa un anno di tempo. Dopo l’accoppiamento la femmina può deporre fino a 3.000 uova e non appena queste si schiudono le larve sono pronte a cibarsi di piccoli mammiferi o uccelli. Le Argasidae sono meno prolifiche (circa 300-1000 uova) ma si cibano più velocemente e più di frequente per superare le varie fasi dello sviluppo.

Malattie trasmesse dalle zecche

Il quadro dipinto fino ad ora è questo: in qualunque ambiente umido del pianeta si nasconde nell’erba e nel fogliame un piccolo aracnide affamato di sangue in attesa del passaggio di qualunque cosa respiri. E’ vero, la zecca si è evoluta per specializzarsi nel parassitismo e svolge il suo lavoro così bene che avere a che fare con animali selvatici (e spesso anche domestici) comporta sempre un faccia a faccia con almeno una zecca.

Ma il vero pericolo rappresentato dalle zecche è la trasmissione di malattie: la puntura di una zecca è sostanzialmente indolore e non pericolosa, ma questo parassita è il veicolo preferito di molte specie di batteri, virus e protozoi, alcuni innocui per l’essere umano mentre altri potenzialmente pericolosi.

Le specie di batteri del genere Rickettsia, ad esempio, sono responsabili del tifo da zecca, della febbre di Boutonneuse, della febbre africana da zecca, la febbre maculosa e la rickettsiosi, malattie solitamente trattate con antibiotici come le tetracicline. Un protozoo spesso presente nelle zecche può invece trasmettere la piroplasmosi, una malattia abbastanza rara nell’essere umano che causa ittero e febbre.

La malattia di Lyme è forse la più conosciuta tra le patologie trasmesse dalle zecche. La borreliosi (altro nome con cui è conosciuta la malattia di Lyme) è causata da batteri del genere Borrelia e inizia spesso con un eritema migrante in prossimità della puntura (50-75% dei casi).

Dopo qualche giorno si sviluppano i primi sintomi che includono mal di testa, febbre e stanchezza; se non trattati, i sintomi degenerano nell’arco di mesi in dolori articolari, paralisi facciale parziale o totale, fitte dolorose agli arti e problemi di memoria.

Per trasmettere il batterio che causa la malattia di Lyme la zecca deve rimanere attaccata all’ospite umano per almeno 18-24 ore, anche se in determinate circostanze la diffusione dei Borrelia può richiedere molto meno tempo.

Il periodo in cui si verificano la maggior parte dei contagi è quello compreso tra la primavera e la prima estate, il momento in cui le zecche trovano sufficiente umidità e calore per iniziare il loro ciclo vitale. Ogni anno, nei mesi più favorevoli, circa 65.000 persone vengono colpite dalla malattia di Lyme in Europa (circa 300.000 negli Stati Uniti), ma secondo le statistiche solo l’ 1% delle punture di zecca ottiene una diagnosi di questa malattia

Esiste infine una zecca nordamericana, la Amblyomma americanum (chiamata comunemente “zecca stella solitaria” o “zecca del tacchino”), che trasmette l’ “allergia alpha-gal”, una malattia che causa una violenta reazione allergica nei primati (uomo compreso) non appena inizia la digestione intestinale di carne bovina, suina o ovina. Il consumo di pollame o pesce invece non causa alcun problema, ma l’allergia ai quadrupedi commestibili può durare per oltre 20 anni e non esiste alcuna cura per questa condizione.

Prevenzione e rimozione di una zecca
Rimozione di una zecca: Centro Antinsetti - città Metropolitana di cagliari
Rimozione di una zecca: Centro Antinsetti – città Metropolitana di cagliari

I consigli più comuni per evitare di diventare il bersaglio preferito di ogni zecca in circolazione sono questi:

  • Indossare abiti chiari per facilitare la localizzazione di potenziali zecche, con pantaloni lunghi;
  • Evitare l’erba alta o l’erba lungo i margini dei sentieri;
  • Le zecche prediligono i percorsi battuti dai loro ospiti, evitare quindi di seguire lo stesso tragitto degli animali;
  • Verificare a intervalli regolari la presenza di zecche sul corpo, specialmente sulla testa, collo, gambe e fianchi;
  • Usare repellenti a base di dietiltoluamide e permetrina.

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La rimozione di una zecca, una volta individuato il punto d’attacco, deve essere immediata. La possibilità che il parassita trasmetta qualche malattia aumenta col passare del tempo: ogni qualche ora, la zecca rigurgita una porzione del suo pasto, iniettando nel flusso sanguigno i patogeni che ospita.

  • Non utilizzare mai alcol, acetone, trielina, ammoniaca, benzina, oggetti arroventati, fiammiferi o sigarette. Il dolore causato da bruciature chimiche o dalla fiamma potrebbe forzare il rigurgito del pasto e aumentare il rischio di inoculazione di patogeni;
  • Disinfettare prima e dopo l’estrazione e seguire una profilassi antitetanica;
  • La zecca deve essere afferrata con pinze sottili in prossimità della testa: l’obiettivo è quello di evitare che anche solo parte del rostro possa rimanere all’interno dell’incisione. Con un piccolo movimento rotatorio, tentare di estrarre la zecca avendo cura di non causare compressioni del corpo o causare troppo stress al parassita;
  • Se il rostro rimane nella cute, cosa abbastanza comune, deve essere estratto con pinzette o un ago sterile;
  • Evitare di toccare la zecca a mani nude e bruciarla dopo la rimozione.

Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità
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La zanzara e la malaria https://www.vitantica.net/2018/04/24/zanzara/ https://www.vitantica.net/2018/04/24/zanzara/#comments Tue, 24 Apr 2018 02:00:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=42 Pensando ad una vita a totale contatto con la natura, come quella condotta dai nostri antenati preistorici, viene in mente una vasta gamma di pericoli generalmente rappresentati da predatori ben identificabili o dall’aspetto terrificante come serpenti, lupi, orsi o alligatori. Ma gli animali più pericolosi spesso sono minuscoli, se non addirittura invisibili.

Tra questi killer invisibili c’è la zanzara, un insetto dall’incredibile successo ecologico rimasto sostanzialmente immutato per 80 milioni di anni e che si è diffuso in qualunque continente ad eccezione dell’Antartide.

In epoca moderna le zanzare causano tra i 300 e i 500 milioni di casi di malaria e quasi 3 milioni di morti ogni anno, rappresentando un rischio concreto di contrarre svariate malattie per il 40% della popolazione mondiale di oltre 90 Paesi.

In passato, la malaria era ancora più letale e l’impatto della malaria non può essere trascurato nella storia dell’ Homo sapiens: con l’inizio della rivoluzione neolitica la pressione evolutiva creata dalla malaria ebbe come conseguenza la selezione naturale per mutazioni resistenti al plasmodio (come la talassemia e l’anemia falciforme), mutazioni ormai ben diffuse e radicate nel Mediterraneo già 2.000 anni fa.

