api – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Arnia tradizionale di tronco https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/ https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/#comments Mon, 30 Sep 2019 00:05:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4544 L’arnia costituisce una vera e propria casa per le api domestiche. Da un’apicoltura passata fatta di tronchi cavi e di cumuli di paglia, l’essere umano ha progressivamente ideato nuovi design con i materiali a sua disposizione, ottenendo livelli di sofisticatezza incredibilmente avanzati.

All’interno dell’arnia si sviluppa la quasi totalità della vita di una colonia. Grazie al controllo attento e costante dell’attività dell’alveare, gli antichi apicoltori furono in grado di controllare limitatamente la produzione di miele.

Le arnie a favo fisso (facenti parte di ciò che viene definita “apicoltura non razionale”), spesso ottenute da materiale vegetale, sono tra le più antiche della storia dell’apicoltura. Le arnie ricavate da un tronco d’albero cavo o da un ceppo lavorato furono realizzate almeno dal 3.380 a.C., come testimoniano alcuni resti di arnia trovati in Svizzera.

L’arnia di tronco

Le arnie ricavate da un tronco d’albero (chiamate anche bugno) sono le più antiche e anche le più simili all’ambiente naturale in cui si sviluppa una colonia di api: simulano un processo che avviene spontaneamente all’interno di un ecosistema (la morte di un albero e la formazione di cavità al suo interno) per guidare indirettamente l’attività di un alveare.

L’arnia a ceppo è un metodo di apicoltura distruttivo: per estrarre i favi e raccogliere il miele è necessario asportare dal tronco le strutture di cera, distruggendo la laboriosa opera di costruzione compiuta dalle api e costringendole a ricostruire i favi.

 

Arnia tradizionale di tronco

La semplicità e l’efficacia dell’arnia a ceppo, tuttavia, giustificava in passato (e parzialmente ancora oggi) l’utilizzo di questa tecnica di apicoltura.

L’arnia a ceppo presenta vantaggi e svantaggi rispetto ai metodi di apicoltura moderni:

  • E’ relativamente economica da realizzare;
  • Può essere realizzata sul posto se si è dotati di una discreta manualità;
  • Lascia alle api la possibilità di gestire in autonomia il loro spazio vitale;
  • Producono grandi quantità di cera;
  • L’arnia a ceppo può essere molto pesante e difficile da trasportare;
  • Le api costruiranno i loro favi in ogni direzione, non disponendo di telai in grado di indirizzare la loro opera costruttiva;
  • Può richiedere la distruzione della struttura lignea per estrarre il miele;
  • Le fratture che si formeranno sul tronco contribuiranno ad aerare l’ambiente interno, ma allo stesso tempo favoriranno l’ingresso di parassiti;
  • Essendo generalmente collocata ad una certa altezza rispetto al terreno, non viene attaccata da predatori come topi e tassi.
Selezione e lavorazione del tronco

Per fabbricare un’arnia a ceppo funzionale occorre selezionare un tronco delle dimensioni adeguate: da 60 a 80 centimetri di diametro per una lunghezza di circa 1,4 metri. Il concetto è quello di replicare il tronco cavo di un albero, ambiente che le api selvatiche ritengono ideale per la costituzione di una colonia.

La selezione di un legname morbido, come il legno di pino, faciliterà le fasi di lavorazione del ceppo, specialmente quelle che richiedono una certa manualità e non consentono l’utilizzo di utensili elettrici.

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Sulla costa occidentale dell’Africa gli apicoltori sfruttano le proprietà della palma di Palmira (Borassus flabellifer) e l’attività delle termiti per ottenere arnie a ceppo con il minimo sforzo. La palma di Palmira produce piccole cavità naturali durante l’arco della sua vita; una volta terminata la sua esistenza, gli apicoltori attendono che le termiti si facciano strada nel legname morto dell’albero, allargando le cavità e fornendo materiale già pronto per essere utilizzato come arnia a ceppo.

La lavorazione del legname per costruire un’arnia prevede lo svuotamento della parte interna del ceppo utilizzando una di queste tre tecniche:

  • Fuoco: utilizzare un contenitore tubolare per concentrare il calore di un mucchio di braci al centro del tronco. In questo modo, il legno verrà gradualmente ridotto in cenere, formando un canale interno;
  • Divisione: il tronco viene diviso e le due metà scavate per creare una cavità interna, un procedimento simile a quello utilizzato per realizzare le cerbottane tradizionali. Alla fine dell’operazione di rimozione del materiale ligneo, le due parti del ceppo verranno ricongiunte;
  • Scavo: è possibile scavare il centro del ceppo utilizzando uno scalpello per aprire due cavità che si estendono da entrambi i lati, fino ad svuotare completamente il tronco del suo materiale ligneo interno.

Le aperture nelle parti terminali del tronco dovranno poi essere chiuse; i blocchi di chiusura dovranno tuttavia essere rimovibili per consentire l’ispezione dell’alveare e il prelievo dei favi ricchi di miele. L’ingresso delle api all’interno del ceppo sarà reso possibile da uno o due fori praticati vicino ad una delle parti terminali, o su uno dei blocchi di chiusura del ceppo.

Insediamento delle api

Per invitare le api a popolare l’arnia a ceppo occorrerà depositare qualche goccia di propoli al suo interno; ancora meglio, riuscire a catturare una regina garantirà l’arrivo di numerose operaie pronte a costruire favi, accudire larve e accumulare polline e miele. Se il tronco è stato costruito ad arte, le api stesse potrebbero spontaneamente sceglierlo come futura residenza.

