arti marziali – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 “Le 12 Regole della Spada”: la scuola di scherma Ittō-ryū https://www.vitantica.net/2019/07/17/12-regole-della-spada-la-scuola-di-scherma-itto-ryu/ https://www.vitantica.net/2019/07/17/12-regole-della-spada-la-scuola-di-scherma-itto-ryu/#respond Wed, 17 Jul 2019 14:10:29 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4367 Tradotto recentemente da Eric Shahan, autore specializzato nella traduzione di testi marziali giapponesi, “12 Regole della Spada” (che potete acquistare su Amazon seguendo il link alla fine del post) è un testo che racchiude gli insegnamenti di Itō Ittōsai, uno dei più celebri samurai della storia giapponese.

Chi è Itō Ittōsai Kagehisa

Musashi Miyamoto è certamente un nome noto anche ai meno appassionati di arti marziali giapponesi. Itō Ittōsai, pur non evocando nulla nella memoria della maggior parte di noi, è in realtà considerato uno dei più grandi spadaccini di tutti i tempi.

Nato intorno al 1560 e morto dopo la metà del 1600, Ito Yagoro (il suo vero nome; Itō Ittōsai Kagehisa è un bugo, un “nome marziale”) approdò sulla spiaggia del piccolo villaggio costiero di Izu all’età di 14 anni aggrappato ad un pezzo di legno. Nessuno del villaggio sapeva chi fosse, ma ben presto il ragazzino si guadagnò la fiducia degli abitanti mettendo in fuga un gruppo di banditi.

Gli abitandi di Izu si affezionarono a lui, assecondando il suo desiderio di diventare un grande spadaccino e pagandogli un viaggio in cerca di un maestro. Una volta raggiunto il santuario di Tsurugaoka Hachimangu e aver reso omaggio agli dei, Yagoro iniziò a fare pratica con la spada sotto la guida di Kanemaki Jisai (scuola Chujo-ryu) e a porre le basi della sua futura tecnica di scherma.

Per ottenere la fama che desiderava, Yagoro intraprese il “viaggio del guerriero” (musha shugyo) e partecipò a 33 duelli senza uscirne mai sconfitto. Armato della sua katana prodotta dalla celebre scuola Ichimonji, si fece spazio tra i più grandi combattenti della storia giapponese fino a fondare la sua scuola, la Ittō-ryū.

La scuola Ittō-ryū
Tavoletta di legno del periodo Meiji che mostra due combattenti della scuola Hokushin Ittō-ryū che si affrontano al Chiba-Dōjō
Tavoletta di legno del periodo Meiji che mostra due combattenti della scuola Hokushin Ittō-ryū che si affrontano al Chiba-Dōjō

Secondo diverse leggende sulla vita di Itō Ittōsai, il primo pilastro della sua scuola di scherma fu posto mentre si trovava al santuario di Tsurugaoka Hachimangu: subendo un attacco improvviso da parte di un aggressore che voleva sconfiggerlo, Ittosai estrasse istintivamente la sua spada e colpì l’avversario senza pensare, uccidendolo con un solo colpo.

Non riuscendo a decifrare il suo gesto, Ittosai lo descrisse come Musoken, una tecnica non difensiva o offensiva, ma un gesto spontaneo azionato dall’istinto e che non prevede pensieri, una tecnica così efficace da anticipare il movimento del suo avversario.

Dopo aver acquisito esperienza sul campo, Itō Ittōsai unì ciò che aveva appreso della scuola Chujo-ryu con le tecniche elaborate durante i suoi duelli per creare il suo personale sistema di kenjutsu, Ittō-ryū (“Style a Una Spada”), con il motto itto sunawachi banto (“Una spada genera 10.000 spade”).

La scuola Ittō-ryū si è ramificata numerose volte durante il passare dei secoli, ma sia l’originale (Ono-ha Ittō-ryū) che le scuole da essa derivate continuano a sopravvivere ancora oggi. La Ono-ha Ittō-ryū, fondata dal successore diretto (Ono Jiroemon Tadaaki) di Itō Ittōsai, conta oltre 150 tecniche di spada lunga o corta e fu codificata e riassunta nell’opera “12 Regole della Spada”.

“Le 12 Regole della Spada”

Il testo non è puro manuale di scherma, ma contiene anche qualche elemento magico-superstizioso che, secondi gli autori, avrebbe aiutato uno spadaccino ad ottenere la vittoria in un duello.

In particolare sono presenti due preghiere magiche, una delle quali prevede di disegnare caratteri in sanscrito sui palmi delle mani (incluso un carattere che rappresenta un oni, un tipo di demone shintoista), unire le mani, recitare la preghiera e, al termine, ruotare le mani emettendo il suono “Un!”.

Queste preghiere sono una sorta di autoipnosi, un rituale di meditazione che consente di focalizzare i sensi prima di una battaglia per poter reagire istintivamente e fulmineamente ad ogni stimolo.

Kiriotoshi

Il kiriotoshi è un concetto fondamentale per la scuola Ono-ha Ittō-ryū e prevede che sia l’avversario a fare la prima mossa. Il praticante di Ittō-ryū attende che il nemico sviluppi il suo attacco, per poi contrattaccare lungo la linea mediana prima che l’avversario possa completare il suo attacco.

Molte delle tecniche kiriotoshi contemplano un attacco al polso o all’avambraccio per annullare l’abilità avversaria nel maneggiare la spada. Altre invece anticipano il movimento avversario senza attendere lo sviluppo di un attacco, ma al momento stesso in cui l’opponente inizia il suo movimento.

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Gli occhi del cuore

Una delle 12 regole menzionate nel testo viene definita “gli occhi del cuore”. Secondo la traduzione di Eric Shahan, la regola sostiene che “non si dovrebbe guardare l’avversario con gli occhi, ma con lo spirito…se si osserva con gli occhi si può essere distratti, ma se si guarda con la mente si rimane concentrati”.

I samurai che padroneggiano la regola degli “occhi del cuore” potevano ottenere abilità che, nel XVII secolo, venivano considerate ai limiti del soprannaturale. “In quei tempi, poteva sembrare che chiunque padroneggiasse questa tecnica avesse poteri soprannaturali” sostiene Shahan.

Ovviamente non c’è nulla di estraneo alla sfera naturale: si tratta solo di tempi di reazione fulminei frutto di un duro e meticoloso addestramento. “La spiegazione” continua Shahan, “è che si reagisce più velocemente a movimenti nel campo visivo periferico rispetto a quelli di fronte a noi. Osservando direttamente la spada di un avversario e registrando coscientemente un movimento per tentare di rispondere non fa ottenere buoni risultati in un duello”.

“Al contrario, consentire all’avversario di essere nel proprio campo visivo senza focalizzarsi su qualcosa di specifico permette alla visione periferica di reagire ad ogni movimento o attacco, più velocemente rispetto all’osservazione diretta del nemico”.

Il cuore della volpe

Questa regola avverte il samurai che la cautela eccessiva è spesso controproducente. Le volpi, come osserva l’autore, “invece di fuggire in una direzione, si fermano ogni tanto per controllare se qualcuno è dietro di loro. Durante una di queste pause, il cacciatore le circonda e le uccide. La lezione è che un eccesso di cautela porta alla fine della volpe”.

Se un samurai pensa troppo ai suoi gesti durante un combattimento, avrà incertezze ed esitazioni che potrebbero costargli la vita. “L’avversario sceglierà quel momento per attaccare” spiega Shahan. “E’ essenziale che si rimuova ogni dubbio dalla propria tecnica. Occorre addestrarsi vigorosamente per creare il vuoto dentro se stessi”.

