Usi, costumi e religioni – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 L’antica grecia era davvero il “paradiso” dell’omosessualità? https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/ https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/#comments Sun, 29 Aug 2021 00:10:31 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4363 Secondo una concezione largamente diffusa e comunemente accettata dall’opinione pubblica moderna, l’antica Grecia era un luogo in cui vigevano pochi tabù, specialmente per quanto riguarda l’omosessualità.

Per molto tempo si è ritenuto che la Grecia dell’età classica fosse un vero e proprio territorio franco sul tema dei rapporti omosessuali: Alessandro Magno ha spesso dimostrato di apprezzare entrambi i sessi, mentre il rapporto tra Achille e Patroclo è sempre stato osservato nell’ottica di una relazione sentimentale tra due uomini, per giunta congiunti da un legame di parentela.

La realtà, come spesso accade, è più complessa e spesso prona all’interpretazione scorretta di fonti scelte selettivamente per creare un’immagine della Grecia antica che ben poco ha a che vedere con la vita quotidiana degli abitanti dell’Ellade.

Quando nasce l’idea della “Grecia omosessuale”

L’idea che in Grecia fosse comune intrattenere rapporti omosessuali è vecchia di circa 200 anni ed è entrata a far parte del “sapere comune” grazie a due personalità di spicco: Oscar Wilde e Kenneth Dover, autore del libro “Greek Homosexuality” pubblicato nel 1978.

In occasione del suo processo del 1895, Oscar Wilde pronunciò il celebre discorso “Love that Dare Not Speak Its Name” in cui tentava di spiegare il ritrovamento della stessa frase in alcuni versi composti dal suo compagno Alfred Douglas.

What is thy name?’ He said, ‘My name is Love.’
Then straight the first did turn himself to me
And cried, ‘He lieth, for his name is Shame,
But I am Love, and I was wont to be
Alone in this fair garden, till he came
Unasked by night; I am true Love, I fill
The hearts of boy and girl with mutual flame.’
Then sighing, said the other, ‘Have thy will,
I am the love that dare not speak its name.’

Secondo l’accusa, la frase era un esplicito riferimento al rapporto omossessuale tra Wilde e Douglas (il primo arrestato per atti di sodomia e condotta indecente); in quello che diventò un classico dell’apologia dei rapporti omosessuali, Wilde si giustificò dicendo:

“L’Amore che non osa dire il suo nome” in questo secolo, è il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane, lo stesso che esisteva tra Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, e ciò che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e Shakespeare. E’ quel profondo affetto spirituale tanto puro quanto perfetto. Comanda e pervade le grandi opere d’arte, come quelle di Shakespeare e Michelangelo, e quelle due mie lettere […] Non c’è nulla di innaturale in ciò.

Le affermazioni di Wilde, per quanto storicamente inaccurate, non erano una novità per il tempo. Davide, Gionata, Platone, Michelangelo e Shakespeare erano nomi che circolavano di frequente tra gli omosessuali più istruiti del XIX secolo, specialmente se si trattava di riferimenti a figure dell’antica Grecia, considerata una sorta di Eden dell’omosessualità.

Verso il termine del XIX secolo, l’isola di Lesbo divenne meta di veri e propri pellegrinaggi volti a visitare la casa di Saffo, la poetessa che con i suoi versi evocò rapporti omosessuali tra donne e che fu fonte d’ispirazione di alcuni movimenti a sostegno dei rapporti non eterosessuali.

La poetessa Renée Vivien e la sua amante Natalie Barney tentarono anche di fondare una colonia sull’isola di Lesbo nel 1904 con il preciso scopo di creare un rifugio per la comunità omosessuale europea, ottenendo scarso successo soprattutto a causa dell’opposizione degli abitanti locali. Vivien fu costretta a ritirarsi a Parigi, dove continuò a coltivare il suo sogno di una “zona franca” ispirata alla Grecia classica all’interno di un salone dotato della replica di un antico tempio greco.

L’ omosessualità in Grecia

Il termine “omosessuale” è un’invenzione moderna dell’ungherese Karoly Maria Benkert, che nel 1869 coniò il termine; ma per i Greci l’omosessualità era semplicemente una sfaccettatura della sessualità, a volte accettabile, altre volte non tollerata.

Molte delle concezioni moderne dell’omosessualità nella Grecia antica si concentrano sulla cultura ateniese del IV-V secolo, momento in cui nella città l’omosessualità, specialmente quella maschile, era tollerata più che in altri periodi della sua storia.

La Grecia antica, tuttavia, non fu mai un paradiso per l’omosessualità. I Greci interpretavano la sfera sessuale in modo differente da come lo vediamo noi, badando meno al sesso biologico e più al ruolo e allo scopo del rapporto: eterosessualità e omosessualità facevano parte dello stesso ventaglio di esperienze amorose (afrodisia) ma, per quanto il rapporto tra due uomini fosse il più delle volte tollerato o accettato in determinati periodi storici e in diverse località greche, c’era una grande differenza tra il ruolo attivo o passivo degli amanti.

Ci sono moltissime testimonianze, come poemi, vasi, statue, miti, trattati filosofici, discorsi, iscrizioni, testi medici e opere teatrali, in cui viene dipinto un quadro della Grecia antica molto differente dalla quello di “utopia omosessuale”: i rapporti omosessuali vengono talvolta celebrati, ma spesso anche ignorati, scoraggiati o condannati.

Riguardo ai rapporti omosessuali veniva applicata una distinzione nel ruolo degli amanti: coloro che “ricevevano” e svolgevano un ruolo passivo nel rapporto omosessuale venivano definiti kinaidoi e tendevano ad essere stigmatizzati dalla società ateniese.

A Sparta, assumere un ruolo passivo in un rapporto omosessuale tra adulti era fonte di estrema disapprovazione e costituiva un tale segnale di debolezza da considerare l’amante alla stregua di un traditore, un uomo che accettava di essere ignobile pur di ottenere piacere sessuale.

Una volta raggiunta l’età adulta, un uomo era tenuto a mantenere e proteggere la propria mascolinità. Un ruolo di dominanza sessuale nei confronti di un partner dello stesso sesso non veniva interpretato come sconveniente, ma il ruolo opposto era invece visto come un gesto in grado di mettere a serio rischio l’onorabilità di un essere umano.

Pederastia

La pederastia greca era un fenomeno che consisteva nella relazione ritualizzata tra due maschi di differente età: un eromenos (amato), più giovane, e un erastes (amante), più avanti nell’età. Sebbene fosse un tipo di rapporto socialmente accettabile in alcune polis greche e costituisse il tipo di relazione omosessuale più diffuso nella Grecia antica, fu criticato più e più volte da letterati e filosofi del tempo.

Nell’antica Grecia il sesso veniva generalmente catalogato in base a parametri come piacere, dominanza e ruolo degli amanti, e non sul sesso biologico dell’individuo. La pederastia che sfociava in atti erotici non era quindi considerata un vero e proprio rapporto omosessuale: l’ erastes assumeva un ruolo di dominanza, continuando quindi a mantenere la sua mascolinità, mentre il giovane eromenos, per quanto passivo, si trovava in un’età di passaggio, tra gioventù ed età adulta, in cui la sua passività non veniva interpretata come sconveniente.

La pederastia non era praticata allo stesso modo in tutta la Grecia antica. In Boezia, erastes e eromenos vivevano insieme come una coppia; ad Elis e ad Atene non sempre la coppia conviveva sotto lo stesso tetto, ma il rapporto prevedeva una fase di “corteggiamento” orientato a mantenere attiva la relazione; nella Ionia invece la pederastia era quasi del tutto vietata.

Ad oggi, non sappiamo con esattezza fino a che punto si spingesse il rapporto tra eromenos e erastes. Sappiamo che poteva sfociare nell’erotismo, oppure rimanere del tutto casto, una sorta di “tutoring” di adolescenti e giovani adulti. Purtroppo quasi tutti i documenti relativi al livello di profondità dei rapporti omosessuali dell’antica Grecia sono andati distrutti.

Socrate, Platone e Senofonte non condannavano la pederastia nella sua forma più casta, ma disprezzarono espressamente ogni sua manifestazione fisica. Socrate prende in giro l’ex discepolo Crizia per la sua passione nei confronti del suo eromenos Eutidemo, manifestatasi in forma fisica; ma lo stesso filosofo era un frequentatore dei bordelli ateniesi popolati da giovani ragazzi che si prostituivano: tra loro acquistò e liberò il suo futuro allievo, Fedone di Elide.

Plutarco e Senofonte sostenevano che la pederastia spartana fosse del tutto casta, anche se è ormai certo che ci fossero circostanze in cui la relazione sfociava nella carnalità. Ad Atene, i padri incaricavano alcuni schiavi, chiamati pedagoghi, di sorvegliare i propri figli e proteggerli da tentativi inappropriati di seduzione, ma secondo Eschine erano gli stessi padri a desiderare che il figlio diventasse bello e attraente per catturare l’attenzione di un uomo potente.

Omosessualità tra commilitoni

Gli esempi di coppie di guerrieri-amanti, o di commilitoni legati da un rapporto pederasta, non sono pochi nella mitologia e nella storia greca: Achille e Patroclo, Eracle e Abdero, Oreste e Pilade, Teseo e Piritoo, Armodio e Aristogitone.

Nel Simposio di Platone, Fedro commenta la forza che esercita una relazione omosessuale tra compagni d’armi sul coraggio di uno schieramento militare. Senofonte, invece, tende a ridicolizzare i soldati spartani e tebani che avevano trasformato i loro rapporti amorosi nell’unica base di coesione dei loro schieramenti militari, pur non condannando i rapporti sentimentali tra commilitoni.

Secondo Plutarco, Epaminonda ebbe due uomini come amanti, uno dei quali perse la vita nella battaglia di Mantinea; l’amante deceduto fu sepolto insieme allo statista tebano, una pratica generalmente riservata a marito e moglie.

Questo non significa tuttavia che il rapporto amoroso tra commilitoni fosse la norma: per alcuni era semplicemente accettabile, per altri rappresentava il fondamento della forza di un esercito, per altri ancora era invece fonte di debolezza.

Il rapporto tra Achille e Patroclo, una delle più celebri coppie omosessuali della storia, non fu interpretato nell’Atene del V secolo a.C. come una semplice unione tra due persone dello stesso sesso, ma come una relazione tra commilitoni contestualizzata nella pederastia, una relazione probabilmente durata troppo a lungo e condotta a ruoli invertiti: Achille, più giovane, fu spesso interpretato come erastes in quanto eroe, ma è più probabile che fosse l’eromenos, data la maggiore età di Patroclo e l’indole giovanile e poco misurata di Achille.

Benché Omero non descriva mai esplicitamente i due guerrieri come veri e propri amanti, ma non fa nulla per escludere questo scenario. Come affermò la scrittrice italiana Eva Cantarella nel suo libro “Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico” (Biblioteca Universale Rizzoli, Roma, 1988):

«Omero descrive amicizie maschili di intensità affettiva così forte da far inevitabilmente pensare a legami ben diversi da una semplice solidarietà fra compagni d’arme: e l’amicizia che a questo punto è quasi di prammatica citare è quella fra Achille e Patroclo. […] Il legame tra Achille e Patroclo, invece, era insostituibile: ed è non poco significativo, a questo proposito, il discorso di Teti, la madre dell’eroe, al figlio disperato ed inconsolabile: Achille, dice Teti, deve continuare a vivere e dimenticato Patroclo, deve prendere moglie “come giusto che sia”. Un rimprovero, forse? La prova che Teti riprovava l’amore omosessuale del figlio? A prima vista così potrebbe sembrare. Ma, a ben vedere, le cose stanno diversamente. Quello che risulta in realtà della parole di Teti, è che il legame con Patroclo era stata la ragione per la quale l’eroe non aveva ancora preso moglie: una conferma, dunque, del carattere amoroso del rapporto. Ma l’esortazione della madre al figlio a compiere finalmente il suo dovere sociale non è – ciononostante – una condanna assoluta della sua relazione con Patroclo. Essa sembra, piuttosto, un invito ad accettare quella che, per i greci, era una regola naturale: raggiunta una certa età, bisogna por fine alla fase omosessuale della vita e assumere il ruolo virile con una donna.»