Il ciclo vitale della zanzara

Il ciclo vitale delle zanzare inizia con la deposizione di 100-200 uova da parte di un esemplare femmina; ogni uovo creerà una larva che raggiungerà la fase adulta nell’arco di circa 40 giorni. Le larve di zanzara trascorrono la maggior parte del loro tempo a nutrirsi di alghe e batteri, interrompendo la caccia solo per riaffiorare in superficie per una boccata d’ossigeno.

Larve di zanzara
Larve di zanzara

Dopo la metamorfosi in pupa, la zanzara perde totalmente il suo appetito ma mantiene la necessità di riaffiorare per respirare; generalmente sosta in prossimità della superficie per immergersi soltanto se si sente minacciata. Dopo qualche giorno, la pupa emerge in superficie, la schiena si apre e la zanzara adulta è libera di librarsi in volo.

Femmine affamate di sangue

I maschi di zanzara si nutrono principalmente di nettare e zuccheri durante i loro 5-7 giorni di vita per prepararsi alla formazione di un grosso sciame dentro il quale si accoppieranno con le femmine; queste, una volta fecondate, andranno in cerca di un pasto completo a base si sangue o zuccheri per produrre e far sviluppare completamente le uova fecondate dal maschio.

Dopo un pasto corposo, le femmine smettono di nutrirsi per qualche giorno e dedicano tutte le loro energie allo sviluppo delle uova; dopo aver deposto la prole, il ciclo di fecondazione, alimentazione e deposizione di uova si ripete fino alla morte della zanzara.

Le femmine di zanzara prediligono “donatori” di sangue di tipo “Zero” o mammiferi che emettono grandi quantità di calore corporeo o anidride carbonica dalla respirazione. Dei suoi 72 recettori di odori presenti nelle antenne, almeno 27 sono esclusivamente dedicati alla percezione dei sottoprodotti della traspirazione della pelle.

Le zanzare tuttavia sono molto adattabili: prelevano sangue da qualunque preda riescano a trovare, sia esso un mammifero, un rettile, un uccello o un altro insetto.

Zanzare si nutrono di un bruco: Penn State entomology
Zanzare si nutrono di un bruco: Penn State entomology

Durante il prelievo di sangue, le zanzare iniettano la loro saliva all’interno della preda: la saliva agisce da anticoagulante per evitare che la proboscide della zanzara rimanga incastrata o venga otturata da un un grumo di sangue.

E’ durante questa iniezione di liquido anticoagulante che la zanzara trasmette microrganismi patogeni all’interno dell’ospite. La saliva è anche responsabile per la sensazione di prurito scatenata dalla risposta alla puntura di zanzara da parte del sistema immunitario.

Zanzara che si nutre di sangue. Foto di Jena Johnson
Zanzara che si nutre di sangue. Foto di Jena Johnson
Come si proteggevano dalle zanzare i nostri antenati?

In base alla loro distribuzione geografica, alcune specie di zanzara possono trasmettere queste malattie:

  • Malattie virali come la febbre gialla, la dengue e la chikunguya, trasmesse principalmente dalla zanzara Aedes aegypti.
  • Malaria, causata da diverse specie di Plasmodium e trasmessa dalle zanzare del genere Anophele.
  • Zika, che causa febbre, dolori articolari e congiuntiviti, fino a microcefalia nel feto se contratta durante la gravidanza.

Come veniva affrontata nell’antichità la minaccia delle zanzare? Con buon senso e repellenti naturali, se escludiamo le innumerevoli idee assurde che i nostri antenati elaborarono per affrontare le malattie che li affliggevano.

Uno dei primi espedienti, scoperto ed utilizzato probabilmente da prima del Neolitico, fu l’utilizzo di uno spesso strato di fango o argilla cosparso sul corpo: il fango forma una barriera quasi impenetrabile per la proboscide delle zanzare ma tende a seccarsi e a cadere. Non è inoltre indicato nel caso si avessero ferite aperte da mantenere pulite per evitare infezioni.

Il buon senso diceva anche di tenersi lontani da qualunque pozza di acqua stagnante : in epoca medievale si riteneva che gli antichi Romani avessero scoperto che la malaria veniva trasmessa dai terribili miasmi emessi dalle acquitrini durante la decomposizione della materia organica, una spiegazione basata sull’osservazione dei casi di “febbre di palude” che si scatenavano più o meno regolarmente in tutta Europa.

Anche se il concetto di miasma malarico è stato del tutto superato dalla scienza moderna, si basava su fatti reali: le femmine di zanzare depositano le loro uova nell’acqua stagnante, sia essa una pozzanghera o una palude, e una volta raggiunta l’età adulta tenderanno a stazionare nei pressi dell’acqua in attesa del primo banchetto a sangue caldo.

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Un metodo efficace per tenere alla larga la maggior parte delle zanzare è quello del fumo: gettare legna umida sul fuoco da campo produrrà una colonna di fumo che terrà lontane le zanzare. L’effetto repellente del fumo aumenta se si utilizzano escrementi secchi di erbivori come combustibile.

Piante utili come repellenti per zanzare

L’Achillea millefoglie, una pianta che cresce spontaneamente in tutto l’emisfero boreale, può essere usata sia come repellente per zanzare sia come trattamento per ferite infette. Per utilizzarla come repellente, occorre bruciare le foglie o i fiori freschi o secchi sul fuoco; ridurre i fiori in poltiglia, invece, per creare una “pasta” cicatrizzante.

Achillea millefoglie
Achillea millefoglie: Herb Rally

Consumare aglio contribuisce ad allontanare le zanzare. L’odore corporeo alterato dalla presenza dell’aglio, infatti, è repellente per le zanzare quanto lo è per gli esseri umani. L’aglio inoltre ha proprietà antibiotiche e antibatteriche preziosissime che tornano sempre utili anche nel caso delle minuscole incisioni provocate dalle zanzare.

Un ultimo metodo in grado di ridurre il numero di punture di zanzare è quello di cospargere il corpo di grasso o olio. Queste due sostanze tendono a rendere più difficile la penetrazione del rostro della zanzare nella pelle del loro bersaglio e ad intasare la proboscide impedendo la suzione del sangue.

Anche se non è utile come repellente per zanzare, il chinino (in lingua Quechua il termine quina indica la “corteccia sacra” dell’albero della china) è invece un efficace rimedio contro la malaria introdotto dai gesuiti in Europa durante il XVII secolo.

Le prime bacche dell’ albero della china (genere Cinchona) arrivarono dal Perù in Spagna nel 1632, anche se la prima descrizione dell’effetto della corteccia dell’albero della china è più antica di almeno 50 anni.

Gli indiani Quechua usavano la corteccia degli alberi del genere Cinchona per creare un tonico in grado di curare la diarrea, uno dei principali effetti dell’infezione da plasmodio e causa di disidratazione potenzialmente fatale negli affetti da malaria.

Durante il XVII secolo la corteccia di cinchona, chiamata anche chinino, pulvis gesuiticus o corteccia peruviana, divenne una delle merci più pregiate prodotte in Sud America e destinate al mercato europeo.