Il pino nel vento

Secondo Itō Ittōsai, la “distanza è l’elemento più importante in un combattimento. Quando la nostra mente è focalizzata sulla distanza, non possiamo rispondere con completa libertà. Quando siamo distaccati dal concetto di distanza, la distanza è perfetta”.

“12 Regole della Spada” non descrive una procedura di addestramento per adattarsi alla distanza e al ritmo di un avversario, ma solo lo stato mentale ideale per mantenere una distanza corretta dal nemico e non essere coinvolto nel suo ritmo.

Nella regola del “pino nel vento”, l’autore ricorda al lettore che occorre non essere travolti dal ritmo avversario, ma nemmeno imporre il proprio: bisogna essere senza ritmo per poter reagire con prontezza fulminea ad ogni circostanza.

The Twelve Rules of the Sword
Samurai Text Tells Secrets of Sword-Fighters’ ‘Supernatural Powers’
Ono-ha Itto-ryu’s “kiriotoshi”: An “invincible” technique, born in the battlefield

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Glima, l’arte marziale dei vichinghi https://www.vitantica.net/2019/01/25/glima-arte-marziale-vichinghi/ https://www.vitantica.net/2019/01/25/glima-arte-marziale-vichinghi/#comments Fri, 25 Jan 2019 00:10:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3537 I Vichinghi sono divenuti celebri per le loro asce da battaglia, i loro scramasax e la ferocia nel combattimento. Meno rinomata è invece la loro arte del combattimento a mani nude, chiamata Glima.

Quando i primi coloni scandinavi, specialmente norvegesi, si insediarono in Islanda, non portarono con loro soltanto cavalli e tecniche di lavorazione del ferro, ma anche un’ antica arte marziale nordeuropea utilizzata comunemente tra i popoli norreni per il combattimento in battaglia o per risolvere dispute in modo più amichevole del duello giudiziario.

L’arte marziale di divinità e guerrieri vichinghi

La Glima è un metodo di combattimento simile al wrestling che ha radici molto antiche: la prima citazione ufficiale islandese di questa arte marziale risale al 1325 e si trova nel Jónsbók, il libro delle leggi redatto dal parlamento dell’isola a partire dall’anno 930 e che subì diverse modifiche nell’arco dei secoli successivi.

Nel libro della legge islandese la Glima viene definito “Leikfang“, una denominazione più antica di “Glima” che viene utilizzata anche in alcune saghe per descrivere un sistema di combattimento simile al wrestling che prevedeva prese, sgambetti e proiezioni.

Lars Magnar Enoksen, maestro di Glima, illustra una tecnica della variante Hryggspenna

La saga Snorra Edda (“Edda in prosa”), scritta dal celebre poeta Snorri Sturluson nel XIII secolo e sopravvissuta grazie a sette copie redatte tra il XIV e il XVII secolo, cita la Glima in un episodio che vede coinvolti nientemeno che Thor e Utgarda-Loki, un gigante (jötnar).

Una volta giunto al castello di Utgard, Thor e i suoi compagni furono sfidati dai giganti al servizio di Loki in diverse competizioni atletiche e non, come la corsa e la lotta libera. Thor fallisce in una gara di bevute e in una di forza, ma soltanto per un trucco escogitato da Loki: la bevanda del dio del tuono era il mare intero e il gatto che doveva sollevare era in realtà Jormungand, l’enorme serpente di Midgard.

Infuriato, Thor sfidò tutti i giganti presenti nella sala ad una competizione di glima, ma Loki lo fece combattere con Elli, la sua nutrice, esperta nell’arte del wrestling; Thor viene sconfitto, nonostante tutti i suoi sforzi e la sua immensa forza, grazie alla tecnica perfetta di Elli e al fatto che questo personaggio era la personificazione della vecchiaia, che sconfigge ogni guerriero.

Stile di lotta della Glima

La Glima viene tradizionalmente praticata all’esterno; in Islanda non era affatto raro combattere in qualche incontro amichevole con il solo scopo di scaldarsi durante una notte fredda trascorsa all’aperto.

Lo scopo della Glima è quello di atterrare l’avversario in modo che ginocchia, gomiti o schiena tocchino il terreno. Nella versione sportiva, la vittoria di 2 incontri su 3 determina il vincitore dello scontro; se entrambi i combattenti cadono a terra, nessuno dei due viene considerato il vincitore del round, si rialzano e riprendono a lottare.

Rispetto ad altri stili di wrestling, ci sono regole che differenziano la Glima sportiva dalle altre forme di wrestling:

  • I due combattenti devono stare in piedi ad ogni costo (regola Upprétt staða);
  • I combattenti eseguono un movimento in senso orario, simile ad un “walzer”, creando opportunità di difesa e attacco ad ogni passo (regola Stígandinn);
  • Non è consentito cadere sull’avversario o spingerlo verso il terreno con forza, atteggiamento considerato antisportivo (regola Níð). Il combattente di Glima deve vincere sull’avversario usando prese e proiezioni in modo sufficientemente tecnico da causare un “bylta“, una caduta dell’avversario senza troppe forzature.

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Tipologie di Glima

Sotto la denominazione Glima rientrano diversi stili di combattimento, alcuni più diffusi di altri.

Brokartök Glima

La versione Brokartök è la più diffusa in Islanda e in Svezia ed è uno degli sport nazionali islandesi. Predilige la tecnica sulla forza e prevede che entrambi i combattenti indossino speciali cinture di cuoio attorno alla vita e alle cosce, cinture che consentono all’avversario di avere una presa salda sull’opponente.

Il Brokartök si basa su otto tecniche principali, chiamate brögð o bragd, che formano la base per gli oltre 50 modi di atterrare l’avversario. Il Brokartök si basa su un codice d’onore chiamato drengskapur, codice che richiede sportività, rispetto per l’avversario e attenzione a non causare lesioni.

Hryggspenna Glima

Più simile ad altre forme di wrestling etnico non scandinave, il Hryggspenna è considerato più una prova di forza che di tecnica. Lo scopo è quello di afferrare la parte superiore del corpo e far cadere l’avversario usando le braccia e le gambe: se qualunque parte del corpo, ad eccezione dei piedi, tocca il terreno, l’avversario perde il round.

Lausatök
Lars Magnar Enoksen, maestro di Glima e presidente della Viking Glima Federation, illustra una tecnica di Lausatök
Lars Magnar Enoksen, maestro di Glima e presidente della Viking Glima Federation, illustra una tecnica di Lausatök

Il Lausatök è la forma più libera di wrestling norreno ed è stato proibito in Islanda per almeno un secolo a causa del suo stile aggressivo e la sua potenziale pericolosità.

Il Lausatök ha due forme principali: una è stata ideata per la difesa personale, l’altra per la competizione. I combattenti possono utilizzare qualunque tecnica conosciuta e la vittoria va al wrestler che rimane in piedi: nel caso i due contendenti cadessero insieme a terra, il combattimento può proseguire per impedire all’avversario di rialzarsi.

Il Lausatök per autodifesa, la forma di Glima più popolare in Norvegia, prevede almeno 27 tecniche proibite nel Glima islandese; le tecniche più pericolose vengono praticate cercando di limitare i danni al proprio partner d’allenamento.

The Gripping History of Glima
What does a mythological text in Snorra Edda tell us about the ritual ceremonies that surrounded glíma fights in ancient times?