Fonti:
Homosexuality in ancient Greece
Friday essay: the myth of the ancient Greek ‘gay utopia’
Mad about the boy
ATHENIAN LAWS ABOUT HOMOSEXUALITY
The Myth Of Homosexuality In Ancient Greece
Greek Homosexuality

]]>
https://www.vitantica.net/2021/08/29/grecia-antica-paradiso-omosessualita/feed/ 1
I testi sacri sono davvero la fonte della moralità moderna? https://www.vitantica.net/2021/08/28/i-testi-sacri-sono-davvero-la-fonte-della-moralita-moderna/ https://www.vitantica.net/2021/08/28/i-testi-sacri-sono-davvero-la-fonte-della-moralita-moderna/#comments Sat, 28 Aug 2021 00:10:36 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4223 La mia modestissima e opinabilissima opinione sulle religioni è che ognuno è libero di credere a ciò che vuole a patto che non si vadano a ledere diritti e progressi sociali acquisiti negli ultimi 200 anni.

Ciascuno è libero di credere a serpenti parlanti, a paradisi, inferni e limbi, praticare il culto come, dove e quando gli pare; ma se si ha davvero fede e si ha intenzione di attenersi ai precetti contenuti nei libri sacri, non mi sembra coerente fare ciò che viene definito “cherry-picking”: selezionare e considerare rilevanti solo gli aspetti più gradevoli di una religione.

Il cherry-picking non solo è scorretto, ma diminuisce le necessità di dibattito sui moltissimi aspetti contraddittori di alcune tra le religioni più diffuse sul pianeta. Se, da una parte, ci piace immaginare che personaggi come Gesù siano in grado di esprimere solo concetti positivi, dall’altra c’è la realtà dei fatti: alcune parole e precetti di molte figure religiose appartengono ad un passato in cui la società era enormemente diversa, e non sono più applicabili alla vita del XXI secolo.

Le contraddizioni dei testi sacri della tradizione cristiana sono molte e spesso prone a interpretazioni diverse, tanto che esistono attualmente oltre 20.000 denominazioni cristiane differenti e migliaia di sette, senza contare denominazioni e sette esistite in passato, ognuna fondata su una personale interpretazione dei testi sacri.

Basti pensare alle tre interpretazioni di questo estratto dei Numeri 14:34:

Versione CEI

“Secondo il numero dei giorni che avete impiegato per esplorare il paese, quaranta giorni, sconterete le vostre iniquità per quarant’anni, un anno per ogni giorno e conoscerete la mia ostilità.”

Versione Riveduta

“Come avete messo quaranta giorni a esplorare il paese, porterete la pena delle vostre iniquità per quarant’anni, un anno per ogni giorno, e saprete che cosa sia cadere in disgrazia presso di me.”

Bibbia Diodati

“In base al numero dei giorni che avete impiegato ad esplorare il paese, cioè quaranta giorni, per ogni giorno porterete la vostra colpa un anno, per un totale di quarant’anni; e voi conoscerete cosa sia l’essermi ritirato da voi.”

Perché versioni apparentemente così simili ma, in sostanza, differenti? A parte ovvie ragioni di traduzione, “Ostilità” esprime un concetto diverso da “cadere in disgrazia” e da “essermi ritirato da voi”.

Forse siamo istintivamente portati a credere a ciò che vogliamo e a interpretarlo strumentalmente, oltre ad ignorare o minimizzare il brutto o lo sconveniente. Ma cosa c’è di così sconveniente in un libro come la Bibbia, a detta di molti la fonte della moralità moderna?

Questo post non è un attacco alla religione cristiana o alle religioni più in generale. Come ho anticipato all’inizio del post, ognuno è libero di credere a ciò che vuole (“a patto che…”); ma non si può non far notare che i valori presenti nei testi sacri delle maggiori religioni del pianeta sono a volte contraddittori con la società del XXI secolo.

E’ ovviamente necessario un minimo di contestualizzazione per comprendere il perché furono messi per iscritto alcuni concetti riportati più avanti nel post: il momento storico non condannava con forza la schiavitù, anzi; la donna godeva di tutt’altra considerazione rispetto alla maggior parte dei paesi moderni e la popolazione ebraica o cristiana si trovava sotto la pressione di nemici o occupanti.

Ma resta il fatto che, se davvero si vuole accettare di aver fede in un testo sacro, non si può selezionare solo ciò che c’è di buono (e che non fu esclusiva dell’Ebraismo o del Cristianesimo) e si deve accettare un confronto costruttivo e sereno sulle sue contraddizioni.

Questo post è il primo di una serie che proseguirò in futuro, in cui elencherò i versi più “sconvenienti” o contraddittori dei testi sacri di maggior rilevanza nel panorama religioso moderno.

La donna

“Non permetto a nessuna donna d’insegnare, né di comandare al marito; le donne devono starsene tranquille. Perché? Perché Dio creò per primo Adamo e poi Eva. E non fu Adamo a lasciarsi ingannare da Satana, ma Eva, che si rese colpevole di peccato.” (Timoteo 2:12-14)

“Così dice il SIGNORE: «Ecco, io farò venire addosso a te delle sciagure dall’interno della tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che si unirà a loro alla luce di questo sole; poiché tu lo hai fatto in segreto; ma io farò questo davanti a tutto Israele e in faccia al sole»” (Samuele 12:11-12)

“Quando una donna avrà perdite di sangue per le mestruazioni, la sua impurità durerà sette giorni; e chiunque la toccherà sarà impuro fino a sera. Ogni letto sul quale si sarà messa a dormire durante la sua impurità sarà impuro; e ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro. Chiunque toccherà il suo letto si laverà le vesti, laverà se stesso nell’acqua e sarà impuro fino a sera. Chiunque toccherà qualsiasi mobile sul quale la donna si sarà seduta si laverà le vesti, laverà se stesso nell’acqua e sarà impuro fino a sera. Se qualche cosa si trovava sul letto o sul mobile dove la donna sedeva, chiunque tocca quella cosa sarà impuro fino a sera. Se un uomo si unisce a lei così che l’impurità di questa lo tocca, egli sarà impuro sette giorni; e ogni letto sul quale si coricherà sarà impuro.” (Levitico 15:19:24)

“Quando ella sarà purificata del suo flusso, conterà sette giorni e poi sarà pura. L’ottavo giorno prenderà due tortore o due giovani piccioni e li porterà al sacerdote all’ingresso della tenda di convegno. Il sacerdote ne offrirà uno come sacrificio per il peccato e l’altro come olocausto; il sacerdote farà per lei, davanti al SIGNORE, l’espiazione del flusso che la rendeva impura.” (Levitico 28:30)

“Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l’afferra e pecca con lei e sono colti in flagrante, l’uomo che ha peccato con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; essa sarà sua moglie, per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita.” (Deuteronomio 22:28)

Famiglia

“Se alcuno viene a me, e non odia suo padre, e sua madre, e la moglie, e i figliuoli, e i fratelli, e le sorelle, anzi ancora la sua propria vita, non può esser mio discepolo.” (Luca 14:26, parole di Gesù)

“Se un uomo ha un figlio caparbio e ribelle, che non ubbidisce alla voce di suo padre né di sua madre e che non dà loro retta neppure dopo che l’hanno castigato, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della sua città, alla porta della località dove abita, e diranno agli anziani della sua città: «Questo nostro figlio è caparbio e ribelle; non vuole ubbidire alla nostra voce, è senza freno e ubriacone»; allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno a morte. Così toglierai via di mezzo a te il male, e tutto Israele lo saprà e temerà”. (Deuteronomio 21:18-21)

“Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.” (Matteo 19:29)

“Dio, infatti, ha detto: Onora tuo padre e tua madre; e: Chi maledice padre o madre sia punito di morte;” (Matteo 15:4)

“E aggiungeva: «Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte»” (Marco 7:9-13. Critica di Gesù verso chi non rispetta la legge dell’ Antico Testamento)

Schiavitù

“Ora quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non si è preparato e non ha fatto la sua volontà riceverà molte battiture. Ma colui che non la conosciuta, se fa cose che meritano le battiture, ne riceverà poche. A chiunque è stato dato molto, sarà domandato molto; e a chi molto è stato affidato, molto piú sarà richiesto” (Luca 12:47-48)

“Ma se lo schiavo fa questa dichiarazione: “Io amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli; io non voglio andarmene libero”; allora il suo padrone lo farà comparire davanti a Dio, lo farà accostare alla porta o allo stipite; poi il suo padrone gli forerà l’orecchio con una lesina ed egli lo servirà per sempre.” (Esodo 21:5-6)

“Poiché essi sono i miei servi che ho fatto uscire dal paese d’Egitto; non devono essere venduti come si vendono gli schiavi.” (Levitico 25:42)

“Quanto allo schiavo e alla schiava che potrete avere in proprio, li prenderete dalle nazioni che vi circondano; da queste comprerete lo schiavo o la schiava.” (Levitico 25:44)

“Quando un uomo venderà la figlia come schiava, essa non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se essa non piace al padrone, che così non se la prende come concubina, la farà riscattare. Comunque egli non può venderla a gente straniera, agendo con frode verso di lei.” (Esodo 21:7-8)

Violenza

“Così parla l’Eterno degli eserciti: Io ricordo ciò che Amalek fece ad Israele quando gli s’oppose nel viaggio mentre saliva dall’Egitto. Ora va’, e percuoti Amalec, e distruggete al modo dell’interdetto tutto ciò che è suo; e non risparmiarlo; anzi fa’ morire uomini e donne, fanciulli e bambini di poppa, buoi e pecore, cammelli ed asini.” (Samuele 15:2-3)

“O figliuola di Babilonia, che devi esser distrutta, beati chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto! Beato chi piglierà i tuoi piccoli bambini e li sbatterà contro la roccia!” (Salmi 137:8-9)

“Cadano loro addosso carboni accesi! Siano gettati nel fuoco, in fosse profonde, da cui non possano risorgere.” (Salmi Salmi 140, preghiera per essere protetti nella persecuzione)

“E durante l’assedio e nell’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto del tuo seno, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie, che il SIGNORE, il tuo Dio, ti avrà dato.” (Deuteronomio 28:53)

“Proclamate questo fra le nazioni! Preparate la guerra! Fate sorgere i prodi! S’accostino, salgano tutti gli uomini di guerra!” (Gioele 3:9)

“Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini, conservatele in vita per voi.” (Numeri 31:17-18. Mosè ordina di uccidere)

“Se un uomo o una donna sono negromanti o indovini dovranno essere messi a morte; saranno lapidati; il loro sangue ricadrà su di loro” (Levitico 20:27)

