Acqua dolce o salata – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il nilometro egiziano https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/ https://www.vitantica.net/2020/06/16/nilometro-egiziano/#respond Tue, 16 Jun 2020 07:15:45 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4874 Per le antiche popolazioni che vivevano lungo il Nilo, le inondazioni stagionali erano una vera e propria benedizione. Il fiume riempiva d’acqua e limo i terreni nei pressi delle sponde, fertilizzandoli e consentendo il mantenimento di un’economia agricola sufficientemente sviluppata da alimentare faraoni e persone comuni.

Ogni inondazione significava vita: vita per i raccolti, vita per la fauna e la flora che sopravvivevano in un clima arido come quello nordafricano. Inondazioni scarse, tuttavia, si traducevano in raccolti magri e un’economia agricola sensibilmente rallentata; lo stesso valeva per inondazioni dalla portata eccessiva e distruttiva.

Per questo motivo gli Egizi e i popoli che vennero dopo di loro hanno sempre considerato fondamentale il saper prevedere con accuratezza le future inondazioni del Nilo; per farlo, si servirono dei nilometri (noti come miqyas).

Le inondazioni del Nilo

Le inondazioni stagionali del Nilo hanno origine negli altipiani etiopi. Tra giugno e novembre, le abbondanti precipitazioni degli altipiani si riversano nel Nilo Azzurro, uno dei due principali affluenti del Nilo.

Nella stagione delle piogge il Nilo accumula acqua anche grazie ad altri affluenti, come il fiume Atbarah, il Sobat e il Nilo Bianco, riversando più a nord quantità immense di acqua e sedimenti.

Questo complesso sistema di piogge stagionali e affluenti era del tutto sconosciuto agli Egizi, che si limitavano ad osservare il cambiamento del livello del Nilo senza tuttavia conoscerne le vere ragioni. Tramite l’osservazione attenta del fiume, gli Egizi riuscirono comunque ad individuare i segni precursori di un’inondazione.

Il Nilo era così importante per gli Egizi da portarli a dividere l’anno in tre stagioni: Inondazione (Akhet), Crescita (Peret) e Raccolta (Shemu). La stagione delle inondazioni era così stabile e prevedibile che gli Egizi erano in grado di calcolare il suo inizio osservando il moto della stella Sirio.

La prima osservazione sul livello del fiume all’inizio della stagione delle inondazioni avveniva ad Assuan, nei pressi delle cateratte del Nilo, intorno al mese di giugno. Le acque continuavano a salire fino all’inizio di settembre, momento in cui generalmente si mantenevano stabili per circa 2-3 settimane per poi risalire tra ottobre e novembre, mesi che segnavano il picco del volume d’acqua.

Assuan era una sorta di postazione-vedetta che metteva in allerta il resto dell’ Egitto: le inondazioni raggiungevano la città circa una settimana prima del Cairo, alzando il livello delle acque fino a oltre 13 metri; una volta risalita più a nord, l’inondazione perdeva intensità e, giunta al Cairo, aveva un livello medio di 7,5 metri.

Le inondazioni stagionali del Nilo erano ciò che rendeva fertile l’arido terreno egizio, ma potevano anche portare a distruzione o carestie: secondo i resoconti stilati tra l’anno 622 e l’anno 1000, le inondazioni di scarsa intensità si verificavano 1 volta ogni 4 anni, esponendo l’intera popolazione al rischio di fame.

Raccolti e tasse

Una scarsa inondazione del Nilo poteva mettere letteralmente in ginocchio le economie fluviali presenti lungo le sue sponde; lo stesso valeva per un’inondazione particolarmente intensa, capace di devastare i raccolti dell’anno. Prevedere l’intensità delle inondazioni rappresentava quindi un’abilità di importanza strategica per le economie che si erano sviluppate lungo il Nilo.

Essendo una civiltà ben strutturata, anche quella egizia aveva in cima alla piramide sociale alcune classi non produttive dal punto di vista economico, come sacerdoti, governanti locali e faraoni.

Gli esponenti di queste classi privilegiate vivevano letteralmente sulle spalle delle classi produttive grazie ad un sistema di tassazione, meno complesso del nostro ma non per questo meno interessante. Questo sistema si basava principalmente sul calcolo dei tributi in base alla terra posseduta e al raccolto prodotto, due elementi strettamente legati all’attività del Nilo.

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Nessuna famiglia contadina il cui campo abbia goduto di un’ottima annata grazie al Nilo è contenta di cedere una parte del raccolto come tributo ai potenti; la stessa famiglia potrebbe reagire in modo spiacevole (e con essa tutte le altre nelle stesse condizioni) se si esige da essa lo stesso tributo anche nelle annate peggiori.

Il nilometro era lo strumento utilizzato per calcolare “equamente” i tributi dell’anno corrente. Se il nilometro locale avesse registrato un livello delle acque del Nilo troppo basso, presagio di inondazioni scarse e potenziali carestie, le tasse sarebbero state abbassate rispetto ad una normale stagione d’inondazione.

Lo stesso valeva nel caso di livello delle acque troppo alto: inondazioni troppo intense avrebbero distrutto i raccolti e le strutture fondamentali per la vita quotidiana della gente comune.

Il nilometro

Nel corso della storia sono esistiti tre fondamentali tipologie di nilometro, alcune sopravvissute fino ad oggi come testimonianza dell’ingegno locale. Il primo tipo è sostanzialmente una colonna di pietra o marmo sorretta in verticale da una trave di legno in cima e posizionata all’interno di un pozzo.

La colonna veniva suddivisa in cubiti (un cubito equivale a circa 58 centimetri) incidendo una serie di tacche: l’altezza dell’acqua in cubiti forniva una buona indicazione del livello futuro del Nilo e della portata delle inondazioni in arrivo.

Nilometro di Rawda
Nilometro di Rawda

Il livello ideale delle acque nel nilometro di Rawda, realizzato secondo questo design, era intorno ai 16 cubiti; un livello inferiore poteva indicare un periodo di crisi dovuto a scarse inondazioni, mentre un livello superiore ai 19 cubiti era presagio di inondazioni catastrofiche in grado di distruggere campi e abitazioni.

All’avvicinarsi delle inondazioni, i sacerdoti incaricati di monitorare il flusso del Nilo scendevano sul fondo del nilometro usando una scalinata ed esaminavano la colonna per calcolare la portata delle future inondazioni.

Il nilometro era un luogo ad accesso riservato: solo i governanti locali, i sacerdoti e i faraoni potevano avere accesso alla struttura, spesso collocata all’interno di un tempio. La previsione delle inondazioni del Nilo era un’abilità che la politica sfruttava a suo vantaggio per calcolare la tassazione e impressionare le masse.

Il secondo tipo di nilometro, come quello visibile sull’Isola Elefantina, era costituito invece da una lunga scalinata (52 scalini nel caso di Elefantina) che scendeva direttamente sul fiume e provvista di indicatori che segnalavano il livello delle acque. Il nilometro di Elefantina era spesso uno dei primi a fornire previsioni sulle inondazioni, dato che si trovava presso il confine meridionale.

Nilometro di Kom Ombo
Nilometro di Kom Ombo

Il terzo tipo di nilometro, osservabile nel Tempio di Kom Ombo, era un sistema di canali che prelevava l’acqua dal Nilo e la depositava in una cisterna provvista di tacche. Il riempimento della cisterna forniva una buona indicazione della portata delle future inondazioni.

Diversi nilometri sono decorati da iscrizioni propiziatorie spesso ispirate da versi coranici relativi all’acqua, alla vegetazione e alla prosperità. Dai nilometri iniziavano anche alcune delle più grandi festività dell’ Egitto medievale, come il Fath al-Khalij (“Apertura del Canale”), un festival con cui si celebrava l’apertura del canale che collegava il fiume a campi e giardini.

L’importanza dei nilometri

La popolazione dell’ antico Egitto iniziò a convivere con le inondazioni cicliche del fiume circa 7.000 anni fa, architettando un ingegnoso sistema di fertilizzazione e irrigazione.

Le terre coltivabili, generalmente troppo aride prima delle inondazioni, venivano suddivise in campi circondati da dighe di terra fornite di canali d’ingresso e d’uscita. Quando il Nilo era in piena, si inondavano i campi più in alto rispetto al livello del fiume e li si lasciavano colmi d’acqua per circa 45 giorni, in modo tale da saturare d’acqua il terreno e permettere al limo di depositarsi.

Terminati i 45 giorni, venivano aperte le chiuse e l’acqua defluiva verso i campi più in basso. Al termine di questo ciclo di fertilizzazione, l’acqua tornava nuovamente nel Nilo. I campi appena svuotati venivano immediatamente arati e seminati: il raccolto sarebbe arrivato entro 3-4 mesi dalla semina.

Questo sistema agricolo è indissolubilmente legato ai capricci del Nilo: nei periodi di grandi inondazioni, le dighe venivano distrutte, il limo non riusciva a depositarsi e i campi erano sostanzialmente inutilizzabili; dopo inondazioni scarse o durante la stagione secca, era di fatto impossibile coltivare qualunque cosa. Ogni speranza di mangiare, allevare e commerciare per il resto dell’anno era quindi legata alle inondazioni stagionali e alla loro portata.

