frecce – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Video: come rimuovere una freccia https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/ https://www.vitantica.net/2020/03/04/come-rimuovere-una-freccia/#respond Wed, 04 Mar 2020 00:10:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4843 Come si può rimuovere una freccia medievale incastrata nei tessuti umani? Quanto è complicato rimuovere frecce dotate di barbigli o dalla cuspide non tradizionale? Questo video mostra una particolare tecnica di rimozione delle frecce impiegata durante il Medioevo.

Questa tecnica, esposta dal medico fiammingo Jan Ypermans all’inizio del 1300, prevede l’impiego di due penne d’oca per facilitare le operazioni di estrazione del dardo.

Durante il Medioevo furono definite due principali metodologie di rimozione di una freccia: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

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Ferite da freccia e medicina antica https://www.vitantica.net/2020/03/02/ferite-da-freccia-medicina-antica/ https://www.vitantica.net/2020/03/02/ferite-da-freccia-medicina-antica/#comments Mon, 02 Mar 2020 00:10:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4778 Il trattamento delle ferite di guerra rappresentò una delle principali priorità della medicina antica. Sebbene anche i nostri antenati avessero a che fare con problemi di salute del tutto simili ai nostri (malattie, incidenti domestici e malnutrizione erano tra le principali cause di infortuni e decessi), l’avanzata militare degli antichi imperi, la difesa dei confini e il mantenimento dell’ordine interno forzarono i curatori di tutto il mondo a sviluppare tecniche sempre più efficienti per medicare le ferite da trauma.

La tipologia di ferita più diffusa negli antichi ospedali da campo (se così possono essere definiti) era la perforazione da dardi e frecce. Dall’affermazione dell’arco come arma da lancio all’introduzione su larga scala delle armi da fuoco, le perforazioni da freccia non solo erano estremamente comuni sui campi di battaglia di ogni epoca e regione del mondo, ma erano anche molto complesse da medicare.

Contrariamente a ciò che si vede nella cinematografia moderna, estrarre una freccia dal corpo tentando di limitare i danni non era una procedura semplice ed esponeva ad un serie di rischi potenzialmente fatali, tra i quali il danneggiamento di vasi sanguigni e organi vitali o l’insorgere di infezioni difficilmente trattabili con la medicina popolare.

Ferite da freccia estremamente comuni

Secondo stime recenti (vedere le fonti in fondo al post), dal primo utilizzo dell’arco ad oggi il numero di morti causato da frecce è superiore a quello provocato da qualunque altra arma nella storia della guerra.

Nelle “sole” 56 battaglie combattute in Europa nel 1241 dal generale mongolo Subotai si contarono oltre mezzo milione di morti causati da frecce, con altrettanti feriti tra i ranghi degli invasori e delle popolazioni locali intente a difendere i loro territori tradizionali.

Le ferite da freccia furono quindi un’importante “spinta evolutiva” dell’antica ricerca medica. A differenza di un proiettile d’arma da fuoco, una freccia possiede poca energia cinetica pur penetrando a profondità simili a quelle rilevate per armi da fuoco di piccolo-medio calibro.

La cuspide tagliente, unita alla forza dell’impatto, provoca tagli profondi agli organi interni, e non lo spostamento dei tessuti molli osservabile nella penetrazione di un proiettile.

Al momento del contatto con il tessuto osseo, la maggior parte delle frecce tendeva a fermarsi e a scheggiarsi in frammenti difficilmente recuperabili. La frammentazione delle cuspidi complicava enormemente le operazioni d’estrazione, ma allo stesso tempo fornì impeto nella ricerca di metodologie capaci di ripulire le perforazioni dai corpi estranei più evidenti per limitare infezioni e favorire la guarigione.

Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia
Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia

Una cuspide rappresenta un’arma potenzialmente letale anche nella sua forma più semplice, ma nel corso della storia antica furono sviluppate diverse varianti della tradizionale punta di freccia, volte ad aumentare l’efficacia dei dardi. Barbigli, escrescenze taglienti e forme più o meno elaborate forzarono i chirurghi del passato a sviluppare strumenti d’estrazione specificamente legati alla morfologia delle cuspidi.

Secondo gli autori della ricerca “Arrow head wounds: major stimulus in the history of surgery“, gli strumenti operatori legati all’estrazione delle frecce costituirono una delle maggiori spinte propulsive per l’elaborazione della chirurgia moderna.

Uno dei metodi più rudimentali usati per la rimozione di dardi dal corpo è stato osservato a Tonga durante il XIX secolo, e fu probabilmente impiegato migliaia di anni fa in altre regioni del mondo: tramite conchiglie affilare e pezzi di bambù, gli abitanti dell’isola del Pacifico erano in grado di incidere il petto del ferito ed estrarre la freccia dalla sua sede.

Già nel VI – IV secolo a.C. il trattato medico Sushruta Samhita descriveva svariate tecniche di estrazione di una freccia, dall’incisione dei tessuti all’uso di pietre magnetiche. Uno dei metodi descritti prevede anche l’impiego di un uncino metallico in grado di agganciare la cuspide del dardo per facilitarne l’estrazione.

Le punte di freccia incastrate nelle ossa costituivano un problema ancora più serio; il Sushruta Samhita suggeriva un metodo di estrazione estremamente brutale (anche se apparentemente efficace): legare l’estremità di una corda alla cocca della freccia, agganciando l’altra estremità al morso di un cavallo da tiro.

Iatros, specialisti dell’estrazione di frecce

Omero introduce nei suoi poemi una figura chiamata iatros, traducibile come “colui che estrae frecce”. Si trattava di un vero e proprio specialista nell’estrazione di dardi dal corpo, suggerendo che questo genere di traumi fosse molto comune, specialmente in uno scenario bellico.

Dopo aver somministrato vino al paziente nella vana speranza di sedarlo, lo iatros procedeva all’estrazione della cuspide e di eventuali frammenti metallici o lignei, per poi medicare la ferita con bendaggi di lana ed misture anti-infiammatorie a base di piante o miele.