Non classificabili

“L’eunuco a cui sono state infrante o mutilate le parti, non entrerà nella raunanza dell’Eterno. Il bastardo non entrerà nella raunanza dell’Eterno; nessuno de’ suoi, neppure alla decima generazione, entrerà nella raunanza dell’Eterno. L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella raunanza dell’Eterno; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella raunanza dell’Eterno; ” (Deuteronomio 23:1-3)

“Osservate i miei statuti: Non far coprire la tua bestia da altra di diversa specie; non seminare il tuo campo di diverse specie di semenze; e non portare addosso veste contesta di diverse materie.” (Levitico 19:19)

“Non taglierete in tondo i capelli ai lati del capo, né spunterai gli orli della tua barba.” (Levitico 19:27)

“La mattina dopo, mentre rientrava in città, ebbe fame. Vedendo un fico sulla strada, gli si avvicinò, ma non vi trovò altro che foglie, e gli disse: «Non nasca mai più frutto da te». E subito quel fico si seccò.” (Matteo 21:18-19. Gesù maledice e dissecca un albero di fico)

The Dark Bible: Morality And Contradictions
Violence more common’ in Bible than Quran, text analysis reveals
New Testament Cruelty

]]>
https://www.vitantica.net/2021/08/28/i-testi-sacri-sono-davvero-la-fonte-della-moralita-moderna/feed/ 1
America e popoli indigeni: le culture native erano pacifiche? https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/ https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/#respond Mon, 23 Nov 2020 00:15:28 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5029 Sotto le carneficine, le epidemie e il saccheggio dei territori dei nativi, l’esplorazione e la conquista delle Americhe hanno innumerevoli aspetti interessanti che un appassionato di storia non può non apprezzare. Si tratta di un’epoca di grandi viaggi oceanici, giochi tra poteri politici, economici e religiosi, scontri e guerre brutali, senza contare le innumerevoli scoperte, e invenzioni ideate per rendere possibile l’incredibile densità di eventi storici avvenuti tra la metà del XV secolo e il XVIII secolo.

Scontri armati, carestie e pestilenze provocarono milioni di vittime quando Vecchio Mondo e Nuovo Mondo vennero a contatto. Milioni di esseri umani indigeni furono sterminati in nome di qualche re, regina o compagnia commerciale; alcune specie animali, come il bisonte, sparirono dal continente nordamericano per la caccia intensiva condotta dalle spedizioni occidentali.

Lo sterminio di interi popoli nativi, violento o provocato da malattie, e i forti cambiamenti ecologici che gli europei apportarono agli ecosistemi americani non devono tuttavia far pensare che le Americhe fossero continenti abitati da popoli pacifici, in armonia con la natura e con i popoli limitrofi.

Prima dell’arrivo dei primi esploratori europei, le Americhe erano un territorio solo parzialmente selvaggio. I nativi erano in grado di modificare profondamente il territorio con incendi controllati e un attento controllo della vegetazione locale; cacciavano animali in grandi numeri, spesso uccidendo molto più di quanto potessero utilizzare e mangiare; la violenza tribale, infine, era relativamente comune, contrariamente all’immagine comune del “buon selvaggio” associata spesso e volentieri alle culture native americane precolombiane.

Un nuovo mondo non violento?

Aztechi, Maya, Inca e popoli dell’ America Centro-meridionale non erano di certo popoli pacifici. La Guerra dei Fiori era un rituale che provocava relativamente poche morti e serviva a scongiurare guerre di portata più grande tra le città-stato azteche, ma si trattava comunque di un rituale estremamente cruento mirato a indebolire militarmente i rivali di Tenochtitlan.

Il regno di Cusco, invece, iniziò ad espandersi a partire dal 1438 sotto la guida di Pachacuti-Cusi Yupanqui, nome dal significato molto poco pacifico di “colui che fa tremare la terra”. Pachacuti creò quello che sarebbe diventato l’impero Inca conquistando col sangue i Chancas, una tribù di guerrieri formidabili ed estremamente abili nel combattimento. Nel 1463 iniziò un’altra campagna di conquista per sconfiggere il vero rivale degli Inca, il regno di Chimor.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Le tre civiltà americane più famose e potenti degli ultimi 1.000-1.500 anni di storia non erano quindi per nulla pacifiche, avevano aspirazioni imperialistiche e regolavano col sangue molte delle questioni aperte con i rivali locali.

Cosa succedeva invece nelle regioni settentrionali e meridionali delle Americhe, prima che iniziasse l’esplorazione metodica dei continenti americani? Nulla di molto diverso, anche se la maggior parte delle comunità poteva contare su un numero di individui più ridotto.

Nell’estremità settentrionale delle Americhe, gli Inuit canadesi conducevano abitualmente schermaglie contro gruppi locali concorrenti, anche se della stessa cultura: i Nunatamiut del Fiume Mackenzie, ad esempio, si davano battaglia tra loro per il controllo delle risorse ittiche.

La foresta pluviale amazzonica, invece, era popolata da decine di milioni di individui appartenenti a culture molto diverse tra loro, come i Valdivia, i Quimbaya, i Calima e i Tairona, che sicuramente ebbero molte occasioni per entrare in contrasto per questioni di territorialità o risorse.

Tra gli Inuit e le culture amazzoniche, guerre e rivolte spinte da ragioni politiche, economiche o religiose imperversavano, la brutalità era all’ordine del giorno e la vita trascorreva ben diversamente dal quadro idilliaco talvolta dipinto da alcune ricostruzioni poco fedeli alla realtà storica.

Scontri intertribali frequenti

Secondo la storica Diana Muir, la Lega Irochese pre-contatto europeo era caratterizzata da uno spirito espansionistico e imperialista che mirava al possesso dei territori degli Algonchini e di ogni potenziale preda vicina. La confederazione irochese era così assetata di potere da cannibalizzare se stessa, abbattendo anche le comunità della propria cultura che conducevano stili di vita meno belligeranti.

Nel 1649 gli Irochesi distrussero il villaggio di Wendake, facendo sciogliere la nazione degli Uroni e rimuovendo l’ultimo reale avversario alla conquista dei territori delle Nazioni Neutrali, dei Mohicani e di altre tribù irochesi non appartenenti alla Lega, principalmente per una questione di prestigio territoriale e per prendere il controllo del commercio delle pelli.

Facendo un salto indietro nella storia, i resti umani rinvenuti nelle Grandi Pianure e risalenti ad un periodo compreso tra il 250 a.C. e il 900 d.C. mostrano segni occasionali di violenza dovuta a scontri intertribali. A partire dal XIII secolo, tuttavia, scorrerie e guerre iniziarono a diventare sempre più frequenti, e i resti archeologici mostrano segni di incendi, di violenze brutali e di mutilazioni.

La ragione di queste sempre più frequenti aggressioni non è chiara, ma si ipotizza che possa essere stata la fame a scatenare gli scontri tra tribù. Gli scavi nel sito di Crow Creek, un’antica città Arikara sorta nel 1325, ha rivelato i corpi di 486 persone, incluse donne e bambini, massacrate, scalpate e smembrate. I resti ossei mostrano evidenti segni di malnutrizione, suggerendo che il massacro sia stato motivato dalla competizione per le scarse risorse alimentari disponibili.

Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata
Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata

Gli scontri intertribali terminati in massacri sono molti e ben documentati; talvolta si parla di migliaia di vittime in una singola battaglia (molti leghe tribali non superavano le 10-20.000 unità). Il 90% dei resti umani appartenenti al XIII secolo mostrano segni di traumi, spesso alla testa o agli arti.

Nel 1800 Alexander Henry, commerciante per la Northwest Company, esclamò osservando una le Grandi Pianure ricoperte di mandrie di bisonti: “Questo è un paese meraviglioso, e se non fosse per le guerre perpetue, i nativi potrebbero essere le persone più felici della Terra”. Detto da una delle pedine dei poteri che sfruttavano i nativi americani, l’affermazione non sembra avere alcun valore, ma la realtà è che i nativi si dilettavano nell’arte della guerra ben prima dell’arrivo degli Europei.

Cherokee e schiavi

Sui Cherokee esiste parecchia documentazione storica rispetto ad altre culture, documentazione risalente non soltanto agli scontri tra Europei e nativi, ma anche ai primi contatti indiretti con la confederazione.

In cima alla piramide sociale dei clan Cherokee c’erano due figure politiche: “bianco”, amministratore in periodi di pace, e “rosso”, il comandante in caso di guerra. Le decisioni militari venivano prese dal capo “rosso” e dai delegati dei sette clan Cherokee (che includevano le ghigau, donne guerriere).

I Cherokee erano una cultura schiavista, come molte altre nordamericane dalla California al Canada. Gli schiavi potevano essere catturati in guerra, ma esistevano anche schiavi divenuti tali a causa di debiti di gioco. La tribù aveva diritto di vita e di morte sui suoi schiavi, e solo il consiglio tribale poteva concedere loro la libertà.

Generalmente, la cattura di ostaggi durante una razzia o una battaglia poteva finire in due modi: essere risparmiato (nel caso di donne e bambini) e diventare schiavo, o essere ucciso. Alcuni schiavi potevano diventare “parenti” di membri della comunità, entrando a far parte del tessuto sociale tribale, o continuare a rimanere all’esterno di ogni interazione con la comunità.

Per i Cherokee gli schiavi non erano un vero e proprio elemento funzionale per l’economia tribale, ed erano una proprietà collettiva. Le attività di raccolta e quelle di caccia potevano tranquillamente soddisfare i bisogni della comunità (gli schiavi potevano aiutare nei campi o trasportare carichi) senza l’aiuto di altre braccia, per cui il possesso di prigionieri era sostanzialmente una questione di prestigio.

Dopo l’incontro-scontro con gli Europei e la schiavitù di migliaia di Cherokee, la cultura schiavista dei nativi iniziò a cambiare in peggio: lo schiavo divenne una proprietà individuale che poteva essere scambiata con gli stranieri per ottenere oggetti che i nativi non erano in grado di produrre.

Scontri per la terra

Come citato in questo post, la maggior parte delle comunità native americane conosceva il concetto di proprietà privata, che veniva tutelata da una serie di leggi tribali tramandate oralmente.

Nelle culture dedite all’agricoltura, esistevano diritti di sfruttamento per le risorse naturali e i terreni diventavano parte del patrimonio di famiglia. Ma un diritto di sfruttamento può essere messo in discussione alla morte del capofamiglia, o con lo sconfinamento continuo da parte di membri della tribù o provenienti da altre culture; le diatribe sui diritti di sfruttamento dei terreni agricoli o di caccia causavano scontri spesso violenti, che potevano sfociare in vere e proprie battaglie.

Nelle regioni degli Stati Uniti Sud-occidentali, gli archeologi hanno ritrovato numerosi scheletri, risalenti al periodo che precede l’arrivo degli Europei, che riportano svariati segni lasciati da armi da lancio e corpi contundenti. In queste regioni le carestie innescavano probabilmente scontri locali tra clan in competizione per le risorse, o per sconfinamenti non autorizzati in territori di caccia e raccolta controllati da altre culture.

I diritti di sfruttamento o il possesso di un terreno potevano quindi subire cambiamenti continui. Un campo di mais posseduto da più generazioni dalla stessa famiglia o clan poteva improvvisamente diventare proprietà di un’altra tribù dopo uno scontro violento o uno sconfinamento in massa, spesso senza lasciare tracce permanenti dei proprietari precedenti.