Post inizialmente scritto il 9 settembre 2017 e modificato il 22 aprile 2018

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Insetti, il supercibo dei primati (uomo incluso) https://www.vitantica.net/2018/01/26/insetti-supercibo-primati-uomo/ https://www.vitantica.net/2018/01/26/insetti-supercibo-primati-uomo/#respond Fri, 26 Jan 2018 20:00:54 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1308 Negli ultimi anni si sta assistendo ad un’importante rivalutazione del contributo che gli insetti possono dare alla nostra dieta quotidiana: ricchi di proteine, grassi e minerali essenziali, gli insetti sembrano rappresentare una validissima fonte di energia.

Molti di noi tuttavia devono ancora superare l’ “effetto disgusto” che questi invertebrati suscitano nella maggior parte della popolazione dei Paesi occidentali: l’ entomofagia spaventa ancora moltissime persone ormai abituate a rifornirsi di proteine da fonti meno insolite per un occidentale, come vertebrati o piante.

Le Americhe e l’Europa si sono ormai distaccate da secoli, se non da millenni, da un’alimentazione ricca di nutrienti provenienti dagli insetti, ma in molti Paesi orientali questi animali sono una fonte alimentare del tutto normale; lo stesso valeva per i nostri antenati cacciatori-raccoglitori e gli ominidi che li hanno preceduti.

Insetti come alimento: nutrienti e abbondanti

Prima della selezione artificiale degli animali da carne, l’essere umano non era particolarmente schizzinoso sul tipo di cibo che assumeva. Ottenere carne fresca tramite la caccia non era affatto semplice e metteva a serio rischio molti membri della comunità; gli insetti rappresentavano invece una fonte alimentare ad alto valore nutrizionale, erano disponibili quasi tutto l’anno e spesso così abbondanti da poter generare surplus alimentari.

L’analisi dei coproliti (escrementi fossili) rinvenuti in alcuni siti archeologici preistorici dimostrerebbe che i nostri antenati mangiavano insetti molto spesso: formiche, larve di coleotteri e altri insetti, cavallette, termiti, pulci e zecche erano ingredienti comuni nella dieta degli abitanti di Altamira fino a circa 11.000 anni fa, mentre in Cina si iniziarono a coltivare bachi da seta a scopo alimentare nel 2.500 a.C.

Verme del bambù
Larve del bambù, consumati regolarmente in Thailandia e Laos

Alcune correnti di pensiero hanno suggerito in passato che l’essere umano abbia smesso di cibarsi di insetti a causa del crescente apprezzamento per i frutti della rivoluzione agricola e della difficoltà che avrebbe l’apparato digerente umano nel disgregare le parti dure di questi invertebrati, come l’esoscheletro.

La moderna sensazione di disgusto che molti sperimentano al solo pensiero di cibarsi di insetti, tipica del mondo occidentale, non sembra però essere legata a problemi nutrizionali, digestivi o evolutivi, come spiega un recente studio condotto da Mareike Janiak e pubblicato su Molecular Biology and Evolution.

“Per molto tempo l’idea prevalente era che i mammiferi non producessero un enzima capace di dissolvere gli esoscheletri degli insetti, che risultano quindi molto difficili da digerire” spiega Janiak. “Ora sappiamo che questa idea non vale per i pipistrelli, i topi e i primati”.

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Un enzima per digerire gli insetti

Secondo i risultati ottenuti da Janiak e dai suoi collaboratori della Ken State University, quasi tutte le specie di primati prese in esame (34) dispongono di almeno una versione di un gene (chiamato CHIA) capace di produrre un enzima che scioglie gli esoscheletri degli insetti, composti principalmente da chitina.

Molti primati moderni dispongono di una sola copia del gene CHIA, ma i loro predecessori ne possedevano almeno tre, probabilmente per far fronte ad una dieta ricca di invertebrati. Alcuni primati moderni come il tarsio, che si nutrono prevalentemente di insetti, hanno addirittura cinque copie del gene.

“Quando alcuni primati si sono evoluti per diventare più grandi e più attivi durante il giorno rispetto alla notte, le loro diete si sono spostate verso altri alimenti come frutta e foglie” spiega Janiak. “Gli insetti diventarono meno importanti e gli enzimi digestivi dei primati iniziarono a cambiare, ma molti dei primati viventi continuano ad avere almeno una copia del gene CHIA”.

“Sfortunatamente, molta della ricerca sugli esseri umani è stata condotta finora utilizzando partecipanti provenienti da culture occidentali invece di mettere a confronto persone provenienti da diverse culture e che si nutrono regolarmente di insetti. Ma per gli esseri umani, anche se non disponiamo dell’enzima, l’esoscheletro è più facile da masticare e digerire dopo aver cotto l’insetto”.

Valori nutrizionali di alcuni insetti
Valori nutrizionali di alcuni insetti

Mangiare insetti: pro e contro

Sul pianeta di contano oggi circa 2 miliardi di persone che si nutrono più o meno regolarmente di oltre 1.900 specie di insetti diverse. Scendendo più nel dettaglio, si tratta di ben 2.086 specie consumate da 3.071 gruppi etnici di 130 Paesi diversi, specialmente africani e asiatici.

Come spiegato nel post “Larve e insetti commestibili“, al mondo vengono consumati:

  • 235 specie e sottospecie di farfalle e falene (adulte o larve)
  • 344 coleotteri (adulti o larve)
  • 313 specie e sottospecie di formiche, api e vespe (adulte o larve)
  • 239 tra cavallette, grilli e scarafaggi (adulti o larve)
  • 39 specie di termiti
  • 20 specie e sottospecie di libellule (adulte o larve)

Un grosso vantaggio della produzione di insetti per uso alimentare è il ridotto consumo di acqua rispetto all’allevamento di bestiame tradizionale: produrre 150 grammi di carne dalle cavallette consuma ben poca acqua, ma per la stessa quantità di carne bovina sono necessari oltre 3.000 litri.

Gli insetti sono inoltre mediamente più veloci a crescere (dal 4 al 19% in più di massa corporea ogni giorno) contro la media dello 0,3% degli animali d’allevamento tradizionali.

Gli insetti costituiscono quindi una fonte di calorie virtualmente inesauribile e a basso impatto ambientale: secondo una ricerca condotta da The Economist, un bovino richiede circa 8 kg di mangime per produrre 1 kg di carne consumabile dall’essere umano, e solo il 40% dell’animale viene consumato; i grilli, invece, consumano 1,7 kg di mangime per ogni kg di proteine prodotte, e ben l’80% del loro corpo è commestibile.

L’uso di insetti come fonte alimentare presenta alcuni svantaggi: in primo luogo, possono essere facilmente aggrediti da muffe, sia da cotti che da crudi. La refrigerazione può prevenire il deperimento delle proteine ed evitare l’attacco da parte di microrganismi.

E’ sempre consigliabile consumare insetti dopo averli cotti, dato che molti possono ospitare patogeni anche letali. Le specie che frequentano assiduamente le colture umane possono anche accumulare pesticidi ed erbicidi pericolosi per il consumo umano.

