acqua – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il nilometro egiziano https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/ https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/#respond Tue, 16 Jun 2020 07:15:45 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4874 Per le antiche popolazioni che vivevano lungo il Nilo, le inondazioni stagionali erano una vera e propria benedizione. Il fiume riempiva d’acqua e limo i terreni nei pressi delle sponde, fertilizzandoli e consentendo il mantenimento di un’economia agricola sufficientemente sviluppata da alimentare faraoni e persone comuni.

Ogni inondazione significava vita: vita per i raccolti, vita per la fauna e la flora che sopravvivevano in un clima arido come quello nordafricano. Inondazioni scarse, tuttavia, si traducevano in raccolti magri e un’economia agricola sensibilmente rallentata; lo stesso valeva per inondazioni dalla portata eccessiva e distruttiva.

Per questo motivo gli Egizi e i popoli che vennero dopo di loro hanno sempre considerato fondamentale il saper prevedere con accuratezza le future inondazioni del Nilo; per farlo, si servirono dei nilometri (noti come miqyas).

Le inondazioni del Nilo

Le inondazioni stagionali del Nilo hanno origine negli altipiani etiopi. Tra giugno e novembre, le abbondanti precipitazioni degli altipiani si riversano nel Nilo Azzurro, uno dei due principali affluenti del Nilo.

Nella stagione delle piogge il Nilo accumula acqua anche grazie ad altri affluenti, come il fiume Atbarah, il Sobat e il Nilo Bianco, riversando più a nord quantità immense di acqua e sedimenti.

Questo complesso sistema di piogge stagionali e affluenti era del tutto sconosciuto agli Egizi, che si limitavano ad osservare il cambiamento del livello del Nilo senza tuttavia conoscerne le vere ragioni. Tramite l’osservazione attenta del fiume, gli Egizi riuscirono comunque ad individuare i segni precursori di un’inondazione.

Il Nilo era così importante per gli Egizi da portarli a dividere l’anno in tre stagioni: Inondazione (Akhet), Crescita (Peret) e Raccolta (Shemu). La stagione delle inondazioni era così stabile e prevedibile che gli Egizi erano in grado di calcolare il suo inizio osservando il moto della stella Sirio.

La prima osservazione sul livello del fiume all’inizio della stagione delle inondazioni avveniva ad Assuan, nei pressi delle cateratte del Nilo, intorno al mese di giugno. Le acque continuavano a salire fino all’inizio di settembre, momento in cui generalmente si mantenevano stabili per circa 2-3 settimane per poi risalire tra ottobre e novembre, mesi che segnavano il picco del volume d’acqua.

Assuan era una sorta di postazione-vedetta che metteva in allerta il resto dell’ Egitto: le inondazioni raggiungevano la città circa una settimana prima del Cairo, alzando il livello delle acque fino a oltre 13 metri; una volta risalita più a nord, l’inondazione perdeva intensità e, giunta al Cairo, aveva un livello medio di 7,5 metri.

Le inondazioni stagionali del Nilo erano ciò che rendeva fertile l’arido terreno egizio, ma potevano anche portare a distruzione o carestie: secondo i resoconti stilati tra l’anno 622 e l’anno 1000, le inondazioni di scarsa intensità si verificavano 1 volta ogni 4 anni, esponendo l’intera popolazione al rischio di fame.

Raccolti e tasse

Una scarsa inondazione del Nilo poteva mettere letteralmente in ginocchio le economie fluviali presenti lungo le sue sponde; lo stesso valeva per un’inondazione particolarmente intensa, capace di devastare i raccolti dell’anno. Prevedere l’intensità delle inondazioni rappresentava quindi un’abilità di importanza strategica per le economie che si erano sviluppate lungo il Nilo.

Essendo una civiltà ben strutturata, anche quella egizia aveva in cima alla piramide sociale alcune classi non produttive dal punto di vista economico, come sacerdoti, governanti locali e faraoni.

Gli esponenti di queste classi privilegiate vivevano letteralmente sulle spalle delle classi produttive grazie ad un sistema di tassazione, meno complesso del nostro ma non per questo meno interessante. Questo sistema si basava principalmente sul calcolo dei tributi in base alla terra posseduta e al raccolto prodotto, due elementi strettamente legati all’attività del Nilo.

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Nessuna famiglia contadina il cui campo abbia goduto di un’ottima annata grazie al Nilo è contenta di cedere una parte del raccolto come tributo ai potenti; la stessa famiglia potrebbe reagire in modo spiacevole (e con essa tutte le altre nelle stesse condizioni) se si esige da essa lo stesso tributo anche nelle annate peggiori.

Il nilometro era lo strumento utilizzato per calcolare “equamente” i tributi dell’anno corrente. Se il nilometro locale avesse registrato un livello delle acque del Nilo troppo basso, presagio di inondazioni scarse e potenziali carestie, le tasse sarebbero state abbassate rispetto ad una normale stagione d’inondazione.

Lo stesso valeva nel caso di livello delle acque troppo alto: inondazioni troppo intense avrebbero distrutto i raccolti e le strutture fondamentali per la vita quotidiana della gente comune.

Il nilometro

Nel corso della storia sono esistiti tre fondamentali tipologie di nilometro, alcune sopravvissute fino ad oggi come testimonianza dell’ingegno locale. Il primo tipo è sostanzialmente una colonna di pietra o marmo sorretta in verticale da una trave di legno in cima e posizionata all’interno di un pozzo.

La colonna veniva suddivisa in cubiti (un cubito equivale a circa 58 centimetri) incidendo una serie di tacche: l’altezza dell’acqua in cubiti forniva una buona indicazione del livello futuro del Nilo e della portata delle inondazioni in arrivo.

Nilometro di Rawda
Nilometro di Rawda

Il livello ideale delle acque nel nilometro di Rawda, realizzato secondo questo design, era intorno ai 16 cubiti; un livello inferiore poteva indicare un periodo di crisi dovuto a scarse inondazioni, mentre un livello superiore ai 19 cubiti era presagio di inondazioni catastrofiche in grado di distruggere campi e abitazioni.

All’avvicinarsi delle inondazioni, i sacerdoti incaricati di monitorare il flusso del Nilo scendevano sul fondo del nilometro usando una scalinata ed esaminavano la colonna per calcolare la portata delle future inondazioni.

Il nilometro era un luogo ad accesso riservato: solo i governanti locali, i sacerdoti e i faraoni potevano avere accesso alla struttura, spesso collocata all’interno di un tempio. La previsione delle inondazioni del Nilo era un’abilità che la politica sfruttava a suo vantaggio per calcolare la tassazione e impressionare le masse.

Il secondo tipo di nilometro, come quello visibile sull’Isola Elefantina, era costituito invece da una lunga scalinata (52 scalini nel caso di Elefantina) che scendeva direttamente sul fiume e provvista di indicatori che segnalavano il livello delle acque. Il nilometro di Elefantina era spesso uno dei primi a fornire previsioni sulle inondazioni, dato che si trovava presso il confine meridionale.

Nilometro di Kom Ombo
Nilometro di Kom Ombo

Il terzo tipo di nilometro, osservabile nel Tempio di Kom Ombo, era un sistema di canali che prelevava l’acqua dal Nilo e la depositava in una cisterna provvista di tacche. Il riempimento della cisterna forniva una buona indicazione della portata delle future inondazioni.

Diversi nilometri sono decorati da iscrizioni propiziatorie spesso ispirate da versi coranici relativi all’acqua, alla vegetazione e alla prosperità. Dai nilometri iniziavano anche alcune delle più grandi festività dell’ Egitto medievale, come il Fath al-Khalij (“Apertura del Canale”), un festival con cui si celebrava l’apertura del canale che collegava il fiume a campi e giardini.

L’importanza dei nilometri

La popolazione dell’ antico Egitto iniziò a convivere con le inondazioni cicliche del fiume circa 7.000 anni fa, architettando un ingegnoso sistema di fertilizzazione e irrigazione.

Le terre coltivabili, generalmente troppo aride prima delle inondazioni, venivano suddivise in campi circondati da dighe di terra fornite di canali d’ingresso e d’uscita. Quando il Nilo era in piena, si inondavano i campi più in alto rispetto al livello del fiume e li si lasciavano colmi d’acqua per circa 45 giorni, in modo tale da saturare d’acqua il terreno e permettere al limo di depositarsi.

Terminati i 45 giorni, venivano aperte le chiuse e l’acqua defluiva verso i campi più in basso. Al termine di questo ciclo di fertilizzazione, l’acqua tornava nuovamente nel Nilo. I campi appena svuotati venivano immediatamente arati e seminati: il raccolto sarebbe arrivato entro 3-4 mesi dalla semina.

Questo sistema agricolo è indissolubilmente legato ai capricci del Nilo: nei periodi di grandi inondazioni, le dighe venivano distrutte, il limo non riusciva a depositarsi e i campi erano sostanzialmente inutilizzabili; dopo inondazioni scarse o durante la stagione secca, era di fatto impossibile coltivare qualunque cosa. Ogni speranza di mangiare, allevare e commerciare per il resto dell’anno era quindi legata alle inondazioni stagionali e alla loro portata.

Nonostante la ristretta stagione di semina e raccolto, dopo un’inondazione di media intensità, la più frequente e desiderata dagli agricoltori egizi, era possibile sfamare dai 2 ai 12 milioni di abitanti.

Nilometer – Wikipedia
Nilometer
Exploring Nilometers in Egypt
Nilometers: Ancient Egypt’s Ingenious Invention Used Until Modern Times

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Calabash, la zucca bottiglia https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/ https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/#respond Mon, 28 Oct 2019 00:25:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4632 La zucca calabash (Lagenaria siceraria), chiamata anche zucca a fiasco, cocozza o zucca bottiglia, è un frutto conosciuto da millenni nelle regioni tropicali e subtropicali del mondo per le sue proprietà, alimentari e non.