E’ per questa ragione che il mantra moderno che recita “restituiamo la terra ai nativi” non ha molta logica. “Nativi americani” è un termine ombrello che racchiude un’incredibile varietà di culture, di approcci al potere e di eventi storici locali difficili da ricostruire, specialmente se si scava nella storia precedente all’arrivo degli Europei sul continente.

A chi dovremmo restituire la regione canadese attorno al villaggio di Wendake? Agli Irochesi, che dalla metà del 1600 se ne appropriarono con la forza, o agli Uroni, i precedenti “proprietari” dell’area? O forse ai Petun, il “Popolo del Tabacco”, in competizione per le risorse con gli Uroni da prima che gli Irochesi iniziassero a conquistare i clan minori?

Fonti:

Thanksgiving guilt trip: How warlike were Native Americans before Europeans showed up?
Slaveholding Indians: the Case of the Cherokee Nation  (PDF)
INTERTRIBAL WARFARE
Intertribal Warfare as the Precursor of Indian-White Warfare on the Northern Great Plains (PDF)
The Indians’ Old World: Native Americans and the Coming of Europeans
The Most Violent Era In America Was Before Europeans Arrived

]]>
https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/feed/ 0
Gotlandsdricka, la bevanda vichinga dell’isola di Gotland https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/ https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/#respond Mon, 16 Nov 2020 00:10:52 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5026 Gotlandsdricka, chiamata anche drikke, drikko o drikku in lingua Gutnish, è una bevanda alcolica prodotta da secoli sull’isola svedese di Gotland, un drink realizzato domesticamente del tutto simile a ciò che consumavano quotidianamente i popoli norreni durante i loro pasti.

Dal colore ambrato o bruno, il drikke (chiamato spesso “birra indigena” o “birra delle Gotland”) è una bevanda torbida consumata “giovane”, all’inizio del processo di fermentazione, aspetto che contribuirà a mutarne il sapore nel corso del tempo.

Storia del drikke

Il termine gotlandsdricka significa “bevanda di Gotland” ed è comunemente utilizzato dagli abitanti dell’isola per distinguere la loro bevanda da quelle provenienti dal continente europeo o da altre regioni scandinave. Essendo una bevanda prodotta tra le mura di casa, ogni regione dell’isola ha la sua personale ricetta, ma la base di ingredienti e il metodo di fermentazione è essenzialmente lo stesso.

Il drikke nasce come bevanda per d’uso comune. Produrre bevande a base di luppolo, considerate le migliori e le più saporite, richiedeva tempo e materie prime relativamente costose per l’abitante di Gotland di circa un millennio fa, prima che il luppolo potesse diventare una delle colture stabili scandinave.

Per non rimanere a bocca asciutta, i primi coloni dell’isola di Gotland escogitarono un metodo di produzione di bevande alcoliche basato sulle materie prime più facilmente reperibili sul posto: malto di cereali locali, ginepro, linfa di betulla e miele.

Non bisogna dimenticare che l’isola di Gotland è relativamente lontana dalla terraferma, posizione che di certo non favorisce i contatti con il continente. Nonostante questo, l’isola era un centro commerciale ben sviluppato già un millennio fa, e i residenti si abituarono a sopravvivere coltivando segale, bruciando kelp e producendo la loro bevanda personale alcolica.

Ricetta di base immutata per secoli

La cultura norrena dell’ epoca vichinga considerava il drikke una bevanda non alcolica, al contrario di birra e idromele, anche se può contenere una percentuale di alcol che varia dal 3 al 12%.

Il drikke veniva tradizionalmente preparato dalle donne tra i confini della propria abitazione, e veniva servito a bambini e adulti durante i pasti. Gli uomini potevano aiutare nel trasporto di acqua, legno e dei materiali necessari alla fermentazione, ma la preparazione della bevanda era affidata alla manualità femminile delle isolane.

La preparazione domestica del drikke nel corso degli ultimi 1.000 anni si è evoluta, ma gli ingredienti e il sapore sono rimasti sostanzialmente del tutto simili: malto, mazzetti di ginepro, acqua, miele e il “mirto di palude” (Myrica gale), una pianta da torbiera che cresce spontanea in Europa settentrionale, mescolati e fatti fermentare per ottenere una bevanda dal sapore unico.

Durante il XIII secolo il sapore del drikke fu arricchito dall’aggiunta delle infiorescenze femminili del luppolo, senza tuttavia sovrastare il sapore tipico del ginepro.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Pare che, prima della metà del XIII secolo, le bevande a base di luppolo fossero poco diffuse in Scandinavia, probabilmente per un blocco commerciale tra le regioni europee settentrionali e l’Europa centrale. Nel 1283 Re Erik VI di Danimarca proibì a Copenhagen l’importazione e la vendita di birra a base di luppolo proveniente dalla regioni dell’attuale Germania; l’isola di Gotland e la Scandinavia si trovarono tagliate fuori dal traffico di birra a base di luppolo, ritardando di qualche decade l’introduzione e l’impiego su larga scala di questa pianta.

Tra il XIII e il XIV secolo, in Danimarca iniziano a spuntare piccole cittadine dai nomi associati al luppolo, come Humlebaek, Humlebakke e Humledal, segnale che il divieto di Erik VI trovava difficile applicazione nella realtà dei fatti. Nel 1268, infatti, il consiglio della città di Roskilde, a circa 30 km da Copenhagen, aveva già consentito la vendita di birra al luppolo agli agricoltori locali, suggerendo l’ipotesi che il luppolo stava ormai entrando nei gusti danesi da diverso tempo.

Tra il XIX e il XX secolo, il miele fu sostituito dallo zucchero, abbassando i costi di produzione e aumentando allo stesso tempo la resa della fermentazione domestica. Ancora oggi tuttavia molti produttori continuano a seguire la ricetta tradizionale usando il miele.

Produzione del drikke

La produzione del gotlandsdricka inizia dal malto prodotto da orzo (il cereale preferito per questo impiego), frumento, segale o avena, in base alla disponibilità locale. Dopo aver fatto germinare i cereali, il malto veniva essiccato all’aria, oppure in un piccolo capanno chiamato kölna, costruito sulla cima dell’edificio adibito alla fermentazione oppure separato dall’abitazione, grazie al fumo prodotto da un focolare alimentato da legna di ontano, betulla, pino o ginepro.

Il kölna era un capanno multiuso: non veniva impiegato esclusivamente per la produzione di malto, ma poteva essere utilizzato per affumicare carne e pesce o per conservare alcuni tipi di scorte alimentari.

Il malto veniva quindi macinato e mescolato ad un composto ottenuto dalla bollitura in acqua di mazzi di ginepro. La miscela, ispessita dall’aggiunta di malto, veniva lasciata riposare per circa due ore per poi essere trasferita nel rostbunn, la vasca in cui viene innescata la fermentazione.

Rostbunn. Wikimedia Commons
Rostbunn. Wikimedia Commons

La composizione e la stratificazione del rostbunn sono elementi fondamentali per una buona fermentazione del drikke. Gli strati devono essere sufficientemente compatti da lasciar passare un lento ma costante flusso di liquido senza ostruirlo.

Questo genere di stratificazione, tramandata oralmente da secoli, è soggetto a numerosi errori che possono vanificare svariate ore di lavoro e giorni di attesa. Per questa ragione sono nati anche molti tabù legati alle varie fasi di produzione della bevanda: alcuni produttori credono che sia necessario il silenzio più completo durante la stratificazione del rostbunn, altri invece che nella vasta occorra posizionare un pezzo d’acciaio o un’antica ascia di pietra per ottenere una buona fermentazione.

La vasca viene rivestita internamente di paglia prima di stratificarla. Il primo strato del rostbunn è composto da un reticolo di rametti di ginepro privati della loro corteccia, mentre lo strato superiore, il secondo, è composto da paglia pressata; gli strati vengono deposti in modo tale da lasciare uno spazio concavo al centro della vasca, spazio in cui verrà versata la miscela calda a base di malto e ginepro.

Dopo che la miscela versata nel rostbunn ha perso la sua parte liquida, il rubinetto sul fondo della vasca viene aperto per far uscire il wort (o lännu), un liquido zuccherino pronto per la fermentazione, che viene raccolto in un secchio. Il wort ottenuto dalla prima apertura del rubinetto viene talvolta lavorato separatamente per creare bevande più forti e saporite.

Il wort viene quindi bollito aumentarne il livello di dolcezza e arricchito da luppolo, bacche locali, zucchero o miele. Quando viene raggiunto il livello di dolcezza stabilito, il liquido viene fatto raffreddare, viene filtrato e addizionato di lieviti (kveik, il lievito domestico tradizionale scandinavo) per innescare la fermentazione, che durerà fino 14 giorni all’interno di barili di legno (e 5-7 giorni se si utilizza il lievito commerciale moderno).

Gotlandsdricke – an overview
Gotlandsdricka
To hop or not to hop: Early medieval beer brewing in Scandinavia and continental Europe
The Goodland island and its ancient beers
Kveik

]]>
https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/feed/ 0
Matthew Hopkins e il “The Discovery of Witches” https://www.vitantica.net/2020/10/05/matthew-hopkins-the-discovery-of-witches/ https://www.vitantica.net/2020/10/05/matthew-hopkins-the-discovery-of-witches/#comments Mon, 05 Oct 2020 00:19:25 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4974 Quando si parla di stregoneria, sono due i principali eventi storici che vengono facilmente ricordati: la pubblicazione del Malleus Maleficarus, un testo intriso di superstizione e misoginia, e i processi per stregoneria di Salem.

I processi di Salem sono, in realtà, parte di una catena di eventi più ampia che coinvolse le colonie del New England e del Massachusetts. Ciò che accomuna questa serie di procedimenti giudiziari volti a determinare l’uso di magia nera da parte degli imputati è un testo pubblicato nel 1647 dal titolo “The Discovery of Witches“, il cui autore è ritenuto responsabile del 20% delle esecuzioni per stregoneria avvenute tra il XV e il XVII secolo in Inghilterra.

Matthew Hopkins, uno dei più celebri cacciatori di streghe della storia, svolse la sua attività contro la magia nera per soli 3 anni, ma fu un personaggio di enorme peso nei procedimenti giudiziari per stregoneria avvenuti nell’arco di oltre 50 anni.

Demoni e streghe

Nel 1599 Re Giacomo VI di Scozia scrisse una dissertazione filosofica sulla negromanzia contemporanea intitolandola “Daemonologie, In Forme of a Dialogue, Divided into three Books: By the High and Mighty Prince, James &c.“. L’opera includeva anche diversi studi di demonologia e magia nera, elencando informazioni sull’interazione tra demoni ed esseri umani e toccando anche figure mitologiche come vampiri e lupi mannari.

Re Giacomo non fu indotto a scrivere il “Daemonologie” spinto dalla sua passione per l’occulto, ma fu influenzato anche dallo svolgimento dei processi per stregoneria di North Berwick, iniziati nel 1590 e che culminarono con l’esecuzione di un celebre stregone nel 1591. Re Giacomo iniziò il suo libro affermando:

“La spaventosa abbondanza, in questo tempo e in questo paese, di questi detestabili schiavi del Demonio, streghe o incantatori, mi ha spinto (amato lettore) a pubblicare questo mio trattato per risolvere i dubbi sul fatto che questi assalti di Satana siano realmente praticati, e che sia necessario punirli severamente”.

