miele – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Arnia tradizionale di tronco https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/ https://www.vitantica.net/2019/09/30/arnia-tradizionale-di-tronco/#comments Mon, 30 Sep 2019 00:05:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4544 L’arnia costituisce una vera e propria casa per le api domestiche. Da un’apicoltura passata fatta di tronchi cavi e di cumuli di paglia, l’essere umano ha progressivamente ideato nuovi design con i materiali a sua disposizione, ottenendo livelli di sofisticatezza incredibilmente avanzati.

All’interno dell’arnia si sviluppa la quasi totalità della vita di una colonia. Grazie al controllo attento e costante dell’attività dell’alveare, gli antichi apicoltori furono in grado di controllare limitatamente la produzione di miele.

Le arnie a favo fisso (facenti parte di ciò che viene definita “apicoltura non razionale”), spesso ottenute da materiale vegetale, sono tra le più antiche della storia dell’apicoltura. Le arnie ricavate da un tronco d’albero cavo o da un ceppo lavorato furono realizzate almeno dal 3.380 a.C., come testimoniano alcuni resti di arnia trovati in Svizzera.

L’arnia di tronco

Le arnie ricavate da un tronco d’albero (chiamate anche bugno) sono le più antiche e anche le più simili all’ambiente naturale in cui si sviluppa una colonia di api: simulano un processo che avviene spontaneamente all’interno di un ecosistema (la morte di un albero e la formazione di cavità al suo interno) per guidare indirettamente l’attività di un alveare.

L’arnia a ceppo è un metodo di apicoltura distruttivo: per estrarre i favi e raccogliere il miele è necessario asportare dal tronco le strutture di cera, distruggendo la laboriosa opera di costruzione compiuta dalle api e costringendole a ricostruire i favi.

 

Arnia tradizionale di tronco

La semplicità e l’efficacia dell’arnia a ceppo, tuttavia, giustificava in passato (e parzialmente ancora oggi) l’utilizzo di questa tecnica di apicoltura.

L’arnia a ceppo presenta vantaggi e svantaggi rispetto ai metodi di apicoltura moderni:

  • E’ relativamente economica da realizzare;
  • Può essere realizzata sul posto se si è dotati di una discreta manualità;
  • Lascia alle api la possibilità di gestire in autonomia il loro spazio vitale;
  • Producono grandi quantità di cera;
  • L’arnia a ceppo può essere molto pesante e difficile da trasportare;
  • Le api costruiranno i loro favi in ogni direzione, non disponendo di telai in grado di indirizzare la loro opera costruttiva;
  • Può richiedere la distruzione della struttura lignea per estrarre il miele;
  • Le fratture che si formeranno sul tronco contribuiranno ad aerare l’ambiente interno, ma allo stesso tempo favoriranno l’ingresso di parassiti;
  • Essendo generalmente collocata ad una certa altezza rispetto al terreno, non viene attaccata da predatori come topi e tassi.
Selezione e lavorazione del tronco

Per fabbricare un’arnia a ceppo funzionale occorre selezionare un tronco delle dimensioni adeguate: da 60 a 80 centimetri di diametro per una lunghezza di circa 1,4 metri. Il concetto è quello di replicare il tronco cavo di un albero, ambiente che le api selvatiche ritengono ideale per la costituzione di una colonia.

La selezione di un legname morbido, come il legno di pino, faciliterà le fasi di lavorazione del ceppo, specialmente quelle che richiedono una certa manualità e non consentono l’utilizzo di utensili elettrici.

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Sulla costa occidentale dell’Africa gli apicoltori sfruttano le proprietà della palma di Palmira (Borassus flabellifer) e l’attività delle termiti per ottenere arnie a ceppo con il minimo sforzo. La palma di Palmira produce piccole cavità naturali durante l’arco della sua vita; una volta terminata la sua esistenza, gli apicoltori attendono che le termiti si facciano strada nel legname morto dell’albero, allargando le cavità e fornendo materiale già pronto per essere utilizzato come arnia a ceppo.