Nonostante la ristretta stagione di semina e raccolto, dopo un’inondazione di media intensità, la più frequente e desiderata dagli agricoltori egizi, era possibile sfamare dai 2 ai 12 milioni di abitanti.

Nilometer – Wikipedia
Nilometer
Exploring Nilometers in Egypt
Nilometers: Ancient Egypt’s Ingenious Invention Used Until Modern Times

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Team giapponese replica l’antica (e ipotetica) migrazione da Taiwan a Okinawa https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/ https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/#comments Mon, 15 Jul 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4419 Secondo i maggiori esperti del Paleolitico giapponese, i primi insediamenti umani in Giappone risalirebbero a circa 30.000 anni fa. Ad oggi non abbiamo alcuna certezza su come le isole nipponiche siano state popolate dall’uomo in epoca paleolitica, ma gli studiosi della preistoria giapponese hanno formulato tre differenti ipotesi.

La prima ipotesi prevede che i primi abitanti del Giappone siano giunti dalla Corea attraverso lo stretto di Tsushima; la seconda, invece, sostiene che le comunità paleolitiche eurasiatiche abbiano attraversato il lembo di mare tra la Russia e Hokkaido per poi superare lo stretto di Tsugaru, che separa l’isola di Hokkaido da quella di Honshu.

La terza ipotesi, invece, afferma che gli esseri umani giunti in Giappone intorno a 30-40.000 anni fa provenissero da Taiwan. Per dimostrare la fattibilità dell’impresa, un team di ricercatori giapponesi e taiwanesi ha percorso il tratto di mare che separa Taiwan dall’isola giapponese di Yonaguni a bordo di una canoa a scafo monossilo.

Una traversata senza strumenti

La traversata di 200 km è stata compiuta a bordo di una canoa ricavata da un singolo tronco d’albero, lunga 7,6 metri e larga 70 centimetri. I cinque membri dell’equipaggio, un taiwanese e 4 giapponesi, hanno solcato il mare per due giorni consecutivi orientandosi esclusivamente con il sole, le stelle e i venti seguendo i metodi tradizionali di navigazione utilizzati nel Pacifico, come il sistema di navigazione polinesiano.

Il progetto, iniziato nel 2017 grazie alla collaborazione del National Museum of Nature and Science giapponese e del National Museum of Prehistory di Taiwan, aveva l’obiettivo di verificare la fattibilità di un viaggio simile utilizzando la tecnologia paleolitica.

“E’ stato un viaggio perfetto” spiega Koji Hara, uno dei 5 membri dell’equipaggio. “La Corrente Nera ha trasportato la canoa e ci siamo limitati a manovrarla un pochino”. All’arrivo sull’isola di Yonaguni, la spedizione è stata accolta dalle celebrazioni dei residenti, lieti di vedere il progetto concludersi con successo.

Prima di questa spedizione erano stati effettuati altri due tentativi, uno nel 2017 e un altro nel 2018, partendo dall’isola di Yonaguni a bordo di imbarcazioni realizzate con paglia, bambù e rattan. La prima spedizione ha coperto solo 66 km, mentre la seconda ha resistito poco al mare aperto, costringendo l’equipaggio ad interrompere l’impresa.

Kuroshio, la Corrente Giapponese

Quella che viene definita come “Corrente Nera”, “Kuroshio” o “Corrente Giapponese” è una corrente oceanica nel Pacifico settentrionale che ha inizio nelle Filippine e fluisce verso Nord lungo la costa orientale del Giappone. Si tratta essenzialmente di una corrente che svolge una funziona analoga alla Corrente del Golfo atlantica, trasportando acqua calda tropicale verso le regioni polari.

La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan
La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan

Durante il suo passaggio, la Corrente Giapponese crea vasti vortici del diametro di 100-300 km che possono persistere per mesi interi. Questi vortici sembrano rappresentare un ambiente ideale per la sopravvivenza di molte specie di larve di pesce e favorire l’accumulo di plankton.

L’isola di Yonaguni, appartenente alla prefettura di Okinawa, si trova nel bel mezzo della corrente Kuroshio. Essendo l’ultima isola giapponese a Sud prima di Taiwan, potrebbe aver rappresentato il primo approdo per raggiungere le isole maggiori giapponesi.

Yonaguni costituisce infatti il primo passo per raggiungere Okinawa: superando tratti di mare di 50-100 km seguendo la Corrente Nera, è possibile raggiungere l’isola di Ishigaki, quella di Miyakojima e infine Okinawa. Spingendosi ancora più a nord sospinti dalla Kuroshio si raggiunge il Kyūshū, una delle isole maggiori del Giappone.

Diverse ondate migratorie

La maggior parte delle ricerche antropologiche sugli antichi abitanti del Giappone suggeriscono che le isole nipponiche siano state occupate in almeno due ondate migratorie; la più recente si è verificata circa 2.300 anni fa tra Corea e Giappone.

Per quanto riguarda il flusso migratorio più antico, le analisi della morfologia dentale degli antichi giapponesi suggerirebbero che le isole maggiori siano state popolate circa 30.000 anni fa da individui provenienti da Okinawa; la genetica, invece, propone l’ipotesi di un arrivo precedente, circa 40.000 anni fa, frutto di un’ondata migratoria partita dalla Siberia.

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Lo scenario più probabile è che le isole maggiori del Giappone siano state occupate da migrazioni provenienti dalla Siberia, dalla Corea e da Taiwan, e non da un singolo evento migratorio localizzabile con precisione. Alcuni archeologi ritengono inoltre che i primi abitanti giapponesi siano giunti 100.000 anni fa sfruttando ponti di terre emerse che collegavano la penisola coreana con Honshu e Hokkaido.

Team successfully replicates imagined ancient sea migration from Taiwan to Okinawa
Advanced maritime adaptation in the western Pacific coastal region extends back to 35,000-30,000 years before present
EARLY MAN IN JAPAN

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Pesca con aquilone e tela di ragno https://www.vitantica.net/2019/05/15/pesca-aquilone-ragnatela/ https://www.vitantica.net/2019/05/15/pesca-aquilone-ragnatela/#respond Wed, 15 May 2019 00:10:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4146 Alcuni metodi di pesca tradizionale sono stati ampiamente esplorati da antropologi, appassionati di sopravvivenza, programmi tv e questo stessso blog: pesca con il veleno, con il cormorano, o tramite trappole da pesca anche molto elaborate.

Non molti esperti o semplici appassionati, tuttavia, si sono soffermati ad approfondire l’efficacia di un metodo di pesca ben poco ortodosso: la pesca con l’aquilone sfruttando ragnatele come esca.

La pesca con l’aquilone

La pesca con l’aquilone è una tecnica che prevede l’utilizzo di un’esca ancorata ad un oggetto che sfrutta il vento per rimanere sospeso in aria. L’ esca, viaggiando a poca distanza dalla superficie dell’acqua e muovendosi sotto il comando del pescatore, sembra possedere un’attrattiva particolare agli occhi della fauna ittica, specialmente di alcune specie che non temono di lanciarsi fuori dall’acqua per ottenere cibo.

La pesca con l’aquilone, per quanto apprentemente complessa, fornisce due sostanziali vantaggi: a chi non dispone di una barca, consente di pescare in acque troppo profonde per una pesca in solitario; per cui invece possiede un’imbarcazione, apre la strada alla pesca in zone non sicure da navigare, come secche o barriere coralline.

La pesca con l’aquilone è considerata oggi una tecnica prettamente sportiva: in Florida e nei Caraibi viene utilizzata con un’esca viva per attrarre i pesci vela, ma può essere facilmente adattata alla pesca di tonni, mahi-mahi e cernie.

Sull’isola di Tobi, un piccolo atollo nella Repubblica di Palau popolato da circa 30 persone, la pesca con l’aquilone è un’attività tradizionale che consente di portare a casa una sana dose di proteine.

A differenza della pesca sportiva moderna, tuttavia, i pescatori dell’isola usano aquiloni creati con materiali naturali, e un’esca composta da tela di ragno.

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Tela di ragno come esca

Gli aquiloni di Tobi Island vengono realizzati tradizionalmente con foglie larghe dell’albero del pane a cui viene fissato un telaio di fronte di palma da cocco. Sempre grazie alla palma da cocco, gli abitanti dell’isola dispongono anche di ottimo materiale per costruire cordame: la fibra di cocco è perfetta per fabbricare lenze resistenti.

Il pescatore deve costantemente regolare l’altezza dell’aquilone in base all’andamento dei venti. In presenza di venti deboli l’aquilone viene mantenuto ad una quota di circa 20 metri di altezza sul mare, ma venti più forti possono far salire la quota fino a 100 metri di altezza.