Nell’arnia a ceppo è indispensabile garantire alle api un mezzo di sussistenza per l’inverno. I favi venivano tradizionalmente prelevati all’inizio dell’estate per consentire agli insetti di ricostruirli in previsione dell’inverno; si tendeva inoltre a lasciare intatte alcune strutture di cera contenenti miele, fornendo un prezioso supporto alimentare durante la stagione fredda.

L’arnia a ceppo estende il concetto di “spazio d’ape” elaborato da Langstroth, l’inventore dell’arnia moderna. Nel 1851 il reverendo Lorenzo Lorraine Langstroth osservò che le api che avevano attorno uno spazio libero inferiore ai 9 mm e superiore ai 6 millimetri non costruivano strutture di cera e non sigillavano quelle esistenti. L’osservazione di questo spazio vitale, definito “spazio d’ape”, consentì a Langstroth di elaborare un nuovo design di arnia basato su telai verticali rimovibili, la base delle arnie moderne.

Nelle arnie moderne di tipo Langstroth la distanza tra due telai di un’arnia è superiore di almeno due volte lo spazio d’ape, ma comunque limita la mobilità delle api e le costringe a seguire una direzione principale (verso il basso) durante la costruzione del favo.

L’arnia a ceppo, come le arnie a sviluppo orizzontale (ad esempio le Top-Bar) permettono uno sviluppo più naturale della colonia e lascia libere le api di costruire in modo più simile a ciò che realizzano allo stato brado, senza il controllo dell’essere umano.

How to make log hives for healthier bees (Video)
How to Build a Log Hive
HARVESTING HONEY FROM A LOG HIVE
The impact of hive type on the behavior and health of honey bee colonies (Apis mellifera) in Kenya

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Larve e insetti commestibili https://www.vitantica.net/2017/12/01/larve-commestibili/ https://www.vitantica.net/2017/12/01/larve-commestibili/#respond Fri, 01 Dec 2017 02:00:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=998 Per quanto possa sembrare disgustoso ad un europeo o a un americano, gli insetti sono ancora oggi un’ importante fonte di proteine per milioni di persone, specialmente nel Sud-Est Asiatico, in Centro-Sud America e tra le popolazioni semi-primitive o non industrializzate.

Per millenni gli insetti, adulti o larve, hanno rappresentato una discreta porzione della dieta umana: sono relativamente semplici da raccogliere in gran numero e sono ricchi di nutrienti spesso difficili da ottenere con la caccia.

I nostri antenati preistorici erano ottimi opportunisti e di certo non si facevano sfuggire un facile pasto a base di insetti: i coproliti (feci fossili) trovate in molte località del mondo dimostrerebbero che la dieta del Paleolitico conteneva una buona percentuale di insetti come formiche, larve di coleotteri, pidocchi e termiti.

Le pitture rupestri di Altamira (30.000-9.000 a.C.), Spagna, testimoniano visivamente l’importanza della raccolta di insetti commestibili e di alveari selvatici tra le popolazioni primitive dell’epoca, e circa 5.000 anni fa era molto comune in Cina consumare bachi da seta e svariate specie di larve di coleotteri come principali fonti di proteine.

Una volta superato lo scoglio psicologico iniziale (più comune nei Paesi industrializzati occidentali che nel resto del mondo), chi approccia il mondo dell’ entomofagia si ritrova spesso sorpreso dai sapori e dalle consistenze degli insetti che assaggia.

Gli insetti commestibili

Attualmente tra gli insetti commestibili si contano (fonte: Wikipedia):

  • 235 specie e sottospecie di farfalle e falene (adulte o larve)
  • 344 coleotteri (adulti o larve)
  • 313 specie e sottospecie di formiche, api e vespe (adulte o larve)
  • 239 tra cavallette, grilli e scarafaggi (adulti o larve)
  • 39 specie di termiti
  • 20 specie e sottospecie di libellule (adulte o larve)

Tra le specie commestibili di insetti ci sono moltissime varietà di larve di coleotteri, farfalle, falene e altri insetti di svariate categorie tassonomiche che per millenni hanno rappresentato un’importante integrazione proteica nella dieta dei nostri antenati. Qui sotto riporto alcune delle larve commestibili più note o consumate nel mondo.

N.B. Alcuni insetti, sia morti che vivi, possono ospitare una vasta gamma di agenti patogeni, parassiti e pesticidi potenzialmente nocivi per l’organismo umano. Anche se alcuni insetti sono generalmente sicuri da mangiare anche crudi, è sempre preferibile cuocerli in qualunque modo disponibile, sia esso la bollitura, la tostatura o l’esposizione alla fiamma viva.

Verme mezcal

Larva spesso inserita nelle bottiglie di Mezcal. Si tratta in realtà di tre larve commestibili utilizzate per lo stesso scopo: la Comadia redtenbacheri, la larva di una falena messicana che infesta generalmente le foglie di agave, la Scyphophorus acupunctatus, un altro parassita dell’agave, e il bruco della farfalla Aegiale hesperiaris.

Larve di api

miele e api

Le larve delle api da miele europee (Apis mellifera) sono ottime fonti di proteine e carboidrati oltre a contenere fosforo, magnesio e potassio in quantità significative. In aggiunta, queste larve sono anche ricche di grassi e vitamine, sono facilmente ottenibili una volta localizzato un alveare e possono essere mangiate anche crude.