La lavorazione del legname per costruire un’arnia prevede lo svuotamento della parte interna del ceppo utilizzando una di queste tre tecniche:

  • Fuoco: utilizzare un contenitore tubolare per concentrare il calore di un mucchio di braci al centro del tronco. In questo modo, il legno verrà gradualmente ridotto in cenere, formando un canale interno;
  • Divisione: il tronco viene diviso e le due metà scavate per creare una cavità interna, un procedimento simile a quello utilizzato per realizzare le cerbottane tradizionali. Alla fine dell’operazione di rimozione del materiale ligneo, le due parti del ceppo verranno ricongiunte;
  • Scavo: è possibile scavare il centro del ceppo utilizzando uno scalpello per aprire due cavità che si estendono da entrambi i lati, fino ad svuotare completamente il tronco del suo materiale ligneo interno.

Le aperture nelle parti terminali del tronco dovranno poi essere chiuse; i blocchi di chiusura dovranno tuttavia essere rimovibili per consentire l’ispezione dell’alveare e il prelievo dei favi ricchi di miele. L’ingresso delle api all’interno del ceppo sarà reso possibile da uno o due fori praticati vicino ad una delle parti terminali, o su uno dei blocchi di chiusura del ceppo.

Insediamento delle api

Per invitare le api a popolare l’arnia a ceppo occorrerà depositare qualche goccia di propoli al suo interno; ancora meglio, riuscire a catturare una regina garantirà l’arrivo di numerose operaie pronte a costruire favi, accudire larve e accumulare polline e miele. Se il tronco è stato costruito ad arte, le api stesse potrebbero spontaneamente sceglierlo come futura residenza.

Nell’arnia a ceppo è indispensabile garantire alle api un mezzo di sussistenza per l’inverno. I favi venivano tradizionalmente prelevati all’inizio dell’estate per consentire agli insetti di ricostruirli in previsione dell’inverno; si tendeva inoltre a lasciare intatte alcune strutture di cera contenenti miele, fornendo un prezioso supporto alimentare durante la stagione fredda.

L’arnia a ceppo estende il concetto di “spazio d’ape” elaborato da Langstroth, l’inventore dell’arnia moderna. Nel 1851 il reverendo Lorenzo Lorraine Langstroth osservò che le api che avevano attorno uno spazio libero inferiore ai 9 mm e superiore ai 6 millimetri non costruivano strutture di cera e non sigillavano quelle esistenti. L’osservazione di questo spazio vitale, definito “spazio d’ape”, consentì a Langstroth di elaborare un nuovo design di arnia basato su telai verticali rimovibili, la base delle arnie moderne.

Nelle arnie moderne di tipo Langstroth la distanza tra due telai di un’arnia è superiore di almeno due volte lo spazio d’ape, ma comunque limita la mobilità delle api e le costringe a seguire una direzione principale (verso il basso) durante la costruzione del favo.

L’arnia a ceppo, come le arnie a sviluppo orizzontale (ad esempio le Top-Bar) permettono uno sviluppo più naturale della colonia e lascia libere le api di costruire in modo più simile a ciò che realizzano allo stato brado, senza il controllo dell’essere umano.

How to make log hives for healthier bees (Video)
How to Build a Log Hive
HARVESTING HONEY FROM A LOG HIVE
The impact of hive type on the behavior and health of honey bee colonies (Apis mellifera) in Kenya

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Idromele: storia e produzione nell’antichità https://www.vitantica.net/2019/01/07/idromele-storia-e-produzione-nellantichita/ https://www.vitantica.net/2019/01/07/idromele-storia-e-produzione-nellantichita/#respond Mon, 07 Jan 2019 00:20:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3312 Considerato da alcuni popoli del mondo antico come la “bevanda degli dei”, l’ idromele è un liquore prodotto a partire dalla fermentazione del miele e che nel corso della storia ha riscosso un successo che ha ben pochi precedenti tra le bevande alcoliche.

Storia dell’ idromele
L’origine dell’idromele

Definire con esattezza l’origine dell’idromele è un compito difficile, ma è possibile che la formula sia stata scoperta per puro caso dai primi cacciatori-raccoglitori africani circa 20.000 anni fa.