Gli abitanti di Tobi Island producono aquiloni diversi in base ai venti che dovranno affrontare e al comportamento desiderato: facendo piccole incisioni sulla foglia che genera portanza, o creando aquiloni asimmetrici, i pescatori possono imporre una direzione predominante alla lenza, o farla volare più in alto o più in basso.

Il pescatore può manovrare l’aquilone sia dalla spiaggia sia a bordo di una canoa. Nel secondo caso, la corda che consente di manovrare l’aquilone verrà trattenuta tra i denti, lasciando libere le mani per governare l’imbarcazione fino al momento della cattura.

Alcuni design di aquiloni utilizzati tradizionalmente dai pescatori del Pacifico.
Alcuni design di aquiloni utilizzati tradizionalmente dai pescatori del Pacifico.

L’obiettivo principale degli abitanti dell’isola sono le aguglie, pesci dell’ordine Beloniformes che possono raggiungere anche i 150 centimetri di lunghezza. Ma per catturare questi pesci è necessaria un’ esca insolita: tela di ragno.

I pescatori prelevano circa 6 ragnatele prodotte da una specie locale di ragno, utilizzando un bastoncino a forma di Y; dopo averla annodata per farle assumere una forma simile a quella di un cappio, il bastoncino viene rimosso e la tela applicata alla lenza.

L’esca di tela di ragno e i movimenti che effettua sulla superficie dell’acqua imitano un pesce che tenta di eludere un predatore. Questo comportamento sembra scatenare la curiosità delle aguglie: non appena il pesce afferra l’esca, i suoi denti rimangono intrappolati dai filamenti di tela di ragno fino a quando il pescatore non recupererà il pescato.

La pesca con l’aquilone viene generalmente condotta in solitario nei pressi della barriera corallina, a patto che il vento sia favorevole. Usando la tela di ragno come esca, in poche ore un pescatore esperto può catturare 10-30 aguglie.

Metodo di pesca comune nel Pacifico

La pesca con l’aquilone non è una prerogativa di Tobi Island. Diverse cultura tradizionali del Pacifico e dell’ Oceano Indiano sono note per utilizzare gli aquiloni per la cattura del pesce: nello stato di Sonsorol, ad esempio, si usano aquiloni equipaggiati con esche di pelle di squalo per la pesca dei pesci volanti.

Sull’isola di Merir viene invece impiegata la stessa tecnica usata su Tobi Island, mentre a Fais Island si usano come esca le “vene di squalo essiccate” per la pesca alle aguglie.

Gli abitanti di Sonsorol hanno tentato di introdurre sulle loro isole i ragni che vivono a Tobi e Merir per poter utilizzare la loro tela, apparentemente l’esca più efficace per la cattura delle aguglie perchè si aggroviglia alla perfezione tra i piccoli denti del pesce.

Pesca con aquilone

Nonostante l’ecosistema sostanzialmente identico, l’introduzione dei ragni da Tobi non ha avuto successo; i pescatori delle isole di Sonsorol usano quindi un materiale di seconda scelta, il tessuto connettivo che si trova appena sotto la pelle degli squali limone.

Nella Penisola di Huon in Nuova Guinea, gli abitanti non solo costruiscono aquiloni per la pesca, ma usano canne di bambù per manovrarli meglio, una variante della pesca con l’aquilone osservata anche sull’isola di Tobi.

In tutta l’Indonesia la pesca con l’aquilone sembra aver riscosso un particolare successo nei secoli passati, tanto da essere sfruttata anche per la caccia. Le caverne di Pangandaran, sull’isola di Java, ospitano un’ enorme popolazione di volpi volanti, pipistrelli frugivori particolarmente grandi; per catturali, gli abitanti locali si servono di aquiloni muniti di ami multipli per catturare i pipistrelli durante la loro uscita quotidiana dalla caverna, al tramonto.

This Ingenious and Singular Apparatus: Fishing Kites of the Indo-Pacific
Kiteline
Flying a kite and catching fish in the Ternate panorama of 1600 (PDF)

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Natron, il sale “magico” degli Egizi https://www.vitantica.net/2019/04/17/natron-sale-magico-egizi/ https://www.vitantica.net/2019/04/17/natron-sale-magico-egizi/#comments Wed, 17 Apr 2019 00:10:22 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3897 Il natron (carbonato decaidrato di sodio, Na2CO3) è stato utilizzato fin dall’antichità per gli utilizzi più disparati, dalla pulizia del corpo all’igiene dentale, come agente conservante per il cibo e come uno degli ingredienti fondamentali nel processo di mummificazione dei corpi usato nell’antico Egitto.

Un sale di origine antichissima

Bianco o incolore nella sua forma più pura, il natron è una mistura di origine naturale composta da circa il 17% di carbonato di sodio e piccole quantità di cloruro di sodio e solfato di sodio; può assumere colorazioni che vanno dal grigio al giallo in base al contenuto di impurità.

Il nome natron (in latino natrium, in greco nitron) ha origine nell’antico Egitto: con “natron” si identificava il materiale estratto dai depositi africani della “Valle del Natron” Wadi El Natrun, del Lago Magadi e di altri siti africani, dove si poteva reperire nei pressi di giacimenti di altri minerali importanti durante l’Età del Bronzo come gesso e calcite.

I depositi di natron sono spesso collocati in corrispondenza di antichi laghi salati prosciugati dall’aridità del clima: il natron si forma per evaporazione di soluzioni fortemente saline.

Deposito di natron nel cratere di Era Kohor nel Ciad
Deposito di natron nel cratere di Era Kohor nel Ciad

I depositi di natron puro sono rari per via della sua limitata stabilità termica: storicamente veniva prodotto da salamoia lasciata evaporare ad una temperatura compresa tra i 20°C e i 30°C, oppure dalle ceneri di piante che crescevano in paludi salate (alofite).

Impiego del natron nell’antichità

Il natron era utilizzato per realizzare prodotti per la casa, per la cura del corpo e per il complesso rituale di mummificazione dei corpi dei defunti.

Mescolato ad acqua può creare una versione rudimentale del sapone grazie alla sua capacità di rimuovere olio e grasso. Utilizzato in forma poco diluita, il natron è stato impiegato anche per la pulizia dei denti e come colluttorio, oltre che come antisettico per la medicazione delle ferite e come insetticida.

In cucina, il natron si è rivelato utile per la conservazione di pesce e carne; ha inoltre trovato impiego nella lavorazione della pelle, nella decolorazione dei tessuti e nella produzione di combustibile che bruciava senza produrre fumo (in aggiunta all’olio di ricino).

Il natron era anche un ingrediente per la creazione del blu egiziano e per la fabbricazione della ceramica: veniva mescolato a sabbia e calce non solo durante la creazione di vasi e anfore, ma anche durante la lavorazione del vetro o nella saldatura di metalli preziosi.

Natron e mummificazione

Natron e mummificazione

Il natron era uno dei componenti fondamentali nel processo di mummificazione dei corpi dei defunti: la sua capacità di assorbire acqua e di agire come agente disidratante fu subito evidente agli antichi Egizi quando notatono che alcuni cadaveri si conservavano straordinariamente bene nel clima arido del deserto e in presenza di depositi di sale.

Intorno al 2.600 a.C. gli Egizi iniziatono a mummificare intenzionalmente i loro morti, una pratica che durò per oltre due millenni. Il processo di mummificazione poteva variare molto in base alle disponibilità economiche della famiglia del defunto e al periodo storico in cui si era verificato il decesso: le mummie meglio preparate e conservate furono prodotte tra il 1.500 e il 1.000 a.C..

L’importanza del natron per la mummificazione egizia è evidente quando si considera che piccoli granuli di questo sale venivano offerti durante le cerimonie funebri dei faraoni. Queste cerimonie richiedevano due differenti tipi di natron estratti da altrettanti siti, uno nell’Alto Egitto (El Kab) e uno nel Basso Egitto (Wadi El Natrun).

Quando viene esposto all’umidità, il carbonato del natron aumenta il pH creando un ambiente ostile per la proliferazione batterica che si scatena durante il processo di decomposizione della materia organica.

Il natron inoltre assorbe l’acqua contenuta nelle cellule del defunto, contribuendo alla conservazione della salma, e degrada i grassi impedendo che batteri saprofagi possano nutrirsene.

Il processo di mummificazione richiedeva diverso tempo (circa 70 giorni) e iniziava con la rimozione degli organi interni che tendevano a decomporsi più velocemente. L’estrazione delle interiora avveniva cercando di preservare il più possibile intatto l’aspetto esteriore del defunto.

Dopo la rimozione degli organi interni, il corpo veniva ricoperto da natron per 40 giorni; trascorso il tempo necessario a “prosciugare” la salma, questa veniva riempita di lino, erbe aromatiche, sabbia e segatura. A contribuire alla conservazione della pelle giocava un ruolo importante anche una copertura di resina vegetale, che proteggeva dal decadimento i tessuti disidratati.