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Fiore dei Liberi e il Flos duellatorum https://www.vitantica.net/2019/01/18/fiore-dei-liberi-flos-duellatorum/ https://www.vitantica.net/2019/01/18/fiore-dei-liberi-flos-duellatorum/#respond Fri, 18 Jan 2019 00:10:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3417 Fiore dei Liberi, conosciuto anche come Fiore de’ Liberi da Premariacco, fu un maestro di schema italiano vissuto tra il XIV e l’inizio del XV secolo divenuto celebre per aver scritto il più antico manuale di scherma europeo sopravvissuto fino ad oggi, il Flos duellatorum.

Per chi non conosce la storia della scherma medievale, Fiore dei Liberi è probabilmente un nome che non suggerisce alcuna informazione degna di nota; per chi invece coltiva la passione delle arti marziali europee del Medioevo, Fiore dei Liberi è un nome leggendario, come altrettanto leggendario è il suo manuale di scherma “Fiori della Battaglia”.

Chi fu Fiore dei Liberi

Fiore dei Liberi nacque a Premariacco, vicino a Cividale del Friuli. Diversi storici hanno suggerito che lui e suo padre Benedetto fossero discendenti di Cristallo dei Liberi, a cui fu garantita l’ “immediatezza imperiale” nell’anno 1110 dall’imperatore Enrico IV, un privilegio consentito ai “nobili liberi” (edelfrei) che li liberava dal vincolo di servigio esercitato dalle autorità locali.

Fiore scrive di aver avuto fin da fanciullo una spiccata predisposizione verso le arti marziali. Il suo addestramento, stando alle sue parole, sembra essere iniziato in tenera età: la zona di Cividale ospitava celebri Magistri d’Arme registrati, come Magister Bitinellus scarmitor de Civitate, Magistro Domenico e Franceschino del fu Geto di Rodolfo da Lucca. Fiore cita fra i suoi maestri Giovanni detto Suveno, un allievo di Nicolò da Metz.

Fiore dei Liberi da Premariacco e il Flos duellatorum.

Dopo aver terminato il suo addestramento sotto “innumerevoli” maestri d’armi, sembra che Fiore si dedicò a combattere numerosissimi falsi esperti di scherma, da lui giudicati non degni del titolo di maestri e dalle abilità inferiori a quelle possedute da un qualunque dei suoi studenti.

Fiore racconta che in ben cinque occasioni fu costretto a combattere in duelli per difendere il proprio onore contro maestri a cui aveva rifiutato di impartire lezioni di scherma. I duelli furono combattuti con spade lunghe, senza armatura ad eccezione di giubbe imbottite e protezioni in pelle per le mani; dalle parole di Fiore, vinse tutti i duelli senza riportare neanche un graffio.

Fiore dei Liberi fornì una lista dei famosi condottieri che addestrò: Piero Paolo del Verde (Peter von Grünen), Niccolo Unricilino (Nikolo von Urslingen), Galeazzo Cattaneo dei Grumelli (Galeazzo Gonzaga da Mantova), Lancillotto Beccaria di Pavia, Giovannino da Baggio di Milano, e Azzone di Castelbarco.

Fiore dei Liberi sembra essere stato incaricato nel 1383-1384 della manutenzione dei pezzi d’artiglieria che difendevano la città di Udine, incluse balestre e catapulte. Lavorò anche come magistrato, come ufficiale di pace e come agente del gran consiglio, ma le tracce storiche relative a questi suoi ruoli sono scarse e sappiamo tutto questo principalmente dalle sue parole.

Addestratore di duellanti
Una delle pagine del Flos duellatorum
Una delle pagine del Flos duellatorum
Il duello tra Galeazzo e Boucicaut

Nel 1395 Fiore dei Liberi si trovava probabilmente a Padova, città in cui addestrava uomini in preparazione di duelli. A Padova addestrò Galeazzo Gonzaga per un duello contro il francese Jean II Le Maingre (detto Boucicaut): la sfida era partita da Galeazzo dopo che il francese mise in discussione, alla corte di Francia, il coraggio degli Italiani; il combattimento si svolse in città il 15 agosto dello stesso anno.

Il duello sarebbe dovuto iniziare con uno scontro di lancia a cavallo, ma Boucicaut smontò dalla sua cavalcatura prima ancora del duello, attaccando il suo avversario prima che potesse salire in sella. I signori chiamati come testimoni (Francesco Novello da Carrara e Francesco I Gonzaga) fermarono il francese mettendo fine al duello.

Il duello tra Giovannino da Baggio e Sirano

Nel 1399 Fiore si trovava a Pavia per completare l’addestramento di Giovannino da Baggio, in attesa di partecipare ad un duello con uno scudiero tedesco di nome Sirano.

Il duello prevedeva tre scontri a cavallo con la lancia seguiti da nove round a terra con ascia d’arme, stocco e pugnale; i passaggi a cavallo furono cinque, e durante l’ultimo passaggio Giovannino impalò il cavallo del suo avversario, perdendo la lancia. Una volta smontati, i contendenti si scontrarono per nove volte come previsto ma nessuno dei due uscì vincitore o sconfitto.

Flos Duellatorum in armis, sine armis, equester et pedester
Una delle pagine del Flos duellatorum
Una delle pagine del Flos duellatorum

Se vuoi, amico, la pratica delle armi
Conoscere, porta con te tutto ciò che il libro insegna.
Sii audace nell’ assalto e l’animo non si mostri vecchio:
Nessun timore vi sia nella mente; sta’ in guardia, puoi farcela.
D’esempio di ciò sia la donna; pavida
E presa dal panico, mai fronteggerebbe il nudo ferro.
Così l’uomo pauroso vale meno di una femmina;
Se mancasse l’audacia d’animo, mancherebbe tutto;
L’Audacia, tale virtù, in particolare, trova luogo nell’ arte.

Le versioni del Fior di Battaglia

Nei primi anni del XV secolo Fiore iniziò a comporre il trattato di scherma “Fior di Battaglia” (Flos duellatorum). La versione più breve del testo è datata al 1409 e suggerirebbe un lavoro di stesura durato almeno sei mesi, come indicherebbero altre due versioni più lunghe composte qualche tempo prima.

Attualmente esistono tre copie manoscritte dell’opera, ma si è persa traccia di almeno altre due copie. Due manoscritti, riproduzioni dei due manoscritti in possesso della famiglia Estense andati perduti nel XVI secolo, sono dedicati a Niccolò III d’Este e sono state redatti in base a sue indicazioni.

In realtà, il Flos duellatorum sebra non essere un unico manuale e si presente sotto due forme molto diverse, anche se i contenuti sono fondamentalmente gli stessi: la prima è una redazione in prosa, che appare nei manoscritti custoditi nei musei Getty e Morgan; la seconda è in forma poetica e l’unica copia in nostro possesso si trova nella collezione Pisani-Dossi.

La stesura poetica sembra essere stata destinata alla libreria di Niccolò III, mentre quella in prosa, meno stilisticamente curata e molto più tecnica, sembra più appropriata all’insegnamento nelle scuole di scherma. Quest’ultima versione potrebbe essere stata realizzata da un allievo di Fiore sulla base dei manoscritti del maestro.

Una delle pagine del Flos duellatorum
Una delle pagine del Flos duellatorum
Il contenuto del Flos duellatorum

L’opera è divisa in sezioni che vanno dalla lotta a mani nude fino all’uso della lancia. Nel suo manuale, Fiore fornisce istruzioni sul “wrestling” (abraçare), sull’uso di daga, spada a una mano e spada a due mani, consigli sul combattimento con la spada indossando un’armatura, istruzioni sulle asce d’armi, sulla lancia (a piedi o a cavallo), sul bastoncello (un piccolo bastone simile ad un randello) e nozioni sul combattimento tra due duellanti che impugnano armi differenti.