Il miele costituiva un’importante fonte di zuccheri ed energie e i nostri antenati nomadi non si facevano mai sfuggire l’occasione di prelevarlo da alveari selvatici (leggi in questo post come veniva estratto il miele nei secoli passati).

Gli alveari selvatici si trovano spesso all’interno di cavità degli alberi (in Africa capita specialmente con baobab e miombo), cavità che tendono ad allagarsi durante la stagione umida.

A contatto con acqua e lieviti presenti in natura, il miele inizia un processo di fermentazione producendo piccole quantità di alcool; l’inebriamento indotto dal miele fermentato potrebbe aver spinto i  cacciatori-raccoglitori delle origini ad elaborare la prima, rudimentale ricetta dell’idromele.

Bevanda degli eroi

Le prime testimonianze archeologiche sulla produzione di idromele risalgono ad oltre 9.000 anni fa: frammenti di vasi di ceramica rinvenuti in Cina contengono tracce chimiche di miele, riso e composti organici coerenti con il processo di fermentazione.

Anche l’India si distinse per la produzione di idromele: la più antica descrizione della bevanda è contenuta nel Rigveda, uno dei libri sacri della religione vedica datato a 3.700-3.100 anni fa.

In Europa, i più antichi campioni di idromele risalgono a quasi 5.000 anni fa: la cultura del vaso campaniforme (Bell Beaker), fiorita all’inizio dell’Età del Bronzo, produceva in tutta Europa bevande alcoliche a base di miele che, nei secoli successivi, ogni popolazione del continente elaborò per creare una delle svariate versioni dell’ idromele.

Nell’ età dell’oro della mitologia greca, l’idromele era la bevanda preferita degli eroi. Molti ricercatori hanno identificato l’ ambrosia, la bevanda degli dei, con l’idromele; alcuni hanno anche proposto l’ipotesi che l’ambrosia fosse una bevanda realmente esistita creata con il miele prodotto da api che visitavano piante di cannabis.

Aristotele discusse le proprietà dell’idromele nella sua opera Meteorologica, ritenendolo un tonico in grado di restituire vigore e virilità agli uomini; tre secoli dopo, Plinio il Vecchio è il primo a definire una distinzione tra vino addolcito con miele e “vino di miele”.

"meodu scencu" (coppa di idromele) nel poema Beowulf
“meodu scencu” (coppa di idromele) nel poema Beowulf
Idromele in Nord Europa

Una “sala dell’idromele”, presente nel forte di Din Eidyn nei pressi di Edimburgo, viene descritta nel poema Y Gododdin e avrebbe ospitato il poeta Aneirin, un contemporaneo del celebre bardo Taliesin che compose, intorno al 550 a.C., la “canzone dell’ idromele“.

Beowulf, protagonista di uno dei più importanti lavori letterari dell’antica letteratura inglese, beveva idromele e come lui tutti gli eroi danesi e celtici.

In alcune regioni d’Europa era tradizione regalare ad una coppia appena sposata una quantità di idromele sufficiente ad un mese lunare di bevute; da questa tradizione ebbe origine l’espressione “luna di miele“.

La bevanda veniva regalata per favorire il concepimento di un figlio, dato che le si attribuivano doti ricostituenti e il potere di inebriare i sensi e semplificare il corteggiamento.

La Polonia ha una lunghissima tradizione legata all’idromele: durante il Medioevo vaste regioni polacche erano ricoperte da foreste primarie che, secondo il monaco del XII secolo Gallus Anonymus, autore della Cronaca polacca, erano ricche di alveari selvatici.

Nel 996 il mercante Ibrahim ibn Yaqub scriveva:

“a parte il cibo, la carne e la terra da arare, il regno di Mieszko I è ricco d’ idromele, che è il modo in cui gli Slavi chiamano i vini e le bevande intossicanti”

Nel XV secolo, invece, il diplomatico veneziano Ambrogio Contarini scrisse:

“non avendo vino, i Polacchi producono una bevanda con il miele, una bevanda che intossica le persone molto più del vino”

Tra il XVII e il XVIII secolo in Polonia vengono trascritte non solo molte ricette per la produzione di idromele, ma anche le differenti varianti polacche di questa bevanda: czwórniak, trójniak, dwójniak e półtorak.