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Natron, Ancient Egyptian Chemical Salt and Preservative
Natron
Egyptian Mummies

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La disidratazione https://www.vitantica.net/2019/04/10/disidratazione/ https://www.vitantica.net/2019/04/10/disidratazione/#respond Wed, 10 Apr 2019 00:09:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3878 La disidratazione è uno dei fenomeni più comuni in situazioni di sopravvivenza. Intuitivamente riteniamo che possa insorgere solo in situazioni di caldo estremo, ma la disidratazione è una condizione molto più comune di quanto siamo portati a pensare.

Sete e disidratazione

Con il termine “disidratazione” si identifica una perdita d’acqua dovuta a processi fisologici normali, inclusa la respirazione, l’evacuazione di fluidi corporei, la sudorazione, la diarrea o il vomito.

La perdita di volume sanguigno, determinata anche dalla quantità d’acqua corporea, è un meccanismo diverso regolato da un sistema separato, ma che può comunque generare la sensazione di sete.

Per un organismo sano è fondamentale mantenere costante il livello di fluidi corporei. I recettori della sete rilevano la quantità di acqua e sali all’esterno delle cellule (liquido interstiziale) per determinare se sia inferiore o superiore a quella del fluido intracellulare: se si verifica uno sbilanciamento tra il liquido interstiziale e il fluido intracellulare, scatta l’allarme sete.

La sensazione di sete può essere scatenata anche dalla perdita di volume sanguigno, indipendentemente dalla quantità di liquido interstiziale, una condizione che si manifesta con emorragie, vomito e diarrea. L’organismo cerca di comunicarci che il sangue non può più circolare liberamente e che il cuore sta facendo fatica a svolgere il suo ruolo di pompa.

Sintomi della disidratazione

La sete è il primo sintomo di disidratazione, anche se può sopraggiungere in ritardo rispetto alla perdita consistente di liquidi. In seguito si manifestano mal di testa, perdita di appetito, confusione, stanchezza, irritabilità e riduzione del volume di urina. Nei casi di disidratazione severa insorgono letargia e perdita di coscienza.

Sintomi della disidratazione
Sintomi della disidratazione. Fix.com

Anche solo la perdita dell’ 1-2% dell’acqua corporea può causare sintomi, inizialmente poco percettibili, come minimo impedimento delle corrette funzioni cognitive, bocca secca e lieve affaticamento. Nelle persone sopra i 50 anni la sensazione di sete diminuisce progressivamente con l’età.

Quando si perde troppa acqua il sangue diventa troppo denso, la pressione sanguigna si abbassa, si ferma la sudorazione e l’organismo non è più in grado di termoregolarsi, causando un aumento della temperatura interna e l’aumento della possibilità di un colpo di calore.

Quando si verifica una perdita di liquidi pari al 3-4% dell’acqua corporea il battito cardiato accelera e la temperatura aumenta: il corpo sta cercando di conservare l’acqua e ordina ai reni di concentrare l’urina, che inizia a diventare più scura.

Quando la percentuale sale a 5-8% (disidratazione severa) si inizia ad essere molto affaticati e confusi, si perde la coordinazione motoria e si ha una sensazione di nausea che può sfociare in vomito. Non si è più lucidi e si possono prendere decisioni avventate o illogiche.

Una perdita pari o superiore all’ 8% dell’acqua corporea può causare deterioramento fisico e mentale ed è accompagnata da una pressante sensazione di sete. Si tende a perdere coscienza molto facilmente o ad avere convulsioni; se la disidratazione non viene fermata si rischia lo shock, il coma e il malfunzionamento degli organi interni. La morte sopraggiunge con una perdita di liquidi pari al 15-20%.

Cause della disidratazione

E’ universalmente noto che la disidratazione viene accelerata da ambienti caldi e umidi o dall’attività fisica, ma anche le altitudini elevate e climi rigidi possono contribuire alla perdita d’acqua corporea. Anziani, bambini e individui affetti da malattie croniche sono inoltre più esposti.

Non sottovalutate la disidratazione, anche se siete allenati: nel 2007 Dave Buschow, 29 anni e in salute, è morto al secondo giorno di un corso di sopravvivenza nel deserto dello Utah dopo una marcia di 10 km verso una sorgente d’acqua naturale durata 10 ore e con numerose soste di riposo.

Durante la marcia, gli istruttori rifiutarono di fornirgli acqua; dopo essere stato colto da crampi e avere avuto allucinazioni visive, si è accasciato a terra a meno di 100 metri dalla sorgente, esausto e disidratato, morendo poco dopo.

Il consumo di cibi ad alto contenuto di zucchero o di sale accelera la disidratazione. L’assunzione di bevande zuccherate o succhi di frutta non è raccomandata, specialmente nei bambini sotto i 5 anni, perché potrebbe aumentare il rischio di diarrea.

Disidratazione

Il corpo umano è in grado di perdere 2 litri d’acqua ogni ora di attività fisica o di esposizione ad ambienti caldi e umidi, con picchi di 3 litri durante sforzi intensi in climi particolarmente caldi. Con una perdita di liquidi di questa portata si perdono anche quantità considerevoli di elettroliti, come il sodio.

Negli atleti, fare esercizio e sudare per 4-5 ore comporta una perdita di sodio di poco inferiore al 10% delle risorse corporee, una perdita tollerabile dalla maggior parte delle persone in salute.

Consumare alcool accelera la disidratazione: l’alcol è un diuretico e il mal di testa che si sperimenta dopo una sbornia è generalmente la conseguenza della disidratazione provocata dall’assunzione di bevande alcoliche.

Prevenzione e cura della disidratazione

L’apporto minimo di acqua varia in base a diversi fattori, come l’età, l’ambiente e la genetica di un individuo. Ad oggi non è stato ancora dimostrato che attendere la sensazione di sete, o prevenirla, apporti benefici durante l’attività fisica.

Se ci si trova in ambienti caldi è fondamentale evitare di sudare eccessivamente, limitando l’attività fisica e bevendo spesso e a piccoli sorsi. In climi caldi e secchi il sudore potrebbe evaporare molto velocemente, creando difficoltà nel quantificare la perdita di liquidi dell’organismo.

In ambienti freddi, invece, si può essere tentati all’ingestione di neve, ma è un comportamento da evitare: ingerire liquidi troppo freddi abbasserà la temperatura corporea costringendo l’organismo a consumare energie per alzarla, attività che causa ulteriore disidratazione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha determinarto che la soluzione ottimale per la reidratazione orale di individui disidratati è composta da un litro d’acqua con l’aggiunta di 3 grammi di sale e 18 grammi di zucchero. Occorre non superare le dosi consigliate perché potrebbero causare ulteriore disidratazione.

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La disidratazione tra i cacciatori-raccoglitori

E’ difficile determinare quanta acqua sia necessaria ad un cacciatore-raccoglitore per evitare la disidratazione, ma ricerche come questa possono fornire qualche indizio.

Gli aborigeni australiani hanno un ritmo di sudorazione sensibilmente più basso rispetto a quello di un individuo cresciuto nelle società occidentali. Non si tratta di sola genetica: gli aborigeni sfruttano al meglio il tempo a loro disposizione dedicando le ore più fresche alla caccia, pesca e raccolta e riposando durante il pomeriggio, quando le temperature raggiungono i picchi più estremi.

La perdita massima di acqua durante l’arco di 12 ore e nelle zone più aride d’Australia è stata calcolata a circa 5,4 litri, ma questa misurazione può raggiungere i 7 litri se le attività quotidiane iniziano a mattino inoltrato.

Gli aborigeni australiani sono in grado di sopportare molto bene la perdita del 4% di acqua corporea senza sperimentare effetti psicofisici evidenti. Ma anche con i loro adattamenti fisiologici al clima possono risentire pesantemente di una dura giornata di lavoro in assenza di acqua: è per questo che non perdono occasione per dissotterrare radici e tuberi ricche di liquidi non appena si presenta l’occasione, o per fermarsi in corrispondenza di sorgenti d’acqua per bere qualche sorso ristoratore.

Thirst
Dehydration

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La navigazione oceanica polinesiana senza strumenti https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/ https://www.vitantica.net/2019/04/08/navigazione-oceanica-polinesiana-senza-strumenti/#comments Mon, 08 Apr 2019 00:03:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3881 Di recente ho affrontato il tema della spedizione Kon-Tiki, una missione volta a dimostrare che i primi popoli polinesiani fossero giunti dal Sud America a bordo di zattere e senza alcuna tecnologia di navigazione.

Come citato in questo articolo sulla Kon-Tiki, le culture polinesiane sono note da secoli per la loro straordinaria abilità di navigare l’oceano senza l’uso di strumentazione moderna come bussole, sestanti o dispositivi satellitari; spesso non possono nemmeno fare affidamento sulla navigazione costiera, considerate le enormi distanze che spesso separano un’isola dall’altra.

Come è possibile coprire lunghe distanze per mare senza alcuno strumento di navigazione moderno? Nainoa Thompson della Polynesian Voyaging Society, allievo del celebre navigatore micronesiano Mau Piailug (scomparso nel 2010 all’età di 78 anni), afferma che la “bussola stellare” utilizzata dai polinesiani sia così efficace da permettere un orientamento pressoché perfetto anche senza alcuno strumento.