Circa vent’anni dopo dalla pubblicazione del “Daemonologie” nacque Matthew Hopkins, figlio di un vicario puritano di Suffolk. Poco si conosce sulla sua infanzia e sulla sua educazione, ma sappiamo che rimase particolarmente colpito dai resoconti dei processi per stregoneria inglesi che si svolsero prima e dopo la sua nascita.

In giovane età Hopkins finì sotto l’ala protettrice di John Stearne, un cacciatore di streghe di Suffolk noto come “il pungolatore di streghe”. I due si incontrarono, secondo Hopkins, nel 1644 in occasione di un processo per stregoneria: Stearne aveva accusato di stregoneria 23 donne, e Hopkins fu scelto come assistente del cacciatore. Nel corso del processo 4 imputate morirono in prigione, mentre le rimanenti 19 furono trovate colpevoli e impiccate.

L’incontro tra Hopkins e Stearne culminò con la pubblicazione del “The Discovery of Witches“, un libro che influenzò enormemente la caccia alla streghe dei successivi 50-60 anni.

Cacciatori itineranti

Hopkins e Stearne iniziarono a viaggiare per l’ East Anglia con l’intento di eliminare streghe dal Suffolk, dall’Essex, dal Norfolk, dal Cambridgeshure e dall’Huntingdonshire, probabilmente muniti di salvacondotti che consentivano loro facili spostamenti tra le diverse contee coinvolte nella Guerra Civile Inglese.

Matthew Hopkins e il "The Discovery of Witches"

I due erano accompagnati da un seguito di donne e dichiaravano (senza ragione) di essere ufficiali del parlamento inviati con il preciso scopo di catturare e processare streghe. A spingerli non era la carità cristiana: i costi dei loro servizi servivano a coprire la compagnia e tre cavalli, e ammontavano a circa 20 scellini per città. In casi eccezionali i prezzi lievitavano enormemente: per la cittadina di Stowmarket furono richieste 23 sterline (l’equivalente di quasi 4.000 euro del 2020) più la copertura delle spese di viaggio.

Il Parlamento non era ignaro delle “gesta” di Hopkins e Stearne, soprattutto alla luce del fatto che la coppia impiegava metodi non convenzionali o non ufficialmente tollerati, come la tortura.

Il sistema di tortura preferito da Hopkins era la privazione del sonno: impedendo agli accusati di dormire per giorni interi, si tentava di sbriciolare ogni resistenza psicologica nei confronti degli accusatori, portando alla confessione di peccati o reati spesso mai commessi.

Stearne invece prediligeva il “pricking“: pungere con aghi o spilloni il corpo dell’accusato nel tentativo di provocare dolore o sanguinamento. Secondo le credenze popolari, chiunque non avesse provato dolore o non avesse sanguinato era di fatto invischiato nella magia nera.

In base alla stessa, assurda “logica”, una persona che non annega o galleggia dopo essere stata legata ad una sedia e immersa in acqua, deve essere considerata una strega: ha rinnegato il suo battesimo e di conseguenza dovrebbe essere respinta dall’acqua. Questo metodo fu abbandonato da Hopkins e Stearne nel 1645 a causa del fatto che era considerato illegale usare questo test senza il consenso dell’imputato.

I risultati di Hopkins

La coppia di cacciatori di streghe non fu esente da forti critiche fin dall’inizio del loro operato. Hopkins e Stearne furono interrogati per rispondere delle accuse di tortura e per chiarimenti sui prezzi che chiedevano per le loro prestazioni.

Al momento del loro ritiro, i due cacciatori di streghe avevano di certo accumulato una discreta fortuna: considerando che la retribuzione giornaliera di un agricoltore ammontava all’epoca a circa 6 pence, la base di 20 scellini richiesti ad ogni città equivaleva a circa un mese e mezzo di paga di un mezzadro.

Nel 1647 i due si ritirarono dall’attività, pubblicando nello stesso anno “The Discovery of Witches”, un libro che avrebbe costituito le basi per i processi di stregoneria nelle colonie nordamericane.

Il diretto operato di Hopkins e Stearne portò alla condanna per stregoneria di più persone rispetto ai precedenti 160 anni di caccia alle streghe. Si pensa che tra il 1644 e il 1647 Hopking sia stato coinvolto nell’esecuzione di oltre 100 donne accusate di stregoneria.

Matthew Hopkins – The Real Witch-Hunter
Matthew Hopkins
The Witch-finder General

]]>
https://www.vitantica.net/2020/10/05/matthew-hopkins-the-discovery-of-witches/feed/ 1
Beargarden, la fossa dell’orso elisabettiana https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/ https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/#respond Mon, 31 Aug 2020 00:10:22 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4963 Durante il regno di Elisabetta I (1558–1603), nella città di Londra venivano celebrati spettacoli cruenti i cui protagonisti erano animali selvatici e domestici. La “Fossa dell’Orso”, o Beargarden, recentemente apparsa in alcune serie televisive d’ispirazione medievale-fantasy, fu una realtà storica per diversi secoli in svariate regioni del mondo, uno spettacolo in grado di attrarre sostenitori e oppositori di ogni tipo, dal comune cittadino alle personalità più note tra nobiltà e menti illustri del tempo.

Bear-baiting

Traducibile come il “tormento dell’orso”, si trattava fondamentalmente di legare un orso ad un palo tormentandolo con cani addestrati, in attesa che l’orso si liberasse e facesse a pezzi i suoi assalitori.

Il bear-baiting era lo show-simbolo del Beargarden. Attività popolare fin dal XII secolo, intorno al XVI secolo molti orsi furono catturati e mantenuti con il specifico scopo di farli combattere nella fossa. In epoca medievale questi orsi viaggiavano di villaggio in villaggio per dare spettacolo, accompagnati da un “bear-leader”, un addestratore di orsi spesso italiano o francese.

Il combattimento nella fossa poteva assumere diverse forme: in alcuni casi l’orso veniva privato della vista, e frustato per alimentare la sua rabbia mentre cani addestrati venivano aizzati contro di lui. Per evitare di perdere l’orso durante lo scontro (mantenere un orso adatto al combattimento era costoso), e per limitare la perdita di preziosi cani addestrati, il combattimento terminava quando l’orso veniva totalmente sottomesso dall’attacco dei cani, o quando un numero sufficiente di cani veniva ucciso dal plantigrado.

Sebbene il bear-baiting fosse stato ufficialmente proibito dai puritani verso la fine del 1600, la pratica continuò per altri due secoli fino a svanire quasi completamente. In altre regioni del mondo, tuttavia, l’ “animal-baiting” continuò ad essere praticato fino a qualche decade fa.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Verso la fine del XIX secolo, il Maharaja Gaekwad Sayajirao III organizzò un combattimento tra una tigre del Bengala e un leone per stabilire una volta per tutte se il secondo meritasse il titolo di “Re dei Felini”. Il vincitore tra i due contendenti (non sono riuscito a capire chi ne uscì vittorioso) affrontò poco dopo un orso grizzly di oltre 600 kg, perché qualcuno suggerì al Maharaja che, in realtà, in vincitore del primo combattimento non fosse davvero il “Re dei Carnivori”.

Il bear-baiting è rimasta una pratica relativamente comune nelle province pakistane del Punjab e di Sindh fino al 2004. Gli eventi, organizzati dalla criminalità locale, prevedevano di legare un orso ad una corda di 2-5 metri dopo avergli rimosso i canini e aver limato i suoi artigli, per poi scagliare contro il povero animale un branco di cani da combattimento.

In South Carolina il bear-baiting è sopravvissuto fino al 2013, anno in cui è stato proibito ufficialmente questo genere di spettacolo. Fino al XIX secolo si organizzavano combattimenti tra orsi e tori, specialmente in California e Messico, il cui risultato era tutt’altro che scontato e arricchiva le tasche dei bookmakers.

Beargarden

Intorno agli anni 60 del 1500 fecero la loro apparizione a Londra i Beargarden, strutture non molto differenti dai teatri del tempo, nelle quali si conducevano combattimenti tra animali, prevalentemente orsi e tori.

L’esatta posizione di tutti i beargarden londinesi è incerta per svariate ragioni. In primo luogo, i combattimenti tra animali non erano affatto rari in città e venivano condotti in diverse località, alcune solo temporaneamente utilizzate come teatro per scontri tra animali. Secondo il poeta inglese John Taylor, tra il 1620 e il 1621 i combattimenti con tori e orsi si svolgevano in almeno quattro località diverse lungo la riva meridionale del Tamigi, nei dintorni del distretto di Southwark.

Un particolare Beargarden rimase impresso nelle menti delle personalità dell’epoca. La mappa Speculum Britanniae del 1593, e la Civitas Londini del 1600, indicano che questo Beargarden si trovava vicino al teatro The Rose. Lo storico inglese John Stow affermò nel 1583 che questo beargarden veniva comunemente chiamato “Giardino di Parigi”.

Bear baiting a Londra negli anni '20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)
Bear baiting a Londra negli anni ’20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)

Alcuni spettatori degli show del Beargarden definirono lo spettacolo come “un passatempo rude e sgradevole”, come Samuel Pepys nel 1666; altri ancora, come i puritani, si spinsero oltre definendolo uno spettacolo demoniaco, affermando addirittura che il crollo dei Beargarden del 1583 in cui rimasero uccise otto persone fu un atto divino per punire i peccatori che assistevano allo spettacolo.

Il combattimento tra animali aveva tuttavia molti sostenitori, tra i quali la regina Elisabetta I e buona parte della nobiltà di corte. Nel 1573, Elisabetta nominò Ralph Bowes come “Master of Her Majesty’s Game at Paris Garden“, allo scopo di facilitare la realizzazione di spettacoli di suo gradimento; la regina arrivò addirittura a non firmare una decisione parlamentare volta a proibire il bear-baiting durante la domenica.

Considerato il vasto pubblico e la presenza quasi costante di grandi personalità inglesi o straniere dell’epoca, il Giardino di Parigi non era soltanto un luogo in cui assistere a spettacoli cruenti, ma il posto ideale per condurre affari di stato, atti di spionaggio, o accogliere gli ambasciatori provenienti dalle più remote regioni del mondo conosciuto. Nel 1578 William Fleetwood, ufficiale giuridico di alto grado della città di Londra, definì il Beargarden come un posto in cui gli ambasciatori stranieri incontravano le proprie spie sfruttando l’oscurità del “giardino”.

Lo spettacolo

Come accennato in precedenza, nel Beargarden avvenivano spettacoli di ogni tipo: orsi contro cani, tori contro cani, pony con scimmie legate sul dorso contro cani (spettacolo realmente accaduto, come testimonia il Duca di Najera nel 1544).

Immagine dall' Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection
Immagine dall’ Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection

Ma gli orsi erano i veri protagonisti, e probabilmente subivano le torture più crudeli. Gli orsi più resistenti si guadagnavano un nome, come “George Stone”, “Ned Whiting”, “Sackerson” o “Harry Hunks”, un orso cieco, anziano e particolarmente tenace che veniva ripetutamente frustato fino al sanguinamento profuso.

Gli orsi venivano addestrati come gladiatori: venivano incoraggiati a reagire su comando dell’addestratore, a fingersi morti per terminare un match. Le ferite che accumulavano durante gli scontri con i mastini inglesi li rendevano sempre più deboli, ciechi e incapaci di difendersi, ma questo non impediva ai loro proprietari di sfruttarli fino all’ultimo: frustandoli ripetutamente e legandoli ad un palo si tentava in ogni modo di renderli furiosi.