Ogni sezione inizia con un gruppo di Maestri che dimostrano un tipo di guardia per l’arma che impugnano. Le istruzione sono quindi seguite da un maestro chiamato “Remedio“, che illustra come difendersi da alcuni attacchi di base, e da Scholari (studenti) che dimostrano variazioni delle tecniche difensive.

A seguire appare un maestro chiamato “Contrario“, che dimostra come controbattere alle mosse del maestro Rimedio o degli Scholari. In alcuni casi appare anche un quarto tipo di maestro, il Contra-Contrario, che dimostra come difendersi da Contrario.

Le doti di uno schermidore

Nel Flos duellatorum, Fiore dei Liberi espone infine le virtù uno schermidore perfetto dovrebbe possedere facendo analogie con gli animali, in modo non molto differente da quanto avvenne nelle arti marziali orientali:

Lince (Prudenza)
Meio de mi’louo ceruino non uede creatura
E aquello meto sempre a sesto e mesura.

L’immagine della lince che tiene tra la zampa un compasso rappresenta l’abilità di valutare di continuo l’azione del combattimento e fare aggiustamenti per contrastare l’azione dell’avversario, duellando con prudenza e leggendo il movimento dell’avversario per applicare la più corretta strategia difensiva o offensiva.

Tigre (Velocità)
Yo tigro tanto son presto a corer e uoltare
Che la sagita del cello non me po auancare.

La tigre regge una freccia nella zampa e rappresenta la velocità accoppiata alla forza. Fiore ritiene fondamentale possedere forza accoppiata a grande rapidità, e descrive due tipi di velocità: una fisica, per eseguire fulmineamente una tecnica di combattimento, e una mentale, per interpretare in tempo zero il proprio avversario.

Leone (Audacia)
Piu de mi lione non porta cor ardito
Pero de bataia faço a zaschaduno inuito

Il leone rappresenta l’audacia ed è in costante lotta con la lince: coraggio e misura devono andare di pari passo in un combattente esperto ed equilibrato. Il leone tiene nella zampa un cuore, che simboleggia l’intensità che il combattente deve dimostrare per risultare vincente.

Elefante (La Forza)
Ellefant son e uno castello ho per cargho
E non me inçenochio ni perdo uargho.

L’elefante è rappresentato con una torre sul dorso e rappresenta la forza, un’abilità primaria su cui fondare destrezza e tecnica. La forza è anche uno dei sette requisiti primari elencati nella sezione “Abrazare” del Flos duellatorum, dedicata al combattimento a mani nude.

Fiore dei Liberi
Flos Duellatorum in armis, sine armis, equester et pedester: Riproduzione anastatica e trascrizione del Codice Pisani-Dossi

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Khutulun, la principessa lottatrice https://www.vitantica.net/2018/10/22/khutulun-principessa-lottatrice/ https://www.vitantica.net/2018/10/22/khutulun-principessa-lottatrice/#respond Mon, 22 Oct 2018 02:00:12 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2332 L’impero mongolo del XIII secolo non è mai stato un tipico esempio di emancipazione femminile: struttura fortemente patriarcale e donne che, fin dalla tenera età, sfacchinavano come muli per tutta la giornata senza godere di tutto il rispetto a loro dovuto.

In questo clima caratterizzato da uomini dominanti e forgiati dal temibile clima asiatico emerse una figura femminile poco conosciuta in Occidente, ma che si è scavata una nicchia nella storia per le sue capacità marziali: Khutulun.

Khutulun, figlia di Kaidu

Khutulun (“Luce di luna” o “Luna splendente”), nota anche come Aigiarne, Aiyurug, Khotol Tsagaan o Ay Yaruq, fu l’unica figlia del Khan Kaidu, cugino di Kublai Khan e padre di 14 figli maschi.

La sua storia raggiunge i confini d’Europa grazie a Marco Polo e al grande storico e medico persiano Rashid al-Din ma fino ad oggi non ha goduto del rispetto che meriterebbe se non per un’apparizione nello show televisivo “Marco Polo”.

Khutulun nacque intorno al 1260, circa vent’anni prima che suo padre diventasse il più potente sovrano mongolo (khan) dell’Asia Centrale, con domini che si estendevano dalla Mongolia all’India. Secondo Marco Polo, Khutulun aveva seguito il padre in battaglia innumerevoli volte specialmente quando la diatriba tra Kublai (più aperto alle tradizioni cinesi) e Kaidu (seguace delle antiche vie mongole) si fece più intensa.

Educazione da figlio maschio

Khutulun fu cresciuta seguendo l’educazione ricevuta da ogni altro ragazzo della sua età: cavalli, tiro con l’arco, saccheggi e wrestling. Come ogni altro membro maschile della sua comunità si dedicava ad attività solitamente riservate agli uomini, come affilare spade, mungere yak, bere sangue e rispondere con la violenza a qualunque insulto ricevuto.

Khutulun si dimostrò abile in ogni disciplina o mestiere in cui si cimentò, ma il wrestling fu l’attività che la rese celebre in tutta la Mongolia. Secondo la tradizione, nessun uomo o donna riuscì mai a batterla nella lotta libera mongola, uno sport al tempo estremamente violento e che prevedeva l’uso di pugni, calci e altri colpi diretti.

Giunta in età da matrimonio, la madre tentò innumerevoli volte di convincerla a trovare un buon partito, un’ottima dote e a sistemarsi definitivamente come una brava donna mongola. Khutulun tuttavia era innamorata della guerra e del combattimento; la sua risposta all’insistenza della madre fu: “Va bene, mi sposerò, ma solo con un uomo che riuscirà a battermi in uno scontro di wrestling”.

Khutulun rappresentava una sposa estremamente appetibile per molti giovani cavalieri mongoli: era figlia di uno degli uomini più potenti dell’Asia, pare fosse molto bella e certamente era ricca oltre l’immaginazione della maggior parte dei maschi adulti mongoli dell’epoca. Una folta schiera di pretendenti al ruolo di marito fece visita alla principessa senza tuttavia ottenere la sua mano: uno per uno furono messi al tappeto dalla ragazza.

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La sfida di Khutulun

Khutulun, colma di fiducia nelle sue abilità da combattente, si spinse addirittura a proclamare una competizione pubblica, accettando la sfida di ogni uomo del suo regno a patto che, se fosse stato sconfitto, avrebbe sborsato ben 10 cavalli (o 100, a seconda delle fonti) come risarcimento. Secondo Marco Polo, al tempo del suo incontro con Khutulun la ragazza possedeva già 10.000 cavalli e non era ancora stata sconfitta da nessun guerriero, mongolo o straniero.

Pare che Khutulun finì comunque per sposare qualcuno, probabilmente per mettere fine alle dicerie su una presunta storia d’amore incestuosa con il padre. Le fonti storiche non consentono di avere un quadro chiaro sull’identità del fortunato, ma secondo Rashid al-Din Khutulun la principessa sposò Mahmud Ghazan, settimo reggente di una regione dell’odierno Iran.

Secondo una versione forse più romanzata, Khutulun sposò un soldato scelto inviato da Kublai Khan ad uccidere il padre Kaidu. Abtakul, questo era il suo nome, fu catturato e condannato a morte per decapitazione; la madre del sicario supplicò per giorni interi di salvare il figlio e giustiziare lei al suo posto, ma Abtakul si fece avanti annunciando che non avrebbe mai permesso che la madre venisse decapitata al suo posto e che avrebbe accettato la condanna a morte come un vero uomo mongolo. Impressionato, il Khan Kaidu decise di annullare l’esecuzione e concedere ad Abtakul la libertà.

