Amazzonia – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Terra preta, la terra nera dell’Amazzonia https://www.vitantica.net/2019/12/27/terra-preta-nera-amazzonia/ https://www.vitantica.net/2019/12/27/terra-preta-nera-amazzonia/#comments Fri, 27 Dec 2019 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4717 Da qualche anno i ricercatori che si dedicano allo studio degli ecosistemi amazzonici sono giunti alla conclusione che buona parte della foresta pluviale non è affatto immacolata, ma ha subito alterazioni rilevanti operate dall’essere umano allo scopo di rendere più vivibile un ambiente così estremo.

Gli alberi che popolano la giungla sudamericana mostrano una distribuzione per nulla casuale, non semplicemente spinta da normali processi ecologici: nella grande frequenza di alberi di noci, ad esempio, si celerebbe un intervento umano vecchio di secoli, la cui portata è ancora difficile da quantificare.

Sono sempre più gli indizi che ci suggeriscono un passato molto differente per la foresta amazzonica che possiamo osservare oggi. I primi esploratori europei descrissero un ecosistema ricco di comunità umane, anche di grandi dimensioni, ma ad oggi rimane poco o nulla di questi antichi insediamenti se non un elemento dalle proprietà quasi “magiche”, ma fondamentale per la costruzione di comunità sedentarie e popolose: la terra preta.

“Metropoli” amazzoniche e il problema del cibo

La teoria che la moderna foresta amazzonica sia il risultato dell’azione di processi naturali e intervento umano é supportata da alcuni resoconti redatti dai primi esploratori europei, primo tra tutti Francisco de Orellana.

L’esploratore spagnolo, durante la sua spedizione che lo portò a percorrere tutta la lunghezza del Rio delle Amazzoni (inizialmente battezzato come “Rio de Orellana”), si rese conto che le rive del fiume erano sede di numerose comunità di nativi.

Per diverso tempo il resoconto di Orellana fu ritenuto intriso di esagerazioni, giudicando impossibile la presenza di grandi insediamenti umani nel cuore della foresta pluviale. Dopotutto, per quanto denso di specie vegetali e ricco di biodiversità, il terreno del bacino amazzonico non è noto per la sua fertilità; per vivere e prosperare, un insediamento ha bisogno di enormi quantità di cibo, non ottenibile dalla sola caccia o dalle attività di raccolta.

Oggi, invece, siamo sempre più portati a pensare che Orellana non stesse mentendo. Secondo le stime moderne, all’inizio del 1500 l’Amazzonia era popolata da circa 5 milioni di nativi suddivisi tra insediamenti costieri e fluviali, una vasta popolazione che subì un drastico calo numerico a seguito dei primi contatti con le malattie importate dagli Europei.

Abbiamo diversi indizi che suggeriscono una massiccia presenza umana in Amazzonia intorno al XVI secolo: geoglifi, grandi quantità di scarti legati alla presenza umana e un terreno di natura particolare, introvabile in altre regioni amazzoniche e sicuramente creato dall’essere umano.

La terra nera degli indios

Ciò che viene definita “terra preta” (“terra nera”) è un tipo di terreno ben distinguibile dalla “terra mulata“, un suolo amazzonico di colore chiaro, o dalla “terra comum” (“terra comune”), terreno non fertile che ricopre buona parte del bacino amazzonico.

La terra preta copre una superficie pari allo 0,1% – 0,3% dell’ Amazzonia (da 6.000 a 19.000 km quadrati), ma alcune stime hanno elevato la percentuale al 10%, l’equivalente del doppio della superficie della Gran Bretagna. La terra preta si trova generalmente raggruppata in piccoli appezzamenti di circa 20 ettari d’estensione, ma ci sono aree in cui copre una superficie di quasi 400 ettari.

Cos’ha di speciale la terra preta? Come citato precedentemente, il suolo amazzonico non è noto per la sua elevata fertilità. Rispetto a località del pianeta in cui una qualunque coltura può attecchire con facilità e produrre grandi quantitativi di prodotto, in Amazzonia è difficile ottenere i raccolti abbondanti necessari a sostenere una comunità di decine di migliaia di persone.