Particolarmente temute erano le frecce degli Sciti, noti per ricoprire le loro cuspidi con una mistura di veleno di serpente e sangue lasciata fermentare in mezzo al letame; se il ferito sopravviveva alla ferita e al veleno di serpente, era molto probabile che dovesse affrontare una gravissima infezione dalle conseguenze spesso fatali.

Dopo l’estrazione della cuspide e di eventuali altri frammenti del dardo, lo iatros succhiava la ferita nel tentativo di estrarre il veleno, trascurando il fatto, oggi noto ma al tempo sconosciuto, che la pratica di succhiare il veleno non ottiene alcun risultato apprezzabile, come spiegato in questo post.

Rimozione per estrazione o per espulsione

Cornelius Celsus, e successivamente Paolo di Egina, identificarono due principali metodologie di rimozione delle frecce: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

La rimozione per expulsionem era sempre preferibile rispetto all’estrazione, perché tendeva a limitare i danni causati agli organi interni e l’allargamento della ferita d’ingresso necessario alla rimozione del dardo. Il procedimento per expulsionem facilitava inoltre l’espulsione di cuspidi dotate di barbigli, che dovevano essere necessariamente recisi prima di un’estrazione per evitare di causare ulteriori danni agli organi interni.

Cornelius Celsus menziona uno strumento specifico per le estrazioni, il cucchiaio di Diocle. L’unico esemplare conosciuto è stato rinvenuto nella “domus del chirurgo” di Rimini ed è essenzialmente uno strumento dotato di lamina a forma di cucchiaio, con un foro centrale per bloccare la freccia e facilitare l’estrazione.

Paolo di Egina raccomanda l’uso dell’estrazione solo nei casi in cui la penetrazione della cuspide sia superficiale, o nella situazione in cui un’espulsione avrebbe causato danni a vasi sanguigni, nervi o organi interni. Descrive anche uno speciale strumento, il propulsorium, utilizzato per l’espulsione di una cuspide, e la pratica di legare i vasi sanguigni prima di procedere alla rimozione del dardo.

Uomo delle Ferite
Uomo delle Ferite

Durante il Medioevo, il trattamento delle ferite da freccia era basato sulle pratiche utilizzate dai medici del passato. Anche se la Scuola Salernitana e il mondo medico arabo introdussero nuove nozioni e strumenti chirurgici, le fondamenta del trattamento delle ferite da freccia rimasero sostanzialmente invariate rispetto ai secoli precedenti.

Come si può leggere in questo post:

“L’estrazione di una freccia seguiva tre linee guida: valutazione della zona di penetrazione della freccia, esame di eventuali tracce di veleno e, per finire, l’estrazione vera e propria.

 

La freccia doveva essere estratta con delicatezza ma il più velocemente possibile, limitando la perdita di sangue e la contaminazione della ferita. Anche se furono proposti molti metodi in grado di far uscire spontaneamente i dardi conficcati in un corpo umano (Avicenna proponeva una mistura di radice di canna di fiume e bulbo di narciso, mentre Abu Bakr al-Razi aveva compilato una lista di “droghe estrattive”), la soluzione più efficace rimaneva la chirurgia.”

Uno dei metodi più semplici e comuni per la rimozione di frecce dotate di barbigli prevedeva l’impiego di due penne d’oca. Ideata intorno al 1300 dal medico belga Jan Ypermans, questa tecnica utilizzava due penne cave prive di punta il cui fusto doveva raggiungere e ricoprire i barbigli della cuspide (generalmente 2): in questo modo, i barbigli non avrebbero avuto modo di arpionare i tessuti durante l’estrazione, facilitando notevolmente la rimozione della freccia. Questa pratica non era sicuramente indolore: era necessario determinare precisamente la posizione della cuspide sondando la ferita, e inserire i due fusti di penne nella cavità prima di procedere all’estrazione.

Ferite da freccia nel mondo moderno

L’uso dell’arco è oggigiorno un puro e semplice passatempo, che si pratichi la caccia o il tiro al bersaglio. Il numero di ferite da freccia è enormemente diminuito dopo l’introduzione su larga scala della polvere da sparo e la regolamentazione delle armi bianche e da fuoco.

Gli incidenti, tuttavia, capitano con relativa facilità, specialmente se ad impugnare le armi sono persone inesperte. Anche se disponiamo di strumenti chirurgici all’avanguardia, anestesia e igiene di gran lunga superiore ai secoli passati, ancora oggi il personale medico si trova in difficoltà di fronte all’estrazione di una freccia.

Nel 2010 fu documentato il caso di un uomo di 35 anni ricoverato in ospedale per una perforazione cranica causata dall’impatto di una cuspide di freccia. Il paziente riportò lesioni cerebrali che migliorarono dopo la rimozione del dardo, ma il personale medico annotò la particolare difficoltà incontrata nella rimozione del corpo estraneo.

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Arrow Wounds: Major Stimulus in the History of Surgery
BATTLE WOUNDS: NEVER PULL AN ARROW OUT OF A BODY
Removing Arrowheads in Antiquity and the Middle Ages
Treatment of Arrow Wounds: A Review
Handbook of Forensic Medicine

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La freccia per arco: evoluzione e caratteristiche delle frecce antiche https://www.vitantica.net/2019/11/18/freccia-arco-evoluzione-caratteristiche-frecce-antiche/ https://www.vitantica.net/2019/11/18/freccia-arco-evoluzione-caratteristiche-frecce-antiche/#respond Mon, 18 Nov 2019 00:10:40 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4682 La freccia ha svolto un ruolo fondamentale nell’innovazione dell’ arcieria. E’ relativamente facile realizzare un semplice arco (molto meno facile è, invece, costruire un’arma adatta all’utilizzo in uno scenario reale), ma senza una freccia degna di tale nome si tratterà di uno strumento relativamente inefficace.

Esistono innumerevoli tipologie di frecce, ciascuna adatta ad un utilizzo specifico o capace di rivelarsi efficace in circostanze multiple. Non si tratta solo della punta: il peso, la lunghezza, la flessibilità e l’impennaggio di una freccia possono modificare enormemente le sue performances durante durante il volo.

La freccia è un oggetto molto delicato, che richiede precisione e cura nella sua fabbricazione. Un arciere molto fortunato potrebbe non essere mai costretto a sostituire il suo arco, ma dovrà necessariamente rimpiazzare una quantità innumerevole di frecce nel corso della sua carriera, specialmente se si dedica alla caccia.