Scelta per la successione

Poco prima della morte di padre, avvenuta nel 1301, Khutulun divenne la prima scelta per la successione al trono di Kaidu, ma l’opposizione dei 14 fratelli e il suo disinteresse per le ragioni di stato la portarono a declinare l’offerta e a stipulare un accordo di successione con uno dei suoi fratelli: a lui il trono e a lei la posizione di generale.

Dopo aver trascorso 5 anni come generale del suo clan, Khutulun morì all’età di 45-46 anni probabilmente in battaglia o assassinata da un sicario di un clan rivale (o della sua stessa famiglia).

Nel corso dei secoli successivi si perse memoria della sua storia ma nel 1710 lo scrittore francese Francois Petis de La Croix compose una storia vagamente basata sul suo personaggio dal titolo “Turandot“, ripresa e modificata successivamente nell’opera italiana di Giacomo Puccini che porta lo stesso nome.

La memoria di Khutulun è ancora viva in Mongolia: la principessa è un simbolo di forza e di caparbietà. La veste tradizionale utilizzata nel wrestling mongolo è un omaggio alla sua grandezza e le danze di vittoria eseguite dopo un combattimento onorano la memoria della più grande lottatrice della storia mongola.

Khutulun
The Wrestler Princess

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Bökh, la lotta libera mongola https://www.vitantica.net/2018/10/20/bokh-la-lotta-libera-mongola/ https://www.vitantica.net/2018/10/20/bokh-la-lotta-libera-mongola/#respond Sat, 20 Oct 2018 02:00:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2339 La lotta libera mongola, nota come Bökh, è lo stile tradizionale di lotta della Mongolia. Bökh significa “resistenza, “durabilità”, e costituisce una delle “Tre Abilità Maschili” della tradizione mongola, insieme all’ arcieria e all’equitazione.

Gengis Khan considerava il Bökh la disciplina ideale per mantenersi in forma e pronti al combattimento, necessità di ogni mongolo nei tempi delle grandi conquiste. Ma il Bökh ha origini molto più antiche: pitture rupestri nella provincia di Bayankhongor e risalenti a circa 9.000 anni fa raffigurano due uomini nudi intenti a lottare e circondati da una folla di spettatori.

Il Bökh ebbe origine come addestramento militare, una disciplina marziale che aveva come obiettivo il rafforzamento muscolare e lo sviluppo della resistenza fisica. Nel corso dei secoli, il Bökh divenne un fattore determinante nella scelta di candidati per posizioni di potere e non fu raro che lottatori dotati di capacità fuori dal comune ottenessero incarichi di rilevanza.

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L’obiettivo del Bökh è quello di costringere l’avversario a toccare il terreno con il torso, il ginocchio o il gomito. In una versione di questo stile di lotta, ogni parte del corpo (ad eccezione dei piedi) che tocca il terreno determina la sconfitta.

Non esistono classi di peso, limiti di età o di tempo: un match dura fino a quando uno dei due combattenti si dichiara sconfitto o cade a terra. Non è insolito, specialmente nei match di livello più alto o tra contendenti di pari abilità, che il combattimento possa durare una o due ore.

Sono ammesse prese, sollevamenti e sgambetti, anche se una versione del Bökh praticata nelle regioni più interne della Mongolia non prevede l’uso delle mani per afferrare le gambe dell’avversario. Altre versioni prevedono invece calci alle gambe, e in passato erano ammessi anche colpi diretti al corpo.

Molti lottatori sono seguiti da uno zasuul: aiuta il lottatore prima e dopo il match e fornisce il giusto incoraggiamento durante il combattimento. Lo zasuul non è propriamente un allenatore, ma spesso è un amico o un parente anziano più o meno esperto nel Bökh.

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In preparazione del festival estivo Naadam, molti lottatori si trasferiscono in campi d’addestramento in località remote. I lottatori di rango più elevato creano accampamenti in cui combattenti di livello inferiore si recano a perfezionare la loro abilità nel wrestling, osservando e imparando dai più esperti.

Il Bökh ha una sua etichetta e prevede danze prima e dopo il combattimento. Ogni regione ha il suo stile di danza: alcuni imitano falchi o fenici intente a spiccare il volo, altri eseguono movenze ispirate a leoni e tigri.

Ancora oggi il Bökh focalizza ogni anno l’attenzione di tutta la Mongolia: nei 2011 la competizione nazionale di wrestling ha contato ben 6002 contendenti al titolo, diventando la più grande competizione di wrestling del mondo ed entrando nel Guinness dei Primati.

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Timeline e storia delle arti marziali fino alla fondazione del Tempio di Shaolin https://www.vitantica.net/2018/06/16/timeline-arti-marziali-fondazione-tempio-shaolin/ https://www.vitantica.net/2018/06/16/timeline-arti-marziali-fondazione-tempio-shaolin/#respond Sat, 16 Jun 2018 02:00:43 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1778 Molte persone tendono a considerare il Tempio di Shaolin come l’origine storica del concetto stesso di “arte marziale”. In realtà, la storia delle arti marziali è ben più antica e precede di millenni la nascita del tempio cinese nel V secolo d.C.

In origine, Shaolin non era un luogo dedicato alla formazione di monaci combattenti ma un monastero di traduttori di testi buddisti dall’indiano al cinese. Nelle prime decadi del VI secolo fece la sua apparizione il monaco indiano Bodhidarma, il primo patriarca del Buddismo Chan in Cina e colui che istituì nel tempio il regime di allenamento fisico che sfociò nella nascita dello Shaolin Wushu, una delle più vaste e famose discipline marziali dell’intero panorama orientale.

La stele del 728 d.C. custodita tra le mura del monastero testimonia i primi due combattimenti dei monaci Shaolin, un momento storico per le arti marziali orientali: il primo, avvenuto nel 610 d.C., era volto alla difesa del monastero dall’attacco di banditi; il secondo, verificatosi nel 621 d.C., vide la partecipazione dei monaci alla Battaglia di Hulao per sconfiggere le truppe del generale Wang Shichong, colpevole di aver deposto l’imperatore Yang Tong.

Ben prima dell’avvento dei monaci combattenti cinesi molte civiltà del pianeta il mondo avevano sviluppato, in forma più o meno codificata o scritta, svariate forme di discipline marziali. In questo post ripercorro la storia delle arti marziali elencando alcune tappe fondamentali che portarono alla creazione delle tecniche di combattimento antiche e moderne.

 

8000 a.C.: Coreeda, il wrestling autraliano

Il primo torneo di Coreeda, forma di wrestling degli aborigeni australiani, si tiene circa 10.000 anni fa presso Cobar e viene immortalato con pitture rupestri ai piedi del Monte Greenfell. Secondo la tradizione aborigena, il Coreeda sarebbe stato inventato da un uomo-lucertola chiamato Beereun, che osservò lo stile di combattimento a mani nude del canguro rosso su consiglio di un enorme serpente parlante.

7000 a.C.: wrestling mongolo

Alcune pitture rupestri scoperte nella provincia di Bayankhongor in Mongolia mostrano due uomini nudi intenti a praticare una forma di wrestling e circondati dalla folla.

III millennio a.C.: pugilato sumero

Alcuni rilievi sumeri mostrano scene di lotta a mani nude, uno stile di combattimento simile al pugilato. Circa un millennio dopo queste raffigurazioni si ripetono tra gli Assiri, i Babilonesi e gli Ittiti. L’ origine storica della boxe è sicuramente più antica dei Sumeri, ma non abbiamo reperti in grado di definire una data precisa per la sua nascita.