Lo spettacolo mandava la folla in delirio. Il bearbaiting, per quanto violento e insensato per un osservatore moderno, veniva pubblicizzato come una festa: lo show era spesso preceduto e accompagnato da musica e fuochi d’artificio, balli e veri e propri cori da tifoseria.

Nella sua versione moderna, come quella osservata in Pakistan fino a qualche anno fa, lo scontro poteva essere di piccola portata (un solo orso e qualche cane), oppure includere numerosi partecipanti, come 10 orsi e oltre una quarantina di cani.

L’ultimo spettacolo noto del Beargarden londinese si svolse nel 1682 in onore di un ambasciatore marocchino. Un cavallo particolarmente ostile (responsabile, pare, della morte di diversi uomini e cavalli) fu costretto a combattere nella fossa con un branco di cani; dopo averli uccisi tutti, su incitazione della folla l’animale fu giustiziato a colpi di spada dai guardiani del Beargarden.

The Bankside Playhouses and Bear Gardens
The Gruesome Blood Sports of Shakespearean England
Beargarden
Bear-baiting
Elizabethan Bear & Bull Baiting

]]>
https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/feed/ 0
Oroo’, il linguaggio della giungla malese https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/ https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/#respond Mon, 06 Jul 2020 00:10:11 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4910 In Malesia vivono i Penan, indigeni nomadi che mantengono parzialmente uno stile di vita a diretto contatto con la foresta che li circonda. Anche se una parte dei Penan si è ormai convertita all’Islam ed è diventata stanziale, rimangono piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori (circa il 20% della popolazione totale) che seguono il principio del “molong“: vivere grazie dalla foresta e prendere dall’ecosistema solo lo stretto necessario.

Una peculiarità dei Penan è il linguaggio che utilizzano per scambiare messaggi all’interno della foresta. Il linguaggio Oroo’ nacque dalla necessità di comunicare con compagni di caccia e clan limitrofi senza essere fisicamente vicini, una sorta di “sms della giungla” usato da secoli e impiegato ancora oggi dai Penan durante le battute di caccia.

Il linguaggio della natura

In molte regioni del mondo le popolazioni che basano la propria sopravvivenza sulla caccia e sulla raccolta comunicano sfruttando gli elementi naturali: nell’arcipelago di Vanuatu, ad esempio, era comune l’impiego di disegni sulla sabbia per raccontare storie e per lasciare messaggi interpretabili da cacciatori e pescatori di passaggio.

I nativi americani usavano invece i noti segnali di fumo per scambiare informazioni su grandi distanze, evitando di affrontare lunghi e pericolosi viaggi al solo scopo di trasmettere un semplice messaggio. Sull’isola di la Gomera, infine, il linguaggio Silbo Gomero sfrutta fischi di diversa intensità e melodia per imitare il suono di quattro vocali e quattro consonanti, creando un vocabolario di combinazioni sonore composto da oltre 4.000 parole.

Lo scopo di questi “linguaggi alternativi” è molteplice: comunicare su lunghe distanza (il Silbo Gomero può essere udito fino a 4 chilometri di distanza), mantenere una lingua comune tra clan che parlano idiomi differenti, e trasmettere messaggi senza perturbare eccessivamente l’ecosistema, una capacità utile specialmente durante le battute di caccia.

Il linguaggio Oroo’ dei Penan è nato per le stesse ragioni; e proprio a causa del suo legame con uno stile di vita basato su caccia e raccolta, oggi rischia di sparire. I giovani Penan sono sempre meno attivi all’interno della foresta rispetto ai loro genitori e progenitori, e sempre meno interessati ad apprendere una lingua dei segni dall’utilità pratica pressoché nulla nel mondo moderno.

Lingua di foglie e rami

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Il linguaggio Oroo’ si basa principalmente sulla realizzazione di piccoli messaggi visivi sfruttando foglie e rami. Gli adulti Penan, specialmente i più anziani, possono creare oltre 30 messaggi differenti piegando, rompendo e strappando foglie e rametti.

I messaggi trasmessi dalla lingua Oroo’ prevedono comunicazioni che notificano lo stato di una battuta di caccia, informazioni e istruzioni utili da lasciare ad altri individui di passaggio, e annunci di pubblica utilità.

Il segno chiamato Murut, ad esempio, contiene l’identità di chi lo ha composto e viene collocato in spazi pubblici come una sorta di annuncio. Ma altri segnali possono comunicare la direzione e la composizione del gruppo di caccia, la preda inseguita o uccisa, i rapporti di parentela tra lo scrittore e il lettore, la presenza di elementi come trappole pericolose o oggetti naturali tabù, oppure per comunicare cerimonie di nozze o funerarie.

Chi studia i Penan riconosce in loro una straordinaria capacità di navigazione nella giungla e di interpretazione dei segnali presenti nell’ecosistema. Alcuni messaggi lasciati durante le escursioni nella foresta possono raggiungere insospettabili livelli di complessità per un metodo di comunicazione così semplice.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Una particolare configurazione di foglie e rametti può comunicare il seguente messaggio: “Il primo gruppo ha aspettato a lungo il secondo per parlare di una cosa urgente. Quindi il secondo gruppo dovrà ora viaggiare durante la notte per raggiungere il primo“.

Non esiste una grammatica per questo linguaggio. I ricercatori che si dedicano allo studio di questo idioma hanno tuttavia rilevato una sorta di complesso di regole, attualmente incompleto, che gestisce le variazioni di ogni messaggio.

Ad esempio, il segno di base chiamato “Batang Oroo” indica generalmente la direzione di marcia dell’autore, ma può essere combinato con foglie e altri rametti per assumere molteplici significati e creare un messaggio completo. In combinazione con il segno “Pelun” (un mucchietto di foglie) assume in significato di “attendi il nostro arrivo”; unito ad un bastoncino a “V” chiamato Tebai invita a seguire la direzione del rametto; in combinazione con due rametti incrociati a X significa invece “non andate in questa direzione”.

Il solo Batang Oroo, se inciso lungo il fusto in determinate posizioni, può comunicare la quantità di individui del gruppo di caccia, il loro stato di salute (affamati o assetati) o lo scopo e la durata della loro escursione.

Linguaggio incompleto in via di estinzione

Oroo', il linguaggio della giungla malese

Anche se il linguaggio Oroo’ prevede messaggi come annunci di morte differenziati addirittura per sesso ed età, non contempla tuttavia annunci di nascita ben codificati. Gli anziani Penan sono comunque in grado di comunicare la nascita di un bambino e il suo sesso combinando segni destinati ad altri scopi.

Pur non esistendo un simbolo ben codificato e unanimamente condiviso per questo tipo di comunicazione, i Penan che conoscono l’Oroo’ sembrano interpretare allo stesso modo i messaggi che osservano deducendone il significato in base alla logica dei segni che lo compongono.
Per comunicare la nascita di una bambina, ad esempio, si può utilizzare il segno “Atip lutan“, solitamente associato alla creazione del fuoco, attività riservata alle donne.

I linguisti hanno distinto quattro principali categorie di segni Oroo’:

  • Segni legati ad attività, come attesa, pesca, caccia, incontro;
  • Segni di stato: affamato, assetato, in buona salute, ferito;
  • Oggetti come case, alberi, punti di riferimento;
  • Creature viventi: persona, scimmia, cinghiale, amici.

Come ogni linguaggio, anche l’Oroo’ sopravvive solo se sostenuto dall’uso costante. Gli anziani Penan hanno più volte espresso la loro preoccupazione riguardo lo scarso interesse dimostrato dai giovani nell’apprendimento della lingua della foresta: in molte parti della giungla è oggi possibile comunicare tramite la tecnologia, dalle radio ai telefoni cellulari, tecnologia che rende di fatto inutile la conoscenza dell’ Oroo’.

Penan’s Oroo’ Short Message Signs (PO-SMS): Co-design of a Digital Jungle Sign Language Application

]]>
https://www.vitantica.net/2020/07/06/oroo-linguaggio-giungla-malese/feed/ 0
Il kit di sopravvivenza delle popolazioni dell’Artide https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/ https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/#respond Mon, 08 Jun 2020 00:12:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4905 Per giugno 2020 avevo previsto un breve weekend a Londra per una visita al British Museum in occasione della mostra “Arctic“, un’esposizione incentrata sugli stili di vita tradizionali dei popoli che vivono nei pressi del circolo polare artico. Per ragioni legate al coronavirus questo viaggio è stato rimandato a data indefinita, se non del tutto annullato, ma il sito del British Museum ha reso disponibile una raccolta di foto e informazioni relativi alla mostra, come l’articolo “10 things you need to live in the Arctic“.

Cosa serve per sopravvivere all’ecosistema artico? Le popolazioni che tradizionalmente occupano le regioni più fredde del pianeta sono eccellenti nello sfruttare i pochi materiali naturali a loro disposizione per realizzare oggetti fondamentali per la sopravvivenza nella tundra o tra i ghiacci polari, come indumenti e utensili.

Stivali
Stivali Gwich'in in pelle d'alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.
Stivali Gwich’in in pelle d’alce, renna e castoro, cuciti con cotone e tendine e decorati con perle di vetro.

Un buon paio di stivali è fondamentale per la sopravvivenza nell’Artico, non solo per tenere al caldo le estremità inferiori, ma anche per facilitare l’attraversamento di ghiaccio o di spesse coltri di neve.

Il popolo Gwich’in, che vive tra il Canada e l’Alaska, realizza splendidi stivali dalla pelliccia di castoro e di caribù, decorandoli con piccole perline ottenute da piccole pietre, vetro o conchiglie. Le suole degli stivali sono invece realizzate in pelle d’alce affumicata, un trattamento che la rende spessa, resistente e simile al velluto.

Gli Inuit, gli Inupiat e gli Yupic fabbricano da secoli i mukluks (o kamik), stivali soffici in pelle di renna o di foca tenuti insieme da filamenti di tendine animale, un materiale particolarmente resistente e adatto al clima artico.

Questi stivali rappresentavano lo strato intermedio della calzatura: sotto di essi si trovava uno strato di pelliccia, con il pelo rivolto verso l’interno per migliorare l’isolamento termico, mentre il piede veniva rivestito esternamente da una soletta semi-rigida in pelle conciata e affumicata.

Occhiali da neve
Occhiali da neve in poelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.
Occhiali da neve in pelle di renna, metallo e perle di vetro e uranio, realizzati in Russia prima del 1879.

Uno dei pericoli più sottovalutati durante le escursioni tra il ghiaccio o la neve è l’esposizione alla luce solare. La cecità da neve è una patologia che si sviluppa a seguito dell’esposizione prolungata della cornea alla luce ultravioletta riflessa dai cristalli di ghiaccio.

Gli occhi iniziano a lacrimare senza sosta, il dolore nella zona oculare diventa persistente e si può arrivare alla cecità totale momentanea. I sintomi di solito non sono permanenti: dolore e cecità possono svanire entro una o due settimane, a patto di evitare ulteriore esposizione alla luce ultravioletta.

I Dolgan della Russia settentrionale e centrale fabbricano occhiali da neve in pelle di renna. Pur essendo privi di lenti ottiche, offrono una semplice ma efficace protezione per gli occhi: le fessure limitano l’ingresso dei raggi ultravioletti ma garantiscono un buon grado di visibilità.

Parka
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.
Parka per bambino in cotone e pelli di topo muschiato, ghiottone, castoro e lontra.