Tra il 450 a.C. e il 950 d.C., i nativi iniziarono a produrre un tipo di terreno più fertile della terra mulata o della terra comum allo scopo di rendere più produttive le loro colture. Questo tipo di terreno, in realtà nato ben prima della sua produzione attiva da parte dell’essere umano grazie alla mescolanza di rifiuti organici con ceneri e terreno, funge ancora oggi da substrato per colture come la papaya e il mango.

Differenza tra terra preta e terra comum
Differenza tra terra preta e terra comum

Dopo essersi resi conto che gli scarti prodotti dalle attività quotidiane, come la preparazione del cibo, il mantenimento del focolare o la creazione di ceramica, rendevano la terra mulata più fertile, iniziarono a fertilizzare volontariamente il terreno più fertile a loro disposizione.

La terra preta ha un contenuto di carbonio molto alto, pari a circa 150 grammi per kg (contro i 20-30 grammi del suolo circostante), ma rispetto ad altri tipi di terreno ad elevato contenuto di carbonio presenta alcune differenze. In primo luogo, la terra preta incorpora elementi e nutrienti di natura organica provenienti dagli scarti alimentari di una popolazione umana; questi elementi favoriscono la proliferazione batterica, incrementando la fertilità.

Secondariamente, il contenuto di carbonio è così elevato da risultare fino a 70 volte superiore a quello di suoli ferralitici, tipici delle zone tropicali del pianeta e spesso presenti in prossimità di depositi di terra preta.

La terra preta, infine, è propensa ad accumulare e trattenere i nutrienti con cui viene a contatto, ed è molto resistente alla degradazione da parte dell’attività microbica. Tra i nutrienti più diffusi sono il potassio, il fosforo, il calcio, lo zinco e il manganese, un mix che ha dimostrato di poter incrementare la produzione di riso dal 30-40% senza l’utilizzo di fertilizzanti.

Come si produceva la terra preta?

Per produrre la terra preta, le popolazioni indigene aggiungevano alla terra mulata braci di legna o altro materiale organico che bruciavano a bassa temperatura.

La produzione di carbone a bassa temperatura consente l’estrazione di condensati del petrolio che fungono da alimento per i batteri del terreno. L’ossidazione lenta del carbone non solo fornisce terreno fertile per i microrganismi, ma mantiene intatte le caratteristiche del materiale vegetale carbonizzato anche per migliaia di anni.

Il carbone è quindi fondamentale per il mantenimento della terra preta: oggi la maggior parte dei terreni agricoli ha perso in media il 50% del suo originale contenuto di carbonio a causa della coltivazione intensiva e dei danni causati dall’attività umana.

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L’uso di carbone prodotto da materia vegetale estratta da legname e piante con foglie (al contrario della carbonizzazione dell’erba) favorisce anche la diffusione di alcuni funghi che sembrano rappresentare la chiave della fertilità della terra preta e della sua capacità di “contaminare” positivamente il terreno che la circonda.

Le analisi della terra preta amazzonica hanno inoltre evidenziato la presenza di escrementi animali e umani, resti di lavorazioni alimentari come ossa animali, conchiglie e gusci di tartaruga, oltre a compost prodotto da piante terrestri e acquatiche.

Aggiornamento del 05 gennaio 2021

La presenza di artefatti precolombiani in corrispondenza dei siti ricchi di terra preta hanno sempre lasciato supporre che l’origine di questo particolare tipo di terreno fosse artificiale.

Ma la datazione al carbonio eseguita su un bacino fluviale di 210 ettari in Brasile sembra suggerire un’altra versione: secondo Lucas Silva, professore di studi ambientali della University of Oregon, i livelli di calcio e fosforo, più elevati rispetto al terreno circostante, suggerirebbero che siano state inondazioni e incendi a depositare questi nutrienti nel suolo.

“Abbiamo analizzato il carbonio e il gruppo di nutrienti alla luce del contesto antropologico locale per stimare la cronologia della gestione del suolo e la densità di popolazione necessarie per ottenere la fertilità della terra preta amazzonica” afferma Silva. “I nostri risultati mostrano che vaste popolazioni sedentarie avrebbero dovuto gestire il suolo migliaia di anni prima della comparsa dell’agricoltura nella regione”.