2697 a.C.: Jiao Di

Compare il termine “jiao di” nella letteratura cinese, un termine che si riferisce ad un’antica arte marziale simile al wrestling utilizzata comunemente tra i soldati di Chiyou, acerrimo nemico dell’ “imperatore giallo” (Huang Di), e successivamente adottata da tutte le truppe cinesi dell’epoca. Intorno all’anno 1000 a.C. nel Jiao Di furono incluse tecniche come calci, pugni, blocchi, leve articolari e attacchi ai punti di pressione, oltre all’esercizio con l’arco e allo studio della strategia militare.

Scene di lotta nella tomba di Beni Hasan
Scene di lotta nel cimitero di Beni Hasan
XX secolo a.C.: wrestling egizio

Nell’antico cimitero egizio di Beni Hasan, risalente all’Età del Bronzo, vengono raffigurate tecniche di wrestling, alcune molto simili alle tecniche moderne. Si tratta della prima rappresentazione artistica conosciuta di un’arte marziale organizzata e codificata.

II millennio a.C.: pankration

Diverse fonti suggerirebbero che il pankration, l’arte marziale greca divenuta poi sport da combattimento durante le prime olimpiadi, era già in uso in Grecia circa 4.000 anni fa.

1700 – 1100 a.C.: Malla-yuddha

All’interno dei Veda indiani sono contenuti numerosi riferimenti ad arti marziali, sia a mani nude che a mano armata. Anche se il wrestling in India sembra avere origini risalenti ad almeno 5.000 anni fa, il primo resoconto scritto che riguarda il Malla-yuddha (tecniche di wrestling tradizionali usate in India, Pakistan, Nepal e Sri Lanka) appare nel 1700 a.C.

1500 – 1300 a.c.: boxe egizia

Alcuni rilievi egizi a Tebe mostrano pugili circondati da spettatori, suggerendo che lo sport fosse molto popolare al tempo. Nello stesso periodo appare in un affresco cretese la prima testimonianza di pugili protetti da guanti.

Spada di Goujian risalente al Periodo delle primavere e degli autunni
VIII secolo a.C.: combattimento cinese a mano armata

Durante il Periodo delle primavere e degli autunni (722 a.C. – 481 a.C.) numerose opere letterarie descrivono dettagliatamente elaborate scene di combattimento con armi o a mani nude, lasciando intuire l’esistenza di sofisticati sistemi di combattimento.

VIII-VII secolo a.C.: Olimpiadi e sport da combattimento

Nel 776 a.C. si tengono le prime Olimpiadi greche. Tra gli sport più apprezzati c’erano il pugilato (sport olimpico dal 688 a.C.), il wrestling (dal 708 a.C.) e il pankration (introdotto nel 648 a.C.), uno sport che comportava ben poche regole e che utilizzava un mix di tecniche di pugilato, wrestling, calci e strangolamenti per sottomettere l’avversario.

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VI secolo a.C.: Sastravidya

Nascono i primi 10 stili di Sastravidya, l’insieme di tecniche marziali indiane che prevede l’utilizzo di armi bianche.

V secolo a.C.: arti marziali “dure” e “morbide”

Verso il termine del Periodo delle primavere e degli autunni nascono diverse teorie di combattimento a mani nude, tra cui quella che include tecniche “dure” e “morbide”.

V secolo a.C. – IV secolo d.C.: combattimento romano

Durante la Roma repubblicana e imperiale vengono ideate numerose tecniche di combattimento utili in ambito militare. Furono scritti diversi manuali d’utilizzo del gladius e di altre armi più o meno comuni, ma il combattimento uno contro uno non era incoraggiato durante l’addestramento militare, dando priorità alle tecniche e tattiche di gruppo che resero le legioni romani l’esercito più organizzato e temuto del suo tempo.

Arti marziali gladiatorie
264 a.C.: giochi gladiatori

Si tengono i primi giochi gladiatori a Roma, nel Foro Boario, in onore della morte di Marco Giunio Bruto Pera. Nel corso dei secoli successivi i gladiatori perfezioneranno e codificheranno svariate tecniche di lotta nelle arene per incontrare i gusti del pubblico, che imparò ad apprezzare sempre più il combattimento tra guerrieri esperti e dagli stili complementari o coreografici.

III – II secolo a.C.: Kalarippayattu

Nella letteratura indiana fa la sua prima apparizione il Kalarippayattu, una delle più antiche arti marziali orientali conosciute che conta ancora oggi decine di migliaia di praticanti. Il Kalarippayattu prevede il combattimento a mani nude o con armi tradizionali ed entrò a far parte dell’addestramento militare dei soldati indiani durante il periodo Sangam (dal III secolo a.C. al III secolo d.C.).

23 a.C.: Sumo

Secondo alcuni documenti giapponesi redatti nell’ VIII secolo d.C., il primo incontro di sumo ebbe luogo nel 23 a.C. su richiesta dell’imperatore. Le regole del match prevedevano che il combattimento continuasse fino al ferimento grave di uno dei contendenti.

II secolo d.C.: wrestling greco

Il frammento di papiro greco “Papyrus Oxyrhynchus III 466“, risalente al II secolo d.C., contiene tecniche e istruzioni sul wrestling greco e sulle prese più comuni. Attualmente rappresenta il più antico manuale europeo di arti marziali.

Bökh, il wrestling mongolo
Bökh, il wrestling mongolo
III secolo d.C.: Bökh mongolo

Il Bökh, la forma di wrestling tradizionale mongolo, entrò a far parte dell’addestramento militare di ogni soldato sotto l’impero Xiongnu (206 a.C. – 220 d.C.). Inizialmente apprezzato come sport in grado di garantire forza, resistenza e agilità ad ogni soldato, il bökh divenne successivamente uno sport tradizionale durante festival come il Naadam.

III-IV secolo d.C.: Bokator

Secondo la tradizione orale cambogiana, gli eserciti Khmer di 1700 anni fa utilizzavano un’arte marziale chiamata bokator. Questo stile di combattimento, sopravvissuto fino ad oggi, prevede l’uso di calci, ginocchia, gomiti, sottomissioni e combattimento a terra.

History of martial arts
Martial arts timeline
Shaolin Monastery

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Bushido e samurai, mito e realtà https://www.vitantica.net/2017/12/06/bushido-samurai-mito-realta/ https://www.vitantica.net/2017/12/06/bushido-samurai-mito-realta/#comments Wed, 06 Dec 2017 12:00:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=973 Onestà e giustizia, coraggio, compassione, gentile cortesia, completa sincerità, onore, dovere e lealtà. Sette precetti fondamentali del Bushido (“la via del guerriero”) giapponese codificati in forma scritta circa 3 secoli fa e che sono stati raramente rispettati o messi in pratica nella quotidianità dei samurai, contrariamente a quanto la letteratura di genere presente e passata voglia farci credere.

La prima cosa da sottolineare è che il Bushido “etico” che conosciamo oggi è un concetto coniato in epoca relativamente recente e in un contesto del tutto estraneo alla guerra. La parola “bushido” è stata utilizzata per la prima volta nel XVII secolo ed divenne di uso comune solo nel 1899 grazie allo scrittore Nitobe Inazo, uno dei principali responsabili dell’immagine poetica e romanzata dei samurai che abbiamo oggi.

Lo shogunato Tokugawa, che contribuì ad una pace interna durata secoli (1603-1868), favorì la nascita di un codice etico di comportamento basato sulle antiche rappresentazioni degli ideali samurai per tenere a bada una schiera infinita di soldati rimasti senza una guerra da combattere (tra il 7% e il 10% della popolazione giapponese dell’epoca).