Generalmente, le larve di qualunque specie di ape sono commestibili, comprese quelle delle api carpentiere e dei calabroni, e chi le ha assaggiate descrive una consistenza interna gelatinosa e un gusto molto dolce simile al miele.

Scarabeo rinoceronte
Larva di scarabeo rinoceronte
Larva di scarabeo rinoceronte. Fonte: Biodiversity and Ecosystem Function in Tropical Agriculture

Gli scarabei rinoceronte sono una sottofamiglia degli scarabei che comprende oltre 300 specie conosciute, molte delle quali commestibili sia in fase adulta sia nello stadio larvale.

Sono spesso allevati in Asia come animali da compagnia e per il combattimento, ma sono noti da millenni per essere una ricca fonte di nutrienti: le larve sono composte per il 40% da proteine (contro il 20% della carne di pollo) e sono un’importante contributo calorico nella dieta di moltissimi Paesi del mondo ad esclusione di quelli industrializzati.

Le larve dello scarabeo rinoceronte europeo (Oryctes nasicornis) si nutrono di alberi morti e possono superare i 10 centimetri di lunghezza nell’arco di 2-4 anni di sviluppo.

Bruchi Psychidae

I bruchi appartenenti a questa famiglia di lepidotteri (farfalle e falene) sono talvolta commestibili, come il bruco chiamato “fangalabola” (Deborrea malgassa) originario del Madagascar. Le larve possono superare i 4 centimetri di lunghezza nelle specie tropicali e sono ricche di proteine e grassi.

Verme del bambù

Verme del bambù

Non si tratta tecnicamente di un verme ma della larva di una falena, la Omphisa fuscidentalis. Il verme del bambù cresce nelle foreste di bambù di Thailandia, Laos, Myanmar e Cina. Dopo l’accoppiamento, ogni falena depone dalle 80 alle 130 uova alla base di un germoglio di bambù; dalle uova usciranno larve entro 12 giorni e inizieranno a perforare un nodo del bambù creando un foro d’ingresso e uno d’uscita.

Entro tre giorni le larve diventano bianche e iniziano a risalire il bambù nutrendosi della polpa per circa 45-60 giorni, per poi tornare verso il foro d’uscita e iniziare un periodo di “letargo” della durata di 8 mesi.

Un verme del bambù può superare i 4 centimetri di lunghezza e il 26% del suo corpo è costituito da proteine (il 51% da grassi). In molti Paesi orientali è considerata una leccornia e possono essere mangiati fritti, cotti alla fiamma o crudi.

Punteruolo rosso della palma (Rhynchophorus ferrugineus)
Larve di punteruolo rosso
Larve di punteruolo rosso. Fonte: BugsFeed

Il temibile punteruolo rosso della palma, responsabile della morte di milioni di piante in tutto il mondo (Italia compresa), quando si trova allo stadio di larva è un insetto del tutto commestibile, considerato prelibato in Indonesia, Vietnam e Borneo. Nella dieta degli indigeni Iatmul della Papua Nuova Guinea, le larve di punteruolo coprono il 30% del fabbisogno proteico medio.

Il punteruolo depone le uova (da 50 a 500) all’interno delle palme utilizzando il rostro per asportare le fibre più tenere. Le larve sono estremamente voraci, raggiungono dimensioni ragguardevoli e possono scavare l’interno di una palma risalendo lungo tutta l’altezza dell’albero mentre ne divorano la polpa. Come i vermi del bambù, anche le larve di punteruolo della palma possono essere mangiate crude, tostate, cotte al vapore o fritte.

Tenebrione mugnaio (Tenebrio molitor)
Larva, pupa e tenebrione adulto
Larva, pupa e tenebrione adulto. Fonte: Il Naturalista

Il tenebrione mugnaio, o tarma della farina, è un insetto molto comune nelle abitazioni, in particolare nelle dispense dove può compromettere le scorte di cereali e derivati come pasta e pane defecandoci sopra. Le larve di tenebrione possono raggiungere i tre centimetri di lunghezza e sono considerate commestibili per molte specie (essere umano incluso).

Le larve di tenebrione sono spesso utilizzate come cibo per rettili, pesci e uccelli, sono un alimento ad alto contenuto di proteine (dal 14% al 25% ogni 100 grammi) e contengono potassio, sodio, rame, ferro e zinco in quantità simili a quelle della carne di manzo. Le larve di tenebrione sono considerate gateway bug, uno dei primi insetti che si assaggiano quando ci si avvicina all’ entomofagia.

Larva “witchetty”
larva Witchetty
Larva Witchetty. Fonte: Wikimedia commons

Larva della falena australiana Endoxyla leucomochla che si nutre degli arbusti di Acacia kempeana. Il realtà, il termine “witchetty” (che nella lingua aborigena Adnyamathanha significa “larva del bastone uncinato”) viene usato dagli Aborigeni per indicare qualunque larva commestibile.
Chi l’ha assaggiata ha definito il sapore come simile alle mandorle e quando viene cotta l’involucro esterno diventa croccante mentre l’interno rimane semi-liquido come un uovo fritto.

Zazamushi

Con il termine zazamushi si indica un complesso di larve appartenenti alle famiglie Trichoptera e Megaloptera. Le larve di queste specie, di circa 2 cm di lunghezza, vivono nascoste sotto le pietre fluviali. In Giappone esiste una tradizione di pesca agli zazamushi sul fiume Tenryugawa: le larve vengono generalmente consumate dopo essere state lavate e cotte in salsa di soia e zucchero.