Fires, flooding before settlement may have formed the Amazon’s rare patches of fertility

Terra preta da Indio
Terra preta
ScienceDirect: Terra Preta

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Amazzonia abitata durante l’Olocene https://www.vitantica.net/2019/05/03/amazzonia-abitata-durante-olocene/ https://www.vitantica.net/2019/05/03/amazzonia-abitata-durante-olocene/#respond Fri, 03 May 2019 00:10:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4172 L’immagine dell’Amazzonia come luogo incontaminato sta pian piano lasciando il posto all’idea che l’essere umano abbia radicalmente modificato l’ecosistema pluviale sudamericano per millenni (leggi questo post per saperne di più).

In una recente ricerca della Penn State University, si ipotizza che i primi insediamenti a Llanos de Moxos, nel bel mezzo dell’ Amazzonia boliviana, non risalgano a 2.500 anni fa, ma siano databili ad un periodo compreso tra 10.000 e 4.000 anni fa.

Popoli amazzonici dell’ Olocene

“Da molto tempo sapevamo che le società complesse di Llanos de Moxos nell’Amazzonia sud-occidentale, in Bolivia, emersero circa 2.500 anni fa, ma nuove prove suggeriscono che l’essere umano si sia insediato nella regione 10.000 anni fa, durante il primo periodo dell’Olocene” sostiene Jose Capriles, assistente professore di antropologia.

“Questi gruppi” continua Capriles, “erano cacciatori-raccoglitori; tuttavia, i nostri dati mostrano che iniziarono ad esaurire le loro risorse locale e a stabilire comportamenti territoriali, che forse li condussero a domesticare alcune piante come le patate dolci, la cassava, le arachidi e i peperoncini, come metodo per ottenere cibo”.

Il team di Capriles ha condotto scavi archeologici e analisi dei reperti su tre “isole stagionali”: Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo. Queste isole si trovano nella savana di Llanos de Moxos, un territorio che periodicamente, seguendo il ritmo stagionale, viene invaso dalle acque.

Llanos de Moxos, conosciuta anche come “savana di Beni”, è un’area di 126.000 chilometri quadrati che si estende principalmente sul territorio boliviano, sconfinando in Brasile e Perù.

La regione occupa l’angolo sud-occidentale del bacino del Rio delle Amazzoni ed è attraversata da numerosi corsi fluviali che, ogni anno, inondano la pianura sommergendone circa la metà.

Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo
Isla del Tesoro, La Chacra e San Pablo

“Queste isole si ergono sopra la savana che le circonda, per cui non vengono sommerse durante la stagione delle piogge. Crediamo che i popoli locali utilizzassero questi siti di continuo come accampamenti stagionali, in particolare durante le lunghe stagioni umide, quando la maggior parte di Llanos de Moxos viene inondata”.

Transizione da nomadismo a sedentarietà?

E’ ormai assodato che Llanos de Moxos era abitata da popolazioni stanziali almeno 2 millenni prima dell’arrivo degli Europei: i canali, i tumuli e le vie di comunicazione che sono state scoperte fino ad oggi risalgono ad un periodo compreso tra il 1100 a.C. e il 1450 d.C..

Ma nonostante i sospetti sulla presenza di insediamenti ancora più antichi, fino ad ora non esisteva alcuna prova della presenza umana nella regione oltre i 2.000 anni prima di Cristo.

Durante i recenti scavi, gli archeologi hanno scoperto resti umani sepolti intenzionalmente secondo una procedura differente da quella dei cacciatori-raccoglitori ma più simile a quella delle società complesse e stanziali, caratterizzate da una gerarchia politica e dalla produzione di cibo.

“Se si tratta di cacciatori-raccoglitori che si spostavano di frequente, è insolito che seppellissero i loro morti in località specifiche; di solito lasciano le salme vicino al luogo del decesso”. Secondo Capriles, è raro trovare nella regione esseri umani o resti archeologici risalenti a periodi che precedono la lavorazione della terracotta.

