malattie – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Londra, XVIII secolo: il paradiso della sifilide https://www.vitantica.net/2020/11/02/londra-xviii-secolo-il-paradiso-della-sifilide/ https://www.vitantica.net/2020/11/02/londra-xviii-secolo-il-paradiso-della-sifilide/#respond Mon, 02 Nov 2020 00:10:06 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5022 Le malattie sessualmente trasmissibili sono oggi un problema largamente diffuso e potenzialmente molto serio. Se, per alcune di esse, è sufficiente un ciclo di antibiotici per liberarsi del fastidi da loro provocati, altre possono rivelarsi estremamente dolorose, debilitanti o fatali nel medio-lungo termine.

Ma le malattie veneree non sono un male moderno: da quando esiste la prostituzione, gonorrea, clamidia e sifilide hanno trovato terreno fertile nei rapporti sessuali promiscui e non protetti. Questo vale soprattutto per le grosse città del passato, dove le “case del piacere” e la prostituzione attiravano la maggior parte della loro clientela da ogni strato sociale, dall’artigiano alla nobiltà.

Secondo Simon Szreter e Kevin Siena, rispettivamente della University of Cambridge e della Trent University, circa 3 secoli fa un quinto dei londinesi veniva colpito dalla sifilide entro i 35 anni, una probabilità di 25 volte superiore agli inglesi che vivevano nelle zone rurali.

La sifilide

La sifilide è una malattia trasmessa sessualmente dal batterio Treponema pallidum. La malattia si sviluppa in quattro fasi dai sintomi progressivamente più gravi; la terza fase, in particolare, può scatenarsi da 3 a 15 anni dopo la prima infezione e prevede la formazione di tumori cronici che colpiscono prevalentemente la pelle, le ossa e il fegato.

La prima epidemia di sifilide europea si verificò tra il 1494 e il 1495 a Napoli e fu diffusa dalle truppe francesi che assediavano la città, probabilmente dai mercenari spagnoli al soldo di Carlo VIII di Valois. Conosciuta in Italia come il “mal francese” (e in Francia come “mal napolitan“), assunse il suo nome moderno nel 1530 grazie al medico italiano Girolamo Fracastoro.

L’origine esatta della sifilide è sconosciuta, anche se ci sono due principali ipotesi: la prima prevede che la sifilide sia giunta in Europa sfruttando l’equipaggio di Colombo di ritorno dalle Americhe. L’analisi di 538 resti scheletrici pre-colombiani supporterebbe l’ipotesi che circa il 6-14% della popolazione locale fosse affetta da sifilide.

La seconda ipotesi vede invece la sifilide come una malattia già presente in Europa prima dello scambio colombiano. Alcuni resti scheletrici di Pompei e Metaponto mostrano danni coerenti con la terza fase della malattia, ed è possibile che alcuni casi di sifilide in Europa siano stati confusi con la lebbra. Uno scheletro austriaco risalente al XIV secolo mostrerebbe indizi di sifilide congenita, trasmessa non sessualmente ma da madre a figlio.

A partire dall’epidemia napoletana la sifilide si diffuse in tutta Europa, con un tasso di mortalità ben superiore a quello moderno che provocò fino a 5 milioni di decessi. Alcune ricerche suggeriscono che il batterio possa essere mutato in una forma più letale durante la sua diffusione europea.

Sifilide a Londra

Il biografo di Samuel Johnson, James Boswell, registrò nel suo diario 19 episodi di malattie veneree contratte tra il 1760 e il 1786 durante le sue “avventure” nei bordelli londinesi. Boswell faceva parte di un’impressionante statistica: circa il 20% della popolazione londinese tra i 15 e i 34 anni era affetto da sifilide, e una percentuale forse più ampia aveva contratto anche gonorrea e clamidia.

Szreter e Siena hanno analizzato i dati degli ospedali dell’epoca, contando i ricoveri e le diagnosi di sifilide dei medici dell’epoca, per formulare una stima conservativa sulla diffusione della malattia. Il calcolo non è stato semplice: le diagnosi di sifilide possono essere difficili, specialmente all’epoca, perché i sintomi possono essere inizialmente confusi con quelli di altre malattie.

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“All’epoca la città aveva un’incidenza straordinariamente alta di malattie sessualmente trasmesse” afferma Szreter. “Non sembra più irragionevole supporre che la maggior parte di coloro che vissero a Londra durante l’età adulta si ammalarono di una malattia venerea nel corso della loro vita”.

“In un’epoca precedente alla profilassi e a trattamenti efficaci per la sifilide” continua Szreter, “la città cresceva velocemente con un continuo flusso di giovani adulti, molti in condizioni economiche precarie. La Londra georgiana era estremamente vulnerabile nei confronti delle epidemie di malattie veneree”.

Ad ogni sintomo sospetto, gli inglesi confidavano di aver preso solo la gonorrea per allontanare dalla mente lo spauracchio della sifilide, medicandosi con pozioni e pillole dalla scarsa efficacia. Una volta sopraggiunti i sintomi più gravi e realizzato di aver contratto il mal francese, era necessario il ricovero in un ospedale specializzato (a Londra ne esistevano almeno due) o in un’infermeria di scarsa qualità medica.

I malati di sifilide spesso combattevano i sintomi per sei o più mesi prima di cercare il ricovero in ospedale. Secondo Szreter e Siena, nel 1775 furono 2.807 i pazienti ricoverati per sifilide in tutti gli ospedali londinesi. I dati sul contagio sono nettamente superiori agli insediamenti periferici inglesi: nella città di Chester il tasso di contagio si attestava intorno all’ 8%, mentre nelle campagne circostanti era inferiore all’ 1%.

Trattamenti e conseguenze

Le malattie veneree erano particolarmente diffuse tra le giovani donne londinesi, specialmente quelle che si trovavano in difficoltà economiche ed erano costrette a mantenersi tramite il mercato del sesso. Altre fasce di popolazione particolarmente colpite erano quella dei migranti che vivevano ai margini dell’economia londinese, e gli uomini d’affari che potevano permettersi di frequentare abitualmente i bordelli della città.

Nella Londra del 1700 non esisteva un trattamento efficace per la sifilide, anche se i rimedi abbondavano. I trattamenti impiegati erano mirati ad espellere gli umori maligni dal corpo: lassativi, bagni caldi nel vino o nell’olio d’oliva e salassi erano i più diffusi, ma non mancavano pillole e miscugli.

Circa due secoli prima, Paracelso usò il mercurio per combattere la malattia, basandosi sul fatto che il metallo si era rivelato efficace nel trattamento della lebbra. Durante il XVI secolo il mercurio veniva comunemente somministrato ai pazienti come pomata, tramite ingestione o attraverso la fumigazione, una tecnica che prevedeva di vaporizzare il mercurio su una fiamma ed esporre i malati ai vapori emessi dal metallo.

Un altro trattamento popolare durante il XVI secolo era il Guaiaco (Guaiacum officinale), una pianta di origine americana descritta come medicamento contro la sifilide dal prete spagnolo Francisco Delicado nel 1525. Il legno del G. officinale è ricco di guaiacolo e altre sostanze dalle proprietà balsamiche, espettoranti e lassative, ma non sembra particolarmente efficace per il trattamento della sifilide.

Prima della creazione di cure efficaci per la sifilide, la malattia poteva provocare gravi disfigurazioni. Volto e naso erano le zone più colpite, e i segni del passaggio della sifilide (come nasi artificiali e cicatrici) erano spesso visti come espressione di deviazione sessuale.

Gasparo Tagliacozzi, pioniere della chirurgia plastica vissuto nel XVI secolo, si specializzò nella ricostruzione di nasi elaborando una tecnica che prevedeva di rimuovere parzialmente i tessuti epiteliali dalle braccia del paziente attaccandoli in corrispondenza del naso. Il paziente doveva rimanere per settimane con il braccio legato alla testa per assicurare che la crescita dei vasi sanguigni sul viso; al termine della procedura si staccava la pelle dal braccio con un’altra operazione.

The pox in Boswell’s London: an estimate of the extent of syphilis infection in the metropolis in the 1770s
Pox populi: Study calculates 18th century syphilis rates for first time
Syphilitic City: one in five Georgian Londoners had syphilis, study suggests

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Video: epidemie nella storia dell’ umanità https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/ https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/#respond Thu, 09 Jul 2020 00:07:54 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4930 Le società moderne stanno gradualmente realizzando la fragilità dei loro sistemi, edificati nell’arco di millenni, di fronte alle nuove incertezze epidemiologiche. L’archeologia, la storia e la biologia possono fornire preziose informazioni sulle epidemie del passato, informazioni che possono aiutare i biologi moderni nell’elaborazione di strategie adatte ad affrontare le emergenze epidemiche moderne.