Tarma della cera
Larve di tarme della cera
Larve di tarme della cera

Le tarme della cera appartengono a tre specie differenti: la tarma minore della cera (Achroia grisella), la tarma maggiore (Galleria mellonella) e la larva della falena Aphomia sociella. In natura queste larve sono parassiti degli alveari e si nutrono di bozzoli, polline, pelle di scarto delle api e soprattutto della cera: non attaccano direttamente le api, ma masticano la casa in cui vivono.

Nel regno animale, le tarme della cera rappresentano un’importante fonte di proteine e grassi per molti uccelli, rettili e piccoli mammiferi insettivori, e sono talvolta consumate dall’essere umano.

Larve di calabrone gigante asiatico
Larve di Vespa mandarinia
Larve di Vespa mandarinia

Il calabrone gigante asiatico (Vespa mandarinia) è il calabrone più grande al mondo: lungo fino a 50 millimetri, può provocare dolorose punture definire “come un chiodo rovente conficcato nella gamba”. Ogni anno causa dalle 20 alle 40 vittime solo in Giappone.
Le larve di calabrone asiatico, tuttavia, sono considerate una vera prelibatezza. Possono essere mangiate fritte o sotto forma di sashimi. Le larve di Vespa mandarinia secernono sostanze che oggi vengono replicate sinteticamente per la produzione di integratori alimentari in grado di migliorare la resistenza fisica.

TOP 50 EDIBLE INSECTS LIST

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Cacciatori di miele allucinogeno (documentario) https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/ https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/#respond Wed, 18 Oct 2017 02:00:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=704 Le graianotossine sono un gruppo di tossine prodotte da rododendri e azalee, piante diffuse in Europa, Asia e America che hanno acquisito nella storia la fama di piante meravigliose ma dal nettare potenzialmente molto tossico.

Il miele prodotto da api che raccolgono nettare da queste piante, infatti, è noto fin dall’antichità per essere tossico e allucinogeno, anche se consumato in piccole quantità.

A citare il miele tossico di rododendro sono Senofonte, Aristotele, Strabone e Plinio il Vecchio: proprio quest’ultimo racconta un episodio, citato più tardi anche da Strabone, che vede l’impiego del miele di rododendro in battaglia.

Nel 69 a.C. le truppe romane di Pompeo si trovavano a combattere in Turchia e furono le tra le prime vittime storiche di un’arma biologica: la milizia nemica disseminò il percorso di marcia dei Romani di alveari selezionati appositamente per la loro vicinanza alle piante di rododendro locali; le truppe di Roma, sfruttando ogni occasione per ingerire calorie preziose, fecero incetta del miele avvelenato mostrando in seguito i sintomi tipici dell’avvelenamento (come gli stati allucinatori tipici del miele di rododendro) e perdendo la battaglia contro il nemico.

I sintomi di avvelenamento da miele di rododendro sono salivazione, sudorazione abbondante, confusione, debolezza e vomito (come vedrete nel documentario), mentre una dose eccessiva può provocare allucinazioni che possono durare anche per 24 ore.

Al giorno d’oggi gli apicoltori conoscono bene quali piante sono adatte al prelievo di nettare da parte delle loro api e quali invece possono rappresentare un rischio per la produzione di miele. In Nepal, tuttavia, la tribù Gurung che vive isolata tra le montagne del Paese è probabilmente l’unica sopravvissuta fino ad oggi ad aver trovato un impiego medicinale per il miele allucinogeno di rododendro.

Conosciuto come “miele pazzo”, questo tipo di miele viene prodotto dalla specie di ape selvatica più grande del mondo (Apis dorsata laboriosa, fino a 3 centimetri di lunghezza) che tende a nidificare sulla cima di una collina che gli abitanti del villaggio scalano ogni anno per raccogliere qualche chilogrammo di prezioso miele allucinogeno.

La raccolta di questo miele non è priva di rischi: l’arrampicata e la raccolta avvengono utilizzando corde di radici e scale di bambù (oltre all’immancabile machete) e il rischio di una caduta rovinosa da una dozzina di metri d’altezza è sempre dietro l’angolo.

Perché tutta questa fatica e un rischio così grande per raccogliere miele tossico? Per i Gurung, l’assunzione quotidiana di una dose minima di miele di rododendro causa un leggero e piacevole senso di inebriamento e rafforzerebbe il sistema immunitario.

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Punture di insetti, le più dolorose https://www.vitantica.net/2017/09/06/punture-di-insetti-le-piu-dolorose/ https://www.vitantica.net/2017/09/06/punture-di-insetti-le-piu-dolorose/#respond Wed, 06 Sep 2017 18:36:15 +0000 https://www.vitantica.net/?p=138 Lo Schmidt Sting Pain Index è una scala numerica che categorizza il dolore provocato dalla puntura di insetti, dai più comuni ai più rari e temibili.

Questa scala è stata messa a punto da Justin O. Schmidt, un entomologo del Carl Hayden Bee Research Center. Grazie al suo lavoro, che per forza di cose lo porta al contatto ravvicinato con una moltitudine di insetti come api, vespe e calabroni, Schmidt ha collezionato negli anni una serie di dolorose punture che lo hanno indotto a creare la scala di dolore che porta il suo nome.

All’atto della sua pubblicazione nel 1983, il Pain Index non era altro che un resoconto dettagliato delle proprietà emolitiche del veleno di alcuni insetti: partiva da 0 (nessun effetto sull’essere umano) fino a raggiungere il numero 4, numero che rappresenta il dolore totale, quasi indescrivibile ed estremamente difficile da sopportare.