“Il terreno tende ad essere molto acido, cosa che spesso rende difficile la conservazione di resti organici. Inoltre, la materia organica si deteriora velocemente in ambienti tropicali e questa regione manca totalmente di ogni tipo di roccia utile a realizzare strumenti di pietra, quindi non abbiamo utensili litici disponibili per le analisi”.

Le modifiche all'ambiente apportate dai primi abitanti di Llanos de Moxos
Le modifiche all’ambiente apportate dai primi abitanti di Llanos de Moxos

Caprile sottolinea il fatto che le ossa umane presenti su queste isole si sono conservate, nonostante le condizioni avverse, grazie alla presenza sul posto di latrine e rifiuti umani contenenti abbondanti frammenti di conchiglie, gusci di lumache, ossa animali e altra materia organica. “Nel corso del tempo, l’acqua ha dissolto il carbonato di calcio delle conchiglie, e i carbonati sono precipitati sulle ossa, fossilizzandole”.

I primi dominatori del fuoco

Non è stato possibile utilizzare la datazione al  carbonio-14 per stimare l’età dei resti umani perché le ossa erano fossilizzate, tecnicamente trasformate in pietra; la datazione al radiocarbonio è stata invece effettuata sui resti di carbone e sui gusci di lumaca, ottenendo una stima sull’arco temporale in cui questi siti furono occupati da esseri umani.

“I resti abbondanti di terra e legno bruciati suggeriscono che questi popoli usassero il fuoco, probabilmente per ripulire il terreno, cucinare e tenersi al caldo durante i giorni di pioggia” sostiene Capriles.

Umberto Lombardo, ricercatore dell’ Università di Berna e uno tra i primi archeologi ad analizzare i siti di Llanos de Moxos, spiega che quando i ricercatori scoprirono questi siti archeologici nel 2013 furono in grado di trarre conclusioni basandosi soltanto su prove indirette, specialmente le analisi geochimiche.

“Data l’assenza di prove dirette, molti archeologi erano scettici nell’accettare le nostre scoperte” spiega Lombardo. “Non erano del tutto convinti che queste isole fossero siti archeologici dell’ Olocene. Questo studio fornisce prove valide e definitive dell’origine antropogenica di questi siti, perché gli scavi hanno rivelato sepolture umane del primo Olocene”.

Rimane tuttavia un buco temporale tra i popoli scoperti dal team di Capriles, vissuti tra i 10.000 e i 4.000 anni fa, e l’emergere di società complesse nella regione boliviana circa 2.500 anni fa. “I popoli che abbiamo trovato sono diretti predecessori delle società complesse che si svilupparono successivamente? Ci sono ancora domande che hanno bisogno di risposte e speriamo di poterle fornire attraverso la ricerca futura”.

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Human settlements in Amazonia much older than previously thought
Human–environment interactions in pre-Columbian Amazonia: The case of the Llanos de Moxos, Bolivia
Los Llanos de Moxos y sus misteriosos conchales

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La foresta amazzonica è stata plasmata dall’essere umano? https://www.vitantica.net/2019/03/27/foresta-amazzonica-incontaminata/ https://www.vitantica.net/2019/03/27/foresta-amazzonica-incontaminata/#respond Wed, 27 Mar 2019 00:10:49 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3816 Quando i primi esploratori europei giunsero in Sud America, l’impressione che ebbero dell’enorme distesa amazzonica fu quella di un luogo incontaminato dalla presenza umana, un’enorme foresta ancora allo stadio primordiale che ospitava popolazioni tribali incapaci di imprimere una traccia profonda del loro passaggio in una regione così ostile e selvaggia.

Fino ai primi anni ’90 del XX secolo, l’idea di un’Amazzonia incontaminata è rimasta pressoché immutata, ma nelle ultime tre decadi l’opinione di antropologi, archeologi e botanici sta mutando. La foresta amazzonica è davvero un luogo incontaminato, o si tratta soltanto di un mito basato sulla scarsa conoscenza di questo mix di ecosistemi pluviali?

Una foresta modellata dall’uomo

Fornire una risposta esaustiva a questa domanda è molto difficile a causa dei problemi che la stessa foresta presenta ai ricercatori. Si tratta di una delle regioni del pianeta più difficili da sondare, sia a causa della componente climatica sia per l’enorme biodiversità che tende a riappropriarsi velocemente di ogni spazio umano non manutenuto con disciplina e costanza.