L’idromele nella cultura norrena

Sulle coste del Mediterraneo la produzione di idromele iniziò a ridursi non appena si riuscì a coltivare su vasta scala la vite per la produzione di vino, più semplice da creare in grandi quantità.

Nelle regioni più settentrionali d’Europa, dove la coltivazione della vite era difficile o la disponibilità di frutta era limitata, l’idromele continuò a godere di una vastissima popolarità.

La cultura nordeuropea precristiana attribuiva un’ enorme importanza all’ idromele: si trovano riferimenti a questa bevanda alcolica sia nella letteratura scandinava sia nella mitologia norrena.

Sotto le sembianze di un'aquila, Odino ruba l'idromele della poesia dal gigante (jötunn) Suttungr. Raffigurazione presente nell' Eddahandskrift
Sotto le sembianze di un’aquila, Odino ruba l’idromele della poesia dal gigante (jötunn) Suttungr. Raffigurazione presente nell’ Eddahandskrift
Idromele magico e sala dell’idromele

L’idromele era la bevanda preferita di Odino (che rubò ai giganti il sacro idromele che gli donò infinita conoscenza e l’arte della poesia) e di altre creature soprannaturali, oltre ad essere l’alcolico che i guerrieri giunti nel Valhalla bevono dalle mammelle della capra Heidrunn dopo un’intera giornata trascorsa a combattere.

Un altro episodio mitologico legato all’idromele è quello di Kvasir, un esponente del popolo mitologico degli Asi e ritenuto l’essere soprannaturale più saggio mai esistito nell’universo.

Per appropriarsi della sua saggezza, due nani, Fjalarr e Galarr, lo assassinarono per estrarne il sangue e mescolarlo con miele; dal miscuglio fermentato si generò un magico idromele che donava straordinarie doti da poeta a chiunque lo bevesse.

Nelle “sale dell’idromele” norrene (chiamate sal o salr) si svolgevano banchetti, celebrazioni religiose e feste per i trionfi in battaglia bevendo idromele e cantando le gesta degli eroi passati e contemporanei.

All’interno delle sale dell’idromele si stipulavano alleanze o si ordivano intrighi: nella saga di Ynglinga, il poeta islandese Snorri Sturluson spiega come, nell’ VIII secolo, il re svedese Ingjald fece costruire un’enorme sala dell’idromele con il solo scopo di ardere vivi tutti i suoi vassalli addormentati e intorpiditi dall’alcool.

Come veniva prodotto l’idromele
Le prime ricette dell’idromele

Una delle primissime ricette dell’idromele fu redatta in forma scritta dal naturalista romano Columella nel 60 d.C.. Nella sua opera De re rustica, Columella scrive:

Prendere acqua piovana rimasta a decantare per diversi anni e mescolare un sextarius (circa mezzo litro) di acqua con una libbra romana di miele. Per un idromele più leggero, mescolare un sextarius d’acqua con nove once di miele. Il miscuglio deve essere esposto al sole per 40 giorni per poi essere lasciato vicino al fuoco. Se non si dispone di acqua piovana, far bollire acqua di sorgente.

La più antica ricetta dell’idromele polacco fu trascritta nel 1567 dallo svedese Olaus Magnus, che aveva ottenuto la formula dagli abitanti della città di Gniezno: secondo la ricetta, occorre mescolare 10 libbre di miele a 40 libbre d’acqua e far bollire la mistura, insaporendola con luppolo e lasciandola fermentare dopo aver aggiunto lievito di birra.

Lavaggio degli alveari

L’idromele è sostanzialmente un sottoprodotto dell’estrazione del miele da un alveare. Prima dell’estrazione meccanizzata, il miele veniva prelevato schiacciando gli alveari per ottenere una poltiglia di cera e zuccheri semiliquidi; per separare il miele dalla cera, la poltiglia veniva lavata con acqua calda.