Eating insects might seem yucky, but they are nutritious and there is no reason you can’t

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Larve e insetti commestibili https://www.vitantica.net/2017/12/01/larve-commestibili/ https://www.vitantica.net/2017/12/01/larve-commestibili/#respond Fri, 01 Dec 2017 02:00:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=998 Per quanto possa sembrare disgustoso ad un europeo o a un americano, gli insetti sono ancora oggi un’ importante fonte di proteine per milioni di persone, specialmente nel Sud-Est Asiatico, in Centro-Sud America e tra le popolazioni semi-primitive o non industrializzate.

Per millenni gli insetti, adulti o larve, hanno rappresentato una discreta porzione della dieta umana: sono relativamente semplici da raccogliere in gran numero e sono ricchi di nutrienti spesso difficili da ottenere con la caccia.

I nostri antenati preistorici erano ottimi opportunisti e di certo non si facevano sfuggire un facile pasto a base di insetti: i coproliti (feci fossili) trovate in molte località del mondo dimostrerebbero che la dieta del Paleolitico conteneva una buona percentuale di insetti come formiche, larve di coleotteri, pidocchi e termiti.

Le pitture rupestri di Altamira (30.000-9.000 a.C.), Spagna, testimoniano visivamente l’importanza della raccolta di insetti commestibili e di alveari selvatici tra le popolazioni primitive dell’epoca, e circa 5.000 anni fa era molto comune in Cina consumare bachi da seta e svariate specie di larve di coleotteri come principali fonti di proteine.

Una volta superato lo scoglio psicologico iniziale (più comune nei Paesi industrializzati occidentali che nel resto del mondo), chi approccia il mondo dell’ entomofagia si ritrova spesso sorpreso dai sapori e dalle consistenze degli insetti che assaggia.

Gli insetti commestibili

Attualmente tra gli insetti commestibili si contano (fonte: Wikipedia):

  • 235 specie e sottospecie di farfalle e falene (adulte o larve)
  • 344 coleotteri (adulti o larve)
  • 313 specie e sottospecie di formiche, api e vespe (adulte o larve)
  • 239 tra cavallette, grilli e scarafaggi (adulti o larve)
  • 39 specie di termiti
  • 20 specie e sottospecie di libellule (adulte o larve)

Tra le specie commestibili di insetti ci sono moltissime varietà di larve di coleotteri, farfalle, falene e altri insetti di svariate categorie tassonomiche che per millenni hanno rappresentato un’importante integrazione proteica nella dieta dei nostri antenati. Qui sotto riporto alcune delle larve commestibili più note o consumate nel mondo.

N.B. Alcuni insetti, sia morti che vivi, possono ospitare una vasta gamma di agenti patogeni, parassiti e pesticidi potenzialmente nocivi per l’organismo umano. Anche se alcuni insetti sono generalmente sicuri da mangiare anche crudi, è sempre preferibile cuocerli in qualunque modo disponibile, sia esso la bollitura, la tostatura o l’esposizione alla fiamma viva.

Verme mezcal

Larva spesso inserita nelle bottiglie di Mezcal. Si tratta in realtà di tre larve commestibili utilizzate per lo stesso scopo: la Comadia redtenbacheri, la larva di una falena messicana che infesta generalmente le foglie di agave, la Scyphophorus acupunctatus, un altro parassita dell’agave, e il bruco della farfalla Aegiale hesperiaris.

Larve di api

miele e api

Le larve delle api da miele europee (Apis mellifera) sono ottime fonti di proteine e carboidrati oltre a contenere fosforo, magnesio e potassio in quantità significative. In aggiunta, queste larve sono anche ricche di grassi e vitamine, sono facilmente ottenibili una volta localizzato un alveare e possono essere mangiate anche crude.

Generalmente, le larve di qualunque specie di ape sono commestibili, comprese quelle delle api carpentiere e dei calabroni, e chi le ha assaggiate descrive una consistenza interna gelatinosa e un gusto molto dolce simile al miele.

Scarabeo rinoceronte
Larva di scarabeo rinoceronte
Larva di scarabeo rinoceronte. Fonte: Biodiversity and Ecosystem Function in Tropical Agriculture

Gli scarabei rinoceronte sono una sottofamiglia degli scarabei che comprende oltre 300 specie conosciute, molte delle quali commestibili sia in fase adulta sia nello stadio larvale.

Sono spesso allevati in Asia come animali da compagnia e per il combattimento, ma sono noti da millenni per essere una ricca fonte di nutrienti: le larve sono composte per il 40% da proteine (contro il 20% della carne di pollo) e sono un’importante contributo calorico nella dieta di moltissimi Paesi del mondo ad esclusione di quelli industrializzati.

Le larve dello scarabeo rinoceronte europeo (Oryctes nasicornis) si nutrono di alberi morti e possono superare i 10 centimetri di lunghezza nell’arco di 2-4 anni di sviluppo.

Bruchi Psychidae

I bruchi appartenenti a questa famiglia di lepidotteri (farfalle e falene) sono talvolta commestibili, come il bruco chiamato “fangalabola” (Deborrea malgassa) originario del Madagascar. Le larve possono superare i 4 centimetri di lunghezza nelle specie tropicali e sono ricche di proteine e grassi.

Verme del bambù

Verme del bambù

Non si tratta tecnicamente di un verme ma della larva di una falena, la Omphisa fuscidentalis. Il verme del bambù cresce nelle foreste di bambù di Thailandia, Laos, Myanmar e Cina. Dopo l’accoppiamento, ogni falena depone dalle 80 alle 130 uova alla base di un germoglio di bambù; dalle uova usciranno larve entro 12 giorni e inizieranno a perforare un nodo del bambù creando un foro d’ingresso e uno d’uscita.

Entro tre giorni le larve diventano bianche e iniziano a risalire il bambù nutrendosi della polpa per circa 45-60 giorni, per poi tornare verso il foro d’uscita e iniziare un periodo di “letargo” della durata di 8 mesi.

Un verme del bambù può superare i 4 centimetri di lunghezza e il 26% del suo corpo è costituito da proteine (il 51% da grassi). In molti Paesi orientali è considerata una leccornia e possono essere mangiati fritti, cotti alla fiamma o crudi.

Punteruolo rosso della palma (Rhynchophorus ferrugineus)
Larve di punteruolo rosso
Larve di punteruolo rosso. Fonte: BugsFeed

Il temibile punteruolo rosso della palma, responsabile della morte di milioni di piante in tutto il mondo (Italia compresa), quando si trova allo stadio di larva è un insetto del tutto commestibile, considerato prelibato in Indonesia, Vietnam e Borneo. Nella dieta degli indigeni Iatmul della Papua Nuova Guinea, le larve di punteruolo coprono il 30% del fabbisogno proteico medio.

Il punteruolo depone le uova (da 50 a 500) all’interno delle palme utilizzando il rostro per asportare le fibre più tenere. Le larve sono estremamente voraci, raggiungono dimensioni ragguardevoli e possono scavare l’interno di una palma risalendo lungo tutta l’altezza dell’albero mentre ne divorano la polpa. Come i vermi del bambù, anche le larve di punteruolo della palma possono essere mangiate crude, tostate, cotte al vapore o fritte.