Secondo una ricerca pubblicata su Science nel 2017, osservando più attentamente la biodiversità della foresta amazzonica sembrano emergere indizi rilevanti di una profonda impronta umana, indizi che indurrebbero a pensare che la foresta non sia quella forza inarrestabile e indomabile ritenuta da molti.

José Iriarte, ricercatore della University of Exeter, sostiene che la foresta amazzonica abbia subito diversi interventi umani, anche su larga scala, negli ultimi 13.000 anni, specialmente con la domesticazione di alcune piante iniziata 8.000 anni fa.

“Gli studi archeologici più recenti, specialmente quelli svolti nelle ultime due decadi, mostrano che la popolazione indigena del passato era più numerosa, più complessa ed ebbe un impatto sulla più grande e diversa foresta tropicale rispetto a quanto si ritenesse in passato” sostiene Iriarte.

L’analisi delle specie vegetali amazzoniche

Le più recenti stime sostengono che la foresta amazzonica sia popolata da circa 390 miliardi di alberi. Nel 2013, un gruppo di ecologi identificò circa 16.000 specie di piante differenti in oltre un migliaio di siti lontani dai centri abitati, scoprendo qualcosa di strano: oltre la metà degli alberi era costituita 227 specie, equivalente a circa l’1% delle specie vegetali identificate.

Pacay, o guaba (Inga feuillei), è una pianta leguminosa sudamericana coltivata fin dai tempi dell'impero Inca.
Pacay, o guaba (Inga feuillei), è una pianta leguminosa sudamericana coltivata fin dai tempi dell’impero Inca.

Venti di queste piante, definite “iperdominanti”, sono specie domestiche come la noce brasiliana o la Inga feuillei, e sono diffuse in numero cinque volte superiore rispetto a quanto i ricercatori si sarebbero aspettati per specie distribuite in modo casuale.

“Nacque l’ipotesi che forse i popoli locali avessero domesticato queste specie a lungo, contribuendo alla loro abbondanza in Amazzonia” spiega Hans ter Steege, a capo del gruppo di ecologi che condusse la ricerca nel 2013.

Per verificare questa ipotesi, ter Steege ha chiesto aiuto ad alcuni archeologi per indagare più nel dettaglio il numero di piante domesticate in prossimità degli insediamenti precolombiani delle Americhe. “La distanza da questi siti archeologici ha un effetto sull’abbondanza e la ricchezza delle specie domesticate dell’Amazzonia”.

Secondo i rilevamenti, il numero di specie domesticate diminuiva in rapporto alla distanza dai siti archeologici precolombiani, contribuendo a sostenere l’ipotesi che gli antichi popoli americani avessero condotto domesticazioni di portata rilevante su alcune specie vegetali oggi molto diffuse.

Specie lontane dai siti d’origine

La ricerca ha anche evidenziato che queste specie si trovavano a grandi distanze dalle regioni in cui si suppone siano emerse per la prima volta, portando a pensare che gli esseri umani le abbiano trasportate per poterle coltivare in altre località.

Il cacao, ad esempio, fu domesticato per la prima volta nelle regioni settentrionali dell’Amazzonia, regioni in cui oggi è possibile osservare una diversità genetica più vasta rispetto al resto delle Americhe.

Oggi, tuttavia, le specie di cacao sono prevalenti nelle regioni meridionali della foresta pluviale, suggerendo che siano state trasportate lungo l’Amazzonia dal loro luogo d’origine.

“Forse, la biodiversità amazzonica che vogliamo preservare non è solo frutto di migliaia di anni di evoluzione naturale, ma anche dell’impronta umana” sostiene Iriarte. “Più facciamo ricerca, più ci sono prove che sia così”.

Dolores Piperno, archeobotanica dello Smithsonian, è invece scettica, sottolineando che tra l’era precolombiana e questa ricerca sono trascorsi oltre 500 anni e che, nel frattempo, l’Amazzonia ha avuto modo di subire influenze da innumerevoli fattori climatici e biologici.