Sebbene non compresa nelle diete degli antichi cacciatori-raccoglitori come cibo di largo consumo, la zucca calabash costituì per molto tempo la materia prima per fabbricare ottimi e pratici contenitori per liquidi.

La zucca bottiglia

E’ possibile che l’origine della Lagenaria siceraria sia africana. Nel 2004 una varietà molto antica di calabash è stata osservata in Zimbabwe: è possibile che la domesticazione di questa pianta sia iniziata in Africa qualche migliaio di anni fa allo scopo di selezionare le zucche dalle pareti più spesse e resistenti.

La prima fase di domesticazione sembra essersi verificata 8.000-9.000 anni fa in Africa, seguita da una fase asiatica e una seconda, grande opera di domesticazione in Egitto circa 4.000 anni fa.

Le zucche a fiasco sono state coltivate per millenni in Africa, Asia, Europa e Americhe. Nel Vecchio Continente, il monaco benedettino Walahfrid Strabo inserisce le zucche calabash tra le 23 piante del giardino ideale nella sua opera “Hortulus“.

L’arrivo nelle Americhe potrebbe essere stato del tutto accidentale: alcune zucche potrebbero aver attraversato l’Atlantico sospinte dalle correnti oceaniche oltre 10.000 anni, fa partendo dall’Africa arrivando sulle coste americane settentrionali e meridionali.

Caratteristiche della zucca calabash

La vite della zucca bottiglia preferisce suoli ricchi di nutrienti, umidi e ben drenati. Necessita di molta umidità per crescere a dovere, oltre ad una lunga esposizione alla luce solare al riparo dal vento.

Le zucche calabash crescono molto velocemente: i viticci possono raggiungere la lunghezza di nove metri durante una singola estate. Se fatte crescere sotto un albero, le viti di calabash possono scalarlo completamente fino a raggiungere la vetta.

Per ottenere più zucche, tradizionalmente si tagliava la punta dei viticci una volta raggiunta la lunghezza di 2-3 metri, forzando la pianta a creare ramificazioni in grado di produrre più frutti.

La zucca calabash contiene cucurbitacine che possono risultare tossiche per alcune persone, specialmente se il frutto viene fatto maturare troppo o conservato male. Il sapore amaro della polpa è un buon indicatore della presenza di un’elevata dose di cucurbitacine.

Zucche calabash trasformate in contenitori
Zucche calabash essiccate e decorate. Foto: MelindaChan

Ci sono casi di fatalità causata dall’ingestione dei succhi delle calabash, ma sono pochi e spesso legati alla cattiva conservazione delle zucche, o allo stato di salute del singolo individuo (è sconsigliato il consumo per i diabetici).

Diverse cucine tradizionali asiatiche, africane e americane prevedono ancora oggi l’uso di svariate specie di calabash come ingrediente per piatti gustosi e nutrienti.

Le calabash contengono potassio, magnesio, acido folico, vitamina A e C, ma hanno uno scarso valore calorico e forniscono una discreta dota di carboidrati.

Un frutto dai molteplici utilizzi

Le zucche calabash svuotate della loro polpa costituiscono contenitori per liquidi molto comuni in Africa. Le più piccole vengono generalmente usate per sorseggiare vino di palma, le più grandi invece per conservare acqua e alimenti liquidi o macinati.

I Sepedi e IsiZuku sudafricani usano quotidianamente le zucche-bottiglia per trasportare l’acqua sufficiente a dissetare intere tribù e per fabbricare utensili come coppe, ciotole, cappelli parasole e come zainetti.

In Cina le zucche a fiasco sono chiamate hulu e hanno assunto da molto tempo il valore simbolico di portatrici di buona salute. Fino a tempi relativamente recenti, i praticanti di medicina tradizionale utilizzavano le zucche bottiglia per conservare medicinali e liquidi.

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Tra le credenze popolari cinesi c’è quella che vede le hulu come trappole per gli spiriti maligni: queste zucche avrebbero il potere di catturare il qi negativo, in grado di alterare in negativo lo stato di salute.

In India le calabash sono utilizzati come risonatori per alcuni strumenti musicali, come il sitar, il surbahar e il tanpure. Gli asceti hindu usano tradizionalmente le zucche a fiasco (chiamate kamandalu) per consumare succhi considerati medicinali; in alcune regioni rurali, invece, questi frutti sono utilizzati come galleggianti per insegnare a nuotare.

In Sudamerica le zucche calabash vengono fatte essiccare per produrre contenitori di mate, una bevanda popolare tra le comunità tradizionali di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay e Paraguay.
In Brasile inoltre le calabash vengono impiegate per realizzare i berimbau, tipici strumenti musicali che accompagnano i movimenti della capoeira.

Fonti per “Calabash, la zucca bottiglia”

Transoceanic drift and the domestication of African bottle gourds in the Americas
Discovery and genetic assessment of wild bottle Gourd [Lagenaria siceraria (Mol.) Standley; Cucurbitaceae] from Zimbabwe
Calabash

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La disidratazione https://www.vitantica.net/2019/04/10/disidratazione/ https://www.vitantica.net/2019/04/10/disidratazione/#respond Wed, 10 Apr 2019 00:09:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3878 La disidratazione è uno dei fenomeni più comuni in situazioni di sopravvivenza. Intuitivamente riteniamo che possa insorgere solo in situazioni di caldo estremo, ma la disidratazione è una condizione molto più comune di quanto siamo portati a pensare.

Sete e disidratazione

Con il termine “disidratazione” si identifica una perdita d’acqua dovuta a processi fisologici normali, inclusa la respirazione, l’evacuazione di fluidi corporei, la sudorazione, la diarrea o il vomito.

La perdita di volume sanguigno, determinata anche dalla quantità d’acqua corporea, è un meccanismo diverso regolato da un sistema separato, ma che può comunque generare la sensazione di sete.

Per un organismo sano è fondamentale mantenere costante il livello di fluidi corporei. I recettori della sete rilevano la quantità di acqua e sali all’esterno delle cellule (liquido interstiziale) per determinare se sia inferiore o superiore a quella del fluido intracellulare: se si verifica uno sbilanciamento tra il liquido interstiziale e il fluido intracellulare, scatta l’allarme sete.

La sensazione di sete può essere scatenata anche dalla perdita di volume sanguigno, indipendentemente dalla quantità di liquido interstiziale, una condizione che si manifesta con emorragie, vomito e diarrea. L’organismo cerca di comunicarci che il sangue non può più circolare liberamente e che il cuore sta facendo fatica a svolgere il suo ruolo di pompa.

Sintomi della disidratazione

La sete è il primo sintomo di disidratazione, anche se può sopraggiungere in ritardo rispetto alla perdita consistente di liquidi. In seguito si manifestano mal di testa, perdita di appetito, confusione, stanchezza, irritabilità e riduzione del volume di urina. Nei casi di disidratazione severa insorgono letargia e perdita di coscienza.

Sintomi della disidratazione
Sintomi della disidratazione. Fix.com

Anche solo la perdita dell’ 1-2% dell’acqua corporea può causare sintomi, inizialmente poco percettibili, come minimo impedimento delle corrette funzioni cognitive, bocca secca e lieve affaticamento. Nelle persone sopra i 50 anni la sensazione di sete diminuisce progressivamente con l’età.

Quando si perde troppa acqua il sangue diventa troppo denso, la pressione sanguigna si abbassa, si ferma la sudorazione e l’organismo non è più in grado di termoregolarsi, causando un aumento della temperatura interna e l’aumento della possibilità di un colpo di calore.

Quando si verifica una perdita di liquidi pari al 3-4% dell’acqua corporea il battito cardiato accelera e la temperatura aumenta: il corpo sta cercando di conservare l’acqua e ordina ai reni di concentrare l’urina, che inizia a diventare più scura.

Quando la percentuale sale a 5-8% (disidratazione severa) si inizia ad essere molto affaticati e confusi, si perde la coordinazione motoria e si ha una sensazione di nausea che può sfociare in vomito. Non si è più lucidi e si possono prendere decisioni avventate o illogiche.

Una perdita pari o superiore all’ 8% dell’acqua corporea può causare deterioramento fisico e mentale ed è accompagnata da una pressante sensazione di sete. Si tende a perdere coscienza molto facilmente o ad avere convulsioni; se la disidratazione non viene fermata si rischia lo shock, il coma e il malfunzionamento degli organi interni. La morte sopraggiunge con una perdita di liquidi pari al 15-20%.

Cause della disidratazione

E’ universalmente noto che la disidratazione viene accelerata da ambienti caldi e umidi o dall’attività fisica, ma anche le altitudini elevate e climi rigidi possono contribuire alla perdita d’acqua corporea. Anziani, bambini e individui affetti da malattie croniche sono inoltre più esposti.

Non sottovalutate la disidratazione, anche se siete allenati: nel 2007 Dave Buschow, 29 anni e in salute, è morto al secondo giorno di un corso di sopravvivenza nel deserto dello Utah dopo una marcia di 10 km verso una sorgente d’acqua naturale durata 10 ore e con numerose soste di riposo.

Durante la marcia, gli istruttori rifiutarono di fornirgli acqua; dopo essere stato colto da crampi e avere avuto allucinazioni visive, si è accasciato a terra a meno di 100 metri dalla sorgente, esausto e disidratato, morendo poco dopo.

