religioni – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Irminsul, il Grande Pilastro del paganesimo nordeuropeo https://www.vitantica.net/2020/02/12/irminsul-grande-pilastro-paganesimo-nordeuropeo/ https://www.vitantica.net/2020/02/12/irminsul-grande-pilastro-paganesimo-nordeuropeo/#respond Wed, 12 Feb 2020 11:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4780 Secondo il paganesimo germanico o sassone, alcuni alberi erano creature sacre associate alle divinità che popolavano il pantheon centro e nordeuropeo. Ad essere venerate non erano soltanto singole entità vegetali come grosse querce, betulle o tassi, ma anche intere foreste: i boschi sacri erano diffusissimi e godevano di enorme rispetto nella spiritualità di Celti e popoli norreni.

L’ Irminsul, traducibile con “grande pilastro”, aveva un ruolo centrale nella tradizione pagana nordeuropea: nella regione tedesca di Hess, ad esempio, si venerava la Quercia di Donar (o Quercia di Thor), un albero sacro alle comunità pagane locali fatto abbattere per ordine di San Bonifacio nell’ VIII secolo, come racconta la Vita Bonifatii auctore Willibaldi (“Vita di San Bonifacio”).

Il Grande Pilastro

La parola sassone Irminsul deriva dall’unione di due termini: “irmin” (“grande”, in antico norreno “jörmunr“), uno dei nomi di Odino o di Yggdrasil, l’albero cosmico che connette i Nove Mondi della tradizione nordeuropea; e la parola “sûl“, traducibile con “pilastro” o “colonna” (in antico norreno “sula“).

Alcuni specifici Irminsul vengono citati da numerose fonti storiche: gli Annali del Regno dei Franchi (Annales Regni Francorum), opera che dettaglia il regno dei sovrani Franchi tra il 741 e l’ 828 d.C., afferma che Carlomagno avesse ripetutamente ordinato la distruzione di un importante Irminsul nei pressi di Heresburg, Germania, nel tentativo di debellare il paganesimo dalla regione.

Nel De miraculis sancti Alexandri, del monaco benedettino Rudolf di Fulda (865), viene descritto un Irminsul: si trattava di un enorme colonna di legno eretta nel mezzo di una radura, adorata dai pagani perché rappresentava il pilastro che sostiene l’intero universo.

Anche dopo la diffusione del Cristianesimo, nelle regioni nordeuropee il significato dell’ Irminsul non andò perduto. La cronaca del XII secolo Kaiserchronik menziona il grande pilastro in tre occasioni distinte, tra le quali un passo in cui si accenna l’origine dei nomi dei giorni della settimana.

Infine, la figura di Irmin, nipote del re Tuisto e fondatore della stirpe degli Irminoni, era probabilmente considerata una sorta di semi-divinità dei Sassoni anche per il suo nome che richiamava il pilastro sacro; ma “irmin” era anche un epiteto utilizzato per riferirsi a qualche divinità non meglio precisata ma rilevante nel pantheon germanico, e a Wodan (Odino).

Irminsul e religione

L’ Axis Mundi, il pilastro che sorregge il mondo intero, è un concetto comune non solo nelle culture germaniche, ma in tutta Europa. Rappresenta la connessione tra il cielo e la terra, il punto di giunzione tra i 4 punti cardinali principali e “l’ombelico del mondo”.

In base alla cultura d’appartenenza, il ruolo di axis mundi venne ricoperto da diversi oggetti naturali, come montagne, alberi, scale, torri, pilastri o colonne di fumo. Attorno alle diverse località sacre connesse all’axis mundi furono eretti santuari e strutture di culto di particolare importanza.

Secondo il paganesimo sassone e germanico, l’Irminsul rappresentava il sacro pilastro al centro del mondo; è quindi facile immaginare la sua rilevanza religiosa nei riti stagionali delle culture europee. L’albero cosmico presente in alcuni antichi culti pagani, come Yggdrasil nella cosmologia norrena, rappresentava i tre principali piano dell’esistenza: il cielo (le fronde), la terra (il tronco) e l’aldilà (le radici).

Nelle regioni centro e nordeuropee era tradizione erigere colonne in località particolarmente rilevanti per il paganesimo locale, come nei centri cittadini o sui crocevia. Alcune colonne venivano erette dopo un particolare evento, come racconta Widukind di Corvey: un Irminsul fu collocato nella città di Fulda dopo la vittoria dei Sassoni sui Turingi.

Disegno del rilievo di Externsteine. L'oggetto piegato verso destra a forma di "T" potrebbe essere un Irminsul
Disegno del rilievo di Externsteine. L’oggetto piegato verso destra a forma di “T” potrebbe essere un Irminsul. Wikipedia

Il pilastro che Carlomagno ordinò di distruggere sembra essere stato un Irminsul di particolare rilevanza, adorato da tutte le popolazioni sassoni. Ma diversi altri Irminsul erano presenti sul territorio: gli Irminoni realizzarono un santuario di primaria importanza (poi distrutto e saccheggiato dal sovrano franco) attorno all’ Irminsul delle Externsteine, una formazione rocciosa vicino all’odierna città di Paderborn.

Moltissime cronache contemporanee descrivono la distruzione dell’ Irminsul ordinata da Carlomagno, suggerendo che sia stato un evento di una certa rilevanza anche per i non sassoni; per i popoli germanici, la distruzione del grande pilastro costituì una vera tragedia, tale da scatenare una rappresaglia in territorio franco.

Il mistero dell’Irminsul

Ad oggi non conosciamo precisamente l’aspetto del tipico Irminsul. Non abbiamo alcun pilastro o colonna chiaramente identificabile con questo particolare oggetto di culto, ma abbiamo una possibile raffigurazione a Externsteine.

Si tratta di un’incisione nella roccia che, secondo la tradizione cristiana, riporta la “discesa dalla croce” di Gesù, ma contiene un dettaglio non presente in altre raffigurazioni simili: la figura di Nicodemo (o, secondo alcuni storici, Giuseppe d’Arimatea) non si trova su una scala, ma poggia su una struttura simile ad un albero caduto, un potenziale Irminsul.

In molte raffigurazioni dell’Irminsul il pilastro termina con una sorta di punta o cerchio in corrispondenza dell’estremità più alta. Secondo alcuni storici, questa parte terminale sarebbe identificabile con la stella polare, l’unico punto fisso nella volta celeste dell’emisfero settentrionale e il fulcro attorno a cui ruota il mondo terreno.

Nella tradizione lappone, questi pilastri avevano un volto umano intagliato in modo grezzo in corrispondenza dell’estremità superiore, ma molti storici concordano nell’affermare che gli Irminsul germanici non fossero dotati di questa caratteristica.

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Il simbolo del pilastro è comune in molte culture europee, non solo nei culti pagani. I pilastri e gli archi di alcune chiese del Medioevo hanno aspetti in comune con le possibili  raffigurazioni dell’ Irminsul oggi conosciute, talvolta con somiglianze che fugano quasi ogni dubbio sul simbolismo di quei particolari elementi architettonici.

Il casato svedese dei Vasa ha nel suo stemma un simbolo che ricorda molto l’Irminsul. Non c’è un consenso unanime sul reale significato di questo simbolo: per alcuni è uno strumento da pesca, per altri è una sorta di macchina d’assedio, ma l’unica certezza è che ricorda da vicino il pilastro sacro germanico.

THE IRMINSUL AND THE EXTERNSTEINE: FROM YGGDRASIL TO THE IRMINSUL
Re-Examining Irmin and the Irminsul
Irminsul – The Cosmic Pillar
OF IRMINSULS AND WORLD TREES

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Acchiappasogni, l’amuleto della Donna Ragno https://www.vitantica.net/2020/01/13/acchiappasogni-amuleto-donna-ragno/ https://www.vitantica.net/2020/01/13/acchiappasogni-amuleto-donna-ragno/#respond Mon, 13 Jan 2020 00:09:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4739 L’ acchiappasogni è uno oggetto ormai diffuso in molte case, come semplice ornamento o come elemento legato alla sfera spirituale individuale. Ma quanto realmente sappiamo su questo oggetto di origine nordamericana?