Anche se esistono alcuni esempi di condotta-modello per un samurai fin da prima del periodo Sengoku (XV secolo), si trattava principalmente di principi legati al rispetto e all’obbedienza assoluti verso i propri superiori; fu solo sotto i Tokugawa che si diffuse su larga scala l’idea di “guerriero gentile”, colto e rispettoso delle tradizioni marziali del passato.

Le prime versioni di un codice di condotta samurai sono frutto di storie basate su avvenimenti reali ma raccontate dagli occhi dei vincitori, come lo Heike Monogatari (1180 circa) che descrive l’epico scontro tra due clan rivali, i Minamoto e i Taira. I guerrieri di queste “cronache” furono altamente idealizzati e descritti come persone non solo militarmente potenti ma anche colte e dedite alle arti, personaggi-modello riutilizzati qualche secolo dopo per la codifica del Bushido nella sua versione moderna.

Paravento che raffigura una scena dell' Heike Monogatari
Paravento che raffigura una scena dell’ Heike Monogatari

La realtà quotidiana del samurai di basso rango era però ben diversa dalla linea di condotta di un guerriero colto e onorevole. In un periodo di pace prolungata e senza la possibilità di partecipare a scontri armati, i samurai senza padrone, senza un titolo nobiliare o senza discreti possedimenti di terra vagavano per il Giappone alla ricerca di un ingaggio come guardie del corpo o assassini, si organizzavano in bande di malviventi o semplicemente trascorrevano le loro giornate ad ingozzarsi di alcolici coi pochi soldi rimasti.

Di seguito riporto qualche aspetti e comportamenti meno noti dei samurai, alcuni in netto contrasto con il Bushido di epoca Tokugawa; altri invece sottolineano quanto la quotidianità di questi guerrieri fosse molto meno poetica e filosofica di quanto la letteratura e il cinema ci abbiano descritto finora.

I samurai erano essenzialmente pedofili

Nell’immaginario collettivo occidentale riteniamo che, nel momento del “riposo del guerriero”, un samurai si dedicasse ad ammirare la cerimonia del tè o a meditare nella sua stanza affilando la lama della spada e pensando a quanto fosse onorevole morire in battaglia. In realtà, la maggior parte dei samurai ammazzava il tempo in compagnia di ragazzini dodicenni.

Questo tipo di relazione era noto come shudo (“la via del giovane”) e fu in uso per molto tempo, fino al XIX secolo. Lo shudo deriva da una pratica del tutto identica in voga fin dal IX secolo tra monaci e accoliti, chiamata chigo.

Lo shudo e il chigo erano visti come una forma di apprendistato per i giovani, ufficialmente riconosciuto e socialmente accettato, oltre che incoraggiato, tant’è che prima di una battaglia era considerato preferibile fare sesso con un ragazzino o un compagno d’armi che con una donna.

Samurai e apprendista in un dipinto di Miyagawa Issho
Samurai e apprendista, Miyagawa Issho

I ragazzini in età wakashu (tra i 5-10 anni e i 18-20 anni) in pieno addestramento militare venivano affiancati da adulti esperti che potevano prendere come amante il loro protetto (con il consenso del ragazzo) fino al raggiungimento dell’età adulta.

Questo genere di rapporto veniva formalizzato come “contratto di fratellanza” ed era una relazione di tipo esclusivo in cui i due partecipanti erano tenuti al rispetto e alla fedeltà assoluta. Sia il samurai esperto che il giovane apprendista traevano onore dalla relazione e si veniva a creare un profondo legame che spesso proseguiva, dopo la fine del periodo wakashu, sotto forma di rapporto d’amicizia fraterna.

 

La fedeltà dei samurai è stata sopravvalutata

Il samurai è sempre stato visto come un guerriero dotato di fedeltà e lealtà incrollabili. Davanti al rischio di essere catturato, il Bushido ordinava di essere uccisi dal nemico o togliersi la vita piuttosto che coprire di vergogna il proprio nome e quello del proprio signore feudale.

Nella vita reale, la maggior parte dei samurai cambiava semplicemente fronte dello scontro nel caso si fosse dovuto arrendere al nemico, come è successo spesso e volentieri sui campi di battaglia di tutto il mondo nel corso della storia antica e moderna.

Durante il periodo Sengoku, uno dei più turbolenti dell’intera storia del Giappone, i potentati locali si scontravano tra loro di continuo ed era molto frequente che un samurai sconfitto cambiasse schieramento per allearsi con il vincente di turno.

I tradimenti erano all’ordine del giorno, gli intrighi fuori e dentro le corti erano costanti e spesso impossibili da portare a termine se non con l’aiuto della casta samurai, senza contare le innumerevoli battaglie vinte o perdute per colpa di samurai doppiogiochisti.

Incidente di Honno-ji, il celebre tradimento di Akechi Mitsuhide che costrinse Oda Nobunaga a suicidarsi
Incidente di Honno-ji, il celebre tradimento di Akechi Mitsuhide che costrinse Oda Nobunaga a suicidarsi

Il complesso sistema di doveri e obblighi nei confronti dei superiori, inoltre, non era privo di scappatoie e contraddizioni. La letteratura antica giapponese è piena di dilemmi come “Dovrei essere fedele al mio daimyo, che mi ha addestrato e cresciuto, o allo shogun, suo superiore e quindi meritevole di maggiore fedeltà?”.

I samurai vissuti prima dell’epoca Tokugawa non trascorrevano il loro tempo a discutere di Bushido etico o a valutare la cosa più giusta o saggia da fare. Le azioni disonorevoli, come sterminare un’intera famiglia, uccidere donne e bambini o riscuotere tasse ingiuste con la forza non solo erano richieste frequenti da parte dei loro superiori, ma venivano spesso ricompensate in riso o con un avanzamento di carriera.

 

I samurai hanno smesso di esistere perchè inutili

L’introduzione delle tecnologie belliche occidentali in Giappone cambiò radicalmente lo stile di combattimento tradizionale basato su scontri di arcieri e spadaccini; i samurai tuttavia non svanirono solo per l’arrivo in Giappone della tecnologia delle armi da fuoco, ma per i sempre più prolungati periodi di pace e di unità interna degli ultimi secoli di storia.

Cosa fa un guerriero di professione se non c’è una guerra da combattere? Se è costretto a portare a casa la pagnotta, torna a fare il contadino, si improvvisa brigante o si dedica al commercio.

Il periodo della Rinnovamento Meiji (tra il 1866 e il 1869) rappresentò una catastrofe per la casta dei samurai, considerata una vera e propria reliquia di un passato ormai diventato fonte di vergogna per un Giappone che aveva appena compreso la superiorità tecnologica dell’Occidente industrializzato e si stava aprendo commercialmente al mondo.

Ai samurai furono rimossi i privilegi goduti in precedenza e il Giappone iniziò un’opera di modernizzazione del Paese, a partire dall’abolizione di molte antiche tradizioni. Messi di fronte alla superiorità militare del resto del mondo, i samurai non avrebbero potuto difendere l’Imperatore da un ipotetico attacco straniero e finirono per assistere allo smembramento totale della loro casta da parte dei governanti che avevano protetto fino al giorno prima.

La battaglia di Ueno fu combattura a Tokyo nel 1868. La sconfitta dei samurai dello shogun segnò l'inizio del Rinnovamento Meiji.
La battaglia di Ueno fu combattura a Tokyo nel 1868. La sconfitta dei samurai dello shogun segnò l’inizio del Rinnovamento Meiji.