Il consumo di cibi ad alto contenuto di zucchero o di sale accelera la disidratazione. L’assunzione di bevande zuccherate o succhi di frutta non è raccomandata, specialmente nei bambini sotto i 5 anni, perché potrebbe aumentare il rischio di diarrea.

Disidratazione

Il corpo umano è in grado di perdere 2 litri d’acqua ogni ora di attività fisica o di esposizione ad ambienti caldi e umidi, con picchi di 3 litri durante sforzi intensi in climi particolarmente caldi. Con una perdita di liquidi di questa portata si perdono anche quantità considerevoli di elettroliti, come il sodio.

Negli atleti, fare esercizio e sudare per 4-5 ore comporta una perdita di sodio di poco inferiore al 10% delle risorse corporee, una perdita tollerabile dalla maggior parte delle persone in salute.

Consumare alcool accelera la disidratazione: l’alcol è un diuretico e il mal di testa che si sperimenta dopo una sbornia è generalmente la conseguenza della disidratazione provocata dall’assunzione di bevande alcoliche.

Prevenzione e cura della disidratazione

L’apporto minimo di acqua varia in base a diversi fattori, come l’età, l’ambiente e la genetica di un individuo. Ad oggi non è stato ancora dimostrato che attendere la sensazione di sete, o prevenirla, apporti benefici durante l’attività fisica.

Se ci si trova in ambienti caldi è fondamentale evitare di sudare eccessivamente, limitando l’attività fisica e bevendo spesso e a piccoli sorsi. In climi caldi e secchi il sudore potrebbe evaporare molto velocemente, creando difficoltà nel quantificare la perdita di liquidi dell’organismo.

In ambienti freddi, invece, si può essere tentati all’ingestione di neve, ma è un comportamento da evitare: ingerire liquidi troppo freddi abbasserà la temperatura corporea costringendo l’organismo a consumare energie per alzarla, attività che causa ulteriore disidratazione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha determinarto che la soluzione ottimale per la reidratazione orale di individui disidratati è composta da un litro d’acqua con l’aggiunta di 3 grammi di sale e 18 grammi di zucchero. Occorre non superare le dosi consigliate perché potrebbero causare ulteriore disidratazione.

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La disidratazione tra i cacciatori-raccoglitori

E’ difficile determinare quanta acqua sia necessaria ad un cacciatore-raccoglitore per evitare la disidratazione, ma ricerche come questa possono fornire qualche indizio.

Gli aborigeni australiani hanno un ritmo di sudorazione sensibilmente più basso rispetto a quello di un individuo cresciuto nelle società occidentali. Non si tratta di sola genetica: gli aborigeni sfruttano al meglio il tempo a loro disposizione dedicando le ore più fresche alla caccia, pesca e raccolta e riposando durante il pomeriggio, quando le temperature raggiungono i picchi più estremi.

La perdita massima di acqua durante l’arco di 12 ore e nelle zone più aride d’Australia è stata calcolata a circa 5,4 litri, ma questa misurazione può raggiungere i 7 litri se le attività quotidiane iniziano a mattino inoltrato.

Gli aborigeni australiani sono in grado di sopportare molto bene la perdita del 4% di acqua corporea senza sperimentare effetti psicofisici evidenti. Ma anche con i loro adattamenti fisiologici al clima possono risentire pesantemente di una dura giornata di lavoro in assenza di acqua: è per questo che non perdono occasione per dissotterrare radici e tuberi ricche di liquidi non appena si presenta l’occasione, o per fermarsi in corrispondenza di sorgenti d’acqua per bere qualche sorso ristoratore.

Thirst
Dehydration

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La navigazione oceanica polinesiana senza strumenti https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/ https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/#comments Mon, 08 Apr 2019 00:03:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3881 Di recente ho affrontato il tema della spedizione Kon-Tiki, una missione volta a dimostrare che i primi popoli polinesiani fossero giunti dal Sud America a bordo di zattere e senza alcuna tecnologia di navigazione.

Come citato in questo articolo sulla Kon-Tiki, le culture polinesiane sono note da secoli per la loro straordinaria abilità di navigare l’oceano senza l’uso di strumentazione moderna come bussole, sestanti o dispositivi satellitari; spesso non possono nemmeno fare affidamento sulla navigazione costiera, considerate le enormi distanze che spesso separano un’isola dall’altra.

Come è possibile coprire lunghe distanze per mare senza alcuno strumento di navigazione moderno? Nainoa Thompson della Polynesian Voyaging Society, allievo del celebre navigatore micronesiano Mau Piailug (scomparso nel 2010 all’età di 78 anni), afferma che la “bussola stellare” utilizzata dai polinesiani sia così efficace da permettere un orientamento pressoché perfetto anche senza alcuno strumento.

Gli insegnamenti di Mau Piailug

La bussola stellare è un costrutto mentale utilizzato per la navigazione: identificando le stelle, memorizzando il loro percorso e conoscendo direzione e velocità di navigazione, è possibile determinare la propria posizione nell’oceano.

“Come determiniamo la direzione? Usiamo i migliori indizi a partire da ciò che abbiamo a disposizione” spiega Thompson. “Usiamo il sole quando è basso sull’orizzonte. Mau ha stabilito nomi diversi in base alle dimensioni del sole e alle differenti colorazioni dell’acqua in corrispondenza del percorso solare. Quando il sole è basso, il percorso disegnato sull’acqua è stretto; quando è alto sull’orizzonte diventa sempre più largo. Quando il sole è troppo alto non si può determinare dove sia sorto e occorre basarsi su altri elementi”.

Bussola stellare polinesiana
Bussola stellare polinesiana

“L’alba è il momento più importante della giornata. All’alba si inizia ad osservare la forma dell’oceano, il carattere del mare. Si memorizza la direzione del vento. Il vento genera onde sulla superficie marina. Al tramonto si ripete l’osservazione. Il sole si abbassa e si guarda la forma delle onde. E’ cambiato il vento? Sono cambiate le onde oceaniche? Durante la notte si usano le stelle. Usiamo circa 220 stelle, memorizzando dove sono sorte e dove tramontano”.

“Quando sono tornato dal mio primo viaggio da Tahiti alle Hawaii come apprendista navigatore, Mau mi invitò in camera e mi disse: sono molto orgoglioso del mio studente. Hai fatto un buon lavoro, per te e per il tuo popolo. Tutto ciò che devi vedere è nell’oceano ma ti occorreranno altri vent’anni per vederlo”.

“Quando è nuvoloso e non si possono usare sole o stelle si può soltanto fare affidamento sulle onde. Uno dei problemi è che quando il cielo si oscura sotto nuvole pesanti durante la notte non si possono vedere le increspature della superficie marina. Non si riesce nemmeno a vedere la prua della canoa. Ed è in questa circostanza che persone come Mau si dimostrano così esperte. Anche se si trovasse all’interno dello scafo percepirebbe le onde del mare muoversi sotto la canoa e potrebbe determinare la direzione dell’imbarcazione. Io non riesco a farlo”.

La bussola stellare

La navigazione polinesiana usa il sole come punto di riferimento per la navigazione diurna. Due volte al giorno, all’alba e al tramonto, il sole fornisce un punto di riferimento per orientarsi in mare.

Per mantenere una rotta precisa il navigatore si allinea con i punti in cui il sole sorge o tramonta grazie a 16 segni sulla canoa, 8 per ogni lato, accoppiati con un singolo punto sulla poppa della canoa.

Le stelle del cielo notturno sorgono e tramontano in particolari direzioni. Il navigatore mantiene la rotta orientando la canoa verso le stelle che sorgono o tramontano nella direzione desiderata, effettuando continue correzioni per compensare la direzione del vento e il moto ondoso.

Bussola stellare polinesiana

“La Croce del Sud è molto importante per noi” spiega Thompson. “Sembra un aquilone. Due stelle sella Croce del Sud puntano sempre a sud (Gacrux e Acrux). Se si sta viaggiando in canoa verso sud, quelle stelle sembreranno spostarsi sempre più in alto nel cielo notturno. […] Se ci si dirige a nord verso le Hawai’i, ogni notte la Croce del Sud si sposta nel cielo seguendo un arco sempre più basso sull’orizzonte”.

Per trovare correttamente la direzione, i polinesiani usano coppie di stelle differenti in base all’emisfero in cui si trovano: una linea immaginaria tra queste coppie determinerà il nord o il sud.

La Luna

Anche la Luna segue un’eclittica, un percorso apparente sulla volta celeste, completando il suo ciclo in 29,5 giorni. Nel calendario tradizionale hawaiano, il mese lunare era determinato da questo ciclo e dal susseguirsi delle fasi lunari.

Il ciclo lunare veniva diviso in tre periodi di 10 giorni, chiamati “ho’onui“, “poepoe” e “‘emi“, a loro volta suddivisi in “fasi” in base alla visibilità del nostro satellite naturale.

Confrontando le fasi lunari, la posizione della Luna e quella delle stelle conosciute consentiva di determinare con una certa precisione la posizione nell’oceano e la rotta da seguire.

Il moto ondoso
"Mappa" che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine
“Mappa” che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine

Le onde generate da venti forti, più precisamente quelle che sono prodotte dalle tempeste e tendono a persistere oltre la durata del fenomeno atmosferico che le ha create, hanno una direzione più stabile rispetto a quelle generate dalla brezza marina o da venti locali.

Talvolta è più semplice percepire un’onda di questo tipo piuttosto che vederla. Le tempeste che nascono nel Pacifico del sud durante l’estata hawaiana tendono a generare un moto ondoso che punta a sud; quelle invece che si scatenano durante l’inverno nel Pacifico del nord producono onde che puntano nella direzione opposta.