Ciò che viene definito “acchiappasogni” viene generalmente interpretato come strumento per allontanare sogni non desiderati, o per scacciare influssi negativi generati da umani di indole malvagia o da entità immateriali senza riposo. Il suo significato, tuttavia, ha subito cambiamenti nell’arco della storia umana, specialmente dopo la sua uscita dal contesto animista dei nativi americani.

L’origine dell’acchiappasogni

L’acchiappasogni è un oggetto legato alle culture tradizionali nordamericane: lo si può tipicamente trovare nelle tribù Cheyenne e Lakota, ma la sua vera origine sembra essere legata al popolo Ojibwe e alla figura della “Donna Ragno”.

L’etnografo francese Frances Densmore registrò nel 1929 una leggenda Ojibwe che narrava il mito della creazione dei primi acchiappasogni: si trattava di ragnatele simboliche realizzate per ingraziarsi Asibikaashi, o Donna Ragno, una divinità di primaria importanza per molte culture nordamericane ed entità che veglia sui bambini e protegge gli esseri umani.

Con la diffusione degli Ojibwe su tutto il territorio nordamericano, dice la leggenda, Asibikaashi iniziò ad incontrare difficoltà nel raggiungere tutti i bambini sotto la sua tutela; per semplificarle il compito, le madri e le nonne Ojibwe iniziarono a realizzare finte ragnatele utilizzando rami di salice, fibre vegetali e tendini per fare in modo che l’influenza positiva della Donna Ragno potesse raggiungere ogni angolo del continente.

Nella cultura Ojibwe, l’acchiappasogni viene chiamato asabikeshiinh, che significa “ragno”, oppure asubakacin (“simile ad una rete”), e il suo scopo principale è quello di fungere da talismano protettivo per i bambini. Come spiega Densmore:

“Ogni neonato viene dotato di talismani protettivi. Un esempio di questi sono le “ragnatele” appese sulle culle. Nei vecchi tempi queste reti venivano realizzate con fibre di ortica. Due ragnatele venivano solitamente intessute nell’anello [dell’acchiappasogni], e si diceva che potessero catturare ogni influsso malvagio presente nell’aria come una ragnatela cattura e trattiene qualunque cosa venga in contatto con essa”.

La Donna Ragno

La figura della Donna Ragno è un elemento comune di molte culture nordamericane, e si presenta con diversi nomi: Kokyangwuti o Gogyeng Sowuhti per gli Hopi, Na’ashjé’ii Asdzáá tra i Navajo, per il popolo Pueblo invece si chiama Tse-che-nako o Sussistanako. Si tratta di un’entità di primaria importanza, come dimostra il mito della creazione della cultura Hopi.

La storia della creazione del mondo inizia con la divinità solare Tawa e la Donna Ragno (Kokyangwuti), identificabile come la divinità della Terra. Le due entità divine si separano per poter dare alla luce divinità minori e creare tutto ciò che esiste sul pianeta.

Dopo qualche tempo, Tawa e Kokyangwuti realizzarono che le creature da loro generate non erano dotate di una vera e propria vita; decisero quindi di donare loro un’anima prima di procedere alla creazione degli esseri umani primordiali. Fatto questo, la Donna Ragno separò gli esseri umani in differenti tribù, guidandoli nelle Quattro Grandi Caverne della tradizione Hopi, spiegando loro quali fossero i ruoli naturali dell’ uomo e della donna e illustrando i rituali sacri da seguire.

Acchiappasogni Ojibwe in salice rosso
Acchiappasogni Ojibwe in salice rosso

In un’altra versione Hopi della creazione, la Donna Ragno, chiamata Gogyeng Sowuhti, è l’assistente di Tawa inviata tra le creature viventi per diffondere la parola del dio. Tawa non era contento del fatto che le sue creazioni non riuscissero a capire come vivere correttamente; inviò quindi la Donna Ragno per insegnare agli esseri umani i riti sacri, la tessitura e la ceramica.

Dopo qualche tempo, gli uomini iniziarono ad allontanarsi da Tawa. La Donna Ragno fu nuovamente inviata tra gli umani per avvisare i pochi rimasti sulla retta via che era il momento di allontanarsi dagli altri per raggiungere il “mondo di sopra”, dove avrebbero condotto un’esistenza illuminata in compagnia di entità divine.

I significati dell’acchiappasogni

Il tipico acchiappasogni Ojibwe ha un telaio in rami di salice, noti per la loro flessibilità, e una tela di fibre vegetali o tendine. Il telaio ha solitamente una forma circolare o a goccia, e ha un diametro tra i 7 e i 12 centimetri; se il telaio è troppo grande, il potere dell’ acchiappasogni potrebbe risentirne.

Al centro dell’ acchiappasogni si trova generalmente una piccola apertura, che consentirebbe ai sogni di natura positiva di passare; i sogni vengono poi “filtrati” dalle penne d’uccello che pendono dall’oggetto fino a raggiungere la mente sognante del bambino protetto dall’amuleto.

Nella realizzazione di un acchiappasogni era rilevante il numero di punti di giunzione tra la ragnatela e il telaio di salice. Nella tradizione Ojibwe, i punti di contatto dovevano essere otto come le zampe di un ragno, mentre in altre tradizioni erano sette come il numero delle “grandi profezie”. In alcune culture i punti di contatto potevano variare da 5 (il numero delle forme del cielo) a 28 (la durata in giorni del mese lunare).

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A partire dagli anni ’60 del 1900, l’ acchiappasogni ha assunto un significato più ampio di quello originale, divenendo un simbolo di unità tra le culture di nativi nordamericani. La popolarità riscossa da questo talismano ha contribuito a snaturarne il suo significato originale: se realizzato per la commercializzazione, spesso contiene materiali o forme che tradizionalmente venivano considerati controproducenti per lo scopo dell’ acchiappasogni, se non addirittura offensivi per le culture native.

Where did the Ojibwe dream catcher come from?
Native American Dream Catchers
Spider Grandmother
Dreamcatcher

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Le divinità dell’ alcol https://www.vitantica.net/2019/06/19/divinita-alcol/ https://www.vitantica.net/2019/06/19/divinita-alcol/#respond Wed, 19 Jun 2019 00:10:33 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4202 Nel corso della storia umana, l’alcol ha giocato un ruolo di primo piano nella vita quotidiana e nella sfera religiosa dei nostri antenati. Anche se molte divinità associate all’ebbrezza e al consumo di alcol nacquero con scopi differenti, come la protezione del raccolto o per favorire la fertilità, altre furono dedicate esclusivamente al consumo di bevande alcoliche.

Dioniso / Bacco

Nato come divinità protettrice della vegetazione in età arcaica, col passare del tempo Bacco divenne il dio dell’ebbrezza e del vino, e più in generale dell’estasi.

A Roma fu identificato con Bacco (in antico greco, Bákkhos era il nome di Dioniso quando si lasciava andare all’estasi) e veniva generalmente raffigurato vestito di pelle di leopardo a bordi di un carro e in compagnia di un corteo composto da sacerdotesse, animali e satiri.

Dioniso non era esclusivamente legato al vino, ma anche all’ edera: era usanza far macerare le foglie di alcune specie di edera nel vino per favorire il rilascio di sostanze psicotrope nelle bevande alcoliche.

Il culto di Dioniso era caratterizzato da una forte presenza femminile (le baccanti): durante le cerimonie in suo onore, i partecipanti cercavano di riprodurre il corteo soprannaturale che accompagnava la divinità (chiamato tiaso) intonando canti ed eseguendo danze rituali. Uno tipo di rituale particolarmente cruento eseguito durante queste cerimonie era lo sparagmòs: dilaniare animali a mani nude per nutrirsi delle loro carni.

Liber Pater

Divinità italica del vino e della fecondità, oltre che patrono della plebe romana. Non si hanno molte informazioni sul culto di Liber durante le prime fasi dell’era repubblicana, ma sembra sia stata la risposta popolare alla proibizione dei Baccanali del 186 a.C. (“senatus consultum de Bacchanalibus“).

Prima della sua introduzione ufficiale nel pantheon romano (i Liberalia in suo onore venivano celebrati il 17 marzo), Liber era l’accompagnatore di due divinità arcaiche: Cerere e Libera. Liber Pater fu introdotto nella tradizione romana in corrispondenza della caduta della monarchia e della formazione della repubblica.