Gli insegnamenti di Mau Piailug

La bussola stellare è un costrutto mentale utilizzato per la navigazione: identificando le stelle, memorizzando il loro percorso e conoscendo direzione e velocità di navigazione, è possibile determinare la propria posizione nell’oceano.

“Come determiniamo la direzione? Usiamo i migliori indizi a partire da ciò che abbiamo a disposizione” spiega Thompson. “Usiamo il sole quando è basso sull’orizzonte. Mau ha stabilito nomi diversi in base alle dimensioni del sole e alle differenti colorazioni dell’acqua in corrispondenza del percorso solare. Quando il sole è basso, il percorso disegnato sull’acqua è stretto; quando è alto sull’orizzonte diventa sempre più largo. Quando il sole è troppo alto non si può determinare dove sia sorto e occorre basarsi su altri elementi”.

Bussola stellare polinesiana
Bussola stellare polinesiana

“L’alba è il momento più importante della giornata. All’alba si inizia ad osservare la forma dell’oceano, il carattere del mare. Si memorizza la direzione del vento. Il vento genera onde sulla superficie marina. Al tramonto si ripete l’osservazione. Il sole si abbassa e si guarda la forma delle onde. E’ cambiato il vento? Sono cambiate le onde oceaniche? Durante la notte si usano le stelle. Usiamo circa 220 stelle, memorizzando dove sono sorte e dove tramontano”.

“Quando sono tornato dal mio primo viaggio da Tahiti alle Hawaii come apprendista navigatore, Mau mi invitò in camera e mi disse: sono molto orgoglioso del mio studente. Hai fatto un buon lavoro, per te e per il tuo popolo. Tutto ciò che devi vedere è nell’oceano ma ti occorreranno altri vent’anni per vederlo”.

“Quando è nuvoloso e non si possono usare sole o stelle si può soltanto fare affidamento sulle onde. Uno dei problemi è che quando il cielo si oscura sotto nuvole pesanti durante la notte non si possono vedere le increspature della superficie marina. Non si riesce nemmeno a vedere la prua della canoa. Ed è in questa circostanza che persone come Mau si dimostrano così esperte. Anche se si trovasse all’interno dello scafo percepirebbe le onde del mare muoversi sotto la canoa e potrebbe determinare la direzione dell’imbarcazione. Io non riesco a farlo”.

La bussola stellare

La navigazione polinesiana usa il sole come punto di riferimento per la navigazione diurna. Due volte al giorno, all’alba e al tramonto, il sole fornisce un punto di riferimento per orientarsi in mare.

Per mantenere una rotta precisa il navigatore si allinea con i punti in cui il sole sorge o tramonta grazie a 16 segni sulla canoa, 8 per ogni lato, accoppiati con un singolo punto sulla poppa della canoa.

Le stelle del cielo notturno sorgono e tramontano in particolari direzioni. Il navigatore mantiene la rotta orientando la canoa verso le stelle che sorgono o tramontano nella direzione desiderata, effettuando continue correzioni per compensare la direzione del vento e il moto ondoso.

Bussola stellare polinesiana

“La Croce del Sud è molto importante per noi” spiega Thompson. “Sembra un aquilone. Due stelle sella Croce del Sud puntano sempre a sud (Gacrux e Acrux). Se si sta viaggiando in canoa verso sud, quelle stelle sembreranno spostarsi sempre più in alto nel cielo notturno. […] Se ci si dirige a nord verso le Hawai’i, ogni notte la Croce del Sud si sposta nel cielo seguendo un arco sempre più basso sull’orizzonte”.

Per trovare correttamente la direzione, i polinesiani usano coppie di stelle differenti in base all’emisfero in cui si trovano: una linea immaginaria tra queste coppie determinerà il nord o il sud.

La Luna

Anche la Luna segue un’eclittica, un percorso apparente sulla volta celeste, completando il suo ciclo in 29,5 giorni. Nel calendario tradizionale hawaiano, il mese lunare era determinato da questo ciclo e dal susseguirsi delle fasi lunari.

Il ciclo lunare veniva diviso in tre periodi di 10 giorni, chiamati “ho’onui“, “poepoe” e “‘emi“, a loro volta suddivisi in “fasi” in base alla visibilità del nostro satellite naturale.

Confrontando le fasi lunari, la posizione della Luna e quella delle stelle conosciute consentiva di determinare con una certa precisione la posizione nell’oceano e la rotta da seguire.

Il moto ondoso
"Mappa" che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine
“Mappa” che i polinesiani utilizzavano per segnare la direzione dei venti e delle correnti marine

Le onde generate da venti forti, più precisamente quelle che sono prodotte dalle tempeste e tendono a persistere oltre la durata del fenomeno atmosferico che le ha create, hanno una direzione più stabile rispetto a quelle generate dalla brezza marina o da venti locali.

Talvolta è più semplice percepire un’onda di questo tipo piuttosto che vederla. Le tempeste che nascono nel Pacifico del sud durante l’estata hawaiana tendono a generare un moto ondoso che punta a sud; quelle invece che si scatenano durante l’inverno nel Pacifico del nord producono onde che puntano nella direzione opposta.

Qesto tipo di moto ondoso può cambiare direzione con il tempo seguendo lo spostamento della tempesta che lo ha generato. E’ per questo che i polinesiani preferiscono incrociare le informazioni sul moto ondoso con quelle raccolte dall’osservazione delle stelle, ottenendo misurazioni più affidabili.

Navigazione imprecisa ma corretta

Navigare senza strumenti è un’operazione che porta a inevitabili errori di precisione. Conservare nella memoria tutte le informazioni necessarie a determinare la corretta posizione nell’oceano non è affatto facile; anche riuscendo a farlo, si commetteranno inevitavbilmente errori di approssimazione.

I navigatori polinesiani tuttavia non cercavano di navigare verso la loro destinazione con accuratezza assoluta. Le isole del Pacifico si trovano spesso in “cluster”, gruppi che possono estendersi anche per centinaia di chilometri.

I navigatori polinesiani facevano affidamento sull’avvistamento di questi cluster per correggere la loro rotta e puntare con più accuratezza la loro destinazione: l’arcipelago di Tuamotu, ad esempio, si estende per oltre 600 chilometri da nord a sud e per altrettanti chilometri da est a ovest.

Il "triangolo polinesiano", una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione
Il “triangolo polinesiano”, una regione di Oceano Pacifico che i polinesiani attraversavano senza strumenti di navigazione

Viaggiando da Tahiti alle Hawaii (il viaggio effettuato da Mau Piailug e Thompson) è possibile fare rotta verso una direzione generica in un cono di circa 500 chilometri compreso tra le isole Manihi e Maupiti: raggiungendo una delle isole intermedie, il navigatore può orientarsi con più precisione e raggiungere la sua effettiva destinazione senza troppe difficoltà.

Se si dovesse capitare in un vasto tratto di mare tra due o più isole non visibili ad occhio nudo, i polinesiani cercavano di localizzare indizi di vicinanza con la terraferma, come vegetazione galleggiante, gruppi di nubi che tendono a concentrarsi sopra i picchi delle isole, uccelli marini o particolari caratteristiche del moto ondoso.

Polynesian Voyaging Society: Summary Wayfinding, or Non-Instrument Navigation

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Località e clima estremi della Terra https://www.vitantica.net/2019/03/06/localita-eclima-estremi-terra/ https://www.vitantica.net/2019/03/06/localita-eclima-estremi-terra/#respond Wed, 06 Mar 2019 00:10:29 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3730 Quando pensiamo che la Terra sia il pianeta ideale per lo sviluppo della vita spesso dimentichiamo quanto possano essere inospitali alcune regioni del nostro pianeta: venti incessanti e velocissimi, temperature estreme sopra e sotto lo zero, precipitazioni abbondantissime o del tutto assenti, altezze che mozzano letteralmente il fiato e località così remote da essere difficilmente raggiungibili con qualunque mezzo di trasporto conosciuto.

Nonostante gli estremi climatici e ostacoli naturali apparentemente insormontabili, l’uomo è spesso riuscito a ricavarsi una nicchia di sopravvivenza nei luoghi più difficili, adattandosi a condizioni avverse spesso per necessità, altre volte per puro interesse scientifico.

La foresta più a nord

La foresta di Lukunsky è la distesa di alberi più a nord del pianeta. Si trova in Russia lungo il fiume Lukuns, ed è una foresta che torna alla vita dopo l’inverno per soli 100 giorni, per poi ritornare ad essere un bosco ghiacciato da Settembre a Giugno.

Il terreno è composto da permafrost profondo fino a 200 metri, le temperature scendono spesso sotto i -40 °C, e il vento raggiunge una velocità di 50 metri al secondo per buona parte dell’anno.

Il bosco di Lukunsky ospita 268 specie di piante, 78 di uccelli e 16 specie di mammiferi, perfettamente adattati al clima della regione.