Olivier Dutour, professore alla Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, analizza in questo video le epidemie del passato, esaminando diversi aspetti che le hanno alimentate o hanno contribuiro a fermarle: antropologia epidemiologica, ecologia, medicina antica ed evoluzione degli agenti patogeni più temuti della storia, come la peste, la tubercolosi, la lebbra, il vaiolo e la sifilide.

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L’enigma della sifilide – Timeline https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/ https://www.vitantica.net/2020/01/10/enigma-sifilide-timeline-documentario/#comments Fri, 10 Jan 2020 00:17:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4758 Nel 1495 una nuova malattia colpì il Vecchio Continente: era mortale, devastante, e prendeva di mira chiunque dimostrasse una certa promiscuità sessuale. Come ebbe origine la sifilide?

L’ipotesi dominante fino a non molto tempo fa era che la sifilide fosse arrivata in Europa tramite lo “scambio colombiano”, conseguenza dei primi contatti con le Americhe. Insieme a tabacco e patate, Colombo ebbe il “merito” di portare la sifilide, inizialmente in Spagna poi in tutto il continente europeo, nel cuore di popolazioni che non avevano mai conosciuto la malattia.

Le prime ipotesi sull’ origine americana della sifilide ebbero origine con il medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: nel 1539 scritte il Tractado contra el mal serpentino que vulgarmente en España es llamado bubas, opera frutto del suo lavoro come medico a Barcellona e dei trattamenti curativi adoperati su alcuni marinai di Colombo.

Pochi anni dopo, Bartolomé de Las Casas contribuisce alle fondamenta della teoria sull’origine americana della sifilide con queste affermazioni della sua Storia generale delle Indie:

«C’erano e ci sono due cose in quest’isola che all’inizio furono molto penose per gli spagnoli: una è la malattia delle bubas che in Italia si chiama mal francese. È accertato che essa venne da quell’isola, e questo accadde, o al ritorno dell’ammiraglio Don Cristobal Colon, quando assieme alla notizia della scoperta delle Indie giunsero i primi indiani che io vidi fin dal loro arrivo a Siviglia, i quali importarono le bubas in Spagna infettando l’aria o in tutt’altro modo; o al tempo del primo ritorno a Castiglia, quando rientrarono alcuni spagnoli con le bubas, e questo poteva accadere tra il 1494 e il 1496. […] Io personalmente mi sono impegnato a più riprese a chiedere agli indiani se questo male esisteva già da tempo dalle loro parti, ed essi risposero affermativamente […] È anche accertato che tutti gli spagnoli incontinenti che su quell’isola non osservavano affatto la virtù della castità, furono colpiti dalle bubas e che, su cento, non ne sfuggì uno solo, salvo nel caso in cui l’altra parte non avesse mai avuto le bubas»

Ci sono tuttavia prove scheletriche del fatto che in Francia, Italia e Inghilterra la malattia fosse già conosciuta secoli prima del viaggio di Colombo. Alcuni resti ossei scoperti presso il monastero di Kingston-upon-Hull, in Inghilterra, hanno mostrato segni evidenti di sifilide risalenti ad oltre 1 secolo prima dell’ esplorazione dei continenti americani.

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Il documentario cerca di fare luce sull’origine della sifilide, esplorando i primi contatti con le malattie nordamericane ed esaminando le prove sulla sua possibile presenza in Europa prima della scoperta delle Americhe.

Sifilide

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Variolizzazione: la lotta contro il vaiolo prima del vaccino https://www.vitantica.net/2019/06/21/variolizzazione-vaiolo-prima-del-vaccino/ https://www.vitantica.net/2019/06/21/variolizzazione-vaiolo-prima-del-vaccino/#comments Fri, 21 Jun 2019 00:10:20 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4290 Il primo vaccino contro il vaiolo risale al 1796 e fu ideato dal medico britannico Edward Jenner; prima di lui era comune la variolizzazione, una rudimentale pratica di immunizzazione usata in Oriente almeno dal XV secolo.

Il vaiolo

Il vaiolo è una malattia infettiva causata da due virus, il Variola major e il Variola minor. Anche se oggi è stato debellato (l’ultimo caso di vaiolo contratto in modo naturale risale al 1977) ed eradicato ufficialmente nel 1979, per millenni rappresentò una vera e propria catastrofe per le popolazioni che colpiva.

Il Variola major può avere una mortalità superiore al 30%, con variazioni fino al 75% in base alla distribuzione e al numero delle pustole che produce, mentre il minor raramente raggiunge l’1% di mortalità. La forma emorragica del vaiolo ha invece una mortalità prossima al 100% e il decesso sopraggiunge tra i 7 e i 16 giorni.

Il vaiolo inizia a manifestarsi generalmente con febbre e vomito, per poi sviluppare eruzioni cutanee su tutto il corpo. Nel corso di qualche giorno l’eruzione si trasforma in vesciche piene di fluido e successivamente in croste che lasceranno segni indelebili sul paziente.

L’origine certa del vaiolo è sconosciuta, ma sappiamo che la malattia era nota fin dal 1.500 a.C. in India. La malattia ha probabilmente avuto origine tra i 68.000 e i 16.000 anni fa dal virus del vaiolo del gerbillo e da allora non fece altro che mietere vittime anche illustri, come Ramses V.

All’inizio del XVI secolo, il vaiolo era ormai diffuso in tutta Europa, probabilmente portato nel Vecchio Continente attraverso scambi commerciali e scontri militari con il mondo arabo. Il vaiolo colpiva soprattutto i bambini e causava la morte di circa 1/3 degli infetti.

L’arrivo del vaiolo nelle Americhe causò una vera e propria pandemia. Il tasso di mortalità tra i nativi era tra l’80% e il 90%, la stessa dei primi aborigeni australiani che vennero a contatto con la malattia tra il 1780 e il 1870.

Nel XVII secolo, ogni anno il vaiolo uccideva circa 400.000 europei; il 10% dei neonati svedesi moriva di vaiolo ogni anno, e la mortalità sembra essere stata anche superiore in Russia e in altre regioni del mondo.

Negli ultimi 100 anni prima della sua eradicazione, si calcola che il vaiolo abbia ucciso circa 300-500 milioni di persone; nel solo 1967 i contagi sono stati 15 milioni e i morti 2 milioni.

L’inizio della battaglia contro il vaiolo

Variolizzazione: la lotta contro il vaiolo prima del vaccino

Le prime pratiche documentate di variolizzazione fanno la loro comparsa in Cina durante il XV secolo. Il metodo prevedeva l’inalazione nasale di polvere di croste di vaiolo, una pratica che continuò durante il XVI e il XVII secolo.

Secondo la documentazione del tempo, si selezionavano soggetti infetti da ceppi non particolarmente letali di vaiolo, prelevando dalla pelle le croste o il liquido delle pustole per farli seccare e triturarli allo scopo di ottenere una polvere fine.

La polvere veniva quindi inserita in una sorta di cannuccia d’argento e soffiata nelle narici, la narice destra per gli uomini e quella sinistra per le donne. I pazienti sviluppavano quindi una forma minore della malattia e venivano trattati come se fossero infettivi quanto un individuo affetto dal Variola major.

Anche nel mondo arabo si iniziò ad adottare lo stesso metodo, specialmente in Sudan, dove la pratica del Tishteree el Jidderi (“corrompere il vaiolo”) era diffusa specialmente tra le donne. Una madre non protetta visitava la casa di un bambino infetto, legando un panno di cotone attorno al bambino per poi portare a casa il tessuto per legarlo attorno al braccio del proprio figlio.

Una seconda pratica, il Dak el Jedri (“colpire il vaiolo”), usata principalmente in Turchia, prevedeva la raccolta dei fluidi fuoriusciti dalle pustole allo scopo di spalmarli su un taglio profondo praticato sulla pelle dei pazienti.

Benché molto diffusa in Cina e in Africa, la variolizzazione fu considerata in Europa una tecnica medica priva di fondamenti scientifici fino al XVII secolo. Fu solo con la promozione della pratica a Costantinopoli da parte del medico italiano Emmanuel Timoni che iniziò a diffondersi nel Vecchio Continente.

Dopo aver appreso dell’esistenza della variolizzazione, Timoni scrisse una lettera nel 1714 in cui descriveva nel dettaglio il metodo di immunizzazione, attirando l’attenzione del predicatore di Boston Cotton Mather e della moglie dell’ambasciatore britannico nell’Impero Ottomano, Lady Mary Wortley Montagu.

Mary Wortley Montagu e il Metodo Sutton

Mary Wortley Montagu aveva perso il fratello a causa del vaiolo, per poi contrarre lei stessa la malattia poco dopo. Riuscì fortunatamente a sopravvivere ma riportò numerose cicatrici sul volto e sul resto del corpo.

Mentre si trovava in Turchia in compagnia del marito, venne a conoscenza della variolizzazione, una pratica relativamente comune a Costantinopoli. Nel 1718 sottopose suo figlio Edward, di 5 anni, alla variolizzazione, con la supervisione del dottore dell’ambasciata; nel 1721, al suo ritorno in Inghilterra, fece lo stesso per la figlia di 4 anni di fronte ai dottori della corte reale.