Liber fu gradualmente assimilato a Bacco , ereditandone i miti e l’iconografia. Secondo Plinio, Liber fu “il primo a stabilire la pratica di vendita e d’acquisto; inventò inoltre il diadema, l’emblema della regalità, e la processione di trionfo”.

Fufluns
Statuetta in bronzo raffigurante il Dionysos etrusco (Fufluns), nudo e con in mano il kantharos, il tipico bicchiere da vino che lo contraddistingue
Statuetta in bronzo raffigurante il Dionysos etrusco (Fufluns), nudo e con in mano il kantharos, il tipico bicchiere da vino che lo contraddistingue

Equivalente etrusco di Dioniso e Bacco, figlio di Semia, dea della terra, e di Tinia, dio del cielo. A lui furono dedicate città e montagne sacre, come Populonia e il monte Bibele.

Fufluns viene citato nel “fegato etrusco”, un modello in bronzo di fegato di pecora che reca iscrizioni usate dagli aruspici per le loro divinazioni.

In occasione della vendemmia, gli Etruschi effettuavano sacrifici taurini in onore di Fufluns. Fufluns non era soltanto il dio della vendemmia e del vino, ma anche della vegetazione e della crescita di ogni cosa vivente.

Acratopotes, il bevitore di vino puro

Gli antichi Greci erano soliti consumare il loro vino diluendolo con acqua: bere vino “puro” era considerato sconveniente e portava facilmente all’ubriachezza molesta. Acratopotes (o Akratos), tuttavia, si guadagnò il titolo di “bevitore di vino non mescolato ad acqua”: era una divinità venerata in Attica e considerato uno dei compagni divini di Dioniso, il dio dell’ebrezza.

Ceraon

Mescolare vino ad acqua era ritenuto così importante in Grecia da far nascere l’esigenza di una divinità che presiedesse all’operazione. Ceraon era un semi-dio che sovrintendeva l’atto di mescolare acqua e vino, ed era così importante da meritarsi una statua a Sparta.

Ægir

Ægir era uno jötunn, creature simili a giganti o troll in costante competizione con le divinità tradizionali del pantheon norreno. Generalmente associato all’oceano, Ægir era in realtà un amico degli dei ed era celebre per organizzare numerosi ed elaborati banchetti per gli esseri divini nordeuropei.

Nel Lokasenna, Ægir organizza un sontuoso banchetto per gli dei producendo birra con un enorme calderone donatogli da Thor e Tyr, ottenuto dalla vittoria contro il gigante Hymir.

Du Kang

Du Kang

Detto anche Shao Kang, è una delle figure cinesi a cui si attribuisce l’invenzione delle bevande alcoliche. Sia in Cina che in Giappone è considerato il patrono dei vinificatori (chiamati toji nel Sol Levante).

Più che una divinità, Du Kang è un personaggio semi-leggendario elevato al rango di divinità. Non sappiamo con certezza in che periodo sia vissuto: alcuni autori lo collocano al fianco dell’ Imperatore Giallo, altri ritengono che il suo vero nome fosse Shao Kang, il sesto sovrano della dinastia Xia.

A Du Kang viene anche attribuita l’invenzione indiretta dell’aceto Chinkiang: suo figlio Heita, per una dimenticanza, lasciò fermentare un vaso di vino per 21 giorni, creando il primo aceto nero di riso.

Methe

Nella mitologia greca, Methe è la personificazione dell’ubriachezza e fa parte del seguito di Dioniso. Secondo Pausania, Methe era raffigurata nel tempio di Asclepio a Epidauro nell’atto di bere del vino.

Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, Methe è la moglie di Stafilo. Quando Stafilo muore improvvisamente il mattino dopo aver celebrato un banchetto in onore di Dioniso, il dio decide di rendere immortale la memoria di Methe associando il suo nome allo stato di ebbrezza.

Tepoztecatl

Tepoztecatl

Nella mitologia azteca, Tepoztecatl è la divinità del pulque, dell’ubriachezza e della fertilità. Secondo il mito, Tepoztecatl era figlio di Mayahuel, la divinità dell’agave americana, e di Patecal, il dio che scoprì il processo di fermentazione.

In onore di Tepoztecatl furono eretti templi e monumenti, tra i quali il sito archeologico di El Tepozteco, in Messico. Il sito era meta di pellegrinaggio di fedeli che provenivano non solo dalle regioni limitrofe, ma anche dal Chiapas e dal Guatemala.

Le celebrazioni in onore di Tepoztecatl venivano svolte generalmente durante l’autunno e consistevano nel consumo di grandi quantità di pulque, una bevanda alcolica prodotta dall’agave.

Inari Okami

Conosciuto anche come Oinari, è il kami (spirito) delle volpi, della fertilità, del riso e del sakè. A partire dal XVI secolo divenne anche il patrono dei fabbri e dei guerrieri, finendo per diventare una delle divinità principali dello Shintoismo con oltre 32.000 santuari sparsi per tutto il Giappone.

Inari ha assunto diverse forme nella tradizione giapponese: un anziano che offre riso, una giovane divinità del cibo, un bodhisattva androgino, una volpe o un serpente/drago.

Ninkasi
Tavoletta mesopotamica con il censimento delle scorte di birra
Tavoletta mesopotamica con il censimento delle scorte di birra

Figlia del re di Uruk e della sacerdotessa del tempio di Inanna, Ninkasi era la divinità tutelare dell’alcol nell’antica Mesopotamia sumera.

Ninkasi era la personificazione stessa della birra ed era spesso associata alle pratiche di guarigione perché nata dalla dea Ninhursag: mentre la divinità prestava cure al malato Enki (dio dell’acqua, della conoscenza e della creazione), tra le divinità secondarie generate con lo scopo di curare la divinità creatrice nacque Ninkasi.

Uno dei più antichi poemi sumeri, l’ “Inno a Ninkasi”, è in realtà una ricetta per la produzione di birra e una delle prime attestazioni dell’attività delle donne nella produzione di alcolici.

Nephthys

Chiamata anche Nebthet o Nebet-Het, Nephthys è la divinità egizia che sovrintende al consumo di birra. E’ la sorella di Iside e Osiride, e la moglie di Seth.

Nephthys era considerata la nutrice del faraone regnante e secondo la mitologia egizia era in grado di incenerire i nemici del sovrano con il suo alito di fuoco.

Nephthys era una divinità benevola e le celebrazioni in onore di questa dea prevedevano rituali in cui la birra scorreva a fiumi.

Gambrinus

Gambrinus

Icona europea della birra, delle bevute e della gioia di vivere, è il soggetto di molte canzoni e storie che lo dipingono come un re/duca/conte delle Fiandre.

L’origine di Gambrinus è incerta e ad oggi è considerato un personaggio semi-leggendario. Negli Annali di Bavaria di Johannes Aventinus, Gambrinus sarebbe riconducibile al sovrano germanico Gambrivius, che secondo la leggenda apprese i segreti della distillazione da Osiride e Iside.

Alcune fonti sostengono che Gambrinus fosse identificabile con Giovanni di Borgogna, ritenuto l’inventore della birra di malto e luppolo; altre ancora affermano che Gambrinus fosse un coppiere alla corte di Carlo Magno.

THE GODS OF ALCOHOL
List of deities of wine and beer

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La maledizione del fruttivendolo https://www.vitantica.net/2019/05/22/maledizione-del-fruttivendolo/ https://www.vitantica.net/2019/05/22/maledizione-del-fruttivendolo/#respond Wed, 22 May 2019 00:10:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4177 Dopo quasi 90 anni dalla sua scoperta all’interno di un’antica fonte della città di Antiochia, è stata decifrata interamente una lamina di piombo risalente a 1.700 anni fa. L’iscrizione si è rivelata essere una maledizione invocata contro un fruttivendolo.

Maledetto fruttivendolo

Scritto in greco su una lamina di piombo, il testo invoca la potenza di Dio (Iao, uno dei nomi con cui ci si riferiva a Yahweh) contro un uomo di nome Babylas, un venditore di frutta e verdura. La tavoletta riporta anche il nome della madre della vittima, Dionysia.