“Per alcune di queste specie ci sono poche o nessuna prova del loro utilizzo in tempi preistorici” spiega Piperno. “Le interpretazioni di questa ricerca sono principalmente basate sull’utilizzo moderno di queste piante ed è poco chiaro, per alcune specie, come siano utilizzate su larga scala ancora oggi”.

Piperno invita alla cautela citando l’esempio dell’ “albero del pane” Artocarpus camansi, coltivato intensivamente dalla civiltà Maya: attorno agli insediamenti di questo popolo precolombiano è possibile trovare grandi quantità di questi alberi, elemento interpretato in passato come un intervento attivo da parte dei Maya nella diffusione della pianta.

Qualche tempo dopo, tuttavia, si scoprì che i semi dell’albero possono essere diffusi facilmente e in grandi quantità dai pipistrelli, e che trovano terreno favorevole per la crescita in presenza del calcare che compone buona parte delle rovine Maya.

Persistent effects of pre-Columbian plant domestication on Amazonian forest composition

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Munduruku: una tribù che conta solo fino a 5 (e sbaglia) https://www.vitantica.net/2017/09/07/munduruku-una-tribu-che-conta-solo-fino-a-5-e-sbaglia/ https://www.vitantica.net/2017/09/07/munduruku-una-tribu-che-conta-solo-fino-a-5-e-sbaglia/#respond Thu, 07 Sep 2017 10:22:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=190 Sul pianeta esistono ancora circa 100 tribù che vivono in stato semi primitivo e che non hanno mai visto l’uomo civilizzato se non per qualche incontro isolato, avvenuto per puro caso o mantenendo una distanza di sicurezza che impediva ogni scambio culturale degno di tale nome.

Sebbene i Munduruku, una tribù di circa 7000 persone che vive nella foresta amazzonica brasiliana, abbiano avuto più di uno sporadico contatto con l’Occidente, hanno mantenuto buona parte del loro antico retaggio linguistico e culturale: il loro idioma non ha forme verbali, non ha tempi, non ha plurali e, cosa ancora più bizzarra, i Munduruku sanno contare solo fino a 5.

Una tribù ai margini della civiltà

Come si fa a vivere senza numeri? Al giorno d’oggi è del tutto impossibile, dato che la matematica ormai governa ogni aspetto della nostra quotidianità: non essere in grado di eseguire semplici calcoli aritmetici esclude ogni opportunità di interagire con le civiltà moderne. Ma i sistemi di numerazione coerenti e complessi sono un’invenzione relativamente recente del genere umano: prima di 10.000 anni, da quanto ne sappiamo, non esistevano.

Per quanto possa sembrare impossibile, esistono ancora luoghi in cui il calcolo del tempo e una numerazione complessa non hanno molto senso e rappresentano capacità poco produttive e di scarsa utilità nella vita di tutti i giorni. Questa è stata l’esperienza che ha avuto Pierre Pica, un linguista che ha speso 5 mesi con i Munduruku (chiamati anche Wuy Jugu) vivendo come loro, mangiando come loro, e apprendendo i segreti del loro linguaggio.

I Munduruku sono una tribù suddivisa in 22 villaggi che ospitano un totale di circa 13.700 individui. Vivono nel pieno della foresta amazzonica e, sebbene il loro ecosistema sia un luogo spesso inaccessibile anche ai più esperti esploratori, hanno avuto in passato contatti indiretti con il mondo industrializzato tramite missionari che hanno convertito alcuni villaggi al Cristianesimo.

Giovani guerrieri Munduruku
Giovani guerrieri Munduruku

La maggior parte dei villaggi dei Munduruku è concentrata lungo il fiume Cururu, all’interno di chiazze di savana che costellano il fitto della foresta pluviale brasiliana. In passato occupavano la valle del fiume Tapajos, un territorio chiamato Mundurukânia, ma si spostarono progressivamente ai margini della civiltà sotto la spinta dei missionari cristiani.

Pica non aveva alcuna intenzione di convertire i Munduruku: il suo scopo era quello di effettuare ricerche sulla loro cultura per afferrare i dettagli del loro linguaggio e sperimentare la loro percezione dei numeri e del tempo.