Mary Wortley Montagu
Mary Wortley Montagu

Dopo il successo della variolizzazione sui due figli, iniziarono i primi esperimenti inglesi sull’immunizzazione dal vaiolo. Il primo esperimento fu condotto su sei prigionieri della Prigione di Newgate di Londra, esponendoli dopo la variolizzazione a pazienti infetti da Variola major; se fossero sopravvissuti dimostrando immunità alla malattia, avrebbero in cambio ricevuto la libertà. L’esperimento fu un successo e la famiglia reale iniziò a promuovere la pratica in tutte l’Inghilterra.

All’inizio della seconda metà del 1700, il chirurgo britannico Robert Sutton subì la perdita di uno dei suoi figli a causa della variolizzazione. L’evento lo portò a cercare una nuova procedura per immunizzare i pazienti contro il vaiolo.

Il Metodo Sutton, che riscosse un grande successo a partire dal 1762, prevedeva incisioni superficiali della pelle, una selezione accurata dei pazienti affetti da forme lievi di Variola minor da cui prelevare campioni biologici e l’assenza di salassi per la purificazione del sangue, una procedura che spesso precedeva l’immunizzazione vera e propria.

La variolizzazione di Sutton, su cui il chirurgo costruì una vera e propria fortuna tramite la costruzione di cliniche di immunizzazione, fu condotta su oltre 300.000 pazienti con effetti negativi molto limitati rispetto a quelli prodotti dalla variolizzazione che prevedeva incisioni profonde e salassi estremi.

Una pratica non esente da rischi

Anche se è vero che molti pazienti a cui veniva praticata la variolizzazione riuscivano ad ottenere l’immunità dal vaiolo, è altrettanto vero che la procedura poteva avere effetti negativi non trascurabili.

Secondo i medici del tempo, la variolizzazione rendeva immuni al vaiolo in modo permanente, ma ci furono diversi casi in cui i pazienti immunizzati finirono vittime di un secondo attacco della malattia. Alcuni di questi contagi possono essere attribuiti a diagnosi sbagliate (diagnosi di varicella invece che di vaiolo), altri invece alla mancanza di memoria immunologica.

La variolizzazione tramite cicatrice, inoltre, prevedeva un livello di abilità medica e un’attenzione per i dettagli non molto diffuse in passato. Non era raro che i pazienti che contraevano la malattia in forma lieve diffondessero il vaiolo venendo in contatto con familiari, parenti e amici; inoltre, era abbastanza comune che le cicatrici non debitamente trattate sviluppassero infezioni, alcune con risultati fatali.

Infine, la medicina del tempo prevedeva l’uso di salassi estremi prima di procedere all’immunizzazione, salassi così pesanti da far perdere i sensi e motivati dalla necessità di purificare il sangue e prevenire la febbre.

Il principe Octavius di Gran Bretagna, ottavo figlio di Re Giorgio III, fu una delle vittime illustri della variolizzazione: dopo essere stato immunizzato insieme alla sorella Sophia, si ammalò gravemente morendo qualche giorno dopo il 3 maggio del 1783, all’età di 4 anni.

A partire dall’inizio del XIX secolo, la variolizzazione iniziò ad diventare una pratica sempre meno diffusa (in Russia divenne illegale nel 1805) per via dell’introduzione di un vaccino in grado di contenere enormemente gli effetti negativi dell’immunizzazione grazie all’uso di vaiolo bovino, non trasmissibile ad altri esseri umani.

Variolation
A death from inoculated smallpox in the English royal family
How Variolation Worked

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Cause di morte più comuni tra cacciatori-raccoglitori https://www.vitantica.net/2019/06/05/cause-di-morte-comuni-cacciatori-raccoglitori/ https://www.vitantica.net/2019/06/05/cause-di-morte-comuni-cacciatori-raccoglitori/#comments Wed, 05 Jun 2019 00:03:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4241 Tra i popoli tribali che conducono un’esistenza primitiva o semi-primitiva, uccide di più il leone o la malattia? Causa statisticamente più morti il morso di un serpente o l’attacco di un coccodrillo, oppure a rivelarsi fatali sono più spesso le attività quotidiane necessarie a procurare cibo per la comunità, gli agenti atmosferici o la violenza tra uomini?

E’ difficile determinare con precisione le cause di morte più comuni tre le comunità tribali moderne, ancora più difficile è determinarle per gli antichi cacciatori-raccoglitori.

Sappiamo, ad esempio, che i primi contatti tra una cultura primitiva o semi-primitiva e il mondo industrializzato, o più genericamente con una popolazione “aliena”, provoca quasi sempre la diffusione di malattie che tendono a decimare chi ha vissuto in isolamento per secoli o millenni.

Ciò che si è verificato nelle Americhe e nel Pacifico, nel presente e nel passato, è una palese dimostrazione dei rischi a cui va incontro un popolo tribale quando viene avvicinato per la prima volta dalla civiltà moderna.

Escludendo dalle cause di morte le malattie contratte dai primi contatti con il mondo industrializzato, quali sono le “normali” fonti di mortalità di un popolo tribale che segue uno stile di vita tradizionale?

Non esiste una statistica capillare sui popoli tribali primitivi o semi-primitivi moderni, ma solo dati relativi ad un ristrettissimo numero di comunità, informazioni raccolte grazie alla fatica di alcuni antropologi che hanno dedicato anni del loro lavoro allo studio approfondito dello stile di vita di queste culture.

Le statistiche più corpose riguardano principalmente quattro popoli: gli Aché del Paraguay, i !Kung del Kalahari, i Fayu di Papua e i Kaulong della Nuova Britannia. Per fare un confronto con i dati relativi alle cause di morte del mondo industrializzato, porterò come pietra di paragone ciò che sappiamo sulla mortalità negli Stati Uniti secondo il Center for Disease Control.

Cause di morte più comuni negli Stati Uniti (dati del CDC Report 2017)
  • Problemi cardiovascolari (23%)
  • Cancro (21%)
  • Incidenti (5,9%), che comprendono cadute accidentali, incidenti stradali e avvelenamenti accidentali
  • Problemi respiratori cronici (5,6%)
  • Infarto (5,18%)
  • Alzheimer (4,23%)
  • Diabete (2,9%)
  • Influenza e polmonite (1,88%)
  • Malattie renali (1,8%)
  • Suicidio (1,64%)
  • Setticemia (1,42%)
Aché del Paraguay

Aché del Paraguay

Tra gli Aché del Paraguay un’importante causa di morte è il morso di serpenti velenosi: rettili dal morso avvelenato causano circa il 14% delle morti legate ad incidenti tra uomini adulti, contro l’8% delle morti provocate dall’attacco di un giaguaro.

Il Paraguay ospita decine di specie di serpenti velenosi, tra le quali c’è il serpente corallo e svariate specie di crotalidi come il “testa di lancia”.

Un’altra importante causa di morte da incidente sono proprio i giaguari, insieme ai fulmini e alla perdita dell’orientamento nella foresta, condizioni che portano nella maggior parte dei casi all’ipotermia. Per quanto siano abili nella sopravvivenza all’interno del loro territorio tradizionale, anche per gli Aché è difficile accendere un fuoco in un ambiente umido come la foresta tropicale.

Altri elementi da non sottovalutare sono il crollo di alberi morti (motivo per cui gli Aché esaminano sempre gli alberi circostanti prima di accamparsi), cadute da alberi da frutto e infezioni causate da graffi e punture di insetti.

Le ferite d’ascia costituiscono un’altra importante causa di morte: gli scontri tribali non sono rari e l’arma principale d’offesa è l’ascia. Secondo le statistiche di Hill e Hurtado del 1996, prima del XX secolo il 55% delle morti tra gli Aché erano causate da omicidi.

Anche quando le armi non causavano direttamente il decesso, potevano provocare ferite in grado di infettarsi facilmente nel clima tropicale, o traumi interni difficilmente trattabili lontano da un ospedale.

!Kung del Kalahari

!Kung del Kalahari

Una delle maggiori cause di morte violenta tra !Kung sudafricani sono le frecce avvelenate scagliate da tribù rivali a seguito di sconfinamenti in territori di caccia limitrofi, una delle ragioni principali delle dispute territoriali.

Spesso tuttavia le frecce avvelenate sono le principali responsabili di morte per chi le fabbrica: il veleno utilizzato dai !Kung non ammette errori e una piccola ferita aperta a contatto con la tossina può causare il decesso in brevissimo tempo.

Una posizione rilevante tra le morti causate da incidenti è ricoperta da incendi, cadute dagli alberi e infezioni causate dal morso di grandi e piccoli animali. I !Kung non devono soltanto difendersi da grossi predatori come leoni, leopardi e iene (che, di fatto, causano “solo” 5 morti su mille), ma anche da grandi erbivori come elefanti, bufali e animali da preda più piccoli, per non contare gli insetti.