L’artefatto è stato scoperto in un pozzo di Antiochia intorno agli anni ’30 del 1900, ma al tempo della scoperta fu effettuata solo una traduzione parziale. Il lavoro di traduzione completa è stato eseguito da Alexander Hollmann della University of Washington nel 2012.

La maledizione recita:

“O Iao che scagli lampi e saette, colpisci, colpisci e abbatti Babylas il venditore di frutta. Come hai colpito il carro del faraone, colpisci la sua offesa. O Iao che scagli lampi e saette, come uccidesti il primogenito d’Egitto, uccidi il suo bestiame […]”.

L’artefatto è singolare, perché fino ad ora non era mai stata rinvenuta una maledizione contro un fruttivendolo. Esistono diverse tavolette magiche che hanno come bersaglio  gladiatori, sovrani e mercanti, ma mai ad un venditore di frutta.

La lastra di piombo che riporta incisa la maledizione
La lastra di piombo che riporta incisa la maledizione

“In alcune maledizioni vengono citate altre persone e la loro professione, ma non mi sono mai imbattuto in un fruttivendolo” afferma Hollmann.

Non è noto il nome della persona che scagliò  la maledizione contro il povero venditore di frutta, per cui si può soltanto ipotizzare la causa scatenante del maleficio.

“Ci sono maledizioni legate ad affari di cuore, ma questa non ha lo stesso tipo di linguaggio. Non è da escludere che la ragione fosse legata a motivi di business o commerciali. Ogni mercante aveva la sua zona, il suo territorio, e le rivalità erano comuni”.

Il nome “Babylas” suggerirebbe che il bersaglio del maleficio fosse un cristiano. Babylas era infatti il nome del Vescovo di Antiochia, ucciso intorno al III° secolo per via delle sue credenze religiose.

Nomi potenti

Il linguaggio usato nell’iscrizione ha inizialmente fatto pensare che l’autore fosse ebreo. “Non credo ci sia necessariamente una connessione con la comunità ebraica. La magia greca e romana incorporava testi ebraici senza nemmeno comprenderli interamente”.

Il riferimento al Vecchio Testamento potrebbe essere legato esclusivamente alla potenza che si attribuiva al testo sacro. “Potrebbe semplicemente essere che il Vecchio Testamento fosse considerato un testo molto potente, e la magia gioca con testi e nomi potenti. E’ questo che fa funzionare la magia, o che fa credere alla gente che funzioni”.

La lastra di piombo che riporta incisa la maledizione

I katadesmos

La tavoletta è molto simile alle “tavole magiche” (katadesmos) greche, tipicamente incise nel piombo a piccole lettere e sepolte nei pressi di tombe o santuari per ingraziarsi i favori delle entità sovrannaturali.

Uno dei più celebri katadesmos è la tavola di Pella, un testo inciso su un rotolo di piombo. Secondo la ricostruzione degli archeologi, Dagina, colei che incise la tavoletta, si rivolge a divinità soprannaturali per impedire che Dionysophon, il suo amato, non sposi Thetima, una rivale in amore.

Il rotolo recita:

“Sulle nozze di [Theti]ma e Dionysophon io invoco una maledizione, su tutte le altre
donne, vedove e vergini, ma in particolare su Thetima, e mi affido a Makron e
[ai] demoni che solo quando io scavo e srotolo e ri-leggo questo,
possono loro sposare Dionysophon; ma non prima; e non possa lui sposare qualsiasi donna, ma me;
e io possa diventare vecchia insieme a Dionysophon, e nessun altro; Io [sono] la tua supplicante:
Abbiate pietà della [vostra cara] Dagina(?), cari demoni, perché io sono abbandonata da tutti i miei cari.
Ma tenete presente la mia causa, in modo tale che questi eventi non accadano e la misera Thetima perisca miseramente
e a me concedete gioia e felicità.”

Nelle tavolette greche katadesmos si citano spesso divinità come Ermes, Caronte, Ecate e Persefone, oltre che i nomi dei cari estinti, per infondere potenza all’incantesimo. Il riferimento a Yahweh nella tavoletta di Antiochia, quindi, potrebbe essere soltanto l’evocazione dell’entità divina più potente della regione.

Deciphered Ancient Tablet Reveals Curse of Greengrocer

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Nábrók, le “necromutande” della stregoneria islandese https://www.vitantica.net/2019/05/01/nabrok-necromutande-stregoneria-islandese/ https://www.vitantica.net/2019/05/01/nabrok-necromutande-stregoneria-islandese/#respond Wed, 01 May 2019 00:10:33 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4044 Nel tranquillo villaggio di pescatori di Hólmavík si trova un museo che ospita la riproduzione di un oggetto leggendario della stregoneria islandese: il nábrók, “necromutande” (o “necropantaloni” che dir si voglia) la cui creazione prevedeva un rituale così complesso da risultare irrealizzabile.

Il Museo della Magia e della Stregoneria Islandese

Il Museo della Magia e della Stregoneria Islandese combina interessanti fatti storici relativi alla caccia alle streghe condotta in Islanda nel XVII secolo ed elementi folkloristici legati alla magia islandese di discendenza norrena, una pratica che spesso prevedeva sacrifici di sangue e rituali della tradizione magica popolare nordeuropea.

Nel 2014 gli utenti di TripAdvisor hanno classificato questo museo tra i primi dieci musei più interessanti d’Islanda, lasciando stupito e soddisfatto il curatore Sigurður Atlason, un appassionato di folklore e storia della sua isola.

“Il nostro museo è qualcosa che esula da un museo tradizionale, caratteristica che lo rende particolare. Mandare avanti il museo è stata una sfida: questo è il primo anno dall’apertura in cui siamo in grado di assumere personale. Siamo finalmente diventati un business solido” spiega Atlason.

L’idea di un museo incentrato sulla stregoneria islandese è nata nel 1996 per attrarre più visitatori in un’area così remota d’Islanda, il distretto di Strandasýsla. Nel 2000 il museo ha finalmente aperto le sue porte e anno dopo anno ha attratto sempre più visitatori provenienti da tutto il mondo.

La raccapricciante stregoneria islandese

Durante il XVII secolo l’Islanda fu coinvolta in una vera e propria caccia ai praticanti di stregoneria: l’accusa di esercitare magia nera portò alla morte diverse persone, generalmente uomini. La magia islandese, diretta discendente di quella norrena, prevedeva inoltre rituali violenti o disgustosi, come quello previsto per l’evocazione di un tilberi.

Un tilberi, o snakkur, era una creatura soprannaturale creata dai praticanti di magia nera di sesso femminile con il preciso scopo di rubare latte. Il primo riferimento letterario ad un tilberi appare solo nel XVII secolo, ma lo stesso riferimento cita una donna del 1500 punita per aver dato origine a questa mostruosità.

Un tilberi, o snakkur, veniva creato per sottrarre latte ai vicini di casa
Un tilberi, o snakkur, veniva creato per sottrarre latte ai vicini di casa

Il rituale per la creazione di un tilberi era basato su oggetti ottenuti tramite l’inganno: era necessario sottrarre durante il giorno di Pentecoste una costola da un cadavere seppellito di recente, avvolgerlo in lana grigia rubata appositamente per lo scopo e tenere il rotolo così ottenuto tra i seni per tre settimane.

Ogni domenica, durante la comunione, la donna doveva sputare il vino santo sul rotolo, vedendolo prendere vita e muoversi sempre più ad ogni messa. Al termine del rituale, la donna doveva alimentare la creatura lasciandole succhiare sangue dalla coscia: a questo punto, il tilberi era pronto per essere inviato a rubare latte dalle fattorie vicine, latte che avrebbe rigurgitato dopo il suo ritorno a casa.

Gli incantesimi islandesi erano del tutto simili ai galdrar norreni, versi usati nella magia popolare in svariate circostanze, dal rendere più semplice il parto al portare alla follia un avversario. Pare che Odino conoscesse ben 18 galdrar, tra i quali uno per creare tempeste e un altro per evocare i morti.

I galdrar e la tradizione magica popolare furono le basi per la stregoneria islandese: secondo la leggenda, intorno al XVI secolo Gottskálk grimmi Nikulásson, vescovo di Holar, raccolse tutte le conoscenze magiche e i galdrar norreni (tra i quali la procedura di creazione del nábrók) in un libro, il Rauðskinna,noto anche come Il Libro del Potere, un volume apparentemente sepolto con la salma del prelato e per secoli obiettivo della ricerca di molti praticanti della magia norrena.