Raggiungere il territorio dei Munduruku si è rivelata un’impresa ostica: Pica ha dovuto attendere due settimane per poter essere trasportato tramite canoa nella regione in cui vivono. La foresta amazzonica di certo non pullula di autobus o treni e l’unico modo per raggiungere le zone più remote è quello di sfruttare i fiumi per viaggiare tra una regione e l’altra.

Un’esistenza senza numeri  e tempo

Ma se Pica era preparato a questo viaggio per nulla semplice, non era di certo pronto a vedere stravolta la sua vita durante i cinque mesi di permanenza tra i Munduruku: “Quando sono tornato dall’Amazzonia, ho perso il senso del tempo e dei numeri, ed anche il senso dello spazio”.

I Munduruku sono una tribù che non ha termini per definire lo scorrere del tempo, o per definire i numeri superiori a 5; la vita quotidiana ruota attorno alle loro esigenze primarie e l’aritmetica non fa parte di queste necessità. Pica si è dovuto adattare fin dal primo istante alla realtà della vita tribale: se piove, si rimane nella capanna; se c’è il sole, si esce e si va a caccia di tapiri e cinghiali, senza scadenze o orari di partenza e ritorno.

Lo scorrere del giorno è scandito solo dall’alba e dal tramonto e non c’è alcun bisogno di contare: se infatti si domanda ad un Munduruku quanti figli abbia, se sono più di cinque la risposta sarà: “Non lo so, è impossibile a dirsi”.

Munduruku

Questa risposta potrebbe sembrare inconcepibile per un occidentale, ma per i Munduruku il problema di contare la prole non si pone. Ritengono del tutto inutile contare i figli: questi crescono e imparano le nozioni fondamentali sotto la guida di tutti gli individui adulti della tribù e non ha nessun senso contarli o definire a chi appartengano.

I Munduruku pensano inoltre che imparare a contare oltre al 5 sia del tutto superfluo, se non addirittura dannoso: temono di dover essere costretti a sacrificare altre abilità più utili, come quella di orientarsi e di cacciare nella foresta, per imparare l’aritmetica elementare.

Il sistema di numerazione dei Munduruku

I Munduruku usano soltanto questi 5 numeri, anche se esistono altre parola per identificare quantità maggiori ma vengono utilizzate molto raramente:

  1. pug
  2. xep xep
  3. ebapug
  4. ebadipdip
  5. pug pogbi

Oltre il numero due, la precisione del conteggio sembra diminuire progressivamente indicando che, in realtà, non è che sappiano proprio contare, ma effettuano stime approssimative sulle quantità. Uno degli esperimenti di Pica si è svolto mostrando sul monitor di un computer una serie di punti, da 1 a 5, e valutando la percentuale di risposte corrette.

Se fino a “xep xep” (numero 2) le risposte sono state corrette al 100%, per i numeri successivi la precisione è andata calando drasticamente:

3 – ebapug: riconosciuto all’80%

4 – ebadipdip: riconosciuto al 70%

5 – pug pogbi: riconosciuto al 25%

Altra cosa curiosa da notare è che, per i numeri da 1 a 4, il numero delle sillabe che compongono le parole che definiscono questi numeri è pari al numero stesso: il struttura stessa della parola aiuta a ricordare la quantità.

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L’abilità dei Munduruku nel contare è estremamente limitata: sono in grado di fare una stima sulle quantità, per esempio affermando che un contenitore è più pieno o più vuoto di un altro, ma se si tratta di definire numericamente una quantità non riescono a superare il 5, e con gli errori che abbiamo visto sopra.

Non si tratta di un caso unico al mondo: anche gli aborigeni Warlpiri che vivono ad Alice Springs hanno solo tre concetti numerici: uno, due, e “molti”. Un altro esempio di scarsa capacità di conto sono gli Anindilyakwa, che hanno un metodo di conteggio ancora più bizzarro: hanno parole per “uno”, “due”, “molti” e “tre”, ma quest’ultimo assume talvolta il valore di quattro.

Cognition and arithmetic capability : what the Mundurucus Indians can teach us

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