Come per altri popoli di cacciatori-raccoglitori, anche la perdita dell’orientamento, i fulmini e l’assideramento costituiscono rischi sempre in agguato. Per quanto sopravvivano in un territorio caldo (durante l’estate nel Kalahari si toccano facilmente i 40°C), il rischio di ipotermia è sempre dietro l’angolo anche nei luoghi che registrano le temperature diurne più elevate.

Fayu di Papua

Fayu di Papua

I Fayu vivono nelle pianure della provincia indonesiana di Papua e annoverano tra le principali cause di morte incendi e annegamento. L’isola di Nuova Guinea è percorsa da torrenti che, durante le abbondanti piogge stagionali, possono trasformarsi in pochissimo tempo in fiumi in piena dalla violenza straordinaria.

Vivendo nella foresta, anche i Fayu temono la caduta di alberi morti, un pericolo mai da sottovalutare in zone densamente boschive. Anche tra di loro, come in altre culture del mondo, insetti e parassiti causano numerosi decessi, senza contare serpenti, ragni e scorpioni.

I Fayu temono anche i coccodrilli, particolarmente aggressivi in Nuova Guinea, sia d’acqua dolce che marini, e l’attacco dei maiali selvatici, temibili se messi alle strette durante le battute di caccia (il maiale è una sorta di moneta per molto popoli guineani).

Le morti violente causate da scontri tribali ricoprono un ruolo importante: tra il 10% e il 20% dei decessi violenti è legato a faide e guerre tra clan.

Kaulong della Nuova Britannia

Kaulong della Nuova Britannia

Un’importante causa di morte per i Kaulong è la caduta di alberi morti, giusto a sottolineare quanto questo rischio venga spesso sottovalutato da noi occidentali ma costituisca un pericolo reale per chiunque viva nella foresta.

Cadute da alberi da frutto e annegamento sono letali quanto le ferite da ascia e coltello causate da scontri frequenti con tribù locali legati da dispute per il territorio o faide che possono durare intere generazioni.

Tra i Kaulong troviamo come rilevante causa di morte anche il cedimento di caverne sotterranee. Il sottosuolo della Nuova Britannia è percorso da innumerevoli gallerie e caverne laviche che possono cedere facilmente sotto il peso di un solo uomo, provocando cadute fatali o ferite debilitanti che hanno ripercussioni serie sulla vita futura del malcapitato.

Causes of Death: Hunter Gatherer versus Agrarian Societies
Dati relativi ai 4 popoli tribali citati: Il mondo fino a ieri, di Jared Diamond
CDC: Leading Causes of Death 2017

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Il morbillo prima dell’era dei vaccini https://www.vitantica.net/2019/05/17/morbillo-prima-dei-vaccini/ https://www.vitantica.net/2019/05/17/morbillo-prima-dei-vaccini/#comments Fri, 17 May 2019 00:10:22 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4124 In epoca moderna e dopo l’introduzione di un vaccino specifico per la malattia, il morbillo viene erroneamente considerato come una malattia trascurabile e dalle conseguenze contenute. In passato, tuttavia, il morbillo è stato responsabile di epidemie cicliche che hanno provocato la morte di centinaia di migliaia di individui.

L’origine e l’identificazione della malattia

Non sappiamo con esattezza quando il morbillo emerse per la prima volta come malattia umana: è difficile distinguere con assoluta certezza i riferimenti storici alla malattia in periodi in cui veniva facilmente confusa con varicella, vaiolo o scarlattina.

Il morbillo, contrariamente al vaiolo, non lascia segni evidenti sui resti umani risalenti a secoli o millenni or sono. Alcune mummie egizie vecchie di oltre 3 millenni mostrano tracce del vaiolo, ma nessun segno dal morbillo, assente anche dai resoconti medici dell’epoca.

Il morbillo emerse probabilmente da 4.000 a 8.000 anni fa tra Medio Oriente e India sviluppandosi dal virus che sta all’origine anche della peste bovina e del cimurro canino. Recenti analisi hanno tuttavia messo in dubbio questa teoria, ipotizzando che la separazione netta del virus del morbillo da quello della peste bovina sia avvenuta in epoche più recenti.

Il primo, solido indizio di una malattia simile al morbillo in Europa risale al V secolo: nei pressi della moderna città di Vienna fu registrata un’epidemia caratterizzata da infezione respiratoria, infiammazione degli occhi e arrossamento della pelle.

Il primo manuale di distinzione e diagnosi di morbillo e varicella viene attribuita ad al-Razi (Muhammad ibn Zakariya al-Razi) intorno al IX-X secolo, autore dell’opera “Il Libro del Vaiolo e del Morbillo”. Secondo i resoconti incredibilmente dettagliati di al-Razi, il morbillo era una malattia “più temuta del vaiolo”.

Intorno all’ XI-XII secolo, grazie alla osservazioni di al-Razi, appare la prima documentazione storica che identifica e registra con una certa precisione la diffusione del morbillo in Europa e in Nord Africa.

morbillo

Nel 1676 il dottor Thomas Sydenham pubblica Observationes medicae circa morborum acutorum historiam et curationem (“Osservazioni mediche sulla storia e sulla cura delle malattie acute”), il primo trattato dopo al-Razi che descrive dettagliatamente l’infezione da morbillo e distingue la malattia da vaiolo e la scarlattina.

Occorre attendere però il 1757 per avere la prima dimostrazione del fatto che il morbillo sia una malattia causata da un agente infettivo presente nel sangue dei pazienti: grazie alle sue ricerche, il medico scozzese Francis Home tenta nel 1758 di vaccinare un paziente, senza tuttavia riuscirci.

Per le prime vaccinazioni funzionanti contro il morbillo occorrerà attendere le prime decadi del XX secolo, mentre le prime campagne di vaccinazione risalgono agli anni ’60 del 1900 grazie al lavoro del team di John Franklin Enders.

Perché il morbillo era così temuto in antichità?

Il virus del morbillo ha bisogno di una popolazione compresa tra le 250.000 e le 500.000 unità per scatenare un’epidemia; lo sviluppo delle città medievali (alcune molto popolose, come descritto in questo articolo) consentì alla malattia di propagarsi e di causare numerosissime vittime in una popolazione impreparata dal punto di vista immunologico e sprovvista di una cura.

Il virus del morbillo è altamente infettivo e si diffonde velocemente, specialmente nelle popolazioni che non hanno mai avuto a che fare con la malattia. Un paziente risulta infettivo a partire dal periodo di incubazione fino al termine della malattia; particolarmente suscettibili sono i bambini.

Verso la fine degli anni ’50 del 1900, la mortalità causata dal morbillo tra le popolazioni native del Brasile era pari al 27% degli infetti. Anche con i progressi medici dell’epoca contemporanea, una popolazione “vergine” può essere decimata dal virus del morbillo con tassi di mortalità incredibilmente elevati per il XXI secolo; nei Paesi in via di sviluppo, ancora oggi la mortalità dovuta alla malattia o alle complicazioni che può provocare è in grado di raggiungere il 10%.

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Le epidemie di morbillo nei secoli passati si scatenavano con una certa ciclicità: in alcuni periodi si verificavano epidemie contenute della malattia ogni 2-5 anni. Sulle isole britanniche, tra il VI e l’ XI secolo, si registrarono per iscritto ben 49 “piaghe”, molte delle quali ritenute epidemie di morbillo: una media di 1 epidemia ogni 10 anni, giusto il tempo di far raggiungere alla popolazione locale un numero tale da consentire la propagazione di una nuova infezione.

Il morbillo può indurre complicazioni come diarrea o encefalite, e gli adulti tendono a sperimentare complicazioni più severe. In secoli ben lontani dalle conquiste della medicina moderna e caratterizzati da un basso livello di igiene, avere un sistema immunitario indebolito esponeva a seri rischi e poteva facilmente minacciare la sopravvivenza di moltissimi pazienti.

L’arrivo del morbillo nelle Americhe

Il morbillo può rivelarsi devastante in una popolazione che non ha sviluppato le difese immunitarie sufficienti a contrastare la malattia: l’epidemia di morbillo di Cuba nel 1529 causò la morte di due terzi della popolazione nativa che si stava riprendendo da un altrettanto letale epidemia di vaiolo (uno tra gli attori principali nello sterminio dei nativi americani, come spiegato in questo post).

Due anni più tardi, nel 1531, il morbillo fu responsabile per la morte di metà della popolazione nativa dell’ Honduras, causando decine di migliaia di morti anche in tutta l’America Centrale fino a colpire la civiltà Inca.

Nel 1533, verso il termine della spedizione di Francisco Pizarro in Perù, scoppiò un’altra epidemia di morbillo in Nicaragua, poco dopo il passaggio di Pizarro. Non fu l’ultimo episodio di contagio di massa della popolazione nativa: per almeno un altro secolo la popolazione nativa verrà letteralmente sterminata dal morbillo, dal vaiolo, dall’influenza e da altre malattie infettive.