Il ghiaccio più profondo

Per un record del genere, il primo posto del pianeta che viene alla mente è l’ Antartide. La fossa subglaciale di Bentley è il punto più profondo della Terra non coperto da acqua: è infatti completamente sommersa dal ghiaccio per ben 2.555 metri dal livello del mare e occupa un’area grande quanto l’intero Messico.

Non viene tecnicamente considerato il punto più profondo del pianeta per via della sua copertura di ghiaccio, che lo fa rientrare nella categoria delle località sotterranee.

Stazione Vostok, l’avamposto umano più freddo del pianeta

La stazione russa Vostok si trova al Polo Sud. La temperatura media annua è di circa -55,3 °C, la più bassa temperatura media mai documentata sul nostro pianeta.

Il mese più freddo è agosto, con una media di -68 °C, mentre in dicembre, il mese più caldo, si raggiungono i -32 °C. Nel luglio del 1983, la temperatura alla stazione Vostok è scesa fino a -89,2 °C, la più bassa mai registrata sulla Terra.

Caldo estremo: la più alta temperatura dell’aria mai registrata

La più alta temperatura mai registrata è un record che spetta alla Libia. Il 13 Settembre 1922 il termometro di Al’Aziziyah, località nel deserto del Sahara, segnava 57,8 °C.

Tuttavia il record non è stato unanimamente accettato: ci sono casi in cui le temperature possono alzarsi ulteriormente a seguito di “colpi di calore” causati venti particolarmente caldi.

Ad Abadan, in Iran, nell’estate del 1967 pare che il termometro segnò 87 °C a causa delle condizioni sopra citate; la reale portata dell’evento non è mai stata confermata, per questa ragione non compare nella lista dele temperature record finora registrate.

Il deserto più arido: Atacama
Località e clima estremi della Terra
Deserto di Atacama

Il deserto di Atacama è la località più arida del pianeta. Si affaccia sull’ Oceano Pacifico percorrendo le coste del Cile ad elevate altitudini, sulla catena delle Ande.

La temperatura va da 0 °C a 25 °C ed è la località con meno precipitazioni sulla Terra. E’ possibile trovare modeste quantità d’acqua in alcuni laghi salati, nella neve ad alta quota o nel sottosuolo. La quantità più considerevole di acqua che è possibile trovare nel deserto di Atacama proviene tuttavia dalle nebbie che si sollevano dal Pacifico.

La media di precipitazioni sul deserto di Atacama è pari a circa 1 millimetro all’anno. Alcune stazioni meteorologiche, dal momento della loro costruzione decadi e decadi fa, non hanno ancora visto una sola goccia di pioggia nell’arco del loro periodo di attività.

Le regioni più umide del pianeta

Non è semplice stabilire quale località abbia le precipitazioni più abbondanti. In generale possiamo affermare che i luoghi più umidi del pianeta si trovano di frequente in prossimità di foreste pluviali, come in India o in Sud America.

A Cherrapunji, in India, la media annuale è di 11.430 millimetri, con l’anno 1861 che ha fatto registrare ben 22.987 millimetri di pioggia. La media di pioggia più alta spetta a Mawsynram, sempre in India, con 11.873 millimetri, mentre l’anno più piovoso è un primato di Chocò, Colombia, con 26.303 millimetri durante il 1974.

Il chicco di grandine più grande mai registrato

Giugno 2003: una grossa tempesta si muove sul Nebraska, lasciando cadere grandine in quantità. Ad Aurora, un residente trova un chicco di grandine enorme, lo ripone nel frigorifero e lo lascia esaminare successivamente dal National Climate Extremes Committee. Risultato: il chicco di grandine è il più grosso mai visto, con i suoi 17,8 centimetri di diametro e una circonferenza di 47,6 centimetri.

La più alta parete verticale
Monte Thor
Monte Thor

Il monte Thor canadese si trova nell’isola di Biffin, all’interno dell’ Auyuittuq National Park, e ha una parete verticale di granito puro alta ben 1.250 metri.

E’ una meta celebre per gli scalatori di tutto il mondo, specialmente per il suo grado di difficoltà, e si trova in una località nota per altre pareti verticali vertiginose, tutte di altezza superiore ai 500 metri.

Insediamento umano più elevato

La Riconada è una città delle Ande peruviane nata principalmente attorno all’attività mineraria di estrazione dell’oro. E’ considerata la città più in quota del mondo, con i suoi 5.100 metri sul livello del mare, e ospita circa 30.000 abitanti.

Se parliamo invece di piccoli insediamenti, il record non ufficiale spetta al villaggio di Kungi in India, a 5.219 metri sul livello del mare.

Polo oceanico dell’inaccessibilità

I poli dell’inaccessibilità sono punti geografici collocati in posizioni tali da renderli le località più lontane dalla maggior parte delle terre emerse del pianeta.

Ad esempio, il polo oceanico dell’inaccessibilità (noto anche come polo pacifico, o “punto Nemo”) è il punto dell’oceano più lontano da qualunque terra emersa. Si trova ad almeno 2688 km di distanza dalle Isole Pitcairn, le terre emerse più vicine.

L’isola più remota
Posizione di Bouvet Island
Posizione di Bouvet Island

Bouvet Island è una piccola isola al largo dell’Oceano Atlantico e si trova a quasi 1.600 km di distanza dalla terra emersa più vicina, Queen Maud Land in Antartide.

L’isola abitata più vicina è ad oltre 2.260 km di distanza, mentre le coste del Sud Africa sono a 2.580 km in linea d’aria.

La località più ventosa

Commonwealth Bay è considerata ufficialmente la località più ventosa del pianeta. Si trova in Antartide e fa registrare venti costanti che soffiano fino a 240 km/h, con una media annuale di velocità di 80 km/h.

Questi venti catabatici creano tempeste violentissime che possono iniziare improvvisamente, senza nessun segnale d’avvertimento, e durare per settimane intere senza sosta.

Il vento più veloce

Come era facile aspettarsi, il record spetta ad un tornado. Nel maggio 1999, in Oklahoma, un tornado ha fatto registrare una folata di vento della durata di tre secondi che viaggiava a 512 km/h.

Il record precedentemente spettava ad un tornado verificatosi nel 1991 sempre in Oklahoma, un evento che ha fatto registrare una velocità pari a 460 km/h.

Se parliamo di velocità medie, invece, il record spetta a Port Martin, Antartide: nell’arco di 24 ore, nel 1951 il vento ha fatto registrare una velocità media di 174 km/h.

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La più grande inondazione della storia

La Cina è terra di precipitazioni stagionali di grande entità che spesso causano inondazioni di proporzioni ciclopiche. La più grande inondazione mai registrata è stata forse quella del 1931 in Cina, considerata il disastro naturale più mortale della storia con le sue quasi 4 milioni di vittime.

L’inondazione è stata generata da particolari condizioni meteo: dal 1928 al 1930 ci fu una grave siccità nella regione centrale della Cina; nel 1930 sono state registrate nevicate ingenti, nel 1931 le piogge sono state di maggiore entità rispetto al normale, rafforzate dal passaggio di ben 7 cicloni (su una media di 2 all’anno). L’inondazione ha visto coinvolti diversi fiumi: Fiume Giallo, Yangtze e Huai.

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La raccolta dell’acqua piovana nell’antichità https://www.vitantica.net/2019/02/22/raccolta-acqua-piovana/ https://www.vitantica.net/2019/02/22/raccolta-acqua-piovana/#respond Fri, 22 Feb 2019 00:10:51 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3674 L’acqua è un elemento essenziale per la sopravvivenza di quasi tutte le specie viventi. Lo sappiamo oggi come lo sapevano i nostri antenati, che si ingegnarono per escogitare qualunque sistema in grado di raccogliere e conservare l’acqua.

La scarsità di acqua dolce

Nelle regioni più aride del pianeta non è sufficiente scavare fino a raggiungere una falda o un piccolo accumulo d’ acqua piovana. In aree come il deserto del Sahara l’unica acqua disponibile si trova in giacimenti fossili collocati a profondità troppo grandi da essere raggiungibili a colpi di bastoni da scavo o vanghe.

In altre zone, invece, l’acqua fa la sua apparizione solo in particolari stagioni dell’anno, o gli unici depositi disponibili non sono sfruttabili dall’essere umano a causa dell’inquinamento biologico causato dalla presenza di animali grandi e piccoli.

Con l’avvento dell’agricoltura divenne indispensabile avere una riserva costante d’acqua per irrigare i campi, per cuocere i prodotti della terra e per far fronte alle necessità idriche di un’urbanizzazione sempre crescente. Questo rese necessario escogitare un sistema in grado di raccogliere e immagazzinare l’unica sorgente d’acqua pulita a disposizione: la pioggia.

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Raccolta e distribuzione dell’acqua in India

L’archeologia ha da tempo notato uno schema nelle civiltà nel passato: più una cultura avanzava tecnologicamente e socialmente, più diventava abile nel raccogliere, conservare e distribuire l’acqua.

Nelle regioni in cui non era disponibile una fonte virtualmente inesauribile di questo prezioso liquido furono ideati sistemi estremamente elaborati per raccogliere l’acqua piovana, preservarla dalla variabilità del clima e distribuirla a chiunque ne avesse bisogno.