Molte frecce si spezzano, altre vanno perdute nel sottobosco: è incredibilmente semplice mancare il bersaglio con un arco tradizionale. Anche disponendo di un buon arco e di un’ottima freccia, la distanza massima dal bersaglio non supera mai i 30 metri, distanza che tuttavia prevede un ampio margine d’errore nella caccia tradizionale.

La vita di una freccia è breve, intensa e spesso poco fortunata, specialmente se si considerano gli sforzi necessari a realizzare una dardo di ottima qualità, come mostra il video qui sotto.

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Le prime frecce

La storia della freccia è antichissima. I primi dardi adatti al lancio furono piccoli giavellotti di legno duro, probabilmente dalla punta semi-carbonizzata sulla fiamma, privi di impennaggio e dalla scarsa flessibilità.

Con le prime lavorazioni litiche l’essere umano si rese conto che alcune schegge di pietra avevano capacità di taglio e di penetrazione superiori a quelle di una semplice punta di legno.

Aguzzando l’ingegno, escogitarono sistemi anche molto sofisticati per costruire frecce sempre più veloci, potenti e letali. Il più antico esempio di proiettile con punta di pietra, compatibile sia con una freccia da arco che con un dardo di atlatl, risale a 64.000 anni fa ed è stato scoperto nella Caverna di Sibudu.

Per le prime frecce da arco della storia umana occorre però fare un balzo in avanti, a circa 10.000 anni fa: nella valle di Ahrensburg sono state scoperte frecce di legno di pino dotate di cocche, intagli che consentivano una maggiore aderenza alla corda dell’arco. E’ possibile che questi proiettili fossero stati preparati per l’uso in combinazione con un arco simile a quello di Holmegård.

Con l’avvento della lavorazione dei metalli, si susseguirono una serie di innovazioni tecnologiche delle punte di freccia: cuspidi di rame, bronzo, ferro e poi acciaio resero l’arco un’arma sempre più precisa e letale.

Le punte iniziarono a mutare forma, assumendo configurazioni diverse in base all’utilizzo: dalle semplici cuspidi da caccia furono sviluppate punte adatte a penetrare armature, punte contundenti per cacciagione di piccola taglia, cuspidi con barbigli per complicare qualunque manovra di rimozione del dardo una volta conficcatosi nel bersaglio.

Caratteristiche di una freccia per arco

Nel corso della storia si sono viste frecce di ogni tipo. Anche se le frecce moderne sono lunghe da 75 a 96 centimetri, nei vari millenni di conflitti bellici e attività venatoria si sono visti proiettili per arco lunghi dai 45 ai 150 centimetri.

Una freccia è costituita da 4 parti fondamentali: una punta (o cuspide) dal profilo solitamente aerodinamico; un fusto, o asta, che rappresenta il corpo della freccia; una cocca, il punto di collegamento tra la freccia e la corda dell’arco; e un impennaggio, il “sistema di volo” del proiettile.

Il fusto

In passato i fusti di freccia venivano realizzati con diversi tipi di legno, dipendentemente dalle esigenze pratiche. Le frecce “da volo”, ad esempio, avevano fusti più sottili e leggeri rispetto a quelle da guerra o da caccia.

Dato che la costruzione di frecce è un processo lungo e tedioso che termina spesso con la perdita di oltre la metà dei proiettili realizzati, alcuni popoli del pianeta escogitarono sistemi differenti per recuperare le frecce durante e dopo la caccia.

Uno di questi metodi era il fusto composito: una sezione di legno duro e rigido in corrispondenza della punta unito ad un fusto di legno più leggero e flessibile. In questo modo la freccia ha meno probabilità di spezzarsi irrimediabilmente durante la fuga della preda, il fusto tende a staccarsi facilmente al primo impatto mentre la punta potrà essere recuperata, se ancora integra e attaccata al bersaglio, una volta uccisa la preda.

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La caratteristica primaria di una freccia è il suo spine, il livello di rigidità del fusto. Quando si rilascia la corda di un arco, nelle fasi iniziali l’accelerazione della coda creerà una compressione nell’asta della freccia: il dardo inizierà a flettersi e continuerà a farlo anche durante il volo, un fenomeno definito “paradosso dell’arciere”.

Per evitare che il proiettile inizi a deviare dalla traiettoria desiderata a causa della flessione del fusto, lo spine deve essere adeguato alla potenza dell’arco e all’allungo dell’arciere. E per mantenere la necessaria stabilità in volo, specialmente nei metri iniziali, occorre che la freccia sia dotata di un buon impennaggio.

Impennaggio

Con il termine “impennaggio” si intende la parte stabilizzatrice del volo di una freccia. Anche se alcuni tipi di frecce non necessitano di impennaggio (come quelle utilizzate ancora oggi in alcune popolazioni della Nuova Guinea), l’aggiunta di appendici stabilizzatrici contribuisce a migliorare la precisione.

Tradizionalmente l’impennaggio viene realizzato con penne d’oca o di tacchino ancorate all’estremità opposta alla punta tramite fibre, colla o una combinazione di questi due elementi.

E’ fondamentale che le componenti dell’impennaggio abbiano una resistenza aerodinamica molto simile tra loro. Per ottenere una resistenza uniforme, i costruttori di frecce tagliano o bruciano le penne per modellarle e uniformarle, ottimizzandone la capacità stabilizzatrice.

Se si utilizzano penne naturali, ogni freccia avrà penne estratte dalla stessa ala. Le penne di tacchino estratte dall’ala destra, ad esempio, hanno una curvatura naturale che forza ad effettuare l’ impennaggio con una torsione verso destra.

Un impennaggio particolare, chiamato flu-flu, utilizza le sezioni lunghe delle penne di tacchino per creare sei o più appendici alari o una sorta di spirale in grado di esercitare maggiore resistenza all’aria, favorendo la caccia di prede aeree.

La cocca

La cocca è un incavo all’estremità opposta della punta che aiuta a mantenere corretta la rotazione della freccia prima del lancio e riduce la possibilità di farla cadere durante la trazione o il rilascio dell’arco.