Scala del dolore delle punture di insetto di Schmidt
Scala del dolore delle punture di insetto di Schmidt

Successivamente la scala è stata modificata e corretta, diventando la moderna classifica del dolore causato dalle punture di insetti; ad oggi contiene i resoconti sulle punture di ben 78 specie di api, vespe, calabroni e formiche. Il valore medio è 2, valore che indica il dolore provocato dalla puntura di un’ ape o di una vespa.

Qui sotto riporto una versione parziale dello Schmidt Sting Pain Index, partendo da insetti relativamente comuni e innocui per finire con le punture più dolorose mai sperimentate dall’essere umano.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.0 – Ape del sudore

Nome comune che viene dato a tutte quelle api che sono attratte dalla salinità del sudore umano. In particolare ci si riferisce ad una famiglia di api, le Halictidae, che vive in molte regioni del mondo. La puntura di questa ape è quasi del tutto indolore, anche perché spesso non riesce a bucare la pelle umana.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.2 – Formica di fuoco

Una specie di formiche (Solenopsis invicta) in grado di iniettare veleno e di causare dolore lieve e irritazione. Il grosso problema con queste formiche non è il dolore che provocano le loro punture, ma il fatto che attacchino in massa, lasciando segni su tutto il corpo in grado di infettarsi.

Le Solenopsis invicta sono considerate tra le 100 specie invasive più dannose del mondo e possono distruggere intere piantagioni in brevissimo tempo costruendo formicai in corrispondenza delle radici delle piante.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 1.8 – Formica dell’acacia (Pseudomyrmex ferrugineus)

Vive su un’acacia nativa del Messico (Acacia cornigera), chiamata “corna di toro” per alcune escrescenze che crescono alla base del fogliame. Questo albero vive in simbiosi con la Pseudomyrmex ferrugineus, una formica che attacca qualunque cosa possa minacciare la pianta utilizzando un pungiglione decisamente doloroso. La puntura di questa formica causa una sensazione descritta da Schmidt “come se qualcuno ti avesse sparato un punto chirurgico sulla guancia”.

Nella medicina tradizionale Maya, le formiche dell’acacia sono impiegate per curare la depressione facendosi pungere diverse volte in corrispondenza di una vena, generalmente nell’incavo del gomito.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 2.0 – YellowJacket

Vespa appartenente ad un genere chiamato “yellojackets” (Dolichovespula maculata) e che vive in Nord America. Si tratta di vespe che difendono aggressivamente il proprio nido: se un essere umano si avvicina troppo (situazione relativamente comune, dato che costruiscono spesso il nido in prossimità delle abitazioni umane), attaccano con forza pungendo ripetutamente.

Queste vespe sono anche capaci di spruzzare veleno dal pungiglione, spesso puntando agli occhi dell’aggressore per causare cecità temporanea e un’abbondante lacrimazione. Secondo Schmidt, la puntura di questa vespa “è come farsi chiudere una mano in mezzo ad una porta” o “farsi spegnere un sigaro sulla lingua”.

miele e api

Scala del Dolore: 2.x – Ape del miele

Al livello 2 della Scala di Dolore si trovano l’ape del miele, l’ape africanizzata e il calabrone. Se le api europee tendono a difendersi non appena la colonia viene attaccata, quelle africanizzate attaccano con maggiore aggressività e in massa.

Il veleno delle api africanizzate non è più potente di quello delle api europee, ma viene inoculato in dosi maggiore perché l’insetto attacca in gran numero. Il dolore di una puntura d’ape o di calabrone viene descritto da Schmidt come “un fiammifero acceso che brucia la pelle”.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 3.0 – Formica rossa raccoglitrice

La Pogonomyrmex barbatus è una formica del Nord America che raccoglie e accula semi. E’ una specie estremamente aggressiva che attacca non appena ha la sensazione che la colonia sia minacciata. La sua puntura è molto dolorosa e può causare reazioni allergiche: l’effetto del veleno si estende al sistema linfatico.

Può anche mordere ferocemente con le sue potenti mascelle. Il dolore viene descritto da Schmidt “come se qualcuno usasse un trapano per scavare l’unghia dell’alluce”.

punture dolorose di insetti

Scala del Dolore: 3.0 – Formica velluto

In realtà non è una formica, ma una vespa il cui aspetto ricorda una formica ricoperta da fitta peluria. Si sono guadagnate il nome di “ammazza mucche”, ma la tossicità del loro veleno è inferiore a quella di un’ape del miele, anche se provoca un dolore acuto.

Le femmine di queste vespe, in particolare quelle della specie Dasymultila klugii, sono prive di ali ma armate di un pungiglione in grado di causare una puntura dolorosissima che provoca dolore per circa 30 minuti.

dolore punture di insetti

Scala del Dolore: 4.0 – Tarantula Hawk (vespe parassite dei generi Pepsis e Hemipepsis)

Vespa che caccia tarantole per darle in pasto alle sue larve. Con il suo pungiglione lungo ben 7 millimetri cattura e paralizza le tarantole, per poi trascinarle nel nido. Con l’essere umano non è aggressiva, a meno che non si senta minacciata.