Il pezzo forte: nábrók

L’oggetto più popolare del museo è la riproduzione in legno di un nábrækur, detto anche nábrók. Si tratta di mutande magiche che, secondo la magia vichinga islandese, potevano garantire un flusso infinito di monete a patto di realizzarle seguendo un rituale specifico e sanguinolento.

Nabrok

Come molti altri oggetti del museo, anche le necromutande sono state realizzate dall’artista di scena Árni Páll Jóhannsson, ottenendo l’attenzione dei media fino a raggiungere la notorietà in uno show della BBC condotto da Stephen Fry. “Lo show ha creato il caos” sostiene Atlason. “La gente entrava chiedendo se questa fosse la casa dei pantaloni magici mostrati alla BBC”.

Per quanto costituiscano il pezzo forte del museo, questi necropantaloni sono in realtà solo un oggetto leggendario, mai realizzato da nessun vichingo islandese per ovvie ragioni pratiche che saranno ben evidenti qualche paragrafo più sotto. “Ogni volta che qualcuno mi chiede se sono reali o se siano mai esistiti, devo dire la verità: i pantaloni magici sono esistiti soltanto nelle leggende popolari locali”.

La creazione e l’utilizzo del nábrók

Creare un nábrók non era soltanto difficile, ma tecnicamente impossibile. La procedura poteva iniziare anche molti anni prima di procedere con l’effettiva realizzazione dell’oggetto magico: occorreva infatti stipulare un patto con un amico convincendolo a cedere il suo corpo al futuro utilizzatore dopo una morte per cause naturali.

Alla morte dell’amico, l’indossatore delle necromutande doveva attendere la sepoltura del cadavere, riesumarlo senza farsi notare e, solo a quel punto, procedere con la preparazione vera e propria dell’oggetto magico.

Il procedimento era il seguente: occorreva scorticare il corpo dai fianchi ai piedi prestando la massima attenzione a mantenere perfettamente intatta la pelle. Ogni taglio o buco sulla pelle estratta dal cadavere (pelle che comprendeva ovviamente anche quella dei genitali) avrebbe irrimediabilmente compromesso il rituale, vanificando ogni sforzo.

Una volta ottenuti dei veri e propri pantaloni di pelle umana, era necessario indossarli a contatto diretto con la propria pelle, momento in cui avrebbero aderito con forza al corpo dell’indossatore.

Lo scopo del nábrók era quello di ottenere una riserva illimitata di denaro; per innescare questa “generazione spontanea” di monete era necessario inserire nello scroto delle necromutande una moneta sottratta ad una vedova mendicante e il simbolo magico nábrókarstafur scritto su un pezzo di pergamena.

Simbolo Nábrókarstafur
Simbolo Nábrókarstafur

A patto di non rimuovere la moneta, lo scroto del nábrók si sarebbe costantemente riempito di monete senza sosta. Ma liberarsi di questi necropantaloni ed evitare la dannazione eterna non era semplice: occorreva seguire un altro rituale.

In caso di morte imminente, era fondamentale togliersi il nábrók per non incorrere in una sorte terribile nell’aldilà. Per separarsi dalle necromutande occorreva trovare un’altra persona disposta ad indossarle ed effettuare la transizione da un indossatore all’altro in modo tale da lasciare almeno una gamba all’interno dell’oggetto magico.

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Necropants and Other Tales of 17th-Century Icelandic Sorcery

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9 cose poco note su Thor, il dio del tuono https://www.vitantica.net/2019/04/24/9-cose-poco-note-thor/ https://www.vitantica.net/2019/04/24/9-cose-poco-note-thor/#comments Wed, 24 Apr 2019 20:00:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4149 Scrivo questo post in attesa di Avengers:Endgame, un film che ho atteso a lungo e che spero caldamente non riesca a deludermi. Vi prego di evitare ogni forma di spoiler almeno fino al 26 aprile.

Spero che la pellicola abbia un enorme successo: davvero, me lo auguro, sia per la quantità di ore che ho “investito” nel guardare ben 21 film prima di questo, epico finale, sia per il fatto che si tratta dell’unica saga cinematografica che veda come protagonista uno tra i miei supereroi preferiti di sempre: Thor, una delle divinità più celebri della mitologia norrena.

Sappiamo tutti che Thor è il dio del tuono, del fulmine, delle tempeste, della forza e di un’altra manciata di elementi naturali. Il figlio di Odino è anche il protettore dell’umanità intera e impugna un martello magico, Mjölnir, un’arma capace di radere al suolo intere montagne.

Thor era, come tutte le divinità di ogni religione del pianeta, il tentativo di dare un senso all’esistenza umana e a quella di tutta la materia che ci circonda, vivente e non.

E come ogni divinità norrena che si rispetti, la storia di Thor, come la sua origine e il suo destino, sono ricchi di retroscena e informazioni curiose.

I molti nomi di Thor

Thor è una divinità documentata fin dall’antica Roma: Tacito, nella sua opera Germania, associa Thor a Mercurio nel descrivere la religione degli Suebi (o Svevi), un popolo germanico proveniente dal Baltico.

Essendo una divinità comune in molte culture nordiche, Thor era conosciuto con almeno 15 nomi differenti. Giusto per citarne alcuni: in antico norreno era Þórr (ᚦᚢᚱ), ðunor in antico inglese, Donar in Germania, thunar tra i Sassoni.

L’origine di “Thursday” si deve proprio alla divinità nordica: “Thor’s day” (in proto-germanico Þonares dagaz) fu accostato al giovedì quando i popoli del Centro-Nord Europa iniziarono ad adottare il calendario settimanale romano.

Il nome di Thor divenne così comune in epoca vichinga da essere un prefisso (Thórr) abbastanza diffuso nei nomi di persona e di villaggi.

Mjölnir, un martello multiuso
A sinistra, Thor e Mjölnir sulla pietra di Altuna, in Svezia. A destra, una pietra runica con la raffigurazione del martello di Thor.
A sinistra, Thor e Mjölnir sulla pietra di Altuna, in Svezia. A destra, una pietra runica con la raffigurazione del martello di Thor.

Oltre ad alcuni aspetti tipici di una divinità, come un’immortalità di base, una forza sovrumana e la capacità di evocare fulmini e scatenare tempeste, una delle caratteristiche più note di Thor è la sua capacità di impugnare Mjölnir, un martello da guerra unico e straordinariamente potente.

Intorno al culto di Thor sorsero numerosi rituali magici incentrati su Mjölnir. Repliche più o meno stilizzate del martello divino venivano utilizzate in cerimonie religiose, matrimoni, nascite e funerali.

Piccoli Mjölnir erano comuni per benedire l’unione tra due persone, per propiziare una nascita senza complicazioni, per dare addio ai cari estinti o per favorire un raccolto abbondante.

Il martello simboleggiava la sconfitta dei giganti (incarnazione del male) da parte di Thor (il campione delle forze del bene) e rappresentava un amuleto multiuso largamente diffuso.

Non solo martelli magici

Thor non impugnava soltanto un martello. In una delle differenti versioni della divinità nordica, il figlio di Odino, chiamato Thunor, era in grado di scagliare saette contro le forze del male usando un’ ascia da battaglia.

Thor inoltre indossava altri oggetti dotati di proprietà magiche, tra i quali una cintura che raddoppiava la forza (Megingjarðar) e un paio di guanti magici che gli permettevano di recuperare Mjölnir dopo un lancio.

Come mezzo di locomozione, Thor non volava in modo spettacolare come il personaggio del Marvel Cinematic Universe: sfruttava un carro trainato da due capre, Tanngnjóstr e Tanngrisnir, di cui Thor si cibava durante i suoi viaggi perché avevano la straordinaria capacità di poter rinascere il giorno dopo, a patto di mantenere ossa e pelle intatte.

Un destino legato al Ragnarök

Nel poema Völuspá, una veggente (völva) narra la storia dell’universo a Odino. In questa storia, viene citata la morte di Thor: il figlio di Odino dovrà combattere contro il serpente Jörmungandr, una creatura marina di proporzioni colossali che verrà rilasciata durante il Ragnarök, una serie di eventi che segna la distruzione e la rinascita della Terra (Midgard).