La cocca serve inoltre a massimizzare l’energia trasferita dall’arco alla freccia: mantiene il proiettile saldo in corrispondenza del punto della corda che si muove più velocemente dopo il rilascio, il centro della corda.

Senza la cocca, la compressione di una freccia al momento del lancio potrebbe colpire l’arco, causando una perdita di precisione. Ogni fusto ha un piano di compressione “preferito”, specialmente se si tratta di legno: durante l’intaglio della cocca si dovrà quindi tenere in considerazione la direzione di flessione dell’asta.

La cocca deve resistere a diverse sollecitazioni meccaniche e viene spesso rinforzata con colla, fibre, legno duro o corno.

Cuspidi
Diversi tipi di cuspide utilizzati  nella storia
Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia

La punta, o cuspide, è l’estremità letale di una freccia. Ha subito moltissime evoluzioni nel corso di millenni passati per rispondere alle necessità di cacciatori e guerrieri sempre più esigenti: lacerare, penetrare, menomare il proprio obiettivo o semplicemente stordirlo.

Le punte di freccia hanno innumerevoli forme, pesi e funzioni, ma possono essere raggruppate in 5 categorie principali:

Punta Bodkin: si tratta di una cuspide rigida affusolata, generalmente in ferro battuto. Fu probabilmente creata per prolungare la gittata o creare frecce efficaci ed economiche su larga scala. Le punte Bodkin in acciaio si sono dimostrate capaci di penetrare maglie di ferro, ma non armature a piastre.

Cuspidi contundenti: Possono essere semplici rinforzi rigidi al fusto della freccia, o veri e propri pesi metallici in corrispondenza della punta. Le cuspidi contundenti tornano utili nella caccia di piccole prede, stordendole per facilitare la cattura ed evitare di danneggiare carne o pelle.

Broadhead: nell’immaginario collettivo, la classica punta di freccia è la broadhead dal profilo triangolare. Queste cuspidi hanno tipicamente 2 o 4 lame che causano emorragie nel bersaglio e velocizzano l’uccisione recidendo i vasi sanguigni principali. Sono punte ideali per la guerra o la caccia, ma costose da realizzare e mai utilizzate per l’allenamento.

Punte barbigliate: se si unisce il potere distruttivo di una broadhead con una serie di barbigli metallici, si ottiene una cuspide in grado di causare gravi danni e rendere particolarmente difficile l’estrazione dal bersaglio.

Punte d’allenamento: si tratta di cuspidi appuntite e robuste simili a proiettili, in grado di conficcarsi nel bersaglio con facilità senza tuttavia causare danni eccessivi.

Fonti per “La freccia per arco: evoluzione e caratteristiche delle frecce antiche”

Arrowheads
Everything You Need to Know About Medieval Arrows
Manchu war arrows
Arrow Shaft Design and Performance

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Ricostruite punte di frecce e propulsori del Pleistocene https://www.vitantica.net/2018/02/07/ricostruite-punte-frecce-propulsori-pleistocene/ https://www.vitantica.net/2018/02/07/ricostruite-punte-frecce-propulsori-pleistocene/#respond Wed, 07 Feb 2018 02:00:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1341 Il lavoro dell’archeologo è costituito in buona parte dall’interpretazione logica e sensata dei reperti in nostro possesso: ossa, utensili e opere artistiche possono fornire numerosissime informazioni sulle società del passato e aprire una finestra sullo stile di vita dei nostri antenati.

Spesso tuttavia mancano informazioni su come venissero realizzati alcuni oggetti e sulla loro reale efficacia nello svolgere il compito per il quale furono prodotti. Un esempio sono le armi preistoriche: quali sono state le tecniche più comuni per realizzare punte e lame di pietra? Quanto erano efficaci gli utensili litici prodotti per svariate migliaia di anni dai nostri predecessori?

Per ottenere qualche risposta a questi quesiti gli archeologi della University of Washington, capitanati dalla ricercatrice Janice Wood, hanno recentemente pubblicato un articolo su Journal of Archaeological Science in cui descrivono come sono stati in grado di ricreare e testare alcune punte di pietra del tutto simili a quelle rinvenute in siti archeologici nordamericani risalenti all’ Età della Pietra.

Non è la prima ricerca di questo tipo ad essere condotta negli ultimi anni: l’archeologia sperimentale, se fatta con criterio, si sta rivelando uno strumento utilissimo per formulare ipotesi e teorie sulla tecnologia impiegata dai nostri antenati preistorici, come nel caso dei test effettuati sulla ricostruzione della clava del Tamigi.

Il team ha deciso di concentrarsi sulle armi da caccia prodotte circa 10-14.000 anni fa, un periodo che vide la nascita di svariati modelli di punte di proiettili, probabilmente per far fronte a tecniche di caccia diverse in base alla preda.
“I cacciatori-raccoglitori di 12.000 anni fa erano molto più sofisticati di quanto gli riconosciamo” sostiene Ben Fitzhugh, professore di antropologia della University of Washington. “Non abbiamo mai considerato che i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene possedessero quel livello di sofisticazione, ma è chiaro che producessero questi strumenti per ciò che dovevano affrontare quotidianamente, come per le attività di caccia. Avevano una vasta comprensione dei diversi strumenti che producevano e dello strumento migliore per una determinata preda o determinate condizioni di caccia”.

Punte di freccia create da Wood e dai suoi colleghi
Punte di freccia create da Wood e dai suoi colleghi

I gruppi nomadi che vivevano in Alaska e in Siberia si nutrivano principalmente di piante spontanee e di animali ottenuti dalla caccia, come caribù e renne (che appartengono in realtà alla stessa specie, Rangifer tarandus). Le armi più comuni per la caccia di questi animali erano quasi certamente le lance e i propulsori, ma si tratta di strumenti che hanno la spiacevole tendenza di conservarsi solo parzialmente con il passare del tempo: tutte le parti costituite da materia organica, come il legno o il tendine usato per fissare le lame, vengono facilmente decomposte, mentre le punte in pietra e osso si conservano molto più facilmente anche dopo svariati millenni.