Qesto tipo di moto ondoso può cambiare direzione con il tempo seguendo lo spostamento della tempesta che lo ha generato. E’ per questo che i polinesiani preferiscono incrociare le informazioni sul moto ondoso con quelle raccolte dall’osservazione delle stelle, ottenendo misurazioni più affidabili.

Navigazione imprecisa ma corretta

Navigare senza strumenti è un’operazione che porta a inevitabili errori di precisione. Conservare nella memoria tutte le informazioni necessarie a determinare la corretta posizione nell’oceano non è affatto facile; anche riuscendo a farlo, si commetteranno inevitavbilmente errori di approssimazione.

I navigatori polinesiani tuttavia non cercavano di navigare verso la loro destinazione con accuratezza assoluta. Le isole del Pacifico si trovano spesso in “cluster”, gruppi che possono estendersi anche per centinaia di chilometri.

I navigatori polinesiani facevano affidamento sull’avvistamento di questi cluster per correggere la loro rotta e puntare con più accuratezza la loro destinazione: l’arcipelago di Tuamotu, ad esempio, si estende per oltre 600 chilometri da nord a sud e per altrettanti chilometri da est a ovest.

Il "triangolo polinesiano", una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione
Il “triangolo polinesiano”, una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione

Viaggiando da Tahiti alle Hawaii (il viaggio effettuato da Mau Piailug e Thompson) è possibile fare rotta verso una direzione generica in un cono di circa 500 chilometri compreso tra le isole Manihi e Maupiti: raggiungendo una delle isole intermedie, il navigatore può orientarsi con più precisione e raggiungere la sua effettiva destinazione senza troppe difficoltà.

Se si dovesse capitare in un vasto tratto di mare tra due o più isole non visibili ad occhio nudo, i polinesiani cercavano di localizzare indizi di vicinanza con la terraferma, come vegetazione galleggiante, gruppi di nubi che tendono a concentrarsi sopra i picchi delle isole, uccelli marini o particolari caratteristiche del moto ondoso.

Polynesian Voyaging Society: Summary Wayfinding, or Non-Instrument Navigation

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La raccolta dell’acqua piovana nell’antichità https://www.vitantica.net/2019/02/22/raccolta-acqua-piovana/ https://www.vitantica.net/2019/02/22/raccolta-acqua-piovana/#respond Fri, 22 Feb 2019 00:10:51 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3674 L’acqua è un elemento essenziale per la sopravvivenza di quasi tutte le specie viventi. Lo sappiamo oggi come lo sapevano i nostri antenati, che si ingegnarono per escogitare qualunque sistema in grado di raccogliere e conservare l’acqua.

La scarsità di acqua dolce

Nelle regioni più aride del pianeta non è sufficiente scavare fino a raggiungere una falda o un piccolo accumulo d’ acqua piovana. In aree come il deserto del Sahara l’unica acqua disponibile si trova in giacimenti fossili collocati a profondità troppo grandi da essere raggiungibili a colpi di bastoni da scavo o vanghe.

In altre zone, invece, l’acqua fa la sua apparizione solo in particolari stagioni dell’anno, o gli unici depositi disponibili non sono sfruttabili dall’essere umano a causa dell’inquinamento biologico causato dalla presenza di animali grandi e piccoli.

Con l’avvento dell’agricoltura divenne indispensabile avere una riserva costante d’acqua per irrigare i campi, per cuocere i prodotti della terra e per far fronte alle necessità idriche di un’urbanizzazione sempre crescente. Questo rese necessario escogitare un sistema in grado di raccogliere e immagazzinare l’unica sorgente d’acqua pulita a disposizione: la pioggia.

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Raccolta e distribuzione dell’acqua in India

L’archeologia ha da tempo notato uno schema nelle civiltà nel passato: più una cultura avanzava tecnologicamente e socialmente, più diventava abile nel raccogliere, conservare e distribuire l’acqua.

Nelle regioni in cui non era disponibile una fonte virtualmente inesauribile di questo prezioso liquido furono ideati sistemi estremamente elaborati per raccogliere l’acqua piovana, preservarla dalla variabilità del clima e distribuirla a chiunque ne avesse bisogno.

L’uso di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana risale almeno al Neolitico. Intorno al 4000 a.C. emersero i primi sistemi di gestione dell’acqua con la costruzione di cisterne in cui veniva accumulata la pioggia o la poca acqua disponibile in determinati periodi dell’anno.

Cisterna di Dholavira
Cisterna per l’acqua piovana a Dholavira

I primi insediamenti nella Valle dell’ Indo, emersi tra il 3000 e il 1500 a.C., hanno lasciato numerose tracce scritte sui sistemi di raccolta dell’acqua piovana. Dholavira, uno dei siti fondamentali per lo studio delle culture dell’ Indo, ospita ancora oggi i resti di numerose cisterne per l’accumulo dell’acqua piovana, cisterne visibili anche a Mohanjodaro e Harappa.

L’acqua piovana era immagazzinata in bacini sotterranei chiamati Tanka, Kund o Kundis. Nel villaggio di Vadi-Ka-Melan esiste ancora oggi una cisterna kund costruita nel 1607, cisterna che consentì per secoli di superare i periodi di siccità che si verificano ciclicamente nella regione.

Tra il 1011 e il 1037 d.C. in India, nel distretto di Tamil Nadu, fu costruita una cisterna per l’acqua piovana chiamata Viranam. L’acqua raccolta da questa enorme cisterna, lunga 16 km e dalla capacità di 41 milioni di metri cubi d’acqua, era impiegata per l’irrigazione o come acqua da bere.

Raccolta dell’acqua piovana sul Mediterraneo

Anche Israele ha la sua storia sulla raccolta e conservazione dell’acqua piovana. Nel sito che oggi viene considerato la città biblica di Ai (Khirbet et-Tell) esiste una cisterna vecchia di oltre 4.500 anni e capace di contenere 1.700 metri cubi di acqua piovana. La cisterna fu costruita scavando la roccia, rinforzandola con pietre e sigillando ogni foro e fessura con argilla cotta.

A Creta, un’isola su cui non abbondano sorgenti d’acqua dolce, esistono cisterne per l’acqua piovana che risalgono all’epoca minoica, tra il 2.600 e il 1.100 a.C. Una di queste cisterne, quella visibile a Myrthos-Pyrgos, ha la capacità di 80 metri cubi ed è stata costruita circa 3.700 anni fa.

Cisterna per l'acqua nell'antica città di Ammotopos (IV secolo d.C.)
Cisterna per l’acqua nell’antica città di Ammotopos (IV secolo d.C.)

Anche i Romani costruivano cisterne per l’accumulo dell’acqua piovana, alcune connesse direttamente agli acquedotti che viaggiavano lungo tutta la penisola. A Pompei erano presenti cisterne sui tetti delle case prima della costruzione dell’acquedotto che raggiungeva la città.

L’esperienza romana nei sistemi di raccolta dell’acqua piovana sembra derivare dalla tecnologia cretese: all’interno di un cortile interno (atrium) si trovava una cisterna centrale che accumulava la pioggia che scorreva lungo i tetti pendenti verso l’interno.

Per secoli Venezia fu dipendente dalla raccolta di acqua piovana. La laguna che circonda la città contiene acqua che non può essere impiegata per l’irrigazione o per il fabbisogno della cittadinanza, per cui furono stabiliti dei sistemi di raccolta dell’acqua piovana che si basavano su speciali pavimentazioni inclinate che convogliavano l’acqua all’interno di filtri di sabbia connessi a pozzi pubblici.

Sistemi di raccolta dell’acqua piovana

La raccolta dell’acqua piovana è un’operazione relativamente semplice che può richiedere una disponibilità minima di materiali. Serve una superficie inclinata o conica da esporre alla pioggia e un contenitore che possa raccogliere l’acqua piovana.

Sistema di raccolta dell'acqua piovana basato su un telo impermeabile e un contenitore
Sistema di raccolta dell’acqua piovana basato su un telo impermeabile e un contenitore

I sistemi di raccolta dell’acqua piovana, specialmente nelle regioni più aride o che hanno precipitazioni concentrate in alcuni periodi dell’anno, devono massimizzare l’accumulo d’acqua per evitare sprechi. Il tetto di una casa, ad esempio, è naturalmente esposto agli agenti atmosferici e si è storicamente rivelato uno dei metodi più comuni, semplici ed efficaci per la raccolta dell’acqua piovana.

Un tetto dotato della giusta inclinazione è in grado di convogliare ogni ora svariati litri d’acqua piovana verso un unico punto di raccolta, immettendo il liquido accumulato in tubature collegate a cisterne o sfruttando semplicemente la gravità per versare acqua all’interno di recipienti posti al livello del terreno.

In passato sono stati utilizzati materiali di diversa natura per creare semplici recipienti per l’acqua piovana: foglie, ceramica, bambù e metallo possono creare recipienti di raccolta e tubature in capaci di convogliare l’acqua all’interno di contenitori e cisterne.

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Ingegneria al servizio dell’acqua piovana

Ma l’accumulo dell’acqua piovana può essere anche un lavoro che richiede complesse capacità ingegneristiche. Nel 1615 Abdul Rahim Khan costruì un complesso sistema di raccolta dell’acqua piovana a Burhanpur, in India. Il sistema era costituito da condutture sotterranee connesse a tubature verticali che convogliavano l’acqua in discesa dalle colline di Satpura fino al fiume Tapti durante la stagione umida.

Chand Baori, un'enorme cisterna per l'acqua piovana
Chand Baori, un’enorme cisterna per l’acqua piovana nel villaggio di Abhaneri in Rajasthan. E’ stata costruita nell’anno 800 d.C., è profonda 30 metri ed è stata dedicata ad Hashat Mata, la divinità della gioia e della felicità.