Il serpente di Midgard ha fatto di recente la sua apparizione videoludica nel gioco God of War
Il serpente di Midgard ha fatto di recente la sua apparizione nel gioco God of War.

Thor riuscirà a sconfiggere il serpente di Midgard, ma avrà solo il tempo di nove passi prima di soccombere al veleno della bestia.

A quel punto, secondo la veggente il cielo diventerà nero, il fuoco avvolgerà la Terra, spariranno le stelle, si solleverà un gran vapore e il mondo verrà ricoperto d’acqua, per poi rinascere dalle sue ceneri, verde e fertile.

Divinità d’importazione?

La figura di Thor sembra somigliare ad alcune divinità centro-nordeuropee, come il celtico Taranis, ma anche ad alcuni personaggi mitologici orientali, come Indra, divinità induista dai capelli rossi che lanciava fulmini con la sua arma.

Indra era anche il creatore di tempeste, il portatore di pioggia, il regolatore del livello dei fiumi e il dio della guerra, celebrato per i suoi poteri e la sua capacità di abbattere il male.

I punti in comune con Indra del pantheon indiano non finiscono qui: anche questa divinità, come Thor, è destinata a combattere e sconfiggere un serpente/drago gigante, Vritra. Anche l’arma di Indra, come Mjölnir, è in grado di tornare tra le mani del suo proprietario.

L’arte del travestimento
A sinistra, disegno di Thor islandese risalente al XVIII secolo; a destra, statua di Thor a Stoccolma
A sinistra, disegno di Thor islandese risalente al XVIII secolo; a destra, statua di Thor a Stoccolma.

Thor è stato protagonista di innumerevoli leggende, alcune davvero bizzarre. Una delle più particolari vede il dio del tuono impegnato in un curioso tentativo di recuperare Mjölnir.

Il martello magico, sottratto dai giganti, era stato seppellito a oltre 10 km di profondità; sarebbe stato restituito solo nel caso Freya avesse accettato il matrimonio con Thrym, il re dei giganti.

Heimdall, il dio che vigila il ponte arcobaleno Bifrost che porta ad Asgard, suggerisce quindi questo piano d’azione: Thor, travestito da Freya, sarebbe entrato nella fortezza dei giganti in compagnia di Loki, travestito da servitrice.

Thrym accolse Thor e Loki con gentilezza, offrendo un ricco banchetto per celebrare le nozze che avrebbero celebrato il giorno seguente, ma Thor si tradì velocemente divorando un intero bue, otto salmoni e ogni altro cibo presente sulla tavola, bevendo interi barili di idromele.

I sospetti di Thrym vengono fugati dalla parlantina di Loki. Si giunge quindi al momento del matrimonio: quando Mjölnir viene offerto a Thor per benedire l’unione, il dio del tuono lo afferra e inizia a uccidere ogni singolo invitato, terminando velocemente la faccenda e liberandosi finalmente degli abiti femminili che indossava.

Sangue di gigante

Asgardiani e Giganti non sono mai andati molto d’accordo; strano, considerando che Thor è nipote di giganti. Odino infatti è mezzo-gigante: sua madre Jord (“Terra”) era una gigante purosangue.

Le entità di sangue misto non sono rare nella mitologia nordica: giganti ed Æsir (una delle due tribù di divinità, assieme ai Vanir, del pantheon nordico) intrattengono rapporti non solo come nemici, ma anche come amanti o semplici popoli differenti per cultura e scopi.

Quasi imbattibile

Thor non era imbattibile. Le leggende che lo riguardano lo vedono spesso vittima di tranelli tesi dai suoi nemici; la scarsità di astuzia veniva spesso colmata dalla sagacia di Loki.

Giant Skrymir and Thor, di Louis Huard (1813-1874)
Giant Skrymir and Thor, di Louis Huard (1813-1874)

Il dio del fulmine non era imbattibile nemmeno dal punto di vista fisico, anche se ben pochi potevano competere con lui. Lo Snorra Edda di Snorri Sturluson cita la leggenda di Thor e Utgarda-Loki (noto anche come Skrimir), uno jötnar (gigante) che sfida Thor ad una gara di forza e ad una competizione alcolica.

La prova di forza non va a buon fine, e nemmeno quella di bevute (leggi questo post per qualche dettaglio in più sulla storia). Thor, sconfitto e infuriato, dichiara che avrebbe battuto chiunque nella lotta (glima); Utgarda-Loki accetta la sfida offrendo come avversario Elli, la sua nutrice, che lo sconfigge più e più volte.

Sposato con Sif

Thor non era un guerriero divino solitario, ma aveva una compagna; contrariamente a quanto rappresentato nel Marvel Cinematic Universe, non si invaghì di una terrestre, ma faceva coppia con Sif, la dea della fertilità.

Thor e Sif vivevano insieme nel Thrudheim, un’enorme residenza di 540 stanze oltre ad essere la casa più grande di Asgard. I figli del dio del tuono, Trud e Modi, vivevano insieme al figlio adottivo di Thor, Ullr, e ad un figlio illegittimo di nome Magni, nato dall’unione del dio con la jötunn Jarnsaxa.

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Thor: The God of Thunder
Thor
Thor, God of Thunder | History / Origin / Facts | Norse Mythology
Thor the Tranvestite
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Myths of Thor

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Magia d’amore nell’ Europa medievale: la testimonianza archeologica https://www.vitantica.net/2019/04/22/magia-amore-europa-medievale/ https://www.vitantica.net/2019/04/22/magia-amore-europa-medievale/#respond Mon, 22 Apr 2019 00:10:17 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4110 Gemma Watson, assistente di ricerca alla University of Readings, in una conferenza al Theoretical Archaeology Group Conference di Cardiff, nel dicembre 2017.

La magia d’amore è stata utilizzata nel Medioevo con una molteplicità d’intenti in relazione all’amore, al sesso e alla riproduzione. Veniva utilizzata soprattutto per alimentare l’amore o il desiderio sessuale, o per impedire l’innamoramento o atti di lussuria causando odio o impotenza.

La magia d’amore veniva utilizzata occasionalmente per predire l’identità del futuro/a compagno/a o per aiutare (o impedire) il concepimento di un figlio.

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Lo studio della magia tradizionale medievale è un campo relativamente nuovo nato dall’esame approfondito del Malleus Malleficarum e di altri libri che documentano la tradizione magica europea. Nel Malleus, si sostiene che nel XV il tipo di magia più diffusa era quella d’amore, ma abbiamo scarsissime testimonianze archeologiche del suo impiego.

Una delle poche testimonianze giunte fino a noi sono degli emblemi di piombo che raffigurano diverse tematiche a sfondo amoroso o sessuale, rinvenuti in tutta l’Europa settentrionale, ma dal significato ancora misterioso. Servivano come amuleti magici o si trattava di semplice piastrine metalliche senza alcun preciso scopo se non quello di stupire?

Love Sex Magic in Medieval Europe: The archaeological evidence

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Documentario: The Whispered Verdict https://www.vitantica.net/2019/04/13/documentario-the-whispered-verdict/ https://www.vitantica.net/2019/04/13/documentario-the-whispered-verdict/#respond Sat, 13 Apr 2019 14:00:22 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4019 Non molto tempo fa ho affrontato il tema del senilicidio nelle società tradizionali. E’ un argomento che chiaramente può urtare la sensibilità di alcune persone, ma ciò non rimuove l’esistenza del fenomeno anche in società che consideriamo piuttosto progredite.

The Whispered Verdict è un documentario girato da alcuni studenti indiani che mostra la pratica del Thalaikoothal, il senilicio tradizionale della regione del Tamil Nadu. Gli studenti si sono recati in 8 villaggi, documentando la pratica e mostrando la scarsa attenzione del governo centrale verso una tradizione considerata ai limiti della legalità.

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Senilicidio: uccisione o abbandono degli anziani nelle culture antiche e tribali https://www.vitantica.net/2019/02/20/senilicidio-uccisione-abbandono-anziani/ https://www.vitantica.net/2019/02/20/senilicidio-uccisione-abbandono-anziani/#respond Wed, 20 Feb 2019 00:10:26 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3657 In molte culture antiche, tribali e non, l’età avanzata di un individuo costituiva un bene da salvaguardare. L’anzianità conferiva saggezza, conoscenza e tempo da dedicare ai più piccoli per farli crescere e apprendere al meglio il mondo circostante.