Quando punge, tuttavia, il dolore è uno dei più acuti dell’intero mondo degli insetti. Il dolore persiste per 3 minuti circa e viene descritto come “immediato, lancinante dolore che semplicemente non ti rende in grado di fare qualunque cosa, eccetto gridare. La disciplina mentale non funziona in queste situazioni”.

formica proiettile

Scala del Dolore: 4.x – Formica Proiettile

Ecco l’insetto più doloroso in assoluto. Si trova addirittura fuori scala, il dolore che provoca la sua puntura è ai limiti della tollerabilità (leggi questo post sulla formica proiettile). Si chiama “formica proiettile” proprio per il fatto che il dolore provocato dal suo pungiglione sembra sia paragonabile a quello provocato da un proiettile sparato da una pistola di grosso calibro. Viene anche chiamata “formica 24 ore” per la durata del dolore dopo la puntura, 24 ore appunto.

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Scolopendra heros
Scala del Dolore: 4.x – Centopiedi del deserto (Scolopendra heros)

La scolopendra del deserto (Scolopendra heros), o centopiedi gigante dalla testa rossa, è un insetti nativo delle regioni meridionali degli Stati Uniti ed è il più grande centopiedi del continente nordamericano.

Possiede dalle 21 alle 23 paia di zampe e può raggiungere la lunghezza di 20 centimetri. Il veleno della scolopendra del deserto è più potente di quello degli altri centopiedi, una tossina che risulta estremamente dolorosa per i vertebrati ma che non sembra essere letale per gli esseri umani.

La potenza del veleno di un centopiedi del deserto è stata messa alla prova dal naturalista Coyote Peterson; stando al video qui sotto, il dolore “supera di gran lunga tutti gli insetti che ho provato”.

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Miele: raccolta e produzione nell’antichità https://www.vitantica.net/2017/09/05/miele/ https://www.vitantica.net/2017/09/05/miele/#comments Tue, 05 Sep 2017 16:07:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=86 Il miele può essere considerato il primo vero “dessert” della storia e le testimonianze sul suo utilizzo da parte dei nostri antenati sono antichissime: le più antiche pitture rupestri che testimoniano la raccolta del miele risalgono almeno al 6.000 a.C.

L’abbondanza di zuccheri e il suo potere dolcificante rende miele un prodotto di grande valore per le comunità di cacciatori-raccoglitori antiche e moderne o per qualunque civiltà della storia che non utilizzava o conosceva lo zucchero.

Il miele è composto per l’80% da zuccheri, principalmente glucosio e fruttosio, e per il restante 20% da acqua. Il suo aroma, il colore, il sapore e la composizione chimica sono caratteristiche strettamente connesse ai fiori che le api hanno visitato per produrlo. Il miele, oltre che per uso alimentare, viene anche utilizzato nella medicina tradizionale per aiutare la guarigione di ferite o bruciature e curare la tosse cronica o acuta.

Come le api producono il miele

Il miele è prodotto dalle 7 specie conosciute di api mellifere (non tutte le specie di api raccolgono nettare), come quelle appartenenti alla specie Apis mellifera, probabilmente la più impiegata commercialmente per la sua docilità e la consistente produzione di miele: la specie conta circa 30 sottospecie che comprendono l’ape mellifera italiana (Apis mellifera ligustica) e l’ape scura europea (Apis mellifera mellifera).

Le api di questa specie consumano il nettare dei fiori per produrre energia per il volo e per la raccolta di polline, trasportando all’ alveare ciò che non riescono a consumare per immagazzinarlo come cibo a lunga scadenza.

Raggiunta la sicurezza della colonia, le api ingeriscono e rigurgitano ripetutamente il nettare fino ad ottenere una sostanza parzialmente digerita dagli enzimi e dai succhi gastrici del loro stomaco.

Il processo di ingestione ed espulsione del nettare può durate anche 20 minuti. Quando il nettare ha raggiunto il giusto stato di digestione viene espulso definitivamente, immagazzinato all’interno di celle di cera e periodicamente ventilato dalle ali delle api per far evaporare l’acqua in eccesso (il miele passa dal 20% al 18% di acqua durante la conservazione nella cera), prevenire la fermentazione e aumentare la concentrazione di zuccheri. Le celle vengono infine sigillate con altra cera per preservare intatte le qualità del miele e proteggerlo dall’aggressione di muffe e parassiti.

Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello sfruttato da secoli per localizzare un alveare selvatico
Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello sfruttato da secoli per localizzare un alveare selvatico
La raccolta del miele selvatico

La ricerca e la raccolta del miele (spesso definita “caccia al miele”) sono attività che risalgono ad almeno 10 millenni fa. Le pitture rupestri spagnole di Cuevas de la Arana, risalenti al 9.000 a.C. circa, raffigurano la caccia al miele e le prime “arnie” naturali sfruttate dai cacciatori-raccoglitori della regione per l’ approvvigionamento di miele selvatico.

Le api mellifere europee prediligono la nidificazione all’interno di nicchie della roccia o alberi cavi e le “arnie” raffigurate nelle pitture rupestri spagnole rappresentano proprio questi incavi naturali sulle pareti rocciose impiegati dalle api selvatiche per la costruzione dei loro alveari.

In Africa, le antiche comunità tribali localizzavano un alveare selvatico seguendo l’ Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello che funge da guida verso il miele per uomini e animali. Questa relazione di scambio reciproco sembra sia nata da un’antica collaborazione tra uomo e uccello: l’essere umano ottiene miele grazie alle indicazioni fornite dal volatile, mentre l’ Indicatore golanera può fare incetta di api, larve e cera.

Prima del suo pasto, l’ Indicatore golanera deve però attendere che l’essere umano apra l’alveare esponendone l’interno mentre uno sciame di api inferocite cerca di difendere la regina e le larve.