L’interramento delle cisterne si rese necessario per due ragioni fondamentali: evitare l’evaporazione dell’acqua durante la stagione calda ed impedire che le cisterne di acqua stagnante diventassero l’ambiente ideale per insetti infestanti come le zanzare, che proliferano nell’acqua stagnante, o la contaminazione da parte di funghi, residui vegetali o escrementi animali e umani.

L’efficacia di un sistema per la raccolta dell’acqua piovana dipende strettamente dalla superficie che espone alle precipitazioni. La pluviometria misura la pioggia in millimetri per metro quadrato: se in un’area di 1 metro quadrato cadono 20 millimetri di pioggia, si avranno un totale di 20 litri d’acqua (se si esclude qualunque forma di dispersione).

Una pioggia leggera si attesta a circa 25 millimetri in 1 ora. Nelle condizioni ideali si tratterebbe di ben 25 litri d’acqua in un’ora, ma se poniamo sotto la pioggia un recipiente di piccole dimensioni la quantità d’acqua raccolta sarà proporzionalmente inferiore.

An Introduction to Rainwater Harvesting
Rainwater harvesting
Rainwater harvesting in Ancient Times and its Sustainable Modern techniques

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Dissalatore o alambicco solare: è utile alla sopravvivenza? https://www.vitantica.net/2019/01/14/dissalatore-alambicco-solare-sopravvivenza/ https://www.vitantica.net/2019/01/14/dissalatore-alambicco-solare-sopravvivenza/#respond Mon, 14 Jan 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2761 Uno dei metodi più conosciuti e consigliati per ottenere acqua in situazioni di emergenza è il dissalatore solare (o “alambicco solare”, “distillatore solare”), un sistema che sfrutta l’evaporazione per ottenere acqua potabile anche in regioni aride. Ma quanto è efficiente il dissalatore solare? Può davvero permettere la sopravvivenza in carenza di sorgenti d’acqua?

Breve storia del dissalatore solare

Sembra che nel IV secolo a.C. Aristotele descrisse un metodo che sfruttava l’evaporazione di acqua sporca per ottenere liquido potabile tramite condensazione. Intorno al XVI secolo alcuni alchimisti arabi produssero apparati in vetro per la dissalazione dell’acqua tramite la radiazione solare.

La prima documentazione storica sulla costruzione di un alambicco solare risale al 1742: Nicolò Grezzi disegnò uno schema per la realizzazione di un dissalatore solare, ma non si hanno prove che passò effettivamente dalla fase progettuale a quella costruttiva.

Il primo dissalatore moderno fu quello di Las Salinas, Cile, costruito nel 1872 dal progetto di Charles Wilson. Era composto da 64 bacini dall’area totale di quasi 5.000 metri quadrati e riusciva a produrre circa migliaia di litri al giorno, con un’efficienza media di circa 3-4 litri per metro quadrato. Un’efficienza così alta fu possibile grazie a due fattori: il costante pompaggio d’acqua da depositi sotterranei e la formazione di brina provocata dal clima rigido.

Costruzione di un dissalatore solare durante un corso di sopravvivenza
Costruzione di un dissalatore solare durante un corso di sopravvivenza

In tempi più recenti il dissalatore solare è un elemento spesso presente in molti manuali di sopravvivenza ed è frequentemente consigliato come metodo efficace per ottenere acqua in località aride. Alcuni eserciti, come quello argentino, insegnano la costruzione di alambicchi solari durante i corsi standard di sopravvivenza.

Come funziona un dissalatore solare

L’alambicco solare è un apparato facilmente realizzabile che sfrutta la condensazione del vapore acqueo o dell’umidità ambientale per convogliare acqua in un recipiente di raccolta. Il metodo di raccolta dell’acqua tramite condensazione era conosciuto anche dalle società preincaiche, che sfruttavano l’umidità contenuta nella materia vegetale per ottenere acqua potabile.

Tramite il distillatore solare è possibile ottenere acqua potabile seguendo due differenti strategie:

  • In presenza di una fonte d’acqua salata o stagnante, è possibile ottenere acqua potabile separandola dai sali o dagli agenti contaminanti;
  • Se non ci sono a disposizione fonti d’acqua, il dissalatore può essere utilizzato per condensare l’umidità ambientale.

Il metodo primitivo per realizzare un alambicco solare è proprio quello andino. Dopo aver scavato una buca nel terreno, al centro viene collocato un contenitore di raccolta che accumulerà l’acqua di condensazione. Alcuni rami vengono piazzati in modo tale che l’estremità inferiore termini sopra al recipiente, mentre quella superiore fuoriesca dai margini della cavità.

Il buco viene quindi ricoperto da rami, foglie ed erba per sigillare l’apertura e limitare l’evaporazione esterna dell’acqua. L’apparato così realizzato sfrutta la rugiada o la brina che si formano durante la notte: con l’esposizione al sole, la brina si scioglie e l’acqua scivola per gravità nel recipiente di raccolta.

Dissalatore solare improvvisato con materiali moderni
Schema di un dissalatore solare
Schema di un dissalatore solare

Oggi, con la disponibilità di materiali plastici impermeabili, l’alambicco solare è più efficiente del sistema andino. Il metodo di base è del tutto identico: buca nel terreno e recipiente di raccolta. Ciò che cambia è il sistema di condensazione: un foglio di plastica viene steso sulla cavità cercando di sigillare ogni punto d’uscita dell’umidità.

Man mano che si formerà condensa grazie all’evaporazione dell’acqua contenuta nel terreno o all’interno di materia vegetale, inizieranno a raccogliersi piccole gocce sulla superficie inferiore del tessuto plastico; una piccola depressione al centro del telo (generata, ad esempio, dal peso di un sasso) farà scivolare le gocce di condensa verso il contenitore di raccolta.

Si può sopravvivere con un dissalatore solare improvvisato?

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L’efficienza dell’alambicco solare in situazioni d’emergenza è stata per molto tempo sovrastimata: non è possibile utilizzare questo sistema per avere un costante approvvigionamento d’acqua in grado di soddisfare i bisogni essenziali di un essere umano.

Un conto sono i sistemi di dissalazione solare su vasta scala, costruiti secondo criteri ingegneristici e con materiali realizzati ad hoc; un altro è invece l’improvvisazione di un dissalatore solare con i materiali che la natura e uno zaino da campeggiatore possono offrire.

Il dissalatore solare è più efficiente in aree umide che generalmente dispongono di altre fonti d’acqua potenzialmente potabile, mentre in regioni aride è estremamente difficile, se non addirittura impossibile, ottenere una quantità d’acqua tale da ripristinare le riserve d’acqua perdute.

Le prestazioni di un dissalatore solare possono variare in base alla località e al grado di umidità: in assenza di fonti d’acqua, un buco di 40 centimetri di diametro e profondo 30 centimetri fornirà da 100 a 150 millilitri d’acqua potabile nell’arco di una giornata.

L’efficienza può essere aumentata inserendo nella cavità materia vegetale come erba, foglie o frammenti di cactus, oppure aumentando la superficie e la profondità dell’apparato, ma difficilmente si avrà una quantità d’acqua sufficiente a dissetare completamente un essere umano.

Dato che l’alambicco solare viene suggerito come possibile opzione al problema della scarsità d’acqua in regioni aride, è sufficiente fare una breve considerazione sul fabbisogno di liquidi di un essere umano per rendersi conto della sua poca praticità.

In un deserto caldo, un essere umano adulto ha bisogno di almeno 3,5 litri d’acqua al giorno per sopravvivere senza fare sforzi; anche disponendo di un alambicco solare di grandi dimensioni, sarà quasi impossibile ottenere più di 0,3 litri d’acqua nell’arco di 24 ore, circa un decimo del fabbisogno giornaliero. In questi circostanze, un dissalatore solare non vale l’acqua corporea consumata per costruirlo.

Dissalatore solare per la sopravvivenza in mare
Dissalatore solare per la sopravvivenza in mare

Anche avendo a disposizione una fonte d’acqua non potabile la situazione non è molto migliore. I dissalatori solari per la sopravvivenza in mare ideati dall’esercito degli Stati Uniti nel 1952, che sfruttavano l’acqua salata per ottenere acqua potabile, riuscivano a produrre nella migliore delle ipotesi circa 2 litri di liquido.

Un altro esempio viene da un esperimento condotto in Pakistan nel 2005 sfruttando un distillatore di vetro difficilmente riproducibile in situazioni d’emergenza. L’apparato convertiva acqua salata in acqua potabile: un dissalatore con l’area di mezzo metro quadrato è stato in grado di produrre, in media, 1,7 litri d’acqua al giorno.

Solar still
Design and performance of a simple single basin solar still

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Timeline e storia del nuoto dalla preistoria al 1700 https://www.vitantica.net/2018/07/01/timeline-nuoto/ https://www.vitantica.net/2018/07/01/timeline-nuoto/#respond Sun, 01 Jul 2018 02:00:41 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1816 Come per tutti gli altri primati del pianeta, il rapporto tra essere umano e acqua iniziò con una naturale diffidenza: fiumi, laghi e mari hanno rappresentato la casa di innumerevoli insidie letali per quasi tutto il corso della storia umana e la nostra goffaggine durante gli spostamenti acquatici ci rendeva particolarmente suscettibili ai rischi nascosti sotto la superficie.

Migliaia di anni fa tuttavia qualcosa cambiò: sfidando ogni scetticismo e qualunque rischio connesso alla grossa fauna acquatica o alle correnti, l’uomo iniziò a trascorrere sempre più tempo in acqua, per necessità o per intenti ricreativi, dando origine alle prime forme di nuoto.