Tenebrione mugnaio (Tenebrio molitor)
Larva, pupa e tenebrione adulto
Larva, pupa e tenebrione adulto. Fonte: Il Naturalista

Il tenebrione mugnaio, o tarma della farina, è un insetto molto comune nelle abitazioni, in particolare nelle dispense dove può compromettere le scorte di cereali e derivati come pasta e pane defecandoci sopra. Le larve di tenebrione possono raggiungere i tre centimetri di lunghezza e sono considerate commestibili per molte specie (essere umano incluso).

Le larve di tenebrione sono spesso utilizzate come cibo per rettili, pesci e uccelli, sono un alimento ad alto contenuto di proteine (dal 14% al 25% ogni 100 grammi) e contengono potassio, sodio, rame, ferro e zinco in quantità simili a quelle della carne di manzo. Le larve di tenebrione sono considerate gateway bug, uno dei primi insetti che si assaggiano quando ci si avvicina all’ entomofagia.

Larva “witchetty”
larva Witchetty
Larva Witchetty. Fonte: Wikimedia commons

Larva della falena australiana Endoxyla leucomochla che si nutre degli arbusti di Acacia kempeana. Il realtà, il termine “witchetty” (che nella lingua aborigena Adnyamathanha significa “larva del bastone uncinato”) viene usato dagli Aborigeni per indicare qualunque larva commestibile.
Chi l’ha assaggiata ha definito il sapore come simile alle mandorle e quando viene cotta l’involucro esterno diventa croccante mentre l’interno rimane semi-liquido come un uovo fritto.

Zazamushi

Con il termine zazamushi si indica un complesso di larve appartenenti alle famiglie Trichoptera e Megaloptera. Le larve di queste specie, di circa 2 cm di lunghezza, vivono nascoste sotto le pietre fluviali. In Giappone esiste una tradizione di pesca agli zazamushi sul fiume Tenryugawa: le larve vengono generalmente consumate dopo essere state lavate e cotte in salsa di soia e zucchero.

Tarma della cera
Larve di tarme della cera
Larve di tarme della cera

Le tarme della cera appartengono a tre specie differenti: la tarma minore della cera (Achroia grisella), la tarma maggiore (Galleria mellonella) e la larva della falena Aphomia sociella. In natura queste larve sono parassiti degli alveari e si nutrono di bozzoli, polline, pelle di scarto delle api e soprattutto della cera: non attaccano direttamente le api, ma masticano la casa in cui vivono.

Nel regno animale, le tarme della cera rappresentano un’importante fonte di proteine e grassi per molti uccelli, rettili e piccoli mammiferi insettivori, e sono talvolta consumate dall’essere umano.

Larve di calabrone gigante asiatico
Larve di Vespa mandarinia
Larve di Vespa mandarinia

Il calabrone gigante asiatico (Vespa mandarinia) è il calabrone più grande al mondo: lungo fino a 50 millimetri, può provocare dolorose punture definire “come un chiodo rovente conficcato nella gamba”. Ogni anno causa dalle 20 alle 40 vittime solo in Giappone.
Le larve di calabrone asiatico, tuttavia, sono considerate una vera prelibatezza. Possono essere mangiate fritte o sotto forma di sashimi. Le larve di Vespa mandarinia secernono sostanze che oggi vengono replicate sinteticamente per la produzione di integratori alimentari in grado di migliorare la resistenza fisica.

TOP 50 EDIBLE INSECTS LIST

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Punture di insetti, le più dolorose https://www.vitantica.net/2017/09/06/punture-di-insetti-le-piu-dolorose/ https://www.vitantica.net/2017/09/06/punture-di-insetti-le-piu-dolorose/#respond Wed, 06 Sep 2017 18:36:15 +0000 https://www.vitantica.net/?p=138 Lo Schmidt Sting Pain Index è una scala numerica che categorizza il dolore provocato dalla puntura di insetti, dai più comuni ai più rari e temibili.

Questa scala è stata messa a punto da Justin O. Schmidt, un entomologo del Carl Hayden Bee Research Center. Grazie al suo lavoro, che per forza di cose lo porta al contatto ravvicinato con una moltitudine di insetti come api, vespe e calabroni, Schmidt ha collezionato negli anni una serie di dolorose punture che lo hanno indotto a creare la scala di dolore che porta il suo nome.

All’atto della sua pubblicazione nel 1983, il Pain Index non era altro che un resoconto dettagliato delle proprietà emolitiche del veleno di alcuni insetti: partiva da 0 (nessun effetto sull’essere umano) fino a raggiungere il numero 4, numero che rappresenta il dolore totale, quasi indescrivibile ed estremamente difficile da sopportare.

Scala del dolore delle punture di insetto di Schmidt
Scala del dolore delle punture di insetto di Schmidt

Successivamente la scala è stata modificata e corretta, diventando la moderna classifica del dolore causato dalle punture di insetti; ad oggi contiene i resoconti sulle punture di ben 78 specie di api, vespe, calabroni e formiche. Il valore medio è 2, valore che indica il dolore provocato dalla puntura di un’ ape o di una vespa.

Qui sotto riporto una versione parziale dello Schmidt Sting Pain Index, partendo da insetti relativamente comuni e innocui per finire con le punture più dolorose mai sperimentate dall’essere umano.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.0 – Ape del sudore

Nome comune che viene dato a tutte quelle api che sono attratte dalla salinità del sudore umano. In particolare ci si riferisce ad una famiglia di api, le Halictidae, che vive in molte regioni del mondo. La puntura di questa ape è quasi del tutto indolore, anche perché spesso non riesce a bucare la pelle umana.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.2 – Formica di fuoco

Una specie di formiche (Solenopsis invicta) in grado di iniettare veleno e di causare dolore lieve e irritazione. Il grosso problema con queste formiche non è il dolore che provocano le loro punture, ma il fatto che attacchino in massa, lasciando segni su tutto il corpo in grado di infettarsi.

Le Solenopsis invicta sono considerate tra le 100 specie invasive più dannose del mondo e possono distruggere intere piantagioni in brevissimo tempo costruendo formicai in corrispondenza delle radici delle piante.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.8 – Formica dell’acacia (Pseudomyrmex ferrugineus)

Vive su un’acacia nativa del Messico (Acacia cornigera), chiamata “corna di toro” per alcune escrescenze che crescono alla base del fogliame. Questo albero vive in simbiosi con la Pseudomyrmex ferrugineus, una formica che attacca qualunque cosa possa minacciare la pianta utilizzando un pungiglione decisamente doloroso. La puntura di questa formica causa una sensazione descritta da Schmidt “come se qualcuno ti avesse sparato un punto chirurgico sulla guancia”.

Nella medicina tradizionale Maya, le formiche dell’acacia sono impiegate per curare la depressione facendosi pungere diverse volte in corrispondenza di una vena, generalmente nell’incavo del gomito.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 2.0 – YellowJacket

Vespa appartenente ad un genere chiamato “yellojackets” (Dolichovespula maculata) e che vive in Nord America. Si tratta di vespe che difendono aggressivamente il proprio nido: se un essere umano si avvicina troppo (situazione relativamente comune, dato che costruiscono spesso il nido in prossimità delle abitazioni umane), attaccano con forza pungendo ripetutamente.