All’inizio del 1850 il morbillo fa il suo ingresso su alcune isole del Pacifico, tra le quali le Hawaii e successivamente le Figi: in entrambi i casi, in meno di una decade si registrerà il decesso di un quinto della popolazione locale a causa della malattia.

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Una delle tragedie sfiorate legate alla diffusione del morbillo lungo le coste atlantiche è quella che riguarda la popolazione inuit groenlandese.

Nel 1951, un viaggiatore proveniente dalla Danimarca introdusse il virus in una piccola comunità di 4262 individui, infettandoli tutti ad eccezione di cinque. Grazie all’intervento tempestivo della Danimarca nel fornire gammaglobuline ricche di anticorpi, la mortalità fu ridotta drasticamente al 2%.

Measles in antiquity and the middle ages
Timeline of measles
The History of Vaccines: Timeline
Origin of measles virus: divergence from rinderpest virus between the 11th and 12th centuries

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Le conseguenze negative dell’ agricoltura neolitica https://www.vitantica.net/2018/12/05/conseguenze-negative-agricoltura-neolitica/ https://www.vitantica.net/2018/12/05/conseguenze-negative-agricoltura-neolitica/#comments Wed, 05 Dec 2018 00:10:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2689 La nascita dei primi villaggi stabili nel Neolitico coincide con lo sviluppo delle prime tecniche agricole della storia. L’agricoltura fu la causa primaria di un cambiamento epocale nella civiltà umana, ma con gli indubbi vantaggi della vita stanziale e della produzione in massa di cibo emersero nuovi aspetti, non sempre positivi, nelle società umane.

Le conseguenze demografiche dell’agricoltura

La nascita dell’agricoltura coincide con la presenza di surplus alimentari su vasta scala. Il surplus alimentare è un fattore che favorisce la natalità: cibo in abbondanza non causa preoccupazioni su come sfamare la prole e contribuisce a mantenere in salute coppie che in futuro diventeranno genitori; la sedentarietà consentì alle madri del Neolitico di crescere un maggior numero di figli che, una volta raggiunta l’età adatta, diventano risorse utili per il lavoro nei campi e il mantenimento della famiglia.

In quasi 4.000 anni (8.000 a.C. – 4.000 a.C.) la popolazione mediorientale registrò un boom di nascite: si passò da circa 100.000 abitanti a oltre 3 milioni, un aumento ancora più sorprendente se si considera il tasso di mortalità alla nascita e la speranza di vita media del periodo.

Ma la rivoluzione agricola del Neolitico non fece crescere la popolazione mondiale in modo costante e repentino: occorre attendere almeno 3.000 anni prima di vedere un reale incremento demografico. Perché? Per il semplice fatto che l’agricoltura delle origini causava un mucchio di problemi a medio-lungo termine, problemi difficili da prevedere per società che non hanno mai avuto un passato agricolo.

Grafico che mostra l'incremento demografico a partire da 10.000 anni fa.
Grafico che mostra l’incremento demografico a partire da 12.000 anni fa.

Passare dal nomadismo alla sedentarietà comporta il consumo di risorse naturali per favorire le colture produttive: la foresta cede il passo ai campi, il terreno inizia ad impoverirsi e gli animali addomesticati non fanno altro che peggiorare la situazione, distruggendo ciò che resta di ecosistemi un tempo selvaggi ma poco proficui per la sopravvivenza di una comunità sedentaria.

L’agricoltura delle origini era basata su un numero molto limitato di colture e rese la dieta umana qualitativamente più povera rispetto a quella di popoli che ottenevano il loro cibo da qualunque cosa crescesse spontaneamente. Questo provocò carenze nutrizionali che influirono ciclicamente sulla salute degli agricoltori: nei periodi più difficili, carestie e malnutrizione decimavano la popolazione.

L’inizio dell’agricoltura non corrisponde con un aumento dell’aspettativa di vita; al contrario, le analisi sui reperti ossei del Neolitico dimostrerebbero una diminuzione dell’aspettativa di vita, l’insorgere di problemi come malattie degenerative, diabete, obesità (sconosciuta ai cacciatori-raccoglitori), carenze di ferro e problemi alle ossa.

La statura media subì anch’essa una riduzione: da 178 /168 centimetri (uomo / donna) a 165 / 155 centimetri di altezza media. Solo verso la fine del XIX secolo l’essere umano riuscì a riprendersi e a ritornare alla statura osservabile nei periodi precedenti alla rivoluzione agricola del Neolitico.

Agricoltura e diseguaglianza sociale

Agricoltura neolitica e stratificazione sociale

Secondo molti esperti la nascita dell’agricoltura coincide con il rafforzamento di concetti come l’ineguaglianza e la stratificazione sociale. In culture di cacciatori-raccoglitori si è abituati ad accettare il fatto che ogni individuo possieda abilità differenti, ma questo generalmente non causa una pressione sociale tale da creare povertà o diseguaglianza ingiustificata.

L’abilità di generare e controllare il surplus alimentare non fece altro che aumentare l’influenza sociale di alcuni individui a discapito di altri meno fortunati. Il concetto di ricchezza era fondamentalmente sconosciuto ai cacciatori-raccoglitori, o quanto meno interpretato in modo differente dall’idea di ricchezza delle comunità agricole.

Possedere e rendere produttivo un campo di grandi dimensioni richiede manodopera; i braccianti lavoreranno per conto del padrone dell’appezzamento di terra (che lavorerà sempre meno mentre accumula ricchezza dal lavoro degli altri) in cambio di una parte del raccolto, trovandosi involontariamente invischiati in una piramide sociale che coinvolge anche chi produce gli strumenti di lavoro, chi prega per la pioggia o chi protegge il raccolto da potenziali invasori.

In questa piramide, ogni individuo ha un potere contrattuale differente: in località soggette a frequenti incursioni di clan rivali o animali selvaggi, la classe militare viene tenuta in grande considerazione rispetto alla comunità di braccianti; in regioni colpite da fenomeni atmosferici incontrollabili e apparentemente connessi al volere di divinità volubili, i sacerdoti rivestono un ruolo di vitale importanza per domare la volontà distruttiva degli dei.

Il surplus di cibo generò quindi ruoli sociali non produttivi: le caste sacerdotali, ad esempio, non producevano nulla ma vivevano di ciò che gli agricoltori erano in grado di produrre grazie alla loro presunta intercessione con le divinità; la classe politica era anch’essa non produttiva, ma consentiva agli agricoltori di intrattenere scambi commerciali con altre comunità vicine e lontane; la casta militare proteggeva il raccolto e la ricchezza accumulata da contadini e proprietari terrieri, ma in molti casi non svolgeva alcun ruolo nella produzione di cibo.

Agricoltura e insicurezza alimentare

Agricoltura neolitica e insicurezza alimentare

Lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori del Neolitico era senza dubbio complesso e duro, ma rispetto alla sedentarietà era più flessibile ai capricci dell’ecosistema. Molte comunità nomadi facevano affidamento sulla conoscenza di oltre un centinaio di piante commestibili che crescevano seguendo il ritmo stagionale; si adattavano a mangiare ciò che la natura poteva offrire in un determinato periodo dell’anno e avevano a disposizione una vasta gamma di opzioni alimentari.

L’agricoltura invece lega la popolazione a poche specie di colture, spesso molto suscettibili al clima o all’attacco di parassiti proprio a causa della selezione artificiale che hanno attraversato per poter essere trasformate in piante produttive. La monocoltura ha un grosso problema: se una pianta si ammala, è molto probabile che tutte le piante vicine possano subire la stessa sorte.

Quando tutto funziona a dovere, l’agricoltura è capace di produrre enormi surplus alimentari che, se correttamente gestiti, forniscono cibo in abbondanza e per tutto l’anno. Fu proprio questo a contribuire alla crescita demografica delle popolazioni sedentarie qualche millennio dopo la “nascita” dell’agricoltura.

Ma quando subentrano siccità, fenomeno atmosferici violenti, gelo, parassiti, animali selvatici e contaminazione delle risorse alimentari immagazzinate per tempi meno produttivi, l’agricoltura mostra il suo lato più spaventoso. Fame e inedia colpiscono pesantemente la popolazione e chi ha avuto la fortuna di conservare una parte del raccolto si trova in una posizione privilegiata e negli strati più alti della piramide sociale ed economica del suo gruppo sociale.

Le “malattie agricole”

Malattie e epidemie antiche

Come accennato all’inizio del post, una dieta povera basata su poche specie di cereali o tuberi causa scompensi nutrizionali che si traducono in problemi di salute. Le malattie infettive furono invece una conseguenza della stretta convivenza con gli animali addomesticati e della densità abitativa delle prime comunità agricole.