Stabilire con precisione l’origine del nuoto e la sua storia è un’impresa ardua. Sappiamo tuttavia che almeno 10.000 anni fa l’essere umano si dedicava al nuoto sia per ragioni di necessità sia per puro divertimento, come testimoniano alcune pitture rupestri africane.

8.000 a.C. circa

Sulle pareti della Caverna dei Nuotatori, una grotta nella regione di Gilf Kebir nel Sahara, vengono realizzate pittografie che raffigurano uomini intenti a nuotare. Durante la fine dell’ultima era glaciale, nella zona esisteva un lago di grandi dimensioni ormai totalmente sepolto dalla sabbia del deserto.

9.000 – 4.000 a.c.

Un sigillo scoperto in Egitto e risalente ad un periodo compreso tra gli 11.000 e i 6.000 anni fa raffigura quattro persone che, secondo l’interpretazione degli archeologi, nuoterebbero con una variante dello stile libero.

2.800 a.C.

Nel palazzo indiano di Mohenjo Daro, un’antica città dell’ Età del Bronzo sul fiume Indo, viene costruita un’enorme vasca soprannominata “Grande Bagno”, lungo 12 metri, largo 7 e profondo quasi 2.5 metri. La vasca, probabilmente la prima piscina della storia sopravvissuta fino ad oggi, è stata impermeabilizzata da un sigillante a base di catrame.

Il "Grande Bagno" di Mohenjo Daro
Il “Grande Bagno” di Mohenjo Daro
2.000 a.C.

A partire dal II millennio a.C. fanno la loro apparizione i primi riferimenti scritti al nuoto in opere come L’ Epopea di Gilgamesh, l’ Iliade, l’ Odissea e la Bibbia. Diversi bassorilievi e pitture murarie babilonesi ed assire dello stesso periodo raffigurano persone che nuotano a rana.

850 a.C. circa

Alcuni bassorilievi assiri, conservati nella Nimrud Gallery al British Museum, raffigurano alcuni nuotatori, probabilmente soldati intenti a guadare un fiume, che utilizzano anche supporti per il galleggiamento.

594 a.C.

Solone cerca di rendere obbligatorio il nuoto e la lira nell’educazione dei giovani ateniesi, senza tuttavia ottenere molto successo. Sappiamo però che tra gli antichi Greci il nuoto era un’abilità importante, se non addirittura fondamentale per ogni soldato imbarcato sulle triremi durante le guerre persiane.

36 a.C.

In Giappone si tiene la prima gara di nuoto documentata della storia.

II secolo a.C.

Tra i Romani il nuoto era un’abilità che distingueva simbolicamente un individuo funzionale per la società e un inetto. Moltissimi cittadini imparavano a nuotare fin dalla tenerà età e i soldati romani diventarono particolarmente abili negli spostamenti acquatici grazie al perfezionamento delle tecniche di nuoto apprese durante l’adolescenza e gli anni di servizio.

V secolo d.C.

Publio Flavio Vegezio Renato scrive Epitoma rei militaris (“l’ Arte della Guerra”), un testo che verrà impiegato fino in età medievale come manuale per la guerra. Vegezio sostiene che il nuoto fosse un’abilità fondamentale per qualunque soldato che si trovasse ad attraversare un fiume per una manovra militare.

476 d.C.

Con la caduta dell’ Impero Romano l’acqua perse popolarità e ogni contatto con essa era visto in cattiva luce, temendo addirittura di mettere a rischio la salute se ci si lavava troppo. Alcuni autori iniziarono a sostenere che nuotare fosse immorale quanto un atto sessuale.

VII-XI secolo d.C.

Nell’epica storia di Beowulf, redatta in forma scritta tra il 700 e l’anno 1000, l’eroe dimostra di essere particolarmente abile nel nuoto durante la sfida con il suo amico d’infanzia Breca. Beowulf perderà la sfida, attribuendo la sua sconfitta alle continue battaglie con mostri marini che l’eroe fu costretto ad intraprendere durante la competizione.

1539

Nikolaus Wynmann, un professore di lingue tedesco, pubblicò il primo libro sul nuoto dal titolo Colymbetes. Il suo scopo non era quello di popolarizzare il nuoto, ma di ridurre le perdite umane dovute all’annegamento. Il libro contiene i dettagli sul nuoto a stile libero e descrive alcuni strumenti utili al galleggiamento, come vesciche animali piene d’aria, fasci di canne di fiume e cinture di sughero.

Il primo manuale di nuoto moderno, "A short introduction for to learne to swimme" - Wikipedia
Il primo manuale di nuoto moderno, “A short introduction for to learne to swimme” – Wikipedia
1587

Everard Digby scrive il secondo libro sul nuoto della storia, dichiarando anche che l’essere umano poteva nuotare meglio di un pesce se addestrato nel modo più adatto. Il suo De arte natandi, scritto in latino su 40 pannelli di legno, illustrava diverse tecniche di nuoto, dallo stile libero al dorso.

1595

Christopher Middleton , poeta e traduttore inglese, pubblica “A short introduction for to learne to swimme“, un libro strutturato come un manuale di nuoto moderno completo di disegni e descrizioni dettagliate degli stili.

1603

L’imperatore giapponese Go-Yozei dichiara pubblicamente che i bambini in età scolare avrebbero dovuto applicarsi nel nuoto.

1696

L’inventore e scrittore francese Melchisédech Thévenot scrive “L’ Arte del Nuoto“, dettagliando con cura la tecnica di nuoto a rana. Il libro fu tradotto in Inglese e divenne lo standard per il nuoto durante le decadi successive.

Alternatives to schooling
Swimming
History of swimming

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L’adattamento all’apnea dei “Nomadi del mare” https://www.vitantica.net/2018/06/28/apnea-nomadi-del-mare-sama-bajau/ https://www.vitantica.net/2018/06/28/apnea-nomadi-del-mare-sama-bajau/#comments Thu, 28 Jun 2018 02:00:47 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1844 I Sama-Bajau appartengono ad un’etnia austronesiana che si è adattata incredibilmente bene alla vita sul mare. Da generazioni occupano l’arcipelago indonesiano di Sulu e con i secoli si sono guadagnati il titolo di “nomadi del mare” per via del loro stile di vita interamente basato sull’oceano: mangiano, dormono e conducono ogni attività quotidiana su palafitte o piccole barche di legno.

Anche se oggi ben pochi Sama-Bajau seguono lo stile di vita tradizionale, le famiglie che continuano a condurre un’esistenza interamente sull’oceano vivono su piccole barche e minuscoli isolotti utilizzati come punti d’attracco temporaneo o per svolgere cerimonie e festival tradizionali.

I Sama-Bajau hanno dovuto imparare a costruire imbarcazioni resistenti e agili e ad edificare case sospese sul mare sufficientemente robuste da resistere ai capricci delle maree e alla furia del mare; ma l’abilità per cui sono noti è la loro capacità di immergersi a profondità di 50-70 metri per procurarsi cibo e materie prime, rimanendo in apnea per periodi di tempo apparentemente innaturali.

Sama-Bajau e apnea

Adattamento all’apnea

Una persona normale e non allenata all’apnea può immergersi in acqua e trattenere il respiro per qualche decina di secondi, a patto di non dover consumare troppe energie e ossigeno per nuotare. Il corpo umano, benché ormai adattato alla vita sulla terraferma, reagisce istintivamente all’apnea subacquea: il battito cardiaco rallenta, i vasi sanguigni si restringono e la milza subisce una contrazione, reazioni che consentono di conservare energia in una condizione in cui la riserva di ossigeno è limitata.

I Sama-Bajau, come il resto delle persone che vivono in zone continentali o su isole di qualunque dimensione, sono soggetti alle stesse reazioni, ma il loro adattamento alla vita marina supera di molto qualunque altro essere umano del pianeta.

La selezione naturale ha influito sulle loro capacità di immersione donando a queste etnia (per lo meno ai pescatori che ogni giorno solcano il mare) la capacità di trattenere il respiro fino a 13 minuti ed immergersi a profondità superiori ai 60 metri.

Nessuno è in grado di dire con certezza quali adattamenti abbiano reso possibile questa loro capacità quasi sovrumana, ma uno dei fattori determinanti potrebbe essere una milza super-performante.

Questo è La udeli, un pescatore Bajau che generalmente si immerge fino a 30 metri nel suo territorio di pesca
Questo è La Udeli, un pescatore Bajau che generalmente si immerge fino a 30 metri nel suo territorio di pesca
Milza e apnea

La milza è un organo spesso sottovalutato: si può vivere senza di esso, ma vivere con la milza comporta innegabili vantaggi. Svolge diverse funzioni utili per l’organismo, come combattere le infezioni ematiche, immagazzinare sangue o aiutare nell’opera di pulizia del sistema circolatorio.

Questo organo sembra inoltre essere connesso alla capacità di trattenere il respiro che possiedono molti mammiferi marini: leoni di mare, foche e alcuni cetacei hanno milze di dimensioni colossali in proporzione alla massa corporea. Melissa Llardo, ricercatrice del Center for Geogenetics dell’Università di Copenhage, ha studiato la milza dei Sama-Bajau facendo emergere la possibilità di una relazione diretta tra le dimensioni dell’organo e la loro abilità nell’apnea subacquea.

“Volevo per prima cosa incontrare la comunità” spiega Llardo, “e non fare la mia apparizione con l’equipaggiamento scientifico e ripartire subito dopo. Nella seconda visita [ai Nomadi del Mare], ho portato con me una macchina agli ultrasuoni portatile e kit per raccogliere la saliva. Abbiamo visitato diverse case e raccolto immagini delle milze”.