E’ quindi difficile capire la balistica di questi oggetti, ancor di più la loro reale efficacia nella caccia di grossi quadrupedi. Fino ad ora sono stati rinvenuti tre tipologie di punte utilizzate in Alaska e Siberia:

Wood e il suo team hanno deciso di ricreare 30 di queste punte, 10 per ogni tipo, cercando di utilizzare quando possibile gli stessi materiali impiegati nel Pleistocene e usando come aste legno di pioppo assicurato alle punte con colla di catrame di betulla. Questi oggetti sono quindi stati messi alla prova con un blocco di gelatina balistica e una carcassa fresca di renna acquistata in una fattoria.

Le punte composite si sono rivelate le più efficaci rispetto a quelle di sola pietra o osso contro prede di piccola taglia, causando ferite incapacitanti indipendentemente dal punto d’impatto. Le punte d’osso tendevano a penetrare più profondamente nei corpi di animali di grossa taglia generando cavità sottili e riuscendo a raggiungere gli organi interni; quelle di pietra invece causavano ferite di maggiori dimensioni e probabilmente portavano ad uccisioni più veloci a causa della vasta lacerazione dei tessuti.

“Abbiamo mostrato che ogni lama ha i suoi punti di forza” spiega Wood. “E’ tutto legato alla preda stessa; gli animali reagiscono in modo diverso in base alle ferite che subiscono. Per questi cacciatori nomadi era importante uccidere l’animale con efficienza, cacciavano per ottenere cibo”.

Reconstructing an ancient lethal weapon

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L’uso di frecce avvelenate risale alla preistoria https://www.vitantica.net/2017/11/14/uso-frecce-avvelenate-preistoria/ https://www.vitantica.net/2017/11/14/uso-frecce-avvelenate-preistoria/#respond Tue, 14 Nov 2017 02:00:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=809 Moltissimi popoli cacciatori-raccoglitori sopravvissuti fino all’era moderna utilizzano frecce avvelenate allo scopo di aumentare il successo della caccia. Quando è nata questa pratica?

E’ da diverso tempo che gli archeologi sospettano che i cacciatori-raccoglitori della preistoria utilizzassero il veleno estratto da alcune piante per aumentare l’efficacia delle loro armi da caccia. Si tratta di una tecnologia in uso ancora oggi tra molte popolazioni tribali moderne e che ha dimostrato la sua validità innumerevoli volte nella caccia di persistenza.

Veleno debilitante per semplificare la caccia

La caccia di persistenza consiste principalmente nell’inseguire una preda nella speranza di affaticarla a tal punto da impedirle di poter proseguire la sua fuga a causa dell’eccessivo affaticamento. Le armi primitive non hanno le stesse prestazioni di quelle moderne, quindi abbattere un animale in un sol colpo è quasi sempre impossibile.

Alcune prede si affaticano molto facilmente: a differenza dell’essere umano, non hanno sistemi di termoregolazione che consentono loro di dissipare il calore corporeo. Altre, invece, possono percorrere decine di chilometri senza stancarsi eccessivamente.

Utilizzando una sostanza tossica debilitante o letale, tuttavia, i nostri antenati si resero conto che gli inseguimento duravano molto meno e che la combattività della preda si riduceva, rendendo la caccia molto meno faticosa e rischiosa. Alcune delle tossine potevano addirittura uccidere un animale di grossa taglia se dosate accuratamente e lasciate agire per il tempo necessario ad ucciderlo.

Preparazione del veleno per le frecce usate dai San
Preparazione del veleno per le frecce usate dai San

Le oltre 250 piante del genere Aconitum, come l’ aconito napello (Aconitum napellus), sono diffuse in tutto il territorio eurasiatico e la loro tossicità è nota da millenni. Sappiamo che in Europa i Galli e i Germani usavano l’aconito per avvelenare frecce e lance da usare in guerra; se le ferite inferte al nemico non erano sufficienti ad ucciderlo, il veleno inoculato dalle armi avvelenate avrebbe di certo terminato il lavoro.

In Africa, il lattice delle piante del genere Acokanthera è tradizionalmente impiegato per avvelenare le frecce utilizzate dalle popolazioni tribali semi-primitive di Tanzania, Sud Africa e Zimbabwe. Il popolo San della Namibia usa invece il veleno estratto da una larva parassita mescolato con frammenti della corteccia di una pianta di piselli che cresce spontaneamente nella savana africana.

Quando furono ideate le frecce avvelenate?

Il problema nello stabilire la “data di nascita” delle prime armi da caccia avvelenate è sempre stato rappresentato dall’impossibilità di analizzare le tracce di veleno sulle armi rinvenute nei vari siti archeologici dislocati su tutto il pianeta: spesso chi opera sul campo si trova costretto a dover ripulire i reperti dal terreno che li seppelliva utilizzando strumenti archeologici molto comuni (come spazzole e pennelli), che tendono però a cancellare le poche ed eventuali tracce di veleno un tempo presente sui reperti.

Come tutti i materiali di natura organica, inoltre, i veleni vegetali o di origine animale si degradano col tempo e tendono a lasciare tracce chimiche difficilmente analizzabili tramite le tecnologie disponibili fino a qualche anno fa.

Aconito - Aconitum napellus
Aconito – Aconitum napellus

La dottoressa Valentina Borgia del McDonald Institute for Archaeological Research, specializzata in armi da caccia del Paleolitico, ha combinato le sue competenze in campo archeologico con le conoscenze di chimica forense di Michelle Carlin (Northumbria University) allo scopo di rilevare e analizzare eventuali tracce di veleno applicato su armi risalenti a migliaia di anni fa.

Le due ricercatrici hanno elaborato un metodo non distruttivo per prelevare campioni di materiale organico dai reperti e confrontarli con un database di piante tossiche popolato dai dati relativi alle tossine prelevate dalle piante del celebre “Giardino dei Veleni” di Alnwick.