L’uso di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana risale almeno al Neolitico. Intorno al 4000 a.C. emersero i primi sistemi di gestione dell’acqua con la costruzione di cisterne in cui veniva accumulata la pioggia o la poca acqua disponibile in determinati periodi dell’anno.

Cisterna di Dholavira
Cisterna per l’acqua piovana a Dholavira

I primi insediamenti nella Valle dell’ Indo, emersi tra il 3000 e il 1500 a.C., hanno lasciato numerose tracce scritte sui sistemi di raccolta dell’acqua piovana. Dholavira, uno dei siti fondamentali per lo studio delle culture dell’ Indo, ospita ancora oggi i resti di numerose cisterne per l’accumulo dell’acqua piovana, cisterne visibili anche a Mohanjodaro e Harappa.

L’acqua piovana era immagazzinata in bacini sotterranei chiamati Tanka, Kund o Kundis. Nel villaggio di Vadi-Ka-Melan esiste ancora oggi una cisterna kund costruita nel 1607, cisterna che consentì per secoli di superare i periodi di siccità che si verificano ciclicamente nella regione.

Tra il 1011 e il 1037 d.C. in India, nel distretto di Tamil Nadu, fu costruita una cisterna per l’acqua piovana chiamata Viranam. L’acqua raccolta da questa enorme cisterna, lunga 16 km e dalla capacità di 41 milioni di metri cubi d’acqua, era impiegata per l’irrigazione o come acqua da bere.

Raccolta dell’acqua piovana sul Mediterraneo

Anche Israele ha la sua storia sulla raccolta e conservazione dell’acqua piovana. Nel sito che oggi viene considerato la città biblica di Ai (Khirbet et-Tell) esiste una cisterna vecchia di oltre 4.500 anni e capace di contenere 1.700 metri cubi di acqua piovana. La cisterna fu costruita scavando la roccia, rinforzandola con pietre e sigillando ogni foro e fessura con argilla cotta.

A Creta, un’isola su cui non abbondano sorgenti d’acqua dolce, esistono cisterne per l’acqua piovana che risalgono all’epoca minoica, tra il 2.600 e il 1.100 a.C. Una di queste cisterne, quella visibile a Myrthos-Pyrgos, ha la capacità di 80 metri cubi ed è stata costruita circa 3.700 anni fa.

Cisterna per l'acqua nell'antica città di Ammotopos (IV secolo d.C.)
Cisterna per l’acqua nell’antica città di Ammotopos (IV secolo d.C.)

Anche i Romani costruivano cisterne per l’accumulo dell’acqua piovana, alcune connesse direttamente agli acquedotti che viaggiavano lungo tutta la penisola. A Pompei erano presenti cisterne sui tetti delle case prima della costruzione dell’acquedotto che raggiungeva la città.

L’esperienza romana nei sistemi di raccolta dell’acqua piovana sembra derivare dalla tecnologia cretese: all’interno di un cortile interno (atrium) si trovava una cisterna centrale che accumulava la pioggia che scorreva lungo i tetti pendenti verso l’interno.

Per secoli Venezia fu dipendente dalla raccolta di acqua piovana. La laguna che circonda la città contiene acqua che non può essere impiegata per l’irrigazione o per il fabbisogno della cittadinanza, per cui furono stabiliti dei sistemi di raccolta dell’acqua piovana che si basavano su speciali pavimentazioni inclinate che convogliavano l’acqua all’interno di filtri di sabbia connessi a pozzi pubblici.

Sistemi di raccolta dell’acqua piovana

La raccolta dell’acqua piovana è un’operazione relativamente semplice che può richiedere una disponibilità minima di materiali. Serve una superficie inclinata o conica da esporre alla pioggia e un contenitore che possa raccogliere l’acqua piovana.

Sistema di raccolta dell'acqua piovana basato su un telo impermeabile e un contenitore
Sistema di raccolta dell’acqua piovana basato su un telo impermeabile e un contenitore

I sistemi di raccolta dell’acqua piovana, specialmente nelle regioni più aride o che hanno precipitazioni concentrate in alcuni periodi dell’anno, devono massimizzare l’accumulo d’acqua per evitare sprechi. Il tetto di una casa, ad esempio, è naturalmente esposto agli agenti atmosferici e si è storicamente rivelato uno dei metodi più comuni, semplici ed efficaci per la raccolta dell’acqua piovana.

Un tetto dotato della giusta inclinazione è in grado di convogliare ogni ora svariati litri d’acqua piovana verso un unico punto di raccolta, immettendo il liquido accumulato in tubature collegate a cisterne o sfruttando semplicemente la gravità per versare acqua all’interno di recipienti posti al livello del terreno.

In passato sono stati utilizzati materiali di diversa natura per creare semplici recipienti per l’acqua piovana: foglie, ceramica, bambù e metallo possono creare recipienti di raccolta e tubature in capaci di convogliare l’acqua all’interno di contenitori e cisterne.

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Ingegneria al servizio dell’acqua piovana

Ma l’accumulo dell’acqua piovana può essere anche un lavoro che richiede complesse capacità ingegneristiche. Nel 1615 Abdul Rahim Khan costruì un complesso sistema di raccolta dell’acqua piovana a Burhanpur, in India. Il sistema era costituito da condutture sotterranee connesse a tubature verticali che convogliavano l’acqua in discesa dalle colline di Satpura fino al fiume Tapti durante la stagione umida.

Chand Baori, un'enorme cisterna per l'acqua piovana
Chand Baori, un’enorme cisterna per l’acqua piovana nel villaggio di Abhaneri in Rajasthan. E’ stata costruita nell’anno 800 d.C., è profonda 30 metri ed è stata dedicata ad Hashat Mata, la divinità della gioia e della felicità.

L’interramento delle cisterne si rese necessario per due ragioni fondamentali: evitare l’evaporazione dell’acqua durante la stagione calda ed impedire che le cisterne di acqua stagnante diventassero l’ambiente ideale per insetti infestanti come le zanzare, che proliferano nell’acqua stagnante, o la contaminazione da parte di funghi, residui vegetali o escrementi animali e umani.

L’efficacia di un sistema per la raccolta dell’acqua piovana dipende strettamente dalla superficie che espone alle precipitazioni. La pluviometria misura la pioggia in millimetri per metro quadrato: se in un’area di 1 metro quadrato cadono 20 millimetri di pioggia, si avranno un totale di 20 litri d’acqua (se si esclude qualunque forma di dispersione).

Una pioggia leggera si attesta a circa 25 millimetri in 1 ora. Nelle condizioni ideali si tratterebbe di ben 25 litri d’acqua in un’ora, ma se poniamo sotto la pioggia un recipiente di piccole dimensioni la quantità d’acqua raccolta sarà proporzionalmente inferiore.

An Introduction to Rainwater Harvesting
Rainwater harvesting
Rainwater harvesting in Ancient Times and its Sustainable Modern techniques

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Dissalatore o alambicco solare: è utile alla sopravvivenza? https://www.vitantica.net/2019/01/14/dissalatore-alambicco-solare-sopravvivenza/ https://www.vitantica.net/2019/01/14/dissalatore-alambicco-solare-sopravvivenza/#respond Mon, 14 Jan 2019 00:10:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2761 Uno dei metodi più conosciuti e consigliati per ottenere acqua in situazioni di emergenza è il dissalatore solare (o “alambicco solare”, “distillatore solare”), un sistema che sfrutta l’evaporazione per ottenere acqua potabile anche in regioni aride. Ma quanto è efficiente il dissalatore solare? Può davvero permettere la sopravvivenza in carenza di sorgenti d’acqua?

Breve storia del dissalatore solare

Sembra che nel IV secolo a.C. Aristotele descrisse un metodo che sfruttava l’evaporazione di acqua sporca per ottenere liquido potabile tramite condensazione. Intorno al XVI secolo alcuni alchimisti arabi produssero apparati in vetro per la dissalazione dell’acqua tramite la radiazione solare.

La prima documentazione storica sulla costruzione di un alambicco solare risale al 1742: Nicolò Grezzi disegnò uno schema per la realizzazione di un dissalatore solare, ma non si hanno prove che passò effettivamente dalla fase progettuale a quella costruttiva.

Il primo dissalatore moderno fu quello di Las Salinas, Cile, costruito nel 1872 dal progetto di Charles Wilson. Era composto da 64 bacini dall’area totale di quasi 5.000 metri quadrati e riusciva a produrre circa migliaia di litri al giorno, con un’efficienza media di circa 3-4 litri per metro quadrato. Un’efficienza così alta fu possibile grazie a due fattori: il costante pompaggio d’acqua da depositi sotterranei e la formazione di brina provocata dal clima rigido.

Costruzione di un dissalatore solare durante un corso di sopravvivenza
Costruzione di un dissalatore solare durante un corso di sopravvivenza

In tempi più recenti il dissalatore solare è un elemento spesso presente in molti manuali di sopravvivenza ed è frequentemente consigliato come metodo efficace per ottenere acqua in località aride. Alcuni eserciti, come quello argentino, insegnano la costruzione di alambicchi solari durante i corsi standard di sopravvivenza.