Se per alcuni popoli la vecchiaia costituiva un valore, per altri era invece un ostacolo alla sopravvivenza dell’intera comunità. Per quanto possa sembrare crudo e disumano ai giorni nostri, l’atto di sacrificare un anziano per il bene comune non era visto come un gesto crudele, ma come una necessità per far fronte alla scarsità di risorse.

Il senilicidio necessario

Il senilicidio, l’atto di uccidere o abbandonare a loro stessi gli anziani, non era affatto raro nelle culture tribali. Eliminare una persona anziana o debole, poco importa se uccidendola attivamente, lasciandola morire di stenti o costringendola di fatto al suicidio, era un atto spesso necessario per garantire la sopravvivenza del proprio gruppo sociale.

Secondo Anthony Glascock, professore di antropologia della Drexel University di Philadelphia, il senilicidio è stato praticato da circa un quinto delle culture tribali prese in esame dalla sua ricerca; l’ 84% di queste culture esibisce inoltre svariate forme di abbandono degli anziani.

Questo non significa che, tra i popoli in cui era previsto il senilicidio, ogni anziano veniva abbandonato a se stesso o ucciso non appena raggiunta un’età considerata avanzata. Molte culture distinguono tra anziani “in buono stato” e persone “non funzionali”; nel secondo caso, non è affatto rara la pratica del senilicidio o dell’abbandono.

Perché uccidere un anziano

Generalmente il senilicidio si manifestava in società nomadi di cacciatori-raccoglitori che vivevano in territori particolarmente ostili, regioni in cui la sopravvivenza della comunità poteva essere messa a dura prova dalla presenza di un solo elemento inabile o poco utile alle attività quotidiane.

Nella Grecia antica, i casi di senilicidio sembrano essere stati ridotti, come in quasi tutte le società patrilocali o matrilocali in cui era comune che i figli adulti vivessero nella stessa casa di genitori e nonni, in molti casi anche dopo il matrimonio.

Il caso più noto di senilicidio greco è quello degli abitanti dell’isola di Kea: durante l’assedio condotto dagli ateniesi, nel tentativo di preservare le già scarse riserve di cibo i locali decisero per votazione che tutti i cittadini sopra i 60 anni avrebbero dovuto commettere suicidio bevendo cicuta.

Anche a Roma il senilicidio non era istituzionalizzato se non in casi particolari. In Sardegna, uno dei pochi luoghi sotto il dominio romano in cui il senilicidio era praticato, i figli sacrificavano i padri a Crono dopo il superamento del 70° anno d’età.

In linea di massima si può affermare che nelle culture in cui la figura paterna o materna godono di rispetto assoluto, come quelle di tradizione confuciana, l’uccisione o l’abbandono degli anziani era una pratica considerata oscena, disonorevole o quanto meno deprecabile.

Nelle cultura tribali, invece, il discorso era differente. Anche se molti popoli tenevano in grande considerazione la saggezza degli anziani, facevano comunque distinzione tra anziani in salute e anziani non funzionali.

Sebbene alcune culture vedessero nell’uccisione o nell’abbandono di un anziano un evento “neutro”, un fatto della vita inevitabile e relativamente insignificante, per altri popoli l’evento era un momento da celebrare, sia per la vittima che per i suoi carnefici. Anche se l’uccisione di un parente o di un amico provocava sofferenza, era culturalmente la scelta più giusta da fare per il bene della comunità e dell’anziano.

La pratica del senilicidio tra le antiche popolazioni tribali
Omicidio con o senza consenso

Tra gli Eruli, ad esempio, non era raro uccidere un anziano malato pugnalandolo fino alla morte per poi bruciarne il corpo.

In alcune tribù Aché l’omicidio di un anziano non funzionale, con o senza il suo consenso, è considerato del tutto naturale, specialmente per le donne. Kim Hill e Ana Magdalena Hurtado riportano l’intervista di un indio aché che dichiarava di aver ucciso le sue zie spezzando loro schiena e collo e seppellendole ancora vive, o colpendole ripetutamente con frecce.

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Nello stato Tamil Nadu indiano esiste ancora oggi la pratica del Thalaikoothal, l’omicidio degli anziani da parte dei familiari. Anche se formalmente considerata illegale, in alcune regioni è socialmente accettabile e talvolta alcuni anziani richiedono esplicitamente di essere uccisi, anche se l’usanza è stata sfruttata più di una volta per compiere abusi su familiari in età avanzata.

Il thalaikoothal prevede un bagno con olio di prima mattina e l’assunzione di bevande fredde a base di latte di cocco per provocare febbre, insufficienza renale e il decesso nell’arco di uno o due giorni. In altri casi, all’anziano viene somministrato forzatamente latte di vacca tappandogli il naso per provocare soffocamento.

Desiderio di morte

Tra i Ciukci siberiani esisteva la consuetudine di essere uccisi volontariamente per mano di un parente quando si diventa anziani non funzionali, troppo deboli per essere utili alla comunità. Questo genere di morte veniva accolta con onore dal resto del gruppo: la vittima appoggiava la testa sulle ginocchia della moglie mentre e due uomini lo strangolavano con una corda avvolta intorno al collo.

Nelle Banks Island di Vanuatu e tra i kaulong della Papua Nuova Guinea gli anziani e gli infermi imploravano gli amici di porre fine alle loro vite seppellendo i loro corpi ancora vivi. In un episodio raccontato da Jane Carter Goodale, un uomo seppellì il fratello afflitto da una grave influenza, senza premere il terreno sulla sua testa; tornò a intervalli regolari, in lacrime, chiedendo al fratello se era ancora vivo, fino a quando non ottenne più alcuna risposta.

Imprese impossibili

Gli anziani Crow (come facevano anche alcuni anziani norreni e gli Yakut siberiani) si cimentano invece in imprese impossibili, come partire per un viaggio solitario senza alcuna speranza di ritorno.

Un esempio di impresa impossibile viene dalla testimonianza del marinaio neozelandese David Lewis, che osservò il navigatore Tevake delle Isole Reef dare l’addio a famiglia e amici prima di partire per un viaggio in solitaria con ben poche speranze di ritorno.

Abbandono

Gli Inuit, per quanto non dediti tradizionalmente al senilicidio (la pratica viene considerata ripugnante in alcune sottoculture), in caso di scarsità di cibo abbandonavano gli anziani indeboliti con la chiara consapevolezza che non sarebbero sopravvissuti a lungo senza cibo (l’ultimo caso documentato si verificò nel 1939).

In alcune tribù degli Aché paraguaiani, l’anziano viene condotto sulla “strada dell’uomo bianco” e abbandonato; nel caso delle donne, invece, viene semplicemente spezzato loro il collo. L’abbandono è un metodo comune nelle società cacciatrici-raccoglitrici nomadi o seminomadi che praticano il senilicidio.

L’abbandono degli anziani al loro destino è stata testimoniata dall’antropologo Allan Holmberg durante una visita ai Sirionò della Bolivia:

“La banda decise di spostarsi in direzione dei Rio Blanco. Mentre tutti facevano i preparativi per il viaggio notai una donna di mezza età che giaceva inerte sulla sua amaca, troppo malata per muoversi o parlare. Il capo mi mandò dal marito della donna, il quale mi disse che l’avrebbero lasciata lì a morire perché era troppo inferma per camminare e sarebbe morta in ogni caso. La partenza fu fissata per il mattino seguente e io restai nei paraggi ad osservare l’evento. La banda al completo si allontanò dal campo senza rivolgere il minimo cenno d’addio alla moribonda. Neppure il marito la degnò di un saluto. Le lasciarono il fuoco acceso, una zucca piena d’acqua, gli oggetti di sua personale proprietà e nient’altro”

da “Il mondo fino a ieri” di Jare Diamond

The optimal sacrifice: A study of voluntary death among the Siberian Chukchi
Honor or abandon: Societies’ treatment of elderly intrigues scholar
Senicide
The Customary Practice of Senicide. With Special Reference to India
Did Eskimos put their elderly on ice floes to die?