Rilevale il veleno su frecce vecchie di millenni

Borgia e Carlin hanno trascorso gli ultimi tre anni a perfezionare la loro tecnica di prelievo sperimentandola inizialmente con successo su artefatti vecchi di un secolo; nel 2015 hanno iniziato ad analizzare alcune frecce egizie dalla punta di pietra risalenti a circa 6.000 anni fa (ad oggi non è stato pubblicato alcun risultato), nella speranza di ottenere la prima prova sull’ipotesi avanzata da Borgia: l’utilizzo di veleno vegetale sulle punte di freccia è vecchio di millenni e la tecnologia fu ideata probabilmente qualche decina di migliaia di anni fa.

“Sappiamo che i Babilonesi, Greci e Romani usavano veleni di origine vegetale per cacciare animali e in guerra” spiega Borgia. “Oggi rimangono poche società cacciatrici-raccoglitrici ma tutti i gruppi sopravvissuti utilizzano veleni. Gli Yanomami della foresta pluviale amazzonica usano il curaro, un mix di piante del genere Strychnos, per avvelenare le loro frecce. In Africa, vengono utilizzate varietà di piante differenti per creare veleni. Acokanthera, Strophantus e Strychnos sono le più comuni”.

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Il metodo messo a punto da Borgia e Carlin non si basa solo sul riconoscimento delle tossine ma anche sull’ analisi delle particelle di amido: le dimensioni, la forma e la struttura dei granuli di amido variano in base al taxon (unità tassonomica della pianta) e costituiscono una sorta di impronta digitale che può far risalire al tipo di veleno utilizzato.

“Le armi del Paleolitico dotate di punte di pietra potrebbero non essere state sufficientemente letali da immobilizzare o uccidere un animale di grossa taglia come un cervo rosso. Le piante velenose erano abbondanti in passato e le popolazioni preistoriche conoscevano l’ambiente in cui vivevano, sapevano quali piante erano commestibili e il loro potenziale impiego come medicinali o veleni. Fabbricare veleno è facile ed economico e i rischi sono minimi. In aggiunta, la fabbricazione del veleno diventa speso parte della tradizione e dei rituali di caccia”.

L’ipotesi di Borgia sembra essere supportata da diversi artefatti provenienti da tutto il mondo, come punte di freccia africane risalenti a circa 13.000 anni fa. Sebbene non sia stato possibile rilevare tracce di veleno su questi reperti, la forma delle punte e la presenza di resti carbonizzati di alcune piante tossiche  suggerirebbero che i veleni vegetali fossero impiegati comunemente nella caccia verso la fine del Pleistocene.

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Il propulsore (atlatl o woomera) https://www.vitantica.net/2017/09/16/il-propulsore-atlatl-o-woomera/ https://www.vitantica.net/2017/09/16/il-propulsore-atlatl-o-woomera/#respond Sat, 16 Sep 2017 07:00:13 +0000 https://www.vitantica.net/?p=248 Il propulsore, anche chiamato atlatl (per gli Aztechi) o woomera (per gli aborigeni australiani), è una delle prime armi da lancio utilizzate dai nostri antenati. Si tratta di uno strumento che consente di imprimere forza e velocità ad un dardo aumentando l’ efficienza meccanica del braccio umano.

Un dardo può raggiungere agevolmente il centinaio di metri di distanza dal lanciatore, anche se la precisione di un propulsore decresce gradualmente una volta che si superano i 30 metri dal bersaglio.

Si ritiene che il propulsore sia stato utilizzato in qualunque continente fin dal Tardo Paleolitico (circa 30.000 anni fa) come arma da caccia e da guerra. Gli atlatl di questo periodo e quelli successivi erano in legno (come molti propulsori ad eccezione di quelli a laccio) e talvolta anche finemente decorati con figure animali.

Il vasto impiego dell’ atlatl da parte delle popolazioni primitive o semi-primitive del passato è testimoniato dall’incredibile quantità di reperti riconducibili a quest’arma: la maggior parte delle punte di pietra trovate nei siti paleolitici nordamericani databili ad oltre 3.000 anni fa sono da attribuirsi a dardi di atlatl e non a frecce per arco.

Struttura di un propulsore

Un atlatl è composto da un’asta lunga più o meno quanto un braccio ed è munito di un uncino ad un’estremità per poter incoccare il dardo e imprimergli forza durante il lancio. Si tratta sostanzialmente di un’estensione del braccio umano che aumenta la lunghezza della leva, di conseguenza aumentando la potenza del lancio.

atlatl tecnica di lancio

Inizialmente i propulsori erano semplice tavole rigide di legno, ma col passare del tempo vennero sperimentati materiali più flessibili e di differente lunghezza in base alla distanza raggiungibile e al grado di accuratezza desiderato. Propulsori più corti, infatti, obbligano a distanze di lancio più brevi ma impartiscono al dardo una traiettoria più rettilinea.

Il woomera australiano, lungo tra i 50 e i 90 centimetri, è una versione rigida dell’ atlatl pensata per molteplici utilizzi: la caratteristica forma ovale allungata rende il woomera uno strumento adatto anche a scavare il terreno in cerca di radici e tuberi o ad essere utilizzato come contenitore di fortuna per larve o bacche.

I woomera più sofisticati includono una punta di selce all’estremità opposta del perno di lancio, rendendo questo tipo di propulsore una sorta di antenato del coltellino multiuso.

Woomera australiano di 63 cm con decorazione geometrica e punta di selce
Woomera australiano di 63 cm con decorazione geometrica e punta di selce all’estremità a sinistra

Una delle innovazioni più importanti nell’evoluzione dei propulsori è l’uso di contrappesi sotto forma di piccole pietre legate o incastrate nella sezione centrale dell’arma. Queste pietre, del  peso solitamente compreso tra i 60 e gli 80 grammi, servono sia ad esercitare più resistenza all’accelerazione, aumentando la forza impressa al dardo, sia a stabilizzare il movimento del lancio, fornendo maggiore accuratezza.

Atlatl con peso centrale e anelli per dito indice e medio
Atlatl con contrappeso centrale e anelli per dito indice e medio
Replica di atlatl
Replica di atlatl con contrappeso realizzata da Devin Pettigrew
Il proiettile di propulsore

Il dardo di un atlatl è generalmente lungo tra 1 e 3 metri, con un diametro di 9-15 millimetri, ed è dotato di un incavo all’estremità opposta della punta per poterlo incastrare nell’uncino del propulsore.