Come funziona un dissalatore solare

L’alambicco solare è un apparato facilmente realizzabile che sfrutta la condensazione del vapore acqueo o dell’umidità ambientale per convogliare acqua in un recipiente di raccolta. Il metodo di raccolta dell’acqua tramite condensazione era conosciuto anche dalle società preincaiche, che sfruttavano l’umidità contenuta nella materia vegetale per ottenere acqua potabile.

Tramite il distillatore solare è possibile ottenere acqua potabile seguendo due differenti strategie:

  • In presenza di una fonte d’acqua salata o stagnante, è possibile ottenere acqua potabile separandola dai sali o dagli agenti contaminanti;
  • Se non ci sono a disposizione fonti d’acqua, il dissalatore può essere utilizzato per condensare l’umidità ambientale.

Il metodo primitivo per realizzare un alambicco solare è proprio quello andino. Dopo aver scavato una buca nel terreno, al centro viene collocato un contenitore di raccolta che accumulerà l’acqua di condensazione. Alcuni rami vengono piazzati in modo tale che l’estremità inferiore termini sopra al recipiente, mentre quella superiore fuoriesca dai margini della cavità.

Il buco viene quindi ricoperto da rami, foglie ed erba per sigillare l’apertura e limitare l’evaporazione esterna dell’acqua. L’apparato così realizzato sfrutta la rugiada o la brina che si formano durante la notte: con l’esposizione al sole, la brina si scioglie e l’acqua scivola per gravità nel recipiente di raccolta.

Dissalatore solare improvvisato con materiali moderni
Schema di un dissalatore solare
Schema di un dissalatore solare

Oggi, con la disponibilità di materiali plastici impermeabili, l’alambicco solare è più efficiente del sistema andino. Il metodo di base è del tutto identico: buca nel terreno e recipiente di raccolta. Ciò che cambia è il sistema di condensazione: un foglio di plastica viene steso sulla cavità cercando di sigillare ogni punto d’uscita dell’umidità.

Man mano che si formerà condensa grazie all’evaporazione dell’acqua contenuta nel terreno o all’interno di materia vegetale, inizieranno a raccogliersi piccole gocce sulla superficie inferiore del tessuto plastico; una piccola depressione al centro del telo (generata, ad esempio, dal peso di un sasso) farà scivolare le gocce di condensa verso il contenitore di raccolta.

Si può sopravvivere con un dissalatore solare improvvisato?

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L’efficienza dell’alambicco solare in situazioni d’emergenza è stata per molto tempo sovrastimata: non è possibile utilizzare questo sistema per avere un costante approvvigionamento d’acqua in grado di soddisfare i bisogni essenziali di un essere umano.

Un conto sono i sistemi di dissalazione solare su vasta scala, costruiti secondo criteri ingegneristici e con materiali realizzati ad hoc; un altro è invece l’improvvisazione di un dissalatore solare con i materiali che la natura e uno zaino da campeggiatore possono offrire.

Il dissalatore solare è più efficiente in aree umide che generalmente dispongono di altre fonti d’acqua potenzialmente potabile, mentre in regioni aride è estremamente difficile, se non addirittura impossibile, ottenere una quantità d’acqua tale da ripristinare le riserve d’acqua perdute.

Le prestazioni di un dissalatore solare possono variare in base alla località e al grado di umidità: in assenza di fonti d’acqua, un buco di 40 centimetri di diametro e profondo 30 centimetri fornirà da 100 a 150 millilitri d’acqua potabile nell’arco di una giornata.

L’efficienza può essere aumentata inserendo nella cavità materia vegetale come erba, foglie o frammenti di cactus, oppure aumentando la superficie e la profondità dell’apparato, ma difficilmente si avrà una quantità d’acqua sufficiente a dissetare completamente un essere umano.

Dato che l’alambicco solare viene suggerito come possibile opzione al problema della scarsità d’acqua in regioni aride, è sufficiente fare una breve considerazione sul fabbisogno di liquidi di un essere umano per rendersi conto della sua poca praticità.

In un deserto caldo, un essere umano adulto ha bisogno di almeno 3,5 litri d’acqua al giorno per sopravvivere senza fare sforzi; anche disponendo di un alambicco solare di grandi dimensioni, sarà quasi impossibile ottenere più di 0,3 litri d’acqua nell’arco di 24 ore, circa un decimo del fabbisogno giornaliero. In questi circostanze, un dissalatore solare non vale l’acqua corporea consumata per costruirlo.

Dissalatore solare per la sopravvivenza in mare
Dissalatore solare per la sopravvivenza in mare

Anche avendo a disposizione una fonte d’acqua non potabile la situazione non è molto migliore. I dissalatori solari per la sopravvivenza in mare ideati dall’esercito degli Stati Uniti nel 1952, che sfruttavano l’acqua salata per ottenere acqua potabile, riuscivano a produrre nella migliore delle ipotesi circa 2 litri di liquido.

Un altro esempio viene da un esperimento condotto in Pakistan nel 2005 sfruttando un distillatore di vetro difficilmente riproducibile in situazioni d’emergenza. L’apparato convertiva acqua salata in acqua potabile: un dissalatore con l’area di mezzo metro quadrato è stato in grado di produrre, in media, 1,7 litri d’acqua al giorno.

Solar still
Design and performance of a simple single basin solar still

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Il sale dei Maya https://www.vitantica.net/2018/10/10/sale-maya/ https://www.vitantica.net/2018/10/10/sale-maya/#respond Wed, 10 Oct 2018 02:00:30 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2266 Il sale è stato uno degli ingredienti principali della cucina e dell’economia di molti popoli antichi (come spiegato in questo post sulla storia del sale). I Maya non rappresentarono un’eccezione: le analisi condotte su alcuni strumenti di pietra utilizzati in Belize circa 1300 anni fa sembrano dimostrare che anche questo popolo precolombiano sfruttasse il sale per la conservazione del cibo e come importante supporto per l’economia alimentare.

Non sappiamo con certezza come e quando ebbe origine l’estrazione del sale da giacimenti e salamoie, ma la sua importanza biologica e la sua capacità di conservare alimenti facilmente deperibili fu osservata migliaia di anni fa dalle prime società cacciatrici-raccoglitrici e sfruttata su vasta scala da quelle agricole.

Nel picco della loro civiltà, gli abitanti di ciò che oggi viene chiamato Paynes Creek Salt Works, un antico insediamento Maya in Belize risalente al 300-900 d.C., non solo estraevano sale in grandi quantità ma lo utilizzavano per la salagione di carne e pesce.

Heather McKillop e il suo team del Department of Geography & Anthropology della LSU hanno analizzato i reperti di pietra rinvenuti in un’area sottomarina di 5 chilometri quadrati, un tempo emersa e occupata da un insediamento Maya ma oggi sommersa e circondata da mangrovie. L’ambiente acido creato dalle mangrovie non permette la conservazione di ossa o tessuti animali perché tende a dissolvere il carbonato di calcio, ma preserva in modo ottimale il legname.

Questi sono tra i 20 utensili analizzati per verificare le micro-incisioni da utilizzo.
Questi sono tra i 20 utensili analizzati per verificare le micro-incisioni da utilizzo.

“Dato che non abbiamo trovato alcun osso di pesce o di altri animali sul fondo del mare durante i nostri scavi, siamo rimasti sorpresi dai segni microscopici scoperti sugli utensili di pietra, segni che noi chiamiamo ‘da utilizzo’ e che mostravano che questi strumenti sono stati utilizzati per tagliare e raschiare pesce o carne” spiega McKillop.

I Maya di Paynes Creek Salt Works si servivano di strumenti di pietra, principalmente calcedonio, per le loro attività quotidiane. I segni osservati sul alcuni di questi utensili sono coerenti con la lavorazione del legno, ma la maggior parte dei frammenti litici (dal 90% al 98%) mostra micro-incisioni provocate dalla lavorazione di carne, pesce e pelli.

Strumenti Maya per la produzione di sale

Nel sito sono stati trovati oltre 4.000 pali di legno che sembrano delimitare una serie di edifici molto probabilmente utilizzati come centri per la salagione di carne e pesce, o per la produzione di sale con metodi utilizzati da moltissimi popoli antichi di tutto il pianeta.

I Maya producevano sale facendo evaporare l’acqua salata all’interno di recipienti di pietra o d’argilla, creando “torte” di sale che venivano successivamente sbriciolate per ricoprire gli alimenti. Il sale veniva fatto evaporare naturalmente grazie all’esposizione al sole, o tramite fuochi posti sotto i recipienti d’argilla.

La salagione del cibo avrebbe permesso ai Maya di trasportare i prodotti della terra su lunghe distanze e fu certamente uno dei fattori che contribuì alla formazione di rotte commerciali fluviali o costiere che si diramavano per oltre 20 chilometri dal sito di Paynes Creek Salt Works.

Salt: Mover and shaker in ancient Maya society

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