Ciò che rimaneva era cera, miele e una certa quantità di acqua zuccherina che, se lasciata libera di fermentare per qualche settimana, si arricchiva di alcool e acquisiva il sapore tipico dell’idromele.

Fermentazione

La fermentazione dell’acqua arricchita di miele poteva essere spontanea (causata da lieviti e batteri presenti nel miele stesso) o indotta introducendo lieviti e batteri selvatici, che tuttavia producevano risultati inconsistenti.

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Con questo procedimento rudimentale ma efficace si poteva ottenere idromele dal contenuto alcolico che oscillava tra il 3,5 e il 20%del volume totale.

Durante o dopo la fermentazione potevano essere aggiunte spezie o frutta per creare sapori caratteristici: chiodi di garofano, cannella, noce moscata, lavanda, camomilla o luppolo sono solo alcuni degli additivi che caratterizzano l’incredibile variabilità regionale dell’idromele.

Metheglin, melomel e braggot

Il miele che contiene spezie viene definito metheglin, mentre il miele a cui è stata aggiunta frutta (come fragole o lamponi) viene chiamato melomel e veniva tradizionalmente impiegato per conservare il cibo durante l’inverno. Quello prodotto con l’uso di cereali, infine, viene definito braggot e ha il sapore tipico del frumento o dell’orzo maltato aggiunti durante il processo di fermentazione.

Ricetta per l’idromele (da Maxbeer.org)

Ingredienti

  • Miele: 1.9 Kg
  • Lievito di chardonnay (o bianco similare):1 bustina
  • Nutriente per lievito: 1/2 di cucchiaino*
  • Acid blend (miscela di acidi o acido lattico o citrico):1/3 di cucchiaino*
  • Acqua q.b. (preferibilmente oligominerale in bottiglia)
    *seguire dosi minime consigliate

Istruzioni

  • Dissolvere il miele nella mistura di acidi, nutrienti del lievito e 1 gallone d’acqua a temperatura ambiente
  • Reidratare il lievito
  • Aggiungere il metabisolfito di sodio
  • Sigillare e lasciar fermentare per 3-5 settimane fino al rallentamento della fermentazione
  • Rimuovere i sedimenti e lasciar depositare per sei mesi

The Past, Present and Future of Mead
Mead

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Cacciatori di miele allucinogeno (documentario) https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/ https://www.vitantica.net/2017/10/18/cacciatori-di-miele-allucinogeno-documentario/#respond Wed, 18 Oct 2017 02:00:59 +0000 https://www.vitantica.net/?p=704 Le graianotossine sono un gruppo di tossine prodotte da rododendri e azalee, piante diffuse in Europa, Asia e America che hanno acquisito nella storia la fama di piante meravigliose ma dal nettare potenzialmente molto tossico.

Il miele prodotto da api che raccolgono nettare da queste piante, infatti, è noto fin dall’antichità per essere tossico e allucinogeno, anche se consumato in piccole quantità.

A citare il miele tossico di rododendro sono Senofonte, Aristotele, Strabone e Plinio il Vecchio: proprio quest’ultimo racconta un episodio, citato più tardi anche da Strabone, che vede l’impiego del miele di rododendro in battaglia.

Nel 69 a.C. le truppe romane di Pompeo si trovavano a combattere in Turchia e furono le tra le prime vittime storiche di un’arma biologica: la milizia nemica disseminò il percorso di marcia dei Romani di alveari selezionati appositamente per la loro vicinanza alle piante di rododendro locali; le truppe di Roma, sfruttando ogni occasione per ingerire calorie preziose, fecero incetta del miele avvelenato mostrando in seguito i sintomi tipici dell’avvelenamento (come gli stati allucinatori tipici del miele di rododendro) e perdendo la battaglia contro il nemico.

I sintomi di avvelenamento da miele di rododendro sono salivazione, sudorazione abbondante, confusione, debolezza e vomito (come vedrete nel documentario), mentre una dose eccessiva può provocare allucinazioni che possono durare anche per 24 ore.