A volte può essere dotato di penne per mantenere la stabilità in volo, altre volte è semplicemente una grossa freccia munita di una punta in pietra o osso. Questi proiettili erano capaci di infliggere ferite letali anche alla megafauna del Pleistocene, periodo in cui ancora esistevano almeno un centinaio di specie di mammiferi e grandi uccelli oltre i 40 kg ormai estinte da circa 15.000 anni.

Buona parte della tecnologia del propulsore risiede nel dardo: questo deve essere sufficientemente flessibile per poter accumulare energia durante il lancio, quando il giavellotto viene sottoposto a compressione e la coda della freccia viaggia più velocemente della punta. Non deve tuttavia essere eccessivamente elastico per non disperdere l’energia accumulata durante il lancio e causare problemi di accuratezza.

Prestazioni e variazioni del propulsore

Un atlatl costruito ad arte ottiene prestazioni di tutto rispetto: può uccidere un cervo fino a 30-40 metri di distanza e il proiettile può raggiungere la velocità di 150 km/h.

La rigidità del dardo influisce enormemente sulla distanza di lancio: dardi flessibili (ma non eccessivamente) possono abbondantemente superare i 40 metri di distanza e raggiungere anche i 200.

La flessibilità del propulsore, invece, sembra influire solo in piccola parte sulla gittata (circa il 10%). Anche le proporzioni tra l’atlatl e il dardo sono importanti: per massimizzare la portata dell’arma, il propulsore dovrebbe essere lungo circa 1/3 rispetto al giavellotto.

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Una forma di propulsore introdotta nell’antica Grecia è l’ amentum, una striscia di pelle utilizzata come propulsore per incrementare la distanza e la stabilità del lancio. Secondo alcuni esperimenti condotti in età napoleonica, un giavellotto lanciato utilizzando l’ amentum sarebbe capace di superare di ben 4 volte la gittata di un dardo lanciato a mano.

amentum

L’ amentum veniva legato in corrispondenza del baricentro del dardo per dare maggiore stabilità e accuratezza al lancio e poteva essere utilizzato sia a piedi che a cavallo. Il laccio forniva al dardo anche una rotazione che consentiva di stabilizzarlo in volo come un proiettile.

La variante macedone dell’ amentum era il kestros, una sorta di fionda a laccio utilizzata per scagliare dardi dalla punta di metallo lunghi in totale circa mezzo metro e dotati di penne per garantire stabilità in volo.

The World Atlatl Association

 

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Cenni sull’ arco: storia, funzionamento e prestazioni https://www.vitantica.net/2017/09/05/arco/ https://www.vitantica.net/2017/09/05/arco/#comments Tue, 05 Sep 2017 20:17:30 +0000 https://www.vitantica.net/?p=109 Arco e frecce non sono state di certo le prime armi da lancio della storia, ma nel corso dei millenni si sono rivelati strumenti in grado di cambiare radicalmente lo stile di vita dei nostri antenati.

Considerato da molti come un’arma ormai datata e difficile da utilizzare, nelle mani di un esperto tiratore un arco è in grado di ottenere prestazioni sensazionali, dimostrandosi estremamente preciso e letale nel suo raggio d’azione ottimale.

Il primo arco: rudimentale e autocostruito

La mia passione per l’arco nasce in tenera età grazie a mio fratello maggiore, appassionato di arcieria. Il mio primo arco fu una via di mezzo tra un giocattolo e un arco improvvisato costruito a tempo perso da mio zio con legno di olmo, un materiale utilizzato fin dal Neolitico per realizzare ottimi archi in mancanza di legname di primissima scelta.

Costruire un arco rudimentale non è così difficile (leggi questo post per le istruzioni su come realizzare un arco improvvisato): è sufficiente trovare un ramo fresco adatto allo scopo, non troppo nodoso e relativamente dritto, modellarne il profilo per ottenere un dorso (la parte esposta verso il bersaglio) e un ventre  (la zona esposta verso il tiratore), e metterlo in tensione con spago, corda per archi o qualunque altra stringa sia possibile reperire con facilità.

Non è necessario che il ramo sia uniforme in larghezza, e nemmeno che l’arco sia simmetrico o esteticamente gradevole: basta soltanto che sia un buon compromesso tra elasticità e rigidità.

Un arco del genere, realizzabile in meno di un’ora se si possiede un coltello ben affilato e una discreta manualità, non avrà di certo prestazioni paragonabili ad un arco realizzato secondo i criteri dettati dall’esperienza di un arciere esperto. Col passare del tempo, l’acqua che impregna il legname tenderà ad evaporare facendogli perdere l’elasticità originale e aumentando le probabilità che l’arco possa fratturarsi quando sottoposto a tensioni eccessive.

Il primo, vero arco
replica di arco di Holmegaard
Replica di arco di Holmegaard

Un degli archi più antichi della storia è stato scoperto in Danimarca: definito “arco di Holmegaard“, risale a circa 6.000 anni prima di Cristo e fu realizzato in legno di olmo.

Costruito seguendo rudimentali criteri di arcieria e frutto secoli di esperienze e fallimenti, le prestazioni di questo arco sono estremamente superiori a quelle di uno strumento realizzato in un’ora o poco più ed è senza ombra di dubbio più adatto alla caccia.

ll materiale ligneo è stato ottenuto da un tronco privo di nodi, cresciuto all’ombra e ricco di fibre dritte e parallele, un mix ideale per resistere alla tensione a cui è sottoposto il dorso di un arco; la lavorazione del legno, inoltre, mostra le tracce di una mano esperta, probabilmente quella di un costruttore professionista.

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Per ottenere un arco che sia in grado di competere con quelli dei nostri antenati, è necessario addentrarsi nel regno dell’ arcieria e prepararsi psicologicamente ad affrontare una lunga serie di fallimenti, alcuni dei quali disastrosi.

Posso testimoniare, per esperienza personale, che i primi archi che tenterete di realizzare  si romperanno, esploderanno in decine di schegge di legno o semplicemente non saranno sufficientemente potenti da lasciarvi soddisfatti.