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Il gatto nell’antico Egitto https://www.vitantica.net/2018/11/28/gatto-antico-egitto/ https://www.vitantica.net/2018/11/28/gatto-antico-egitto/#respond Wed, 28 Nov 2018 14:00:01 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2932 I gatti furono considerati animali sacri nella società egizia per oltre 30 secoli. La dea-gatta Bast (nota anche come Bastet), inizialmente divinità al pari di Sekhmet, la dea-leonessa della guerra e della violenza, divenne nei secoli una figura protettiva nel pantheon egizio, assumendo il ruolo di patrona della fertilità, della maternità e della vita domestica.

Dopo la morte, molti gatti godevano degli stessi “diritti funerari” dei loro padroni umani: venivano mummificati e i loro corpi offerti a Bastet o a Iside. Il gatto, oltre ad essere un simbolo di grazia e benevolenza, era apprezzato dagli Egizi per la sua abilità di cacciatore: liberava campi e case dai roditori nocivi e poteva competere con i temibili cobra.

La domesticazione del gatto nell’antico Egitto

Una recente analisi del DNA delle specie moderne di felini ha stabilito che i primi gatti ad essere addomesticati, probabilmente in Mesopotamia, furono i gatti selvatici africani (Felis silvestris lybica), circa 10.000 anni fa.

Nell’antico Egitto erano prevalenti due specie di gatti: il gatto della giungla (Felis chaus) e il più comune gatto selvatico africano. Il gatto selvatico africano fu il primo a subire il processo di domesticazione all’inizio del Periodo predinastico (IV millennio a. C.).

La domesticazione del gatto selvatico nacque probabilmente dall’esigenza di avere un predatore domestico in grado di contenere il numero di ratti, serpenti e parassiti che affollavano i granai egizi, specialmente i depositi che appartenevano a nobili, sacerdoti e sovrani. Fu solo tra il XVI e l’XI secolo a.C. che i gatti iniziarono ad assumere un ruolo sempre meno legato alla caccia di parassiti e sempre più di compagnia.

Felis silvestris lybica
Gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica)

L’arte figurativa egizia del XIV secolo a.C. ha lasciato diverse testimonianze del rapporto uomo-gatto: la Grande Sposa Reale Tiy (moglie di Amenofi III) e sua figlia Sitamon sono state raffigurate insieme a una gatta e un’oca domestiche. Sullo schienale del trono della principessa Sitamon, è stata raffigurata una gatta seduta sotto lo scranno dove siede la regina Tiy.

Il gatto nella religione egizia
Bastet e Sekhmet

Sekhmet, la dea-leonessa della guerra, della violenza, delle infezioni e delle guarigioni dalle malattie, era inizialmente una divinità strettamente legata a Bast, ma col passare del tempo le due figure iniziarono ad assumere connotati differenti fino a diventare antitetiche.

Mafdet, invece, era una divinità dai connotati felini (a volte più simile ad una mangusta o uno zibetto) che proteggeva da serpenti e scorpioni e sovrintendeva la giustizia legale e la pena di morte.

La prima testimonianza archeologica di una divinità felina è una coppa di cristallo del 3.100 a.C., decorata con una rappresentazione della dea Mafdet con testa di leonessa. Inizialmente anche Bastet veniva raffigurata come una dea leonina, protettiva e guerriera come Sekhmet ma ben distinta in quanto a personalità.

Durante la XXII dinastia (945 a.C. – 715 a.C.), la figura di Bast subì una mutazione passando dall’essere una divinità guerriera e leonina all’essere una dea protettiva e rassicurante dalle sembianze di gatto.

Poiché i gatti domestici tendono ad avere un comportamento mite e protettivo nei confronti del padrone e della sua casa, gli Egizi cominciarono a vedere Bastet come una madre, raffigurandola di frequente in compagnia dei suoi cuccioli; tra le donne egizie che desideravano una gravidanza era comune indossare un amuleto di Bastet circondata da gattini.

Gatti nell' antico Egitto

Il Gatto di Eliopoli

Il gatto maschio assunse un ruolo differente e fu associato alla divinità solare Ra: il suo compito era quello di difendere il Sole dagli attacchi del demone Apopi e di sorvegliare l’Albero della Vita Eterna (Ished), sulle cui foglie il dio Thot scriveva i nomi dei sovrani egizi.

Il Grande Gatto di Eliopoli, incarnazione di Ra, fu spesso raffigurato nelle pitture parietali funebri relative ad alcuni passi del Libro dei morti: appare sulle pareti delle tombe di Deir el-Medina (vicino a Tebe), e nello stesso Libro dei morti l’entità stessa fornisce una definizione del suo ruolo nel pantheon egizio nel XVII capitolo:

Io sono questo Grande Gatto che si trovava al lago dell’albero “ished” in Eliopoli, quella notte della battaglia in cui fu compiuta la sconfitta dei sebiu, e quel giorno dello sterminio degli avversari del Signore dell’Universo.

La venerazione dei gatti

Erodoto di Alicarnasso, nelle sue Storie, cita il rispetto e gli onori funebri riservati ai gatti deceduti:

«Quando, poi, scoppia un incendio, i gatti sono presi da fenomeni strani. Gli Egiziani, infatti, disponendosi a regolare distanza, fanno loro la guardia, trascurando, perfino, di spegnere il fuoco; ma i gatti sgusciando tra uomo e uomo, o, magari, saltandoli via, si gettano nel fuoco. Quando ciò avviene, è grande il dispiacere che prende gli Egiziani. Se in una casa un gatto viene a morire di morte naturale, tutti quelli che vi abitano si radono le sopracciglia. […] I gatti vengono portati nella città di Bubasti in locali sacri e ivi vengono sepolti, dopo essere stati imbalsamati.»

Diodoro Siculo narra di un particolare episodio che vede coinvolto un cittadino romano e un gatto, un episodio che dimostra la venerazione che gli Egizi avevano per i loro amici a quattro zampe: intorno al 60 a.C., l’uomo fu sorpreso a uccidere un gatto, scatenando l’ira della folla che lo catturò e lo uccise senza alcun processo e ignorando il volere del faraone, che propose l’idea di graziare l’assassino di felini.

Bubasti, la città dei gatti
Mummia di gatto
Mummia di gatto

Durante il X secolo a.C. Bubasti (in origine Par Bastet, letteralmente “Città di Bastet”), città nei pressi del delta del Nilo, divenne ufficialmente la sede del culto del gatto. Il culto di Bastet si era ormai esteso in modo virale per tutto il regno e la divinità era diventata la guardiana della fertilità e della maternità.

Il culto dei gatti faceva affluire ogni anno a Bubasti migliaia di adoratori. Nel centro della città si trovava il santuario di Bastet, un tempio che secondo Erodoto aveva dimensioni enormi: circa 180 metri di lunghezza; a poca distanza dal tempio si trovava una delle più grandi necropoli feline dell’intero Egitto, dove migliaia di mummie di gatto venivano sepolte all’inizio del loro viaggio verso l’aldilà.

Secondo la leggenda, una leonessa caduta nel lago del tempio ne era uscita tramutata in una docile gatta, accolta poi nel santuario come incarnazione di Bastet.

A Bubasti si svolgevano, sempre secondo Erodoto, i festeggiamenti periodici della dea Bastet, rituali che prevedevano una lunga processione di barche sacre accompagnata da musica durante la quale centinaia di artigiani avevano la possibilità di vendere statuette e amuleti di gatti; una volta giunti al tempio, i fedeli partecipavano ad un banchetto in cui il vino scorreva a fiumi.

I gatti delle famiglie più ricche potevano aspirare ad una mummificazione a regola d’arte e alla sepoltura nei pressi del tempio di Bastet a Bubasti o in altre necropoli solitamente destinate a sepolture umane, come Saqqara e Beni Hasan, anche se molti gatti appartenuti alla gente comune venivano ugualmente mummificati e sepolti in cimiteri dedicati ai felini.

La gatta Myt del principe Thutmose, figlio di Amenofi III, fu sepolta nella necropoli di Menfi all’interno di un piccolo sarcofago di pietra decorato da incisioni propiziatorie per il suo futuro incontro nell’aldilà con la dea Iside.

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