Al giorno d’oggi gli apicoltori conoscono bene quali piante sono adatte al prelievo di nettare da parte delle loro api e quali invece possono rappresentare un rischio per la produzione di miele. In Nepal, tuttavia, la tribù Gurung che vive isolata tra le montagne del Paese è probabilmente l’unica sopravvissuta fino ad oggi ad aver trovato un impiego medicinale per il miele allucinogeno di rododendro.

Conosciuto come “miele pazzo”, questo tipo di miele viene prodotto dalla specie di ape selvatica più grande del mondo (Apis dorsata laboriosa, fino a 3 centimetri di lunghezza) che tende a nidificare sulla cima di una collina che gli abitanti del villaggio scalano ogni anno per raccogliere qualche chilogrammo di prezioso miele allucinogeno.

La raccolta di questo miele non è priva di rischi: l’arrampicata e la raccolta avvengono utilizzando corde di radici e scale di bambù (oltre all’immancabile machete) e il rischio di una caduta rovinosa da una dozzina di metri d’altezza è sempre dietro l’angolo.

Perché tutta questa fatica e un rischio così grande per raccogliere miele tossico? Per i Gurung, l’assunzione quotidiana di una dose minima di miele di rododendro causa un leggero e piacevole senso di inebriamento e rafforzerebbe il sistema immunitario.

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Miele: raccolta e produzione nell’antichità https://www.vitantica.net/2017/09/05/miele/ https://www.vitantica.net/2017/09/05/miele/#comments Tue, 05 Sep 2017 16:07:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=86 Il miele può essere considerato il primo vero “dessert” della storia e le testimonianze sul suo utilizzo da parte dei nostri antenati sono antichissime: le più antiche pitture rupestri che testimoniano la raccolta del miele risalgono almeno al 6.000 a.C.

L’abbondanza di zuccheri e il suo potere dolcificante rende miele un prodotto di grande valore per le comunità di cacciatori-raccoglitori antiche e moderne o per qualunque civiltà della storia che non utilizzava o conosceva lo zucchero.

Il miele è composto per l’80% da zuccheri, principalmente glucosio e fruttosio, e per il restante 20% da acqua. Il suo aroma, il colore, il sapore e la composizione chimica sono caratteristiche strettamente connesse ai fiori che le api hanno visitato per produrlo. Il miele, oltre che per uso alimentare, viene anche utilizzato nella medicina tradizionale per aiutare la guarigione di ferite o bruciature e curare la tosse cronica o acuta.

Come le api producono il miele

Il miele è prodotto dalle 7 specie conosciute di api mellifere (non tutte le specie di api raccolgono nettare), come quelle appartenenti alla specie Apis mellifera, probabilmente la più impiegata commercialmente per la sua docilità e la consistente produzione di miele: la specie conta circa 30 sottospecie che comprendono l’ape mellifera italiana (Apis mellifera ligustica) e l’ape scura europea (Apis mellifera mellifera).

Le api di questa specie consumano il nettare dei fiori per produrre energia per il volo e per la raccolta di polline, trasportando all’ alveare ciò che non riescono a consumare per immagazzinarlo come cibo a lunga scadenza.

Raggiunta la sicurezza della colonia, le api ingeriscono e rigurgitano ripetutamente il nettare fino ad ottenere una sostanza parzialmente digerita dagli enzimi e dai succhi gastrici del loro stomaco.

Il processo di ingestione ed espulsione del nettare può durate anche 20 minuti. Quando il nettare ha raggiunto il giusto stato di digestione viene espulso definitivamente, immagazzinato all’interno di celle di cera e periodicamente ventilato dalle ali delle api per far evaporare l’acqua in eccesso (il miele passa dal 20% al 18% di acqua durante la conservazione nella cera), prevenire la fermentazione e aumentare la concentrazione di zuccheri. Le celle vengono infine sigillate con altra cera per preservare intatte le qualità del miele e proteggerlo dall’aggressione di muffe e parassiti.

Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello sfruttato da secoli per localizzare un alveare selvatico
Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello sfruttato da secoli per localizzare un alveare selvatico
La raccolta del miele selvatico

La ricerca e la raccolta del miele (spesso definita “caccia al miele”) sono attività che risalgono ad almeno 10 millenni fa. Le pitture rupestri spagnole di Cuevas de la Arana, risalenti al 9.000 a.C. circa, raffigurano la caccia al miele e le prime “arnie” naturali sfruttate dai cacciatori-raccoglitori della regione per l’ approvvigionamento di miele selvatico.

Le api mellifere europee prediligono la nidificazione all’interno di nicchie della roccia o alberi cavi e le “arnie” raffigurate nelle pitture rupestri spagnole rappresentano proprio questi incavi naturali sulle pareti rocciose impiegati dalle api selvatiche per la costruzione dei loro alveari.

In Africa, le antiche comunità tribali localizzavano un alveare selvatico seguendo l’ Indicatore golanera (Indicator Indicator), un uccello che funge da guida verso il miele per uomini e animali. Questa relazione di scambio reciproco sembra sia nata da un’antica collaborazione tra uomo e uccello: l’essere umano ottiene miele grazie alle indicazioni fornite dal volatile, mentre l’ Indicatore golanera può fare incetta di api, larve e cera.

Prima del suo pasto, l’ Indicatore golanera deve però attendere che l’essere umano apra l’alveare esponendone l’interno mentre uno sciame di api inferocite cerca di difendere la regina e le larve.

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Procedendo per tentativi e fallimenti, i nostri antenati impararono che il fumo sembrava rendere le api scoordinate nella loro risposta all’aggressione, oltre che più mansuete. Quando le api si accorgono di un’intrusione nell’ alveare iniziano ad emettere un particolare feromone che innesca una risposta automatica nei membri della colonia, costringendoli ad attaccare l’intruso.

Il fumo tuttavia maschera la presenza del feromone e circoscrive il numero di api che reagiscono al richiamo d’allarme, dando l’impressione al resto della colonia che non stia succedendo nulla di grave. L’effetto del fumo svanisce in 10-20 minuti, dando tempo al cacciatore di raccogliere tutto il miele necessario.

Il fumo ha un’altro effetto: quando raggiunge l’alveare, le api sono indotte a pensare che l’alveare possa essere minacciato da un incendio. Il rischio di un incendio boschivo le convince ad abbandonare l’alveare per trovare una nuova località in cui insediarsi, non prima di aver accumulato tutto il miele possibile nei loro corpi per fornire energia alla nuova comunità. L’aver ingurgitato così tanto miele rende le api letargiche e lente nei riflessi, spesso troppo lente per attaccare un aggressore.

miele api selvatiche

L’invenzione dell’arnia

Nella sua fase primitiva l’essere umano si è limitato a prelevare miele e cera dagli alveari selvatici, spesso distruggendoli e costringendo le api selvatiche ad un duro lavoro di ricostruzione. Questo metodo di raccolta non aveva grossi impatti ambientali nel caso di società di cacciatori-raccoglitori, dato che il miele veniva consumato raramente e c’era un’ampia disponibilità di alveari selvatici.

Con l’insorgere di uno stile di vita sedentario, la distruzione anche solo parziale di un alveare iniziò a costituire un grosso problema: le api non hanno più una casa in cui accumulare miele e sono costrette a spendere buona parte del loro tempo a ricostruire l’alveare e non a raccogliere nettare.

Parallelamente ai metodi invasivi per raccolta del miele in uso per millenni iniziarono a sorgere i primi sistemi d’allevamento con arnia, capaci di produrre miele in modo costante e senza eccessivo sforzo da parte dell’essere umano.

E’ difficile stabilire un’origine certa dell’allevamento con arnie, ma abbiamo le prove archeologiche che si tratta di un’attività vecchia di almeno 3-4.000 anni. Nell’antica città di Tel Rehov in Palestina sono state trovate 30 arnie utilizzate per la produzione di miele circa 2.900 anni fa: le arnie erano state realizzate con paglia e argilla cruda ed erano organizzate in file che lascerebbero pensare alla presenza di un totale di 150 arnie all’interno del complesso.