L’abbigliamento necessario nelle regioni artiche deve essere resistente all’usura, isolante ma allo stesso tempo traspirante, per evitare che si formi della pericolosa umidità tra gli indumenti e il corpo umano. L’umidità condensata abbassa la temperatura corporea, condizione non ideale in un ecosistema in cui il calore è raro ed estremamente prezioso.

I parka, eskimo o anorak sono originari delle popolazioni Inuit, Inupiat e Yupik e venivano generalmente realizzati con pelli di renna o di foca, materiali che ancora oggi sono competitivi, in quanto a resistenza e isolamento termico, con i tessuti più moderni.

Alcuni parka, anche se non molto efficienti nell’ isolamento termico, erano completamente impermeabili: il materiale con cui venivano realizzati, interiora di foca, è totalmente idrorepellente, offre una buona protezione dall’umidità atmosferica e costituisce una barriera invalicabile per le zanzare che popolano l’estate della tundra.

Slitte
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.
Slitta groenlandese del 1818, in osso, avorio, legno e pelle di foca.

Viaggiare sulla neve o sul ghiaccio è faticoso e pericoloso. Le popolazioni nomadi o seminomadi, inoltre, devono muovere grandi quantità di materiale durante i loro spostamenti stagionali: cibo, tende, utensili e indumenti non possono essere trasportati su lunghe distanze con la sola forza di braccia e gambe.

Dopo aver compreso che più la superficie a contatto con la neve o il ghiaccio è estesa, più si ottiene stabilità e movimento fluido, i popoli dell’Artico iniziarono a realizzare slitte capaci di coprire distanze notevoli scivolando sulle superfici che il piede umano affronta con difficoltà.

Per le loro slitte i popoli artici sfruttavano ogni materiale a loro disposizione: ossa di animali marini o terrestri per il telaio, tendine, cuoio o fibre vegetali per il cordame, e pelle di foca per creare una copertura isolante.

Aghi
Aghi d'avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.
Aghi d’avorio dellla prima metà del 1800, Yupiit o Inupiat.

Gli Inuit e le popolazioni dell’Artico sono abili costruttori di meravigliosi aghi d’osso e di legno, con i quali possono riparare tende, indumenti e oggetti di varia natura. Gli aghi d’osso e di legno, per la natura stesse del materiale da cui vengono realizzati, non hanno le dimensioni e le caratteristiche meccaniche degli aghi moderni, ma sono incredibilmente efficaci.

Gli aghi sono utensili utilissimi per la vita quotidiana dei popoli artici: parka, stivali, canoe e tende (come i tupiq Inuit) richiedevano l’impiego di fibre resistenti (come il tendine) e di strumenti in grado di perforare con facilità cuoio e pelliccia.

Ottenere un ago efficace da un osso è un’operazione lunga e tediosa; gli aghi erano quindi beni preziosi, e venivano conservati in appositi contenitori generalmente portati sulla cintura, per essere pronti all’uso e limitare la possibilità di perderli.

Ulu e coltelli
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.
Ulu in rame e corno realizzato in Canada prima del 1835.

Per gli Inuit e gli Yupik, l’ ulu non è un semplice coltello, ma un utensile multiuso impiegato per recidere, per la pulizia delle pelli, per il taglio dei capelli o per rifinire blocchi di neve in assenza di un vero e proprio coltello da ghiaccio.

Gli ulu moderni sono in acciaio, ma la lama veniva anticamente realizzata con corno di renna o avorio di tricheco. Il tipico ulu ha dimensioni che variano in base all’impiego a cui è destinato: gli ulu più piccoli (circa 5 centimetri di lunghezza della lama) sono utilizzati per il taglio dei tendini o per la decorazione della pelle, mentre quelli più grandi trovano molteplici applicazioni nella vita quotidiana degli Inuit.

Nelle regioni artiche in cui veniva praticata la metallurgia, il coltello rappresentava l’utensile di prima scelta per la maggior parte delle attività quotidiane. Gli allevatori di renne lo usavano per castrare o macellare i loro animali, per marchiare le orecchie dei capi di bestiame in modo da riconoscerli, per incidere il legno e, se necessario, per la difesa personale.

Utensili da cucina
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all'inizio del 1900.
Bollitore inuit in pietra, realizzato in Canada all’inizio del 1900.

Buona parte della dieta dei popoli artici è composta da nutrienti di origine animale. Alcuni possono essere consumati crudi, altri invece necessitano di cottura prima di essere ingeriti. Anche alcune delle poche fonti vegetali di nutrienti, come erbe, tuberi, bacche e alghe necessitano di cottura per risultare commestibili o gradevoli al palato.

La cottura non consisteva esclusivamente nell’esposizione degli alimenti alla fiamma vita: gli Inuit utilizzavano bollitori di roccia metamorfica, blocchi di pietra che venivano scavati con pazienza e perizia per consentire la bollitura di cibo e acqua.

10 things you need to live in the Arctic

Eskimo Lamps and Pots

]]>
https://www.vitantica.net/2020/06/08/kit-sopravvivenza-popolazioni-artide/feed/ 0
Breve storia della rasatura e del rasoio da barba https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/ https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/#comments Mon, 30 Mar 2020 00:10:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4817 Quando è iniziata l’usanza di radersi la barba? Quale fu il primo utensile usato come rasoio? L’uso di strumenti per rasare barba e i capelli è più antico della storia scritta: nel corso dei millenni, l’essere umano è passato dall’impiego di strumenti rudimentali e poco efficaci, come bronzo e osso, a rasoi metallici sempre più affilati, resistenti ed efficaci.

Mediamente, il viso di un essere umano maschio e adulto è coperto da 25 centimetri quadrati di barba, l’equivalente ci circa 25.000 peli tra mento, guance e collo. La rimozione di questa peluria prevede l’uso di strumenti particolarmente affilati, in grado di scivolare sulla pelle con l’ausilio di acqua, creme o saponi.

In un remoto passato, tuttavia, ciò che si aveva a disposizione era pietra, ossa o metalli e leghe oggi considerate troppo “morbide” per la produzione di lame affilate e durature.

L’origine del rasoio da barba

L’atto di radersi è più antico della storia stessa. Ancora prima della nascita del rasoio, i peli facciali venivano probabilmente rimossi utilizzando due conchiglie come pinzette per estirparli, o impiegando frammenti di pietra tagliente (come la selce o l’ossidiana) o d’osso per tagliare la peluria indesiderata.

Rasoi di ossidiana prodotti da culture precolombiane in Messico
Rasoi di ossidiana prodotti da culture precolombiane in Messico

Alcune pitture rupestri raffigurano uomini con e senza barba, suggerendo la possibilità che circa 30.000 anni fa la rasatura o la rimozione della peluria facciale fosse una pratica relativamente comune. Selce e ossidiana (specialmente la seconda) possono consentire una rasatura facciale sorprendentemente efficace, anche se possono esporre al rischio concreto di tagli superficiali o incisioni più profonde della cute.

In alcune regioni asiatiche e in Medio Oriente non si usavano rasoi rudimentali, ma si eseguiva un’estirpazione dei peli corporei e facciali utilizzando fili ritorti che intrappolavano la peluria e la strappavano dalla pelle.

Fu tuttavia in Egitto che si stabilì la pratica regolare della rasatura tra le attività quotidiane di igiene personale. Lo storico greco Erodoto non mancò di far notare l’ossessione degli Egizi per l’igiene: si lavavano diverse volte al giorno e si rasavano volto e testa con regolarità, specialmente in ambito sacerdotale, dove i capelli e la barba erano considerati impuri e motivo di vergogna.

La rimozione dei capelli e della barba non era una pura questione estetica: il clima nordafricano e l’umidità del Nilo erano l’ambiente ideale per provocare irritazioni cutanee o infezioni accentuate dalla presenza di peli corporei, e un corpo glabro era generalmente più fresco di uno peloso.

Pulci e pidocchi erano inoltre molto comuni e molto difficili da combattere senza disporre di saponi specifici. La maggior parte degli Egizi non poteva permettersi unguenti e saponi profumati, e preferiva rimuovere totalmente l’ambiente ideale per i parassiti (capelli e peli) per impedire sul nascere la colonizzazione del proprio cuoio capelluto o di altre regioni del corpo più delicate.

I corredi funebri delle personalità egizie più prominenti prevedevano spesso la presenza di strumenti per la cura delle mani e dei piedi, oltre che cosmetici e rasoi da barba. Solo i contadini, gli schiavi, i criminali e i barbari portavano la barba, spesso considerata un segnale di trascuratezza e di scarsa igiene personale.

Rasoio e specchio egizi in bronzo
Rasoio e specchio egizi in bronzo

Le uniche eccezioni erano rappresentate dagli esponenti di famiglie particolarmente potenti: dato che Osiride aveva la barba, alcuni personaggi di spicco mantenevano i peli facciali come segno di vicinanza con il mondo divino.

I rasoi egizi erano generalmente in bronzo o in rame e avevano una forma ricurva, spesso a mezzaluna o a forma di piccola ascia, ma il loro utilizzo era sostanzialmente identico a quello dei rasoi moderni. Anche se più tenero del ferro o dell’acciaio, il bronzo può essere facilmente modellato per ottenere una lama sottile e tagliente, ideale per il taglio dei peli corporei.

La pietra pomice era un materiale comune per la depilazione: applicando “creme depilatorie” e sfregandola contro la pelle, eliminavano la maggior parte dei peli visibili attraverso un processo di abrasione.

Il rasoio nell’ Europa antica

Alcuni scavi condotti in tumuli funebri scandinavi risalenti al 1500-1200 a.C. hanno riportato alla luce alcuni rasoi di bronzo molto elaborati, con manici a forma di testa di cavallo. Questo suggerirebbe che anche in Europa alcune culture considerassero importante l’atto di radersi, ma questa attenzione per la rimozione dei peli facciali non era affatto condivisa da tutti.

Nella Grecia antica, ad esempio, i cittadini di sesso maschile davano molto valore alla propria barba, considerata simbolo di saggezza e di elevato status sociale. Molte divinità ed eroi greci avevano la barba (come Zeus o Ercole), e il taglio della barba era previsto solo durante periodi di lutto.

Fu durante il IV secolo a.C. che, promossa da Alessandro Magno, la rasatura iniziò a diffondersi in Grecia: secondo il condottiero macedone, la barba poteva essere usata dal nemico per afferrare un soldato durante il combattimento corpo a corpo.

Anche i Romani apprezzavano la barba, ma al contrario dei Greci cercavano di mantenerla costantemente corta e ben curata, oppure optavano per una rasatura completa. Secondo Livio, il rasoio fu introdotto a Roma durante il VI secolo a.C. dal re Tarquinio Prisco, ma ci volle oltre un secolo perché questo strumento diventasse d’uso comune tra la popolazione.

Rasoio romano in ferro datato tra il I e il V secolo d.C.
Rasoio romano in ferro datato tra il I e il V secolo d.C.

Nel III secolo a.C., i giovani romani celebravano il passaggio alla vita adulta sottoponendosi a rasatura della barba. Contrariamente a quanto facevano i Greci, era consentito lasciar crescere incolta la propria barba solo in caso di lutto.

Prima dell’introduzione del rasoio, i Romani erano soliti utilizzare pinzette metalliche, di legno o d’osso per estrarre i peli facciali uno ad uno. La rimozione della barba era una questione relativamente seria: una barba ben curata o una rasatura completa era uno degli elementi fisici che distinguevano un Romano da un barbaro o da un Greco.