I figli dei samurai di alto rango, inoltre, erano il bersaglio perfetto per i missionari cristiani: appartenevano alle classi più influenti della società, dotate di maggior tempo libero per poter ascoltare la parola di Dio. La conversione al cristianesimo dei figli dei samurai fu un vero colpo per la casta: la filosofia cristiana è in netto contrasto con il codice del Bushido antico e moderno e inconciliabile con la vita del samurai.

I samurai adulti furono costretti ad adattarsi: alcuni diventarono guardie del corpo, altri affittarono per denaro la propria capacità di usare la spada o si affiliarono alla Yakuza; altri ancora decisero di vendere la propria “anima”, la spada, per avere qualche soldo utile a reinventarsi come mercanti o contadini.

 

I samurai non erano tutti ricchi

I samurai furono di certo un gruppo decisamente potente nella piramide sociale del Giappone feudale precedente alla Restorazione Meiji, ma si trattava di un insieme di persone molto eterogeneo: c’era chi veniva da una famiglia nobile vicina alle corti imperiali e chi invece possedeva un piccolo fazzoletto di terra all’angolo opposto della capitale. E tra questi c’era anche chi possedeva soltanto una capanna in cui riposava in attesa di essere convocato in battaglia.

Il primo censimento di samurai tenuto in Giappone alla fine del XIX secolo mise in evidenza che la casta dei samurai occupava una fetta pari al 10% della popolazione del tempo, che contava circa 25 milioni di anime.

1,2 milioni di questi guerrieri erano samurai di rango medio-alto, ai quali era consentito possedere una cavalcatura (e potevano permettersela economicamente); i rimanenti erano samurai di basso rango che spesso nemmeno potevano permettersi l’affitto di un cavallo da soma.

 

Samurai stranieri
William Adams
William Adams

Nell’arco della storia giapponese furono diversi gli stranieri che si meritarono il titolo di samurai. Yasuke, di origine africane, giunse in Giappone nel 1579 al servizio di un italiano, Alessandro Valignano; Oda Nobunaga, riconoscendone l’intelligenza e la forza fisica, lo ingaggiò donandogli una katana, una delle sue residenze e garantendogli un salario a vita.

Due anni dopo, Nobunaga e Yasuke trovarono la morte nell’ Incidente di Honno-ji, uno dei casi più celebri di tradimento da parte di un samurai.

La casta samurai ha concesso il titolo a un africano, un inglese (William Adams), un olandese (Jan Joosten van Lodensteijn) e centinaia di coreani prigionieri o collaborazionisti durante l’ Invasione della Corea del 1592–98.

 

Onore e compassione…?

La guerra è guerra, anche per i samurai. L’onore e la compassione hanno di solito ben poco spazio sul campo di battaglia, specialmente se il nemico ha ucciso i membri del tuo clan o è stato dipinto come l’incarnazione del male assoluto.

In alcuni casi tuttavia la crudeltà in guerra raggiunse livelli estremi o ingiustificabili, ma giustificabili in qualche modo dalle mentalità giapponese del tempo, come testimonia la storia di Date Masamune.

Masamune (5 settembre 1567 – 27 giugno 1636) era il primogenito del clan Date e il diretto successore al ruolo di capo-clan, ma dopo aver contratto il vaiolo e aver perso l’occhio destro fu giudicato dalla madre indegno di prendere il posto del padre. Dopo aver acquisito esperienza sui campi di battaglia (e aver accumulato qualche sconfitta), iniziò una campagna di conquista dei territori vicini a quelli del suo clan.

I feudi confinanti decisero quindi di rapire Terumune, padre di Masamune, senza tuttavia valutare con attenzione l’entità della vendetta che avrebbero scatenato. Terumune ordinò al figlio di sterminare tutti i clan rivali, anche se questo gli fosse costata la vita; il figlio eseguì alla lettera l’ordine, uccidendo ogni singolo rapitore per poi procedere a torturare sistematicamente ogni membro delle famiglie dei clan nemici, donne e bambini inclusi.

Samurai teste

Si tratta di un caso isolato di crudeltà? Non esattamente. Quando uno schieramento si aggiudicava la vittoria, gli antichi samurai erano soliti recidere le teste per ottenere ricompense, specialmente se le teste appartenevano a membri nemici di alto rango. Il problema del “conto delle teste” diventò in alcuni casi così grave che alcuni signori feudali vietarono ai propri eserciti di collezionare teste durante la battaglia.

Per non parlare del kiri-sute gomen, letteralmente “autorizzazione a tagliare e abbandonare il corpo della vittima“. In epoca feudale, ogni samurai aveva il diritto di uccidere sul posto chiunque avesse osato infangare il suo onore, a patto che la vittima appartenesse ad una classe sociale inferiore e che l’omicidio fosse commesso subito dopo l’offesa. Per equilibrare lo scontro, chi aveva lanciato l’offesa poteva difendersi usando soltanto la spada corta (wakizashi).

 

I samurai non erano così determinanti in battaglia

Ashigaru

Mai sentito parlare degli ashigaru (“piedi leggeri”)? Erano fanti inizialmente reclutati tra la popolazione civile che componevano le schiere di qualunque esercito giapponese. Il Giappone feudale aveva principalmente tre tipi di guerrieri: samurai, ji-samurai (samurai part-time) e ashigaru: i samurai di basso rango si univano generalmente agli ashigaru non perché fosse poco onorevole, ma perché la superiorità numerica, l’addestramento e il controllo delle schiere di fanti erano i veri elementi determinanti sul campo di battaglia.

Gli ashigaru erano armati di naginata, yumi e spade e talvolta potevano permettersi armature pesanti con innesti di ferro ed elmi kabuto. Gli ashigaru furono i primi soldati giapponesi ad utilizzare i Tanegashima, archibugi di origine portoghese introdotti in Giappone nel 1543 che rivoluzionarono completamente le battaglie campali tradizionali, ma che in seguito vennero relegati al ruolo di semplici armi da caccia dei samurai a causa la scarsità di fabbri in grado di manutenerli.

 

Il suicidio rituale era poco pratico o proibito

seppuku e junshi

Intorno alla metà del XVII° secolo iniziò a dilagare tra i samurai una pratica definita junshi: per dimostrare l’estrema lealtà al proprio signore feudale appena defunto, i samurai al suo servizio commettevano seppuku (suicidio rituale) in massa per seguire il daimyo nell’oltretomba.

Quando nel 1651 morì lo shogun Tokugawa Iemitsu, ad esempio, ben 13 dei suoi consiglieri più vicini si tolsero la vita cambiando totalmente l’equilibrio del potere nel Consiglio di corte. Lo stesso capitò alla morte di Date Masamune nel 1636: ben 15 samurai, tra i quali sei vassalli locali, decisero di commettere suicidio. Il risultato di questi e molti altri episodi di junshi costrinsero molti daimyo a rendere illegale la pratica per evitare che i feudi si indebolissero alla morte del signore feudale o che finissero nelle mani sbagliate.

Occorre considerare anche la praticità del suicidio rituale nella realtà di un Paese in piena guerra civile: se tutti i samurai sconfitti durante l’epoca Sengoku fossero stati costretti a suicidarsi, nessun clan o feudo avrebbe potuto sopportare anche soltanto una piccola rivolta contadina. Era molto più pratico e comodo ingaggiare i soldati nemici offrendo loro una paga migliore o semplicemente la loro vita in cambio dell’arruolamento.

 

10 Ways Samurai Were Nothing Like You Thought

BUSHIDO: WAY OF TOTAL BULLSHIT

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