Una società i cui membri vivono a stretto contatto l’uno con l’altro favorisce la diffusione di malattie infettive, anche verso altre comunità. Le pratiche igieniche dei primi insediamenti agricoli non erano di certo come quelle moderne: non esistevano fogne o acqua corrente e i rifiuti affollavano strade fangose che costituivano un terreno di coltura perfetto per parassiti, batteri e virus.

La vicinanza con i primi animali addomesticati, come vacche, pollame, cani e gatti, favorì il salto di specie di alcune malattie sopravvissute fino ad oggi, malattie che i primi agricoltori del Neolitico non erano biologicamente preparati ad affrontare.

Un esempio è lo sterminio delle popolazioni native causato dalle malattie infettive europee durante la conquista delle Americhe: influenza, morbillo e vaiolo erano malattie che gli abitanti del Nuovo Mondo non conoscevano (e per le quali non avevano sviluppato alcuna resistenza) per il semplice fatto che, contrariamente agli Europei, non avevano alle spalle migliaia di anni di selezione naturale spinta dalla convivenza con gli animali domestici.

Agricoltura e problemi di denti

E’ possibile distinguere un cacciatore-raccoglitore da un agricoltore di 12.000 anni fa semplicemente osservando la dentatura. L’analisi dei denti condotta da Ron Pinhasi della School of Archaeology and Earth Institute di Dublino dimostra che “le mandibole dei primi agricoltori di Levante non sono semplicemente versioni ridotte di quelle dei loro predecessori cacciatori-raccoglitori, ma subirono una serie complessa di cambiamenti morfologici durante la transizione verso l’agricoltura”-

“La nostra ricerca mostra che la popolazione cacciatrice-raccoglitrice aveva una perfetta armonia tra la mandibola e la dentatura” sostiene Pinhasi. “Ma questa armonia inizia a ridursi quando si esaminano le mandibole e i denti dei primi agricoltori”.

La dieta dei cacciatori-raccoglitori è basata su cibi duri, come piante non cotte e carne, mentre la base della dieta di un agricoltore è costituita da cereali e legumi cotti, molto più morbidi e che non richiedono grandi sforzi durante la masticazione.

La mandibola quindi tende a ridursi, ma i denti non subiscono lo stesso processo causando sovrapposizioni che erano relativamente rare tra le popolazioni nomadi che vivevano di caccia e di raccolta.

Neolithic Revolution
IMPACT AND CONSEQUENCES OF EARLY AGRICULTURE

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La zecca, il parassita per eccellenza https://www.vitantica.net/2018/07/11/la-zecca/ https://www.vitantica.net/2018/07/11/la-zecca/#respond Wed, 11 Jul 2018 02:00:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1889 Stare immersi nella natura comporta innegabili vantaggi per il corpo e per la mente: migliora l’umore, acuisce i sensi e dona un benessere psicofisico spesso sottovalutato dagli stili di vita moderni. Ma ogni ecosistema comporta rischi: piante velenose o irritanti, funghi letali e animali che possono mettere fine alle nostre sofferenze.

Gli animali più grandi, come tigri, lupi o orsi, costituiscono un pericolo concreto in determinate circostanze; spesso tuttavia sono gli animali più piccoli a comportare il rischio maggiore: ad esempio, le malattie trasmesse dalle zanzare uccidono ogni anno milioni di persone, una cifra ben superiore alla somma delle vittime causate da tutti i mammiferi, rettili e pesci conosciuti.

Ci sono poi animaletti e parassiti che nessuno di noi vuole conoscere per via dell’innata repulsione che suscitano a causa del loro aspetto o dei loro comportamenti istintivi.

Un parassita onnipresente

La zecca è uno degli animali che molti di noi preferirebbero non conoscere mai: ha un aspetto orribile, succhia sangue per sopravvivere e può trasmettere malattie potenzialmente fatali; ma se vogliamo accettare la natura nel suo insieme, dobbiamo anche accettare che la zecca sia parte di moltissimi ecosistemi e che, se visitiamo questi ecosistemi, prima o poi le zecche visiteranno noi.

La zecca è un aracnide parassita rimasto sostanzialmente invariato dal Cretaceo e diffuso su tutto il pianeta, specialmente in ambienti caldi e umidi. Esistono sostanzialmente due tipi di zecche: dure (famiglia Ixodidae, dal carapace resistente e dall’apparato boccale a rostro) o molli (famiglia Argasidae, prive di protezione dura per gli organi interni e con la bocca sul ventre).

Specie comuni di zecche Ixodidae
Tre delle specie comuni di zecche Ixodidae

Le zecche non fanno distinzione tra ospiti, siano essi mammiferi, uccelli, rettili o anfibi. Questo loro adattamento a quasi qualunque specie animale ha consentito alla zecca di popolare ogni fascia climatica, ad eccezione di quelle polari, seguendo gli spostamenti dei suoi ospiti.

Il ciclo vitale delle zecche

Per sostenere le zecche un ecosistema deve possedere due caratteristiche fondamentali: abbastanza popolazione animale da parassitare e umidità sufficiente da indurre la fase di metamorfosi verso la forma adulta e mantenere idratato il corpo di questi parassiti.

La zecca attraversa quattro stadi di crescita (uovo, larva, ninfa e adulto) e ogni passaggio di stadio richiede almeno un pasto a base di sangue. Le larve di zecca nascono con sei zampe, acquisendo un’altra coppia di arti dopo il primo pasto a base di sangue e passando alla fase di ninfa.

Ogni zampa è dotata di uncini e di un organo sensoriale unico, l’organo di Haller, capace di rilevare gli odori e i segnali chimici degli ospiti preferiti e avvertire cambiamenti di temperatura e correnti atmosferiche. Una ricerca condotta nel 2017 ha inoltre dimostrato che l’organo di Haller delle zecche consente alle zecche di percepire la luce infrarossa.

Con il passare delle settimane, il corpo di una zecca “dura” si indurisce nell’area dorsale mentre quello di una zecca “molle” tende a diventare più spesso, simile a cuoio sottile. A questo punto, la zecca adulta è pronta a fare quello per cui si è evoluta negli ultimi 120 milioni di anni: cibarsi di sangue senza sosta.

Come le zecche si attaccano agli ospiti

Le zecche non possono volare o saltare, ma hanno escogitato un sistema semplice ed efficiente per attaccarsi ai loro ospiti. Dopo aver rilevato la presenza di animali nelle vicinanze, si avvicinano il più possibile e attendono su foglie o erba aggrappandosi solo con le quattro zampe posteriori e protendendo in avanti quelle anteriori, nella speranza di poter rimanere impigliate nella peluria o di potersi attivamente aggrappare alla pelle dell’obiettivo.

Alcune zecche si attaccano rapidamente sulla pelle dell’animale-bersaglio mentre altre cercano zone di pelle più sottile: le operazioni di ricerca del punto più adatto al prelievo di sangue possono durare da 10 minuti a 2 ore.

Una volta localizzato il punto d’ingresso, la zecca inserisce il suo rostro e inizia a cibarsi, emettendo continuamente una sostanza anticoagulante per mantenere fluido il sangue.

Dimensioni di una zecca prima e dopo il pasto
Dimensioni di una zecca Ixodidae prima e dopo il pasto

Nelle Ixodidae (dure), il pasto dura fino a quando la zecca non è completamente piena: il suo peso può aumentare dalle 200 alle 600 volte rispetto a peso a “stomaco vuoto”. Per poter sopportare questa espansione smisurata del corpo, l’organismo della zecca cresce a livello cellulare durante un pasto, che può durare giorni o intere settimane. Nelle zecche molli (Argasidae) questo non si verifica e il loro peso aumenta da 5 a 10 volte.

Per raggiungere l’età adulta e la fase riproduttiva, una zecca Ixodidae ha bisogno di almeno tre ospiti e circa un anno di tempo. Dopo l’accoppiamento la femmina può deporre fino a 3.000 uova e non appena queste si schiudono le larve sono pronte a cibarsi di piccoli mammiferi o uccelli. Le Argasidae sono meno prolifiche (circa 300-1000 uova) ma si cibano più velocemente e più di frequente per superare le varie fasi dello sviluppo.

Malattie trasmesse dalle zecche

Il quadro dipinto fino ad ora è questo: in qualunque ambiente umido del pianeta si nasconde nell’erba e nel fogliame un piccolo aracnide affamato di sangue in attesa del passaggio di qualunque cosa respiri. E’ vero, la zecca si è evoluta per specializzarsi nel parassitismo e svolge il suo lavoro così bene che avere a che fare con animali selvatici (e spesso anche domestici) comporta sempre un faccia a faccia con almeno una zecca.

Ma il vero pericolo rappresentato dalle zecche è la trasmissione di malattie: la puntura di una zecca è sostanzialmente indolore e non pericolosa, ma questo parassita è il veicolo preferito di molte specie di batteri, virus e protozoi, alcuni innocui per l’essere umano mentre altri potenzialmente pericolosi.