Queste vespe sono anche capaci di spruzzare veleno dal pungiglione, spesso puntando agli occhi dell’aggressore per causare cecità temporanea e un’abbondante lacrimazione. Secondo Schmidt, la puntura di questa vespa “è come farsi chiudere una mano in mezzo ad una porta” o “farsi spegnere un sigaro sulla lingua”.

miele e api

Scala del Dolore: 2.x – Ape del miele

Al livello 2 della Scala di Dolore si trovano l’ape del miele, l’ape africanizzata e il calabrone. Se le api europee tendono a difendersi non appena la colonia viene attaccata, quelle africanizzate attaccano con maggiore aggressività e in massa.

Il veleno delle api africanizzate non è più potente di quello delle api europee, ma viene inoculato in dosi maggiore perché l’insetto attacca in gran numero. Il dolore di una puntura d’ape o di calabrone viene descritto da Schmidt come “un fiammifero acceso che brucia la pelle”.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 3.0 – Formica rossa raccoglitrice

La Pogonomyrmex barbatus è una formica del Nord America che raccoglie e accula semi. E’ una specie estremamente aggressiva che attacca non appena ha la sensazione che la colonia sia minacciata. La sua puntura è molto dolorosa e può causare reazioni allergiche: l’effetto del veleno si estende al sistema linfatico.

Può anche mordere ferocemente con le sue potenti mascelle. Il dolore viene descritto da Schmidt “come se qualcuno usasse un trapano per scavare l’unghia dell’alluce”.

punture dolorose di insetti

Scala del Dolore: 3.0 – Formica velluto

In realtà non è una formica, ma una vespa il cui aspetto ricorda una formica ricoperta da fitta peluria. Si sono guadagnate il nome di “ammazza mucche”, ma la tossicità del loro veleno è inferiore a quella di un’ape del miele, anche se provoca un dolore acuto.

Le femmine di queste vespe, in particolare quelle della specie Dasymultila klugii, sono prive di ali ma armate di un pungiglione in grado di causare una puntura dolorosissima che provoca dolore per circa 30 minuti.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 4.0 – Tarantula Hawk (vespe parassite dei generi Pepsis e Hemipepsis)

Vespa che caccia tarantole per darle in pasto alle sue larve. Con il suo pungiglione lungo ben 7 millimetri cattura e paralizza le tarantole, per poi trascinarle nel nido. Con l’essere umano non è aggressiva, a meno che non si senta minacciata.

Quando punge, tuttavia, il dolore è uno dei più acuti dell’intero mondo degli insetti. Il dolore persiste per 3 minuti circa e viene descritto come “immediato, lancinante dolore che semplicemente non ti rende in grado di fare qualunque cosa, eccetto gridare. La disciplina mentale non funziona in queste situazioni”.

formica proiettile

Scala del Dolore: 4.x – Formica Proiettile

Ecco l’insetto più doloroso in assoluto. Si trova addirittura fuori scala, il dolore che provoca la sua puntura è ai limiti della tollerabilità (leggi questo post sulla formica proiettile). Si chiama “formica proiettile” proprio per il fatto che il dolore provocato dal suo pungiglione sembra sia paragonabile a quello provocato da un proiettile sparato da una pistola di grosso calibro. Viene anche chiamata “formica 24 ore” per la durata del dolore dopo la puntura, 24 ore appunto.

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Scolopendra heros
Scala del Dolore: 4.x – Centopiedi del deserto (Scolopendra heros)

La scolopendra del deserto (Scolopendra heros), o centopiedi gigante dalla testa rossa, è un insetti nativo delle regioni meridionali degli Stati Uniti ed è il più grande centopiedi del continente nordamericano.

Possiede dalle 21 alle 23 paia di zampe e può raggiungere la lunghezza di 20 centimetri. Il veleno della scolopendra del deserto è più potente di quello degli altri centopiedi, una tossina che risulta estremamente dolorosa per i vertebrati ma che non sembra essere letale per gli esseri umani.

La potenza del veleno di un centopiedi del deserto è stata messa alla prova dal naturalista Coyote Peterson; stando al video qui sotto, il dolore “supera di gran lunga tutti gli insetti che ho provato”.

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Formica proiettile (Paraponera clavata): il morso più doloroso del regno degli insetti https://www.vitantica.net/2017/09/06/formica-proiettile/ https://www.vitantica.net/2017/09/06/formica-proiettile/#respond Wed, 06 Sep 2017 18:23:27 +0000 https://www.vitantica.net/?p=135 Quella che viene comunemente definita “formica proiettile” appartiene alla specie Paraponera clavata, unica rappresentante dell’intero genere Paraponera. Si tratta di una formica dotata di straordinarie armi di difesa e d’attacco: lunga da 18 a 30 millimetri, è una predatrice formidabile grazie alla sua naturale aggressività e ad un pungiglione capace di inoculare un veleno dolorosissimo anche per l’essere umano.

Dal punto di vista evolutivo, le Paraponera clavata sono considerate “relitti”: la loro specie si è separata dalle altre specie di formiche oltre 90 milioni di anni fa, bene o male poco dopo la comparsa delle formiche sul pianeta. Rappresentano quindi un’occasione più unica che rara per avvicinarsi alle origini delle formiche e capire la loro evoluzione nel corso di decine di milioni di anni.

Una formica temuta in tutto il Sud America

Formica proiettile

Queste formiche si sono conquistate diversi nomi in spagnolo, portoghese e nelle  lingue native: in Venezuela sono note come hormiga veinticuatro (“formica delle 24 ore), in riferimento alle 24 ore di dolore che può causare la loro puntura, mentre in Costa Rica si usa il termine bala (“proiettile”); in portoghese sono chiamate formiga cabo verde, formigão, o formigão-preto, i Tupi-Guarani invece la chiamano tuca-ndy (“la formica che ferisce in profondità”).

Nel resto del mondo, invece, la Paraponera clavata è viene semplicemente definita “formica proiettile” perché il dolore che causa viene spesso paragonato a quello di un colpo di pistola a bruciapelo.

Lo stile di vita della formica proiettile

La Paraponera clavata crea colonie composte da centinaia di individui, colonie generalmente collocate alla base di un albero. Due ricerche condotte in Costa Rica e sull’isola di Barro Colorado hanno riscontrato una densità di circa 4 nidi per ettaro e oltre 70 tipi di alberi differenti scelti come residenza per la colonia.

Sono formiche predatrici che si nutrono di insetti e nettare risalendo l’albero che hanno scelto come casa fino a raggiungere le zone più produttive o più popolate da artropodi; raramente vanno a caccia sul terreno. Le gocce di nettare vengono trasportate utilizzando le grosse mandibole e costituiscono la maggior parte delle scorte alimentari di queste formiche.

Colonia di formiche proiettile
Colonia di formiche proiettile

La Paraponera clavata ha ben pochi nemici naturali: il primo è la larva di “farfalla dalle ali di vetro”, la Greta oto, un bruco che si nutre di piante tossiche e che si difende dalle formiche proiettile sfruttando il veleno immagazzinato nel corpo per rendersi sgradevole.