Palaffitte Bajau nei pressi di una sorgente d'acqua dolce che affiora di qualche metro dalla superficie del mare
Palaffitte Bajau nei pressi di una sorgente d’acqua dolce che affiora di qualche metro dalla superficie del mare

Llardo e il suo team hanno anche raccolto dati dai Saluan, una popolazione indonesiana dalle abitudini “non marine”, per ottenere un confronto tra etnie molto simili. L’analisi dei dati accumulati in Indonesia ha mostrato che i Sama-Bajau dediti alla vita sul mare possedevano milze più grandi del 50% rispetto ai Saluan.

I ricercatori hanno anche scoperto nei Bajau un gene chiamato PDE10A, che nei topi sembra determinare le dimensioni della milza regolando la produzione ormonale della tiroide.

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Pressione ambientale e allenamento

Secondo Llardo, nel corso del tempo i Bajau sono stati sottoposti alla pressione ambientale finendo “vittime” della selezione naturale, sviluppando questo vantaggio genetico e adattandosi alla vita marina molto meglio di qualunque altro essere umano.

La sola milza non è tuttavia sufficiente a spiegare l’adattamento all’apnea dei Bajau. Le immersioni a profondità elevata comportano un accumulo di pressione nei vasi sanguigni, pressione che può essere mitigata dall’allenamento.

I Sama-Bajau che praticano ancora lo stile di vita tradizionale iniziano a pescare in apnea fin da giovanissimi e con il tempo arrivano a spendere almeno 5 ore al giorno in immersione, nuotando e cacciando con fiocine improvvisate per quasi un quarto d’ora per poi risalire, riprendere velocemente fiato e immergersi nuovamente a decine di metri di profondità. Alcuni Bajau perforano volontariamente i timpani in età adolescenziale per evitare problemi durante le immersioni a grandi profondità.

La costante e quotidiana pressione esercitata dal mare nel corso dei secoli potrebbe aver fatto emergere gli individui più adatti all’attività subacquea, selezionando l’etnia Bajau per le caratteristiche più idonee all’apnea come una milza di grandi dimensioni o la flessibilità della cavità toracica e addominale, sottoposte a forti compressioni man mano che si scende a profondità sempre più elevate.

The last of the sea nomads
‘Sea Nomads’ Are First Known Humans Genetically Adapted to Diving

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Quanto tempo occorreva per attraversare il Mediterraneo su un’antica nave a vela? https://www.vitantica.net/2018/04/20/tempo-attraversare-mediterraneo-antica-nave-vela/ https://www.vitantica.net/2018/04/20/tempo-attraversare-mediterraneo-antica-nave-vela/#comments Fri, 20 Apr 2018 02:00:29 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1631 Trasportare merci e persone da una costa all’altra del mondo conosciuto non era affatto semplice in passato: il mezzo di trasporto più efficiente era la nave a vela, ma i viaggi per mare erano tutt’altro agevoli o di breve durata, anche quando si navigava in una distesa d’acqua circoscritta come il Mediterraneo.

Le variabili degli spostamenti via mare

Calcolare i tempi di percorrenza di un’ imbarcazione antica non è un’impresa facile. Il mare non è una superficie piana o regolare, le condizioni atmosferiche e i venti svolgono un ruolo di primaria importanza nella velocità e nella manovrabilità di una nave: percorrere 100 chilometri nel mare in burrasca o con il vento contrario richiede molto più tempo rispetto a coprire la stessa distanza avendo il vento a favore o il mare calmo.

Occorre inoltre tenere in considerazione il carico: alcuni tipi di nave impiegati nell’antica Grecia potevano trasportare fino a 500 tonnellate di merce e risultavano inevitabilmente più lenti e meno manovrabili di natante dalla stazza inferiore. Il carico costringeva anche ad effettuare soste più o meno frequenti nei porti commerciali dislocati lungo la rotta verso la destinazione designata.

Una nave tende ad avere prestazioni migliori se viene sospinta da un vento di poppa: in questo caso può puntare la prua verso la propria destinazione e muoversi velocemente seguendo una rotta sostanzialmente rettilinea.

Quando invece i venti sono contrari, la navigazione diventa più lenta e difficoltosa per la necessità di sfruttare venti che provengono da direzioni differenti: le vele devono essere costantemente ritirate o spiegate, la nave deve viaggiare a zig-zag e viene facilmente investita trasversalmente dai fiotti marini, che spruzzano acqua sul ponte superiore e fanno accumulare acqua nella sentina (la parte più bassa dell’imbarcazione in cui tendono ad accumularsi i liquidi che si infiltrano nello scafo).

Raffigurazione di una nave romana del III secolo. La capacità di carico era di circa 86 tonnellate ed era lunga 25 metri
Raffigurazione di una nave romana del III secolo. La capacità di carico era di circa 86 tonnellate ed era lunga 25 metri
Tempi di viaggio sul Mediterraneo

Per calcolare dei tempi medi di percorrenza di una nave a vela antica, quindi, è necessario basare le proprie valutazioni sia sui viaggi compiuti con venti favorevoli, sia sulle traversate che hanno incontrato condizioni di navigazione poco vantaggiose.

Fortunatamente, molti capitani di vascello erano soliti tenere un diario giornaliero sulle condizioni di viaggio e la rotta seguita, mentre diversi documenti storici riportano informazioni sulle antiche modalità di viaggio, permettendoci di estrapolare dati utili per capire quanto tempo occorresse per attraversare il Mediterraneo o mari più vasti.

Plinio il Vecchio fu uno dei primi a menzionare alcune traversate marine compiute in tempi da record con venti favorevoli e condizioni di navigazione ottimali.

  • Da Ostia alle coste africane: 270 miglia marine (500 km) percorse in 2 giorni alla velocità di 6 nodi (un nodo corrisponde a 1,852 km/h);
  • Da Ostia a Gibilterra: 935 miglia marine (1.730 km) percorse in 7 giorni alla velocità di 5,6 nodi;
  • Da Messina ad Alessandria d’Egitto: 830 miglia marine (1.537 km) percorse in 6-7 giorni alla velocità di 5,8 nodi;
  • Da Pozzuoli ad Alessandria d’Egitto: 1000 miglia marine (1.852 km) percorse in 9 giorni alla velocità di 4,6 nodi;

Nelle migliori condizioni era quindi possibile percorrere 200-250 km al giorno e i dati riportati da Plinio sono in linea con le informazioni fornite da altri autori come Filostrato (Corinto-Pozzuoli in 4 giorni), Tucidide, Sinesio di Cirene e Senofonte (secondo il quale una nave pirata percorse 400 miglia nautiche da Rodi e Efeso in 4 giorni).

Nel caso di rotte che prevedevano tratti di navigazione costiera i tempi erano più lunghi: la necessità di seguire il profilo costiero era un fattore limitante per la velocità di viaggio.

Il viaggio da Bisanzio a Rodi richiedeva mediamente 9-10 giorni per percorrere circa 880 miglia nautiche, con una velocità media inferiore ai 4 nodi: la necessità di navigare lungo la costa impediva di raggiungere la velocità di punta prima di essere entrati nel mare aperto a sud dell’isola.

Raffigurazione di una nave dell'antico Egitto nella tomba di Menna, scriba sotto la XVIII dinastia
Raffigurazione di una nave dell’antico Egitto nella tomba di Menna, scriba sotto la XVIII dinastia
Viaggio via mare in condizioni sfavorevoli

Con condizioni atmosferiche e rotte sfavorevoli, i tempi di percorrenza cambiavano sensibilmente:

  • Da Rodi a Gaza: 410 miglia marine (759 km) in 7 giorni alla velocità di 2,6 nodi
  • Da Alessandria d’Egitto a Marsiglia: 1800 miglia (3.333 km) in 30 giorni alla velocità di 2,5 nodi
  • Da Gaza a Bisanzio: 1000 miglia (1.852 km) in 20 giorni alla velocità di 2 nodi
  • Da Alessandria d’Egitto a Cipro: 250 miglia (463 km) in oltre 6 giorni alla velocità di 1,8 nodi
  • Da Bisanzio a Rodi: 445 miglia (824 km) in 10 giorni alla velocità di 1,8 nodi
  • Da Pozzuoli a Ostia: 120 miglia (222 km) in 3 giorni alla velocità di 1,8 nodi

I tempi di percorrenza dilatati non sono dovuti esclusivamente alla presenza di venti contrati o di un mare agitato. La navigazione costiera richiesta in molte rotte commerciali prevedeva la sosta in porto durante la notte, mentre solo i vascelli che navigavano in mare aperto tendevano a limitare gli approdi ai porti principali, continuando a solcare il mare durante tutto l’arco della giornata.

Combinando i dati sui tempi di viaggio, è possibile dedurre la lunghezza del viaggio tra le rotte commerciali più trafficate dell’antichità:

  • Da Alessandria d’Egitto a Bizanzio: passando da Rodi, circa 17-20 giorni di viaggio
  • Da Alessandria d’Egitto a Napoli: passando da Cipro, Rodi, Creta, Malta, Siracusa e Messina, circa 50-70 giorni di viaggio
  • Da Alessandria d’Egitto a Rodi: circa 7-10 giorni di viaggio
  • Da Alessandria d’Egitto a Roma: circa 10-13 giorni di viaggio
  • Da Cartagine a Roma: circa 2-4 giorni di viaggio
  • Da Gibilterra a Roma: 7-10 giorni di viaggio
  • Da Marsiglia ad Alessandria d’Egitto: 20-30 giorni
  • Da Napoli a Roma: circa 3 giorni di viaggio
Foto della zattera Kon-Tiki e del suo equipaggio durante il viaggio nel Pacifico del 1947
Foto della zattera Kon-Tiki e del suo equipaggio durante il viaggio nel Pacifico del 1947
Tempi di viaggio sull’oceano

Il viaggio oceanico prevedeva invece tempi di percorrenza calcolati in settimane o in mesi, non in giorni. Grazie ai diari di navigazione di esploratori come Colombo, Diaz e alcuni esempi di archeologia sperimentale possiamo calcolare quanto tempo richiedeva un viaggio in barca a vela attraverso l’Oceano Atlantico o il Pacifico.