I requisiti minimi di un arco per la caccia

Per cacciare con la speranza di riuscire ad abbattere preda al di sopra dei 30-50 kg, è necessario possedere un arco che abbia una potenza sufficiente ad uccidere sul colpo o ferire letalmente un animale da una distanza compresa tra i 2 e i 30 metri.

A distanze superiori, dipendentemente dalla potenza dell’arco e dalla capacità dell’ arciere, la forza di penetrazione della freccia tende a diminuire e l’efficacia del tiro potrebbe non essere tale da garantire un’uccisione sicura. Qualunque cacciatore che si rispetti dovrebbe cacciare con la consapevolezza di poter uccidere la sua preda nel modo più veloce possibile, per evitare di far soffrire inutilmente l’animale e per impedire che possa fuggire o nascondersi.

Evitando di fare troppi calcoli, è necessario che il nostro arco sia in grado di scagliare una freccia ad una velocità compresa tra i 46 e i 100 metri al secondo. Se da piccini avete tentato di costruire un arco improvvisato, vi sarete accorti che per ottenere queste prestazioni non basta tagliare il primo ramo dritto da un albero di tasso e attaccarci una corda. E’ necessario, invece, adottare alcune tecniche, spesso antiche quanto l’ arcieria stessa, che possano potenziare l’ “effetto molla” di un pezzo di legno.

Il problema della tensione

Un arco non è altro che una molla azionata da una corda. Quando si rilascia la corda, come ogni buona molla il nostro arco tenderà ad assumere nuovamente la sua forma naturale e stabile.

Più questa molla è in tensione, più la freccia acquisterà energia cinetica da scaricare sul bersaglio. Allo stesso tempo, tuttavia, un’eccessiva tensione può portare alla rottura dell’arco: non sono affatto rare esplosioni di flettenti sottoposti a stress meccanico eccessivo. Come risolvere il problema della tensione?

Tipi di arco

Le soluzioni adottate dai nostri antenati sono state principalmente due: l’allungamento o la curvatura del corpo dell’arco, e la realizzazione di archi compositi.

Nel primo caso, la soluzione all’eccessiva tensione consiste nell’ allungare o curvare il corpo dell’arco per poter accumulare energia aggiuntiva da scaricare sulla freccia, contenendo contemporaneamente lo stress che il fusto deve subire ad ogni tiro; la seconda soluzione, invece, è livello successivo dell’ arceria antica: lo sfruttamento delle proprietà fisiche di materiali differenti per ottenere prestazioni superiori a quelle del solo legno.

L’arco composito: tendine e corno

Il legname perfetto, purtroppo non esiste. Se sotoposto a troppa tensione, si romperà; se posto sotto un’eccessiva pressione, si spaccherà. Esistono ovviamente qualità di legno palesemente più adatte alla costruzione di archi rispetto ad altre, ma le proprietà meccaniche del legno hanno comunque dei limiti.

Utilizzare materiali alternativi al legno ha consentito di oltrepassare la barriera imposta dalle proprietà fisiche del materiale. Probabilmente avrete già sentito parlare di archi realizzati in legno e corno, o legno e tendini, ma cosa significa esattamente?

Quando tendiamo l’arco, il dorso dell’arma è sottoposto ad una tensione che inevitabilmente, con il tempo o sotto sforzo eccessivo, tenderà a rompere le fibre esterne del legno.

Per ovviare al problema dell’eccessiva tensione e alleviare parte dello stress meccanico, i nostri antenati ebbero l’idea di utilizzare i tendini animali incollati sul dorso dell’arco.

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I tendini sono filamenti organici estremamente resistenti, ma anche molto elastici: hanno la tendenza a riassumere la loro lunghezza naturale se messi in tensione e poi rilasciati, bene o male lo stesso comportamento di un elastico di gomma. Incollare tendini animali sul dorso dell’arco non solo garantiva una durata maggiore dell’arma, ma anche un “effetto molla” superiore che incrementava di molto potenza e gittata.

Il corno, invece, è un materiale generalmente debole sotto tensione, ma molto forte sotto pressione, ed è ideale per il ventre dell’arco, la parte esposta verso il tiratore.

Quando il dorso dell’arco è sotto tensione, il suo ventre si trova sotto pressione; una pressione eccessiva sul ventre può creare incrinature che, col tempo e l’utilizzo, possono compromettere l’integrità strutturale dell’arco.

Aggiungendo strisce di corno sul ventre, questo materiale verrà sottoposto alla maggior parte della pressione, stabilizzerà il nucleo di legno da pressioni o tensioni eccessive e aumenterà la potenza dell’arco contribuendo a riportare l’arma alla sua forma naturale con maggior forza.

tipi di arco sezione

Prestazioni di un arco antico

L’ arco turco, uno dei più celebri archi compositi della storia e classico esempio di arco composito in corno, otteneva prestazioni incredibili se si considera la sua lunghezza, di gran lunga inferiore rispetto ad un arco lungo inglese.

L’abilità di un arciere turco veniva riconosciuta ufficialmente se riusciva ad effettuare un tiro da 500-600 metri con una “freccia da volo” (freccia studiata appositamente per raggiungere lunghe distanze), ma distanze superiori furono  raggiunte più che agevolmente da tiratori come Tozkoparan Iskender (845 metri) o Mîr-i Alem Ahmed Aga (839 metri).

Se ci spostiamo in Europa, invece, il celebre arco lungo inglese d’epoca medievale consentiva, nelle mani di un tiratore esperto, di scagliare con precisione 10-12 frecce al minuto a distanza di 60-100 metri, e con sufficiente precisione da centrare il corpo di un uomo.

Il corpo di un arco lungo inglese era interamente realizzato in legno di tasso, un materiale ideale per via della netta distinzione tra durame (legno più duro e adatto alla compressione) e l’alburno (parte esterna del tronco, più elastica e resistente alla tensione).

Con una serie di trovate ingegnose, i nostri antenati riuscirono a risolvere i tradizionali problemi dell’arcieria, problemi che devono affrontare anche i costruttori moderni e che spesso vengono risolti utilizzando soluzioni millenarie. La tecnologia antica, per quanto lontana dalle metodologie e dai risultati di oggi, era molto più avanzata di quanto siamo abituati a pensare e la storia dell’ arco ne è un esempio evidente.

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