Il secondo, ben più pericoloso per le formiche proiettile, è la mosca parassita Apocephalus paraponerae: attacca le operaie ferite durante i frequenti scontri con le colonie rivali, deponendo circa 20 uova all’interno del corpo di una formica o cibandosi dei suoi succhi. Prove in laboratorio hanno dimostrato che l’odore di una formica schiacciata è sufficiente ad attrarre una decina di queste mosche parassite nell’arco di 2-3 minuti.

Il veleno della formica proiettile

Ciò che ha reso celebre la formica proiettile non è la sua voracità o la sua aggressività, ma un veleno così potente da provocare dolori atroci per circa 24 ore. Il dolore che segue immediatamente l’inoculazione della tossina è stato descritto come identico a quello causato da un proiettile di pistola che penetra nei tessuti.

Dopo la puntura segue un periodo di 3-5 ore in cui il dolore è tale da non consentire di compiere alcun movimento complesso. La mente rimane totalmente annebbiata e concentrata sul dolore fino a quando, diverse ore dopo l’inoculazione della tossina, la sofferenza diventa solo vagamente tollerabile, lasciando un po’ di spazio per respirare e per recuperare la salute mentale.

La prima descrizione degli effetti della poneratossina, la componente principale del veleno delle formiche proiettile, è stata fatta negli anni ’20 del secolo scorso da Joseph Charles Bequaert, il primo a definire questa specie come “formica proiettile”.

La poneratossina è un peptide neurotossico che causa una contrazione incontrollabile e prolungata dei muscoli e il blocco della trasmissione sinaptica. Nel caso dei vertebrati, 30 punture di formiche proiettile per ogni chilogrammo di peso corporeo possono sicuramente uccidere tra dolori inconcepibili e tremori incontrollabili.

Riti di passaggio e formiche proiettile

Guanto pieno di formiche proiettile

Il veleno della formica proiettile non è soltanto un efficacissimo deterrente per i predatori della foresta pluviale (essere umano incluso), ma viene utilizzato da alcune comunità native per i riti di iniziazione all’età adulta.

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Le comunità Satere-Mawe brasiliane usano intenzionalmente le formiche proiettile durante i loro riti di passaggio (vedi video sopra): le formiche vengono “addormentate” sfruttando un sedativo naturale e vengono incastrate all’interno di un guanto di foglie verdi, con il pungiglione rivolto verso l’interno.

I giovani Satere-Mawe che si apprestano a diventare adulti dovranno indossare 20 volte, nell’arco di diversi mesi o anni, il guanto pieno di formiche per almeno 5 minuti, dando prova di poter superare dignitosamente i giorni di atroci sofferenze che li attendono.

Dopo aver indossato il guanto, le mani e le braccia si trovano sotto l’effetto di una paralisi temporanea. La sola protezione che i giovani adulti possono indossare è una copertura di polvere di carbone che, secondo la tradizione, confonderebbe le formiche e le renderebbe meno aggressive.

Ma le Paraponera clavata sono anche un’importante risorsa medicinale locale. Il loro veleno, in minuscole dosi, viene utilizzato per curare i reumatismi, mentre le potenti mandibole, data la loro capacità di rimanere chiuse anche dopo la morte della formica, sono state impiegate per chiudere ferite profonde.

 

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Miele: raccolta e produzione nell’antichità https://www.vitantica.net/2017/09/05/miele/ https://www.vitantica.net/2017/09/05/miele/#comments Tue, 05 Sep 2017 16:07:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=86 Il miele può essere considerato il primo vero “dessert” della storia e le testimonianze sul suo utilizzo da parte dei nostri antenati sono antichissime: le più antiche pitture rupestri che testimoniano la raccolta del miele risalgono almeno al 6.000 a.C.

L’abbondanza di zuccheri e il suo potere dolcificante rende miele un prodotto di grande valore per le comunità di cacciatori-raccoglitori antiche e moderne o per qualunque civiltà della storia che non utilizzava o conosceva lo zucchero.

Il miele è composto per l’80% da zuccheri, principalmente glucosio e fruttosio, e per il restante 20% da acqua. Il suo aroma, il colore, il sapore e la composizione chimica sono caratteristiche strettamente connesse ai fiori che le api hanno visitato per produrlo. Il miele, oltre che per uso alimentare, viene anche utilizzato nella medicina tradizionale per aiutare la guarigione di ferite o bruciature e curare la tosse cronica o acuta.

Come le api producono il miele

Il miele è prodotto dalle 7 specie conosciute di api mellifere (non tutte le specie di api raccolgono nettare), come quelle appartenenti alla specie Apis mellifera, probabilmente la più impiegata commercialmente per la sua docilità e la consistente produzione di miele: la specie conta circa 30 sottospecie che comprendono l’ape mellifera italiana (Apis mellifera ligustica) e l’ape scura europea (Apis mellifera mellifera).

Le api di questa specie consumano il nettare dei fiori per produrre energia per il volo e per la raccolta di polline, trasportando all’ alveare ciò che non riescono a consumare per immagazzinarlo come cibo a lunga scadenza.

Raggiunta la sicurezza della colonia, le api ingeriscono e rigurgitano ripetutamente il nettare fino ad ottenere una sostanza parzialmente digerita dagli enzimi e dai succhi gastrici del loro stomaco.

Il processo di ingestione ed espulsione del nettare può durate anche 20 minuti. Quando il nettare ha raggiunto il giusto stato di digestione viene espulso definitivamente, immagazzinato all’interno di celle di cera e periodicamente ventilato dalle ali delle api per far evaporare l’acqua in eccesso (il miele passa dal 20% al 18% di acqua durante la conservazione nella cera), prevenire la fermentazione e aumentare la concentrazione di zuccheri. Le celle vengono infine sigillate con altra cera per preservare intatte le qualità del miele e proteggerlo dall’aggressione di muffe e parassiti.

Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello sfruttato da secoli per localizzare un alveare selvatico
Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello sfruttato da secoli per localizzare un alveare selvatico
La raccolta del miele selvatico

La ricerca e la raccolta del miele (spesso definita “caccia al miele”) sono attività che risalgono ad almeno 10 millenni fa. Le pitture rupestri spagnole di Cuevas de la Arana, risalenti al 9.000 a.C. circa, raffigurano la caccia al miele e le prime “arnie” naturali sfruttate dai cacciatori-raccoglitori della regione per l’ approvvigionamento di miele selvatico.

Le api mellifere europee prediligono la nidificazione all’interno di nicchie della roccia o alberi cavi e le “arnie” raffigurate nelle pitture rupestri spagnole rappresentano proprio questi incavi naturali sulle pareti rocciose impiegati dalle api selvatiche per la costruzione dei loro alveari.

In Africa, le antiche comunità tribali localizzavano un alveare selvatico seguendo l’ Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello che funge da guida verso il miele per uomini e animali. Questa relazione di scambio reciproco sembra sia nata da un’antica collaborazione tra uomo e uccello: l’essere umano ottiene miele grazie alle indicazioni fornite dal volatile, mentre l’ Indicatore golanera può fare incetta di api, larve e cera.