  • Spedizione “Kon-Tiki”: spedizione effettuata nel 1947 dal norvegese Thor Heyerdahl allo scopo di fornire uno scenario realistico della colonizzazione delle isole polinesiane da parte delle etnie asiatiche. Il viaggio durò 101 giorni e la zattera di Heyerdahl percorse un totale di 4.300 miglia nautiche fino alle Isole Tuamota;
  • Primo viaggio di Colombo: il primo viaggio di Cristoforo Colombo attraverso l’Atlantico durò circa 9 settimane, dal 3 agosto 1492 al 12 ottobre dello stesso anno, giorno in cui sbarcò nelle Bahamas;
  • Viaggio di San Brandano (1976-1977): nella metà degli anni ’70 del 1900 Tim Severin e il suo equipaggio crearono una replica dell’imbarcazione che San Brandano avrebbe utilizzato per raggiungere le coste americane. Il viaggio durò circa 13 mesi per un totale di 4.500 miglia nautiche (7.200 km), partendo dall’Irlanda e toccando le Ebridi e l’Islanda.

SPEED UNDER SAIL OF ANCIENT SHIPS – NEW YORK UNIVERSITY
History of Ships
Tim Severin

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Trappole da pesca https://www.vitantica.net/2017/11/22/trappole-da-pesca/ https://www.vitantica.net/2017/11/22/trappole-da-pesca/#comments Wed, 22 Nov 2017 16:00:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=628 Le trappole da pesca sono stati probabilmente i primi strumenti utilizzati nell’antichità per la cattura di specie acquatiche. Ogni cultura del mondo ha sviluppato e perfezionato le sue versioni di trappole per pesci nel corso dei millenni passati, finendo per ottenere design molto simili tra loro e utilizzando materiali dalle  proprietà meccaniche molto simili (roccia per costruire dighe, vimini e rami per flessibilità e resistenza a torsione) disponibili in quasi tutte le regioni del mondo.

Le prime trappole da pesca furono probabilmente di tipo permanente, piccole dighe composte da pietre e costruite lungo coste di mari o laghi, oppure in piccole insenature di letti fluviali. Ideate per rimanere sotto la superficie dell’acqua durante l’alta marea, queste trappole confinavano il pesce all’interno del recinto di roccia non appena la marea raggiungeva il suo punto più basso.

Successivamente fecero la loro comparsa design più elaborati e materiali più comodi da lavorare e trasportare rispetto alla pietra, come legno e vimini. Ogni trappola richiedeva l’adozione di una particolare strategia di pesca, talvolta molto elaborata, per riuscire ad ingannare anche il pesce più intelligente.

 

Trappola a diga
Trappole di pietra di Brewarrina costruite dagli aborigeni australiani
Trappole di pietra di Brewarrina costruite dagli aborigeni australiani

La storia delle trappole che sfruttano le fasi della marea risale addirittura all’ Homo pre-sapiens, ma la più antica testimonianza archeologica di una diga per pesci costruita dall’uomo moderno risale a circa 8.000 anni fa ed è stata scoperta in Irlanda.

Le dighe di Mnjikaning, in Canada, appartengono invece ad uno dei sistemi di sbarramento più complessi mai visti nell’antichità: furono costruite oltre 5.000 anni fa dai nativi Uroni e Mohawk per catturare svariate specie di pesci d’acqua dolce e rimasero in uso fino ai primi anni del 1700.

Il popolo Yaghan, che vive nella Isla Grande de Tierra del Fuego, sono abili costruttori di dighe di roccia adibite alla cattura di pesce d’acqua dolce. Nell’arco degli ultimi 10.000 anni hanno realizzato complessi sistemi di sbarramento, alcuni visibili ancora oggi nel sito archeologico Bahia Wulaia Dome Middens.

Trappola per pesci realizzata con rami
Trappola per pesci realizzata con rami

Su scala più ridotta, piccole dighe di pietra o legno erano un mezzo molto comune per intrappolare la cena. La trappola più semplice consisteva nell’utilizzare rametti infilati verticalmente nella sabbia per creare una gabbia dotata di un’apertura ad imbuto che facilita l’entrata di pesci e crostacei ma rende difficoltosa l’uscita. Queste trappole non costringono all’attesa del cambiamento di marea per funzionare e sono facilmente realizzabili con pochissimo dispendio di energie.

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Trappola per polpi

Comune in molte regioni del mondo, dal Giappone all’Antica Grecia, veniva generalmente realizzata utilizzando un vaso di terracotta o di pietra dall’imboccatura stretta che veniva depositato sul fondale per qualche giorno: il polpo entrava nella trappola per utilizzarla come rifugio durante i momenti di inattività, rendendo quindi inutile l’utilizzo di un’ esca ma sfruttando la trappola stessa come esca. Quando la trappola veniva sollevata dal fondale, il polpo generalmente non tentava la fuga, ritenendosi al sicuro da qualunque attacco.

 

Nassa

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In Nuova Zelanda, i Maori usavano le hinaki (“vasi per anguille”) per catturare l’anguilla, una delle loro prede tradizionali. Gli hinaki disponevano di una sola entrata e venivano posizionati con l’apertura che puntava a valle: le anguille, dopo aver fiutato l’esca all’interno della trappola, nuotavano controcorrente infilandosi nella stretta apertura ad imbuto rimanendo intrappolate nel canestro.

La trappola era realizzata usando i rami forti ed elastici della pianta Lygodium articulatum, sufficientemente flessibili da essere piegati senza rompersi; l’ingresso a imbuto, studiato per facilitare l’entrata ma impedire l’uscita, era composto da punte di legno ripiegate verso l’interno.

Nassa in vimini
Nassa in vimini

Questo design è estremamente comune in tutto il mondo ed è stato modificato e migliorato nel corso dei millenni per arrivare alla nassa moderna. Svariate versioni della nassa da pesca sono state impiegate fino a tempi molto recenti da quasi ogni popolazione del pianeta perché si basa su un concetto molto semplice e ben collaudato, quello dell’imbuto: è facile entrare dall’imboccatura larga, ma difficile uscire dal becco stretto.

Nassa
Altra nassa da pesca

Le nasse erano anche facilmente trasportabili e semplici da riparare: molti dei materiali impiegati per la loro realizzazione erano abbastanza flessibili da poter mantenere la forma originale anche dopo essere stati piegati e legati allo scopo di trasportarli più agevolmente.

La nassa da pesca era sostanzialmente una versione primitiva e meno versatile delle future reti da pesca, la cui comparsa fu legata alla lavorazione di fibre resistenti, sottili e molto più flessibili di vimine e strisce di corteccia.

 

Reti da posta o da lancio

I più antichi resti di una rete da pesca risalgono a circa 10.300 anni fa e sono stati scoperti ad Antrea, Finlandia, nell’autunno del 1913. In origine, la rete era lunga dai 27 ai 30 metri e larga 1,5 metri, con maglie di circa 6 centimetri. La rete fu realizzata utilizzando il vimine, materiale abbondante proveniente dai salici che spesso crescono in prossimità di corsi e specchi d’acqua.

Rete da pesca risalente al 1850-1750 a.C.
Rete da pesca risalente al 1850-1750 a.C.

Le reti da posta sono state probabilmente il primo tipo di rete impiegato in antichità per intrappolare pesci d’acqua dolce o salata senza richiedere un intervento umano costante: è sufficiente posizionarle in punti strategici e armarsi di una buona dose di pazienza.

Rispetto alla nassa, la rete da posta impiega di solito fibre più flessibili e sottili ed è ancorata sul fondo tramite l’utilizzo di pietre o piccoli pesi di metallo, mentre la parte superiore sfrutta il galleggiamento di materiale poco denso (come legno tenero) per mantenere la rete sospesa fino alla superficie dell’acqua.

La rete da posta poteva essere distesa tra i margini di un fiume, o spostata in base alla necessità se ancorata tra due barche. Per fabbricare i galleggianti che tenevano la rete sospesa in verticale la scelta ricadde su qualunque materiale dotato di un peso specifico molto basso come sughero, corteccia di betulla, sfere di vetro o legno di balsa.

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La rete da lancio fu invece una rete ideata per ripetuti lanci e recuperi della trappola: non appena il pescatore individuava pesce da catturare, lanciava la rete per circondare la preda, chiudendola non appena raggiungeva la profondità desiderata utilizzando la fune che ne permetteva il recupero. Queste reti funzionavano meglio in acque prive di ostruzioni e non più profonde del raggio della rete stessa.

 

Cheena vala, o reti cinesi
Cheena vala
Cheena vala

In India, i Cheena vala sono reti da pesca manovrate tramite una struttura fissa di legno che sorregge una grossa canna da pesca. Le strutture, alte anche più di 10 metri e dotate di una rete larga circa 20 metri, erano manovrate da un gruppo di 3-6 persone: una era addetta ad abbassare la rete sfruttando il bilanciamento del proprio corpo e ad indicare al resto del gruppo il momento adatto per sollevarla.

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