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Procedendo per tentativi e fallimenti, i nostri antenati impararono che il fumo sembrava rendere le api scoordinate nella loro risposta all’aggressione, oltre che più mansuete. Quando le api si accorgono di un’intrusione nell’ alveare iniziano ad emettere un particolare feromone che innesca una risposta automatica nei membri della colonia, costringendoli ad attaccare l’intruso.

Il fumo tuttavia maschera la presenza del feromone e circoscrive il numero di api che reagiscono al richiamo d’allarme, dando l’impressione al resto della colonia che non stia succedendo nulla di grave. L’effetto del fumo svanisce in 10-20 minuti, dando tempo al cacciatore di raccogliere tutto il miele necessario.

Il fumo ha un’altro effetto: quando raggiunge l’alveare, le api sono indotte a pensare che l’alveare possa essere minacciato da un incendio. Il rischio di un incendio boschivo le convince ad abbandonare l’alveare per trovare una nuova località in cui insediarsi, non prima di aver accumulato tutto il miele possibile nei loro corpi per fornire energia alla nuova comunità. L’aver ingurgitato così tanto miele rende le api letargiche e lente nei riflessi, spesso troppo lente per attaccare un aggressore.

miele api selvatiche

L’invenzione dell’arnia

Nella sua fase primitiva l’essere umano si è limitato a prelevare miele e cera dagli alveari selvatici, spesso distruggendoli e costringendo le api selvatiche ad un duro lavoro di ricostruzione. Questo metodo di raccolta non aveva grossi impatti ambientali nel caso di società di cacciatori-raccoglitori, dato che il miele veniva consumato raramente e c’era un’ampia disponibilità di alveari selvatici.

Con l’insorgere di uno stile di vita sedentario, la distruzione anche solo parziale di un alveare iniziò a costituire un grosso problema: le api non hanno più una casa in cui accumulare miele e sono costrette a spendere buona parte del loro tempo a ricostruire l’alveare e non a raccogliere nettare.

Parallelamente ai metodi invasivi per raccolta del miele in uso per millenni iniziarono a sorgere i primi sistemi d’allevamento con arnia, capaci di produrre miele in modo costante e senza eccessivo sforzo da parte dell’essere umano.

E’ difficile stabilire un’origine certa dell’allevamento con arnie, ma abbiamo le prove archeologiche che si tratta di un’attività vecchia di almeno 3-4.000 anni. Nell’antica città di Tel Rehov in Palestina sono state trovate 30 arnie utilizzate per la produzione di miele circa 2.900 anni fa: le arnie erano state realizzate con paglia e argilla cruda ed erano organizzate in file che lascerebbero pensare alla presenza di un totale di 150 arnie all’interno del complesso.

Sappiamo inoltre che almeno 4.500 anni fa l’estrazione di miele selvatico era ancora un’attività fiorente nell’ antico Egitto: le iscrizioni del tempio solare di Nyuserra Ini, faraone della V dinastia, riporta i dettagli sulla raccolta del miele selvatico tramite l’impiego del fumo.

Qualche secolo più tardi, nel 650 a.C., nella tomba di Pabasa fanno la loro comparsa alveari artificiali di forma cilindrica e appositi contenitori per la conservazione del miele.

Arnia medievale
Arnia medievale

In periodo romano e successivamente nel Medioevo furono ideati alcuni metodi di allevamento parzialmente “rinnovabili” impiegati ancora oggi per la produzione di miele nelle comunità non industrializzate: uno di questi era l’utilizzo di assi di legno parallele, coperte da covoni di paglia o fieno, in cui le api potevano facilmente costruire le impalcature di cera per ospitare il miele al riparo dagli agenti esterni.

Un altro sistema era quello di utilizzare come arnia un tronco cavo (naturalmente o  artificialmente) chiamato “vaso” o cesti di vimini conici dotati piccole aperture che permettessero alle api di entrare e uscire a piacimento dall’arnia.

Le arnie di questo tipo non consentivano di mantenere l’alveare totalmente intatto dopo il prelievo stagionale del miele. L’assenza di una struttura interna che guidasse l’opera costruttiva delle api generava alveari dalla forma irregolare e dalle celle disposte a grappolo.

Le arnie di concezione moderna (ideate verso la fine del XVIII secolo) sono invece strutturate a livelli permettendo la costruzione di piani “monodimensionali” di celle (un solo strato di celle per livello), facilitando l’estrazione del miele e limitando l’opera distruttiva del prelievo.
Il miele prodotto dalle antiche arnie poco strutturate era estratto per spremitura: l’intero alveare veniva posizionato in una pressa e schiacciato per separare la cera dal miele.

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Fino all’avvento della produzione commerciale di miele secondo metodi moderni, tutti i metodi di allevamento richiedevano la cattura di uno sciame di api selvatiche, cosa per nulla semplice se non si conoscono le dinamiche sociali e gerarchiche delle api.

L’importanza dell’ ape regina

Le api vivono in una società matriarcale che ha al suo vertice l’ ape regina (l’unica femmina fertile dello sciame) e fino a centinaia di migliaia di operaie sterili addette alla cura della regina e dell’alveare (i maschi appaiono nella colonia esclusivamente tra aprile e giugno in Europa).