Le specie di batteri del genere Rickettsia, ad esempio, sono responsabili del tifo da zecca, della febbre di Boutonneuse, della febbre africana da zecca, la febbre maculosa e la rickettsiosi, malattie solitamente trattate con antibiotici come le tetracicline. Un protozoo spesso presente nelle zecche può invece trasmettere la piroplasmosi, una malattia abbastanza rara nell’essere umano che causa ittero e febbre.

La malattia di Lyme è forse la più conosciuta tra le patologie trasmesse dalle zecche. La borreliosi (altro nome con cui è conosciuta la malattia di Lyme) è causata da batteri del genere Borrelia e inizia spesso con un eritema migrante in prossimità della puntura (50-75% dei casi).

Dopo qualche giorno si sviluppano i primi sintomi che includono mal di testa, febbre e stanchezza; se non trattati, i sintomi degenerano nell’arco di mesi in dolori articolari, paralisi facciale parziale o totale, fitte dolorose agli arti e problemi di memoria.

Per trasmettere il batterio che causa la malattia di Lyme la zecca deve rimanere attaccata all’ospite umano per almeno 18-24 ore, anche se in determinate circostanze la diffusione dei Borrelia può richiedere molto meno tempo.

Il periodo in cui si verificano la maggior parte dei contagi è quello compreso tra la primavera e la prima estate, il momento in cui le zecche trovano sufficiente umidità e calore per iniziare il loro ciclo vitale. Ogni anno, nei mesi più favorevoli, circa 65.000 persone vengono colpite dalla malattia di Lyme in Europa (circa 300.000 negli Stati Uniti), ma secondo le statistiche solo l’ 1% delle punture di zecca ottiene una diagnosi di questa malattia

Esiste infine una zecca nordamericana, la Amblyomma americanum (chiamata comunemente “zecca stella solitaria” o “zecca del tacchino”), che trasmette l’ “allergia alpha-gal”, una malattia che causa una violenta reazione allergica nei primati (uomo compreso) non appena inizia la digestione intestinale di carne bovina, suina o ovina. Il consumo di pollame o pesce invece non causa alcun problema, ma l’allergia ai quadrupedi commestibili può durare per oltre 20 anni e non esiste alcuna cura per questa condizione.

Prevenzione e rimozione di una zecca
Rimozione di una zecca: Centro Antinsetti - città Metropolitana di cagliari
Rimozione di una zecca: Centro Antinsetti – città Metropolitana di cagliari

I consigli più comuni per evitare di diventare il bersaglio preferito di ogni zecca in circolazione sono questi:

  • Indossare abiti chiari per facilitare la localizzazione di potenziali zecche, con pantaloni lunghi;
  • Evitare l’erba alta o l’erba lungo i margini dei sentieri;
  • Le zecche prediligono i percorsi battuti dai loro ospiti, evitare quindi di seguire lo stesso tragitto degli animali;
  • Verificare a intervalli regolari la presenza di zecche sul corpo, specialmente sulla testa, collo, gambe e fianchi;
  • Usare repellenti a base di dietiltoluamide e permetrina.

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La rimozione di una zecca, una volta individuato il punto d’attacco, deve essere immediata. La possibilità che il parassita trasmetta qualche malattia aumenta col passare del tempo: ogni qualche ora, la zecca rigurgita una porzione del suo pasto, iniettando nel flusso sanguigno i patogeni che ospita.

  • Non utilizzare mai alcol, acetone, trielina, ammoniaca, benzina, oggetti arroventati, fiammiferi o sigarette. Il dolore causato da bruciature chimiche o dalla fiamma potrebbe forzare il rigurgito del pasto e aumentare il rischio di inoculazione di patogeni;
  • Disinfettare prima e dopo l’estrazione e seguire una profilassi antitetanica;
  • La zecca deve essere afferrata con pinze sottili in prossimità della testa: l’obiettivo è quello di evitare che anche solo parte del rostro possa rimanere all’interno dell’incisione. Con un piccolo movimento rotatorio, tentare di estrarre la zecca avendo cura di non causare compressioni del corpo o causare troppo stress al parassita;
  • Se il rostro rimane nella cute, cosa abbastanza comune, deve essere estratto con pinzette o un ago sterile;
  • Evitare di toccare la zecca a mani nude e bruciarla dopo la rimozione.

Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità
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Cocoliztli, l’epidemia che sterminò gli Aztechi https://www.vitantica.net/2018/03/14/cocoliztli-epidemia-aztechi/ https://www.vitantica.net/2018/03/14/cocoliztli-epidemia-aztechi/#respond Wed, 14 Mar 2018 02:00:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1476 Dopo l’arrivo dei primi conquistatori spagnoli nell’impero azteco del XVI secolo, il Nuovo Mondo si abituò con relativa velocità alla superiorità tecnologica e tattica degli invasori.

Cavalli, acciaio e armi da fuoco furono inizialmente accolti dai nativi con stupore e sgomento, ma ben presto si rivelarono armi estremamente utili per sfuggire all’oppressione straniera, o controproducenti se impiegate dal nemico negli habitat più estremi delle Americhe.

Cocoliztli, l’epidemia misteriosa

Furono le malattie le vere protagoniste dell’estinzione delle popolazioni americane, non i conquistadores (che certamente fecero la loro parte). Nel volgere di circa 40 anni, la popolazione azteca si ridusse del 90% passando da circa 20 milioni nel 1521 a 2 milioni di individui nel 1576.

Un’ epidemia in particolare, la cui origine è rimasta un mistero fino a qualche anno fa, sterminò tra i 5 e i 15 milioni di nativi nel 1545.

I biologi moderni hanno cercato per intere decadi di determinare il responsabile dell’epidemia che causò il collasso della popolazione azteca.

E’ ormai noto da tempo che gli Europei scaricarono nel Nuovo Mondo una pletora di agenti patogeni del tutto sconosciuti nel continente, come il vaiolo e la febbre tifoide; ma nessuna di queste malattie sembra riconducibile alla serie di epidemie che decimò gli Aztechi, una sequenza di eventi definiti cocoliztli (parola generica usata nella lingua Nahuatl per definire una pestilenza).

Vittime dell'epidemia cocoliztli raffigurate nel Codice Fiorentino di fra' Bernardino de Sahagún
Vittime dell’epidemia cocoliztli raffigurate nel Codice Fiorentino di fra’ Bernardino de Sahagún

L’analisi del genoma prelevato dai denti di 10 vittime dell’epidemia del 1545 (ricerca pubblicata sulla rivista Nature Ecology and Evolution) sembra suggerire che il responsabile della malattia sia stato il batterio Salmonella enterica, che causa i sintomi descritti nei resoconti dell’epoca: febbre, sanguinamento, dissenteria, lingua e urina scure ed eruzioni cutanee rossastre.

Ma contrariamente a quanto si possa essere indotti a supporre, il batterio Salmonella enterica non fu un dono indesiderato da parte del Vecchio Continente, ma era già presente nel Nuovo Mondo all’arrivo dei primi esploratori europei.

L’analisi genetica sulle vittime della febbre paratifoide

Kirsten Bos e Johannes Krause, ricercatori del Max Planck Institute for the Science of Human History e autori della ricerca, hanno elaborato una nuova tecnologia (chiamata MALT) che consente di confrontare il genoma danneggiato di virus e batteri con copie di genoma intatto prelevate dalle moderne colture batteriche o virali.

Dopo il prelievo del materiale genetico dai denti di 10 vittime dell’ epidemia del 1545 riportate alla luce durante gli scavi nel sito di Teposcolula-Yucundaa, i ricercatori hanno confrontato i campioni con un database di 6.247 genomi batterici, scoprendo corrispondenze con il batterio Salmonella enterica Paratyphi C.

Questo particolare sierotipo di Salmonella enterica causa sintomi simili alla febbre tifoide (il cui insieme è definito “febbre paratifoide”), sintomi molto simili a quelli descritti per la pestilenza cocoliztli.

Collasso della popolazione messicana nel XVI secolo causato dalle epidemie di cocoliztli
Collasso della popolazione messicana nel XVI secolo causato dalle epidemie di cocoliztli. Wikipedia

La serie di epidemie cocoliztli, celebre in passato sotto il nome di “grande pestilenza”, si verificò in 12 ondate consecutive tra il XVI secolo e il XIX secolo: gli eventi cocoliztli più gravi si sono verificati nel 1520, 1545, 1576, 1736 e 1813.

Cocoliztli, siccità e roditori

La comparsa periodica del batterio che causò i sintomi della febbre paratifoide nel XVI secolo sembra essere stata la conseguenza di anni di forte siccità: l’epidemia del 1576, che colpì il continente americano dal Venezuela al Canada, si scatenò al termine di un periodo di estrema aridità che colpì Nord e Sud America.