Sappiamo inoltre che almeno 4.500 anni fa l’estrazione di miele selvatico era ancora un’attività fiorente nell’ antico Egitto: le iscrizioni del tempio solare di Nyuserra Ini, faraone della V dinastia, riporta i dettagli sulla raccolta del miele selvatico tramite l’impiego del fumo.

Qualche secolo più tardi, nel 650 a.C., nella tomba di Pabasa fanno la loro comparsa alveari artificiali di forma cilindrica e appositi contenitori per la conservazione del miele.

Arnia medievale
Arnia medievale

In periodo romano e successivamente nel Medioevo furono ideati alcuni metodi di allevamento parzialmente “rinnovabili” impiegati ancora oggi per la produzione di miele nelle comunità non industrializzate: uno di questi era l’utilizzo di assi di legno parallele, coperte da covoni di paglia o fieno, in cui le api potevano facilmente costruire le impalcature di cera per ospitare il miele al riparo dagli agenti esterni.

Un altro sistema era quello di utilizzare come arnia un tronco cavo (naturalmente o  artificialmente) chiamato “vaso” o cesti di vimini conici dotati piccole aperture che permettessero alle api di entrare e uscire a piacimento dall’arnia.

Le arnie di questo tipo non consentivano di mantenere l’alveare totalmente intatto dopo il prelievo stagionale del miele. L’assenza di una struttura interna che guidasse l’opera costruttiva delle api generava alveari dalla forma irregolare e dalle celle disposte a grappolo.

Le arnie di concezione moderna (ideate verso la fine del XVIII secolo) sono invece strutturate a livelli permettendo la costruzione di piani “monodimensionali” di celle (un solo strato di celle per livello), facilitando l’estrazione del miele e limitando l’opera distruttiva del prelievo.
Il miele prodotto dalle antiche arnie poco strutturate era estratto per spremitura: l’intero alveare veniva posizionato in una pressa e schiacciato per separare la cera dal miele.

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Fino all’avvento della produzione commerciale di miele secondo metodi moderni, tutti i metodi di allevamento richiedevano la cattura di uno sciame di api selvatiche, cosa per nulla semplice se non si conoscono le dinamiche sociali e gerarchiche delle api.

L’importanza dell’ ape regina

Le api vivono in una società matriarcale che ha al suo vertice l’ ape regina (l’unica femmina fertile dello sciame) e fino a centinaia di migliaia di operaie sterili addette alla cura della regina e dell’alveare (i maschi appaiono nella colonia esclusivamente tra aprile e giugno in Europa).

Il solo scopo della regina è quello di deporre uova e coordinare la colonia: non dispone di alcun apparato per la raccolta del nettare e ha un metabolismo più elevato delle altre api, quindi consuma più cibo e dipende interamente  dalle operaie per il suo fabbisogno di nutrienti quotidiani.

ape regina
Ape regina

Se durante la cattura di uno sciame d’ api non si intrappola anche la regina, le operaie lasceranno il nuovo alveare per raggiungerla. L’atto della cattura è relativamente semplice: se si avvista uno sciame (di solito localizzando una grossa “palla” di api appesa ad un albero, o osservando un flusso più o meno costante di api provenire dal tronco di un albero), occorre farlo cadere in un contenitore come uno scatolone di cartone o un cesto di vimini per poi rovesciarlo a terra, mantenendo il contenitore sollevato di qualche centimetro dal terreno per consentire alle api in cerca di nettare di tornare nella colonia prima del tramonto.

Questa sistemazione temporanea dello sciame eviterà che le api lontane dalla regina si perdano sulla via del ritorno e vi permetterà di verificare che la regina, più grande rispetto al resto delle operaie, si trovi all’interno dello sciame.

Per trasferire le api all’interno di un’arnia artificiale, sia essa un covone di paglia, un cesto di vimini intrecciato o un’arnia moderna, è sufficiente stendere un telo bianco dallo scatolone all’arnia: presto le api inizieranno a camminare fino all’alveare artificiale che avete preparato per loro.

Prehistoric Beekeeping in Central Europe – a Themed Guided Tour at Zeiteninsel, Germany
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