Il solo scopo della regina è quello di deporre uova e coordinare la colonia: non dispone di alcun apparato per la raccolta del nettare e ha un metabolismo più elevato delle altre api, quindi consuma più cibo e dipende interamente  dalle operaie per il suo fabbisogno di nutrienti quotidiani.

ape regina
Ape regina

Se durante la cattura di uno sciame d’ api non si intrappola anche la regina, le operaie lasceranno il nuovo alveare per raggiungerla. L’atto della cattura è relativamente semplice: se si avvista uno sciame (di solito localizzando una grossa “palla” di api appesa ad un albero, o osservando un flusso più o meno costante di api provenire dal tronco di un albero), occorre farlo cadere in un contenitore come uno scatolone di cartone o un cesto di vimini per poi rovesciarlo a terra, mantenendo il contenitore sollevato di qualche centimetro dal terreno per consentire alle api in cerca di nettare di tornare nella colonia prima del tramonto.

Questa sistemazione temporanea dello sciame eviterà che le api lontane dalla regina si perdano sulla via del ritorno e vi permetterà di verificare che la regina, più grande rispetto al resto delle operaie, si trovi all’interno dello sciame.

Per trasferire le api all’interno di un’arnia artificiale, sia essa un covone di paglia, un cesto di vimini intrecciato o un’arnia moderna, è sufficiente stendere un telo bianco dallo scatolone all’arnia: presto le api inizieranno a camminare fino all’alveare artificiale che avete preparato per loro.

Prehistoric Beekeeping in Central Europe – a Themed Guided Tour at Zeiteninsel, Germany
Medieval Beekeeping

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Otturazione del Neolitico https://www.vitantica.net/2017/09/04/otturazione-del-neolitico/ https://www.vitantica.net/2017/09/04/otturazione-del-neolitico/#respond Mon, 04 Sep 2017 08:20:45 +0000 https://www.vitantica.net/?p=124 I ricercatori del Centro Internazionale di Fisica Teorica di Trieste hanno scoperto nel 2012 ciò che potrebbe essere la prima otturazione odontoiatrica della storia nei resti di una mascella appartenuta ad un uomo del Neolitico.

La cura dei denti sembra essere una questione dalle radici millenarie: nel 2001, infatti, un team di archeologi scoprì in Pakistan le prove della trapanazione di denti su 11 individui vissuti tra i 9.000 e gli 8.000 anni fa. Queste trapanazioni, effettuate probabilmente con uno strumento dalla punta di selce, sembrano essere state eseguite per rimuovere la carie dai denti dei nostri antenati.

La scoperta di un’otturazione è invece la prima testimonianza del trattamento relativamente avanzato di un problema dentale. La mascella sarebbe appartenuta ad un uomo di 24-30 anni ed è stata scoperta oltre un secolo fa nei pressi di Lonche, Slovenia.

Otturazione neolitica
Residui della cera d'api usata come otturazione
Residui della cera d’api usata come otturazione

“La mascella è rimasta in un museo [di Trieste] per 101 anni senza che nessuno si accorgesse di qualcosa di strano” spiega Claudio Tuniz, ricercatore dell’ Istituto Veneto di Scienze. L’otturazione è stata notata al momento del test di una nuova apparecchiatura a raggi-X, durante il quale la mascella è stata utilizzata come soggetto per le riprese.

Le immagini hanno mostrato la presenza di materiale insolito in corrispondenza di un canino, materiale che riempiva perfettamente la cavità del dente proteggendo lo strato di dentina sottostante. La spettroscopia ad infrarossi ha identificato il materiale come cera d’api e la datazione al radiocarbonio sembra collocarlo intorno ai 6.500 anni fa.

E’ difficile confermare con certezza che la cera d’api trovata sul dente sia stata effettivamente collocata nella cavità per risolvere un problema dentale. I ricercatori credono tuttavia di poter escludere ogni altra ipotesi per via dell’accurato posizionamento della cera all’interno del dente.

“E’ sempre difficile avere un’idea chiara delle manipolazioni di ossa e denti” spiega David Frayer della University of Kansas. “Ma credo che i ricercatori abbiano portato i migliori argomenti possibili a sostegno dell’ipotesi della cera utilizzata come riempimento per i denti”.

Cera d' api
Celle di cera piena di miele
Cera d’api sigillante e propoli disinfettante

In effetti, la cera d’api sembra essere uno dei migliori materiali disponibili in natura per il riempimento di cavità dentali. “Il punto di fusione è basso, per cui si può sciogliere facilmente, ma si solidifica non appena si raffredda a temperatura ambiente”.

La cera d’api è un materiale ampiamente sfruttato nell’antichità per via delle sue proprietà sigillanti. Viene secreta da otto ghiandole presenti nella zona ventrale delle api solo quando la temperatura dell’ alveare è compresa tra i 33 e i 36°C e richiede agli insetti un enorme sacrificio in termini di energie: si calcola che per ottenere un solo chilogrammo di cera le api di una colonia debbano percorrere collettivamente circa 530.0000 km per la raccolta del polline.

In aggiunta, la cera d’api contiene miele e propoli, sostanze dalla proprietà antibatteriche e antinfiammatorie capaci di inibire la proliferazione della carie. Il propoli viene sfruttato dalle api come materiale sigillante per riempire piccole fessure all’interno dell’alveare, ma viene impiegato anche per evitare che parassiti e batteri possano prosperare all’interno della colonia.

“Ho utilizzato la cera d’api in un progetto sulla mummificazione, ed è risultata molto utile; è per questo che veniva utilizzata dagli imbalsamatori egizi” spiega Stephen Buckley, ricercatore della University of York.

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