A mettere in relazione la siccità con l’emergenza ciclica del batterio Salmonella enterica sono piccoli roditori del genere Calomys e la dendrocronologia: con l’arrivo delle piogge dopo un lungo periodo di aridità (fluttuazioni climatiche che rimangono impresse negli accrescimenti annuali, o anelli, dei tronchi degli alberi), i piccoli Calomys subirono un’impennata demografica e favorirono la diffusione della febbre paratifoide che decimò i nativi americani.

Dopo la ripresa dell’economia agricola nei mesi successivi ai periodi di siccità, i roditori trovarono habitat ideali nei campi e nelle case della regione, rilasciando escrementi che probabilmente scatenarono il contagio nella popolazione umana.

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La serie di epidemie cocoliztli più mortale fu il mix di malattie iniziato nel 1519: la popolazione messicana fu inizialmente colpita da un’ epidemia (probabilmente di vaiolo, malattia che entrò in America anche grazie al contributo di Hernán Cortés) che decimò da 5 a 8 milioni di persone in un solo anno.

Dopo circa 25 anni una nuova piaga, la Salmonella enterica Paratyphi C, colpì la regione uccidendo da 5 a 15 milioni di individui: se messa a confronto con la Peste Nera europea del 1347-1351, epidemia con una mortalità pari al 50% degli infetti, la cocoliztli del 1545 provocò la dipartita dell’ 80% della popolazione messicana.

Megadrought and Megadeath in 16th Century Mexico
Gut bacteria linked to cataclysmic epidemic that wiped out 16th-century Mexico

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Speranza di vita e longevità dei nostri antenati https://www.vitantica.net/2017/11/28/speranza-di-vita-e-longevita-dei-nostri-antenati/ https://www.vitantica.net/2017/11/28/speranza-di-vita-e-longevita-dei-nostri-antenati/#respond Tue, 28 Nov 2017 02:00:04 +0000 https://www.vitantica.net/?p=860 Spesso si legge che la speranza di vita di un essere umano vissuto nell’Età della Pietra era di gran lunga inferiore a quella registrata in tempi moderni: malattie debilitanti  o mortali, predatori formidabili, prede di grossa taglia e scarsa igiene mietevano vittime ogni giorno. Per quanto sia un’affermazione vera e basata sull’analisi di reperti ossei risalenti al Paleolitico, cosa significa esattamente?

Un’ aspettativa di vita pari a 30 anni non deve portare alla conclusione che 3-5.000 anni fa, una volta raggiunti i 30 anni, gli esseri umani morissero come se avessero raggiunto una data di scadenza: chi riusciva a sopravvivere fino a 30 anni, in realtà, aveva discrete speranze di arrivare a 50-70 anni, una longevità non molto differente da quella riscontrata in alcuni Paesi moderni.

Longevità e speranza di vita

Occorre fare una distinzione tra il concetto di longevità media e quello di speranza di vita: la prima stabilisce una media sull’età massima raggiungibile da un individuo in un determinato periodo storico; la seconda invece esprime una media basata sull’incrocio dei dati relativi alla longevità e quelli che descrivono la mortalità nelle varie fasi della crescita umana.

Generalmente i dati relativi alla speranza di vita raffigurano il numero medio di anni che un neonato può sperare di sopravvivere in un determinato periodo storico. Una volta superata l’età giovanile, l’aspettativa di vita del passato poteva cambiare drasticamente e far raggiungere età non molto differenti da quelle moderne.

Aspettativa di vita nella storia

Con un certo grado di approssimazione e basandosi soltanto sui reperti ossei finora scoperti, l’aspettativa di vita in passato era la seguente:

  • Tardo Paleolitico (da 30.000 anni in poi): alla nascita circa 18 anni, fino a 15 anni era tra i 25-37 anni.
  • Neolitico: non molto differente dal Paleolitico. Probabilmente superati i 15 anni si potevano raggiungere senza troppe difficoltà i 50-60, come dimostrano alcune tribù di cacciatori-raccoglitori moderni.
  • Età del Bronzo/Ferro: l’aspettativa di vita fino a 15 anni era tra i 28 e i 36 anni. Superati i 15 anni, la speranza di vita era mediamente di 50-60 anni.
  • Grecia classica: ad Atene, l’aspettativa di vita alla nascita era di circa 20 anni, fino a 15 anni era di 37-41 anni.
  • Roma classica: prima dei 10 anni, 20-30 anni; superati i 10, circa 50-60 anni.
  • Alto Medioevo: fino a 15 anni era di circa 35-40 anni. Superata l’età adolescenziale, la speranza di vita tra la popolazione benestante era tra i 60 e gli 80 anni.
  • Tardo Medioevo inglese: raggiunti i 21 anni, l’aspettativa di vita si attestava a circa 64 anni. Prima dei 21, era di circa 30-35 anni.

La speranza di vita aumenta man mano che un individuo cresce e supera le fasi più critiche dello sviluppo e le più suscettibili a malattie, fame, guerra e calamità naturali.

Per esempio, la speranza di vita alla nascita tra la nobiltà inglese del XIII secolo era di circa 30 anni; una volta raggiunti i 21 anni, tuttavia, era abbastanza comune invecchiare fino a 65 anni, come dimostrano i resti ossei degli individui del periodo.

Christine Cave e uno dei crani da cui sono stati estratti i denti
Christine Cave e uno dei crani da cui sono stati estratti i denti

[11/01/2018] Una recente ricerca condotta da Christine Cave della Australian National University ha determinato, dopo l’analisi dei denti di oltre 300 individui vissuti in Inghilterra tra il V e il VII secolo d.C., che non era affatto raro superare i 70 anni d’età in questo periodo.

Il team di ricerca ha elaborato un metodo per calcolare l’età anagrafica di un individuo a partire dalle condizioni della dentatura, scoprendo che molti dei corpi rinvenuti nei cimiteri inglesi appartenevano a persone in età avanzata, spesso oltre i 70 anni.

La speranza di vita nel Paleolitico

Anche durante l’Età della Pietra, specialmente nel Paleolitico superiore, per quanto la vita fosse molto più dura per l’essere umano rispetto al Medioevo non era così raro raggiungere un’età avanzata.

Michael Gurven, professore di antropologia della U.C. Santa Barbara, ha studiato estensivamente lo stile di vita delle comunità di cacciatori-raccoglitori moderne scoprendo che la loro speranza di vita non è molto differente da quella di un europeo del XIX secolo: anche se le tribù semi-primitive di oggi beneficiano dell’eradicazione di alcune malattie letali che piagavano il genere umano nell’antichità, superata l’età giovanile è abbastanza comune raggiungere i 50-60 anni.

Il Paleolitico superiore sembra segnare un punto di distacco da un precedente stile di vita caratterizzato da un’aspettativa di vita e una longevità molto basse, circa 30 anni per entrambe.

Il miglioramento delle tecniche di lavorazione della pietra coincise con un aumento della longevità per via del cambiamento di stile di vita dovuto a nuovi metodi di caccia, pesca e raccolta e a strumenti avanzati che miglioravano la qualità generale dell’esistenza umana.

Dopo un’analisi dei denti provenienti da 768 fossili di ominidi, Rachel Caspari, paleoantropologa della Central Michigan University, ha rilevato un cambiamento sostanziale dell’ aspettativa di vita dei nostri antenati primitivi all’inizio del Paleolitico superiore: tra i 100.000 e i 30.000 anni fa,

Caspari ha determinato la presenza 4 adulti/anziani ogni 10 giovani adulti; a partire da 30.000 anni fa, la speranza di vita e la longevità sembrano aumentare considerevolmente, con 20 adulti/anziani ogni 10 giovani adulti. Questo aumento della speranza di vita coincide con sostanziali cambiamenti nella cultura umana: tecnologia litica estremamente raffinata, statuette e oggetti decorativi, arte rupestre e rituali funebri complessi.

Mortalità dovuta a violenza e guerre tra società di cacciatori-raccoglitori e Stati antichi e moderni.
Mortalità dovuta a violenza e guerre tra società di cacciatori-raccoglitori e Stati antichi e moderni. Fonte: EvolutionX

Cosa abbassava drasticamente la speranza di vita nel Paleolitico? Un neonato dell’ Età della Pietra era esposto ad ogni sorta di pericolo fin dalla nascita: malattie, clima, fame, sete, scontri con altri umani, predatori e parassiti erano minacce costanti alla vita di un bimbo inerme. Man mano che un bambino cresceva la situazione non migliorava molto e fino ai 10-15 anni era molto più vulnerabile di un adulto.

I parametri di igiene moderni erano del tutto inesistenti e non era raro contrarre infezioni causate delle scarse condizioni sanitarie in cui vivevano i nostri antenati. Predatori e parassiti erano costantemente alla ricerca di una preda facile o di un ospite nelle vicinanze; come oggi, inoltre, anche il clima mieteva costantemente vittime per ipotermia, colpi di calore o fenomeni naturali violenti contro cui i cacciatori-raccoglitori avevano ben poche risorse per difendersi.

Who Lives Longest?

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