I rasoi romani erano generalmente di ferro, ma la disponibilità di ossidiana e selce nei territori sotto il dominio di Roma consentiva di creare lame efficaci per la rasatura anche da pietra vulcanica o da materiale litico in grado di produrre fratture concoidi.

Sia ferro che ossidiana, tuttavia, presentano un problema cruciale: i rasoi di metallo e di pietra vulcanica rispettivamente si ossidano o tendono a frammentarsi a causa della fragilità del materiale, portando alla perdita del filo della lama ed esponendo il volto al rischio di ferite superficiali. I barbieri romani applicavano sui tagli facciali una lozione a base di sostanze profumate e tela di ragno impregnata d’olio d’oliva e aceto.

Dal Medioevo in poi

A partire dalle prime incursioni vichinghe dell’ VIII-IX secolo, la moda della rasatura cambiò di frequente. All’arrivo dei primi norreni sulle coste britanniche, gli invasori furono immediatamente accusati, tra le altre ingiurie, di essere sudici e dall’aspetto poco curato, con barbe e capelli molto lunghi.

Questo ritratto dei Vichinghi, che oggi consideriamo del tutto inaccurato, rilanciò la pratica della rasatura in tutta Europa, per distinguere gli uomini timorati di Dio dagli infedeli figli del demonio.

L’uso del rasoio rimase altalenante per secoli sotto l’influsso delle mode degli strati più elevati della società del tempo: Enrico VII viene annoverato tra i sovrani senza barba, ma Enrico VIII, suo successore, portava una barba corta e ben curata.

A partire dalla protesta di Martin Lutero, invece, alcuni protestanti iniziarono a lasciar da parte il rasoio in favore di una barba in grado di affermare la propria condivisione delle idee luterane.

Durante il Medioevo e oltre, l’uomo comune si rasava a casa con rasoi di ferro o bronzo; il rasoio rimarrà sostanzialmente immutato fino alla seconda metà del 1700. Chi poteva permetterselo, si recava da un barbiere o ne aveva uno tra la servitù domestica, ma la tecnologia a disposizione dei migliori barbieri del tempo rimaneva la stessa che l’uomo comune usava per tenere a bada la barba.

Rasoio in ferro del XV secolo
Rasoio in ferro del XV secolo

Tra il 1769 e il 1772 il barbiere francese Jean-Jacques Perret scrive “La Pogonotomie, ou L’art d’apprendre à se raser soi-même” (“Pogotomia, o l’Arte dell’Apprendere a Radersi”), un testo in cui analizza approfonditamente ogni minuzia della rasatura. Pochi anni prima, Perret aveva sviluppato il design moderno del rasoio a mano libera da barbiere, dotato di una lama estremamente affilata.

Tra i meriti di Perret c’è anche l’aver immaginato e creato il primo rasoio di sicurezza: si trattava di una lama dello stesso acciaio del rasoio a mano libera, ma incastrata in un telaio di legno per tenerla a distanza di sicurezza dalla pelle.

Il segreto dei rasoi di Perret era l’acciaio di Sheffield, un tipo di acciaio particolarmente duro e adatto alla fabbricazione di lame taglienti ideato da Benjamin Huntsman. Questo acciaio riscosse molto successo anche in Francia per la produzione di lame da barbiere.

Ben consapevole di sfondare il limite dell’età preindustriale, mi è impossibile non citare King C. Gillette, l’inventore del primo rasoio di sicurezza a lame rimovibili. Nel 1895, Gillette rivoluzionò il mercato dei rasoi creando un modello di business basato sulla vendita di milioni di lame economiche e sostituibili attaccate ad un manico venduto ad un prezzo pari o inferiore al costo di produzione.

Le vendite nel primo anno (1903) furono terribili: 51 rasoi e 168 lame. Nell’arco del secondo anno, invece, le vendite decollarono superando i 90.000 rasoi e oltre 123.000 lamette. Nel 1908, a sei anni dall’ apertura della Gillette Safety Razor Company, l’azienda possedeva fabbriche negli Stati Uniti, in Canada e in Europa; Nel solo 1915, la Gillette ha venduto 450.000 rasoi e oltre 70 milioni di lamette.

The History of Shaving – From Prehistoric Times to Modern Day
Shaving History
THE HISTORY OF SHAVING AND BEARDS
Razor
How did men in ancient times shave?

]]>
https://www.vitantica.net/2020/03/30/breve-storia-rasatura-rasoio-da-barba/feed/ 1
L’importanza dell’amore romantico nell’antichità https://www.vitantica.net/2020/02/24/amore-romantico-antichita/ https://www.vitantica.net/2020/02/24/amore-romantico-antichita/#respond Mon, 24 Feb 2020 00:10:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2255 Segui il tuo cuore” è una delle frasi più comuni quando si parla del complesso ammasso di sentimenti che definiamo come amore romantico. In tempi moderni, l’amore romantico è considerato di primaria importanza quando ci si trova di fronte a decisioni come la scelta di un partner per la vita. Ma in passato, fino ad un periodo relativamente recente, l’unione tra uomo e donna seguiva ben altri parametri.

Gli esseri umani, contrariamente ad altri animali, si sono evoluti privilegiando l’attaccamento emotivo verso i propri simili rispetto ad altri aspetti dei rapporto interpersonali. E’ un meccanismo che ci ha consentito di sopravvivere, di prosperare, di costruire vaste comunità, rivelandosi talvolta molto più efficace di zanne, artigli o altre armi naturali.

La nostra specie (e molto probabilmente, in passato, tutti gli esponenti Homo più intellettivamente elevati) sviluppa una lealtà e un attaccamento istintivo verso persone che dimostrano lo stesso grado di attaccamento e lealtà.

Questo è sostanzialmente l’amore: dimostrare lealtà e attaccamento per altre persone fino a sottovalutare o ignorare un pericolo imminente o ad alterare la propria visuale della realtà.

Questa perdita di razionalità e oggettività è considerato oggi un valore primario, ma in passato molti hanno messo in discussione, se non addirittura criticato e condannato in modo aspro, questo tipo di sentimento.

Secondo Platone, ad esempio, la più alta forma d’amore sarebbe l’amore fraterno, un sentimento che non vede coinvolta la sessualità e che esclude la passione e il romanticismo, evitandoci di compiere gesti razionalmente ridicoli o ingiustificati.

Come Platone, molti altri antichi pensatori valutavano l’amore romantico come qualcosa di incredibilmente stupido e controproducente per la vita civile. Per buona parte della nostra storia, l’amore romantico è stato visto come una sorta di malattia, qualcosa che costringe l’essere umano a compiere atti che, razionalmente, non sognerebbe mai di compiere; molte culture trattavano l’amore romantico come un male che tutti sono destinati a provare prima o poi nel corso della propria esistenza, ma di cui tutti dovrebbero liberarsi per poter convivere con il prossimo e non perdere di vista la realtà.

Romeo e Giulietta come modello per l’irrazionalità

Storie come Romeo e Giulietta o l’Iliade non sono propriamente celebrazioni dell’amore romantico, ma una dimostrazione letteraria di come questa forma d’amore possa essere deleteria per il viver comune e civile, un messaggio chiaro sulle conseguenze nefaste dell’amore romantico e irrazionale.

Per millenni l’essere umano ha celebrato unioni tra coppie senza valutare l’amore come un requisito primario per un matrimonio felice. C’è una ragione, anzi, ci sono diverse ragioni per questo: l’amore romantico aiuta ad arare i campi o a mungere una mucca? Aiuta a pagare le imposte o ad avere figli in salute e in gran numero? Contribuisce alla protezione dei confini, alla stabilità del governo o alla tutela del nucleo familiare?

L’amore romantico porta scarsi contributi ai fattori che rendono stabile e duratura una coppia, una comunità o un intero Stato. Certo, può aiutare a sopportare meglio i difetti dell’altro, ma la realtà farà sempre capolino prima o poi, sbattendoci sul muso il fatto che gli “occhi dell’amore” avevano alterato la nostra visione della realtà.

Forza e resistenza aiutano ad arare i campi e a mantenere sano il bestiame; una buona costituzione dei genitori aumenta la percentuale di successo nell’avere figli sani; una consistente dote matrimoniale o l’attitudine a lavorare sodo erano fondamentali per la stabilità economica di una famiglia; l’unione di due nobili, non necessariamente basata sull’amore reciproco, ha contribuito per millenni alla pace di intere regioni.

La famiglia è l’unica parte razionale

E’ per questi motivi che i matrimoni passati erano organizzati dalle famiglie. Le famiglie avevano meno tendenza a provare sentimenti romantici per il partner del figlio o della figlia, erano portate a giudicare più obiettivamente il valore economico e sociale dell’unione e le conseguenze che un matrimonio poteva avere sui due gruppi familiari coinvolti.

Il matrimonio per scopi puramente economici ha contribuito a promuovere la sopravvivenza di interi clan e l’amore romantico rappresentava non solo uno spiacevole inconveniente, ma anche una vera e propria minaccia alla sopravvivenza della comunità.

Non deve sorprendere che all’origine di tutti i matrimoni, indipendentemente dalla cultura e dai diritti goduti dalle donne, ci sia un contratto tra moglie e marito. I due contraenti definivano una serie di regole che la logica e il buon senso dell’epoca ritenevano le più adeguate per garantire la sopravvivenza del clan o della famiglia d’appartenenza.

Questo tuttavia non significa che la parola “amore” fosse un tabù in passato. La definizione di questo sentimento è stata fatta da moltissimi pensatori antichi, ma il “vero amore” viene solitamente definito come benevolenza, supporto del partner, pietà, amore fraterno, e raramente come amore romantico nel senso moderno del termine e con accezione positiva. L’amore romantico fu spesso e volentieri considerato inopportuno, scomodo, se non addirittura pericoloso.

Irrazionalità come valore

Tutto iniziò a cambiare con la rivoluzione industriale: salari più o meno stabili, trasferimento dalle campagne alle città e lontananza dai problemi della terra resero gli individui più economicamente indipendenti dalle famiglie d’appartenenza. A questi fattori si unì anche la nascita del concetto dei diritti individuali e la sempre più smaniosa ricerca della felicità, elementi tipici del Romanticismo.

Spinti da un individualismo sempre più pronunciato, uomo e donna iniziarono a interpretare passione e idealizzazione del partner come pilastri per un rapporto inscindibile e duraturo, tralasciando il fatto che questi sentimenti sono solo la fase iniziale dell’amore e non strettamente indispensabili alla sopravvivenza di una coppia.

Il XX secolo non fece altro che cementare l’idea che l’amore romantico fosse un valore primario e fondamentale per una vita felice e realizzata. L’amore romantico divenne un vero e proprio business multimiliardario facendo leva sulle nostre passioni e sul bisogno innato di lealtà e attaccamento emotivo che ogni uomo, donna o bambino è naturalmente portato a provare.

Il XX secolo contribuì anche a creare un’idea dell’amore romantico del tutto lontana dalla realtà: una relazione, per funzionare, deve basarsi su presupposti come l’affidabilità, la fiducia giustificata, la responsabilità, la tolleranza e una visione oggettiva e condivisa della realtà; tutti elementi che iniziano a fare capolino quando la cortina fumogena amorosa si dirada, mostrandoci la realtà in tutta la sua potenza e facendo sgretolare l’idealizzazione del partner tipica dell’amore romantico.

A BRIEF HISTORY OF ROMANTIC LOVE AND WHY IT KIND OF SUCKS

]]>
https://www.vitantica.net/2020/02/24/amore-romantico-antichita/feed/ 0