Prima del suo pasto, l’ Indicatore golanera deve però attendere che l’essere umano apra l’alveare esponendone l’interno mentre uno sciame di api inferocite cerca di difendere la regina e le larve.

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Procedendo per tentativi e fallimenti, i nostri antenati impararono che il fumo sembrava rendere le api scoordinate nella loro risposta all’aggressione, oltre che più mansuete. Quando le api si accorgono di un’intrusione nell’ alveare iniziano ad emettere un particolare feromone che innesca una risposta automatica nei membri della colonia, costringendoli ad attaccare l’intruso.

Il fumo tuttavia maschera la presenza del feromone e circoscrive il numero di api che reagiscono al richiamo d’allarme, dando l’impressione al resto della colonia che non stia succedendo nulla di grave. L’effetto del fumo svanisce in 10-20 minuti, dando tempo al cacciatore di raccogliere tutto il miele necessario.

Il fumo ha un’altro effetto: quando raggiunge l’alveare, le api sono indotte a pensare che l’alveare possa essere minacciato da un incendio. Il rischio di un incendio boschivo le convince ad abbandonare l’alveare per trovare una nuova località in cui insediarsi, non prima di aver accumulato tutto il miele possibile nei loro corpi per fornire energia alla nuova comunità. L’aver ingurgitato così tanto miele rende le api letargiche e lente nei riflessi, spesso troppo lente per attaccare un aggressore.

miele api selvatiche

L’invenzione dell’arnia

Nella sua fase primitiva l’essere umano si è limitato a prelevare miele e cera dagli alveari selvatici, spesso distruggendoli e costringendo le api selvatiche ad un duro lavoro di ricostruzione. Questo metodo di raccolta non aveva grossi impatti ambientali nel caso di società di cacciatori-raccoglitori, dato che il miele veniva consumato raramente e c’era un’ampia disponibilità di alveari selvatici.

Con l’insorgere di uno stile di vita sedentario, la distruzione anche solo parziale di un alveare iniziò a costituire un grosso problema: le api non hanno più una casa in cui accumulare miele e sono costrette a spendere buona parte del loro tempo a ricostruire l’alveare e non a raccogliere nettare.

Parallelamente ai metodi invasivi per raccolta del miele in uso per millenni iniziarono a sorgere i primi sistemi d’allevamento con arnia, capaci di produrre miele in modo costante e senza eccessivo sforzo da parte dell’essere umano.

E’ difficile stabilire un’origine certa dell’allevamento con arnie, ma abbiamo le prove archeologiche che si tratta di un’attività vecchia di almeno 3-4.000 anni. Nell’antica città di Tel Rehov in Palestina sono state trovate 30 arnie utilizzate per la produzione di miele circa 2.900 anni fa: le arnie erano state realizzate con paglia e argilla cruda ed erano organizzate in file che lascerebbero pensare alla presenza di un totale di 150 arnie all’interno del complesso.

Sappiamo inoltre che almeno 4.500 anni fa l’estrazione di miele selvatico era ancora un’attività fiorente nell’ antico Egitto: le iscrizioni del tempio solare di Nyuserra Ini, faraone della V dinastia, riporta i dettagli sulla raccolta del miele selvatico tramite l’impiego del fumo.

Qualche secolo più tardi, nel 650 a.C., nella tomba di Pabasa fanno la loro comparsa alveari artificiali di forma cilindrica e appositi contenitori per la conservazione del miele.

Arnia medievale
Arnia medievale

In periodo romano e successivamente nel Medioevo furono ideati alcuni metodi di allevamento parzialmente “rinnovabili” impiegati ancora oggi per la produzione di miele nelle comunità non industrializzate: uno di questi era l’utilizzo di assi di legno parallele, coperte da covoni di paglia o fieno, in cui le api potevano facilmente costruire le impalcature di cera per ospitare il miele al riparo dagli agenti esterni.

Un altro sistema era quello di utilizzare come arnia un tronco cavo (naturalmente o  artificialmente) chiamato “vaso” o cesti di vimini conici dotati piccole aperture che permettessero alle api di entrare e uscire a piacimento dall’arnia.

Le arnie di questo tipo non consentivano di mantenere l’alveare totalmente intatto dopo il prelievo stagionale del miele. L’assenza di una struttura interna che guidasse l’opera costruttiva delle api generava alveari dalla forma irregolare e dalle celle disposte a grappolo.

Le arnie di concezione moderna (ideate verso la fine del XVIII secolo) sono invece strutturate a livelli permettendo la costruzione di piani “monodimensionali” di celle (un solo strato di celle per livello), facilitando l’estrazione del miele e limitando l’opera distruttiva del prelievo.
Il miele prodotto dalle antiche arnie poco strutturate era estratto per spremitura: l’intero alveare veniva posizionato in una pressa e schiacciato per separare la cera dal miele.

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Fino all’avvento della produzione commerciale di miele secondo metodi moderni, tutti i metodi di allevamento richiedevano la cattura di uno sciame di api selvatiche, cosa per nulla semplice se non si conoscono le dinamiche sociali e gerarchiche delle api.

L’importanza dell’ ape regina

Le api vivono in una società matriarcale che ha al suo vertice l’ ape regina (l’unica femmina fertile dello sciame) e fino a centinaia di migliaia di operaie sterili addette alla cura della regina e dell’alveare (i maschi appaiono nella colonia esclusivamente tra aprile e giugno in Europa).

Il solo scopo della regina è quello di deporre uova e coordinare la colonia: non dispone di alcun apparato per la raccolta del nettare e ha un metabolismo più elevato delle altre api, quindi consuma più cibo e dipende interamente  dalle operaie per il suo fabbisogno di nutrienti quotidiani.

ape regina
Ape regina

Se durante la cattura di uno sciame d’ api non si intrappola anche la regina, le operaie lasceranno il nuovo alveare per raggiungerla. L’atto della cattura è relativamente semplice: se si avvista uno sciame (di solito localizzando una grossa “palla” di api appesa ad un albero, o osservando un flusso più o meno costante di api provenire dal tronco di un albero), occorre farlo cadere in un contenitore come uno scatolone di cartone o un cesto di vimini per poi rovesciarlo a terra, mantenendo il contenitore sollevato di qualche centimetro dal terreno per consentire alle api in cerca di nettare di tornare nella colonia prima del tramonto.

Questa sistemazione temporanea dello sciame eviterà che le api lontane dalla regina si perdano sulla via del ritorno e vi permetterà di verificare che la regina, più grande rispetto al resto delle operaie, si trovi all’interno dello sciame.

Per trasferire le api all’interno di un’arnia artificiale, sia essa un covone di paglia, un cesto di vimini intrecciato o un’arnia moderna, è sufficiente stendere un telo bianco dallo scatolone all’arnia: presto le api inizieranno a camminare fino all’alveare artificiale che avete preparato per loro.

Prehistoric Beekeeping in Central Europe – a Themed Guided Tour at Zeiteninsel, Germany
Medieval Beekeeping

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