contenitori – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Calabash, la zucca bottiglia https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/ https://www.vitantica.net/2019/10/28/calabash-la-zucca-bottiglia/#respond Mon, 28 Oct 2019 00:25:18 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4632 La zucca calabash (Lagenaria siceraria), chiamata anche zucca a fiasco, cocozza o zucca bottiglia, è un frutto conosciuto da millenni nelle regioni tropicali e subtropicali del mondo per le sue proprietà, alimentari e non.

Sebbene non compresa nelle diete degli antichi cacciatori-raccoglitori come cibo di largo consumo, la zucca calabash costituì per molto tempo la materia prima per fabbricare ottimi e pratici contenitori per liquidi.

La zucca bottiglia

E’ possibile che l’origine della Lagenaria siceraria sia africana. Nel 2004 una varietà molto antica di calabash è stata osservata in Zimbabwe: è possibile che la domesticazione di questa pianta sia iniziata in Africa qualche migliaio di anni fa allo scopo di selezionare le zucche dalle pareti più spesse e resistenti.

La prima fase di domesticazione sembra essersi verificata 8.000-9.000 anni fa in Africa, seguita da una fase asiatica e una seconda, grande opera di domesticazione in Egitto circa 4.000 anni fa.

Le zucche a fiasco sono state coltivate per millenni in Africa, Asia, Europa e Americhe. Nel Vecchio Continente, il monaco benedettino Walahfrid Strabo inserisce le zucche calabash tra le 23 piante del giardino ideale nella sua opera “Hortulus“.

L’arrivo nelle Americhe potrebbe essere stato del tutto accidentale: alcune zucche potrebbero aver attraversato l’Atlantico sospinte dalle correnti oceaniche oltre 10.000 anni, fa partendo dall’Africa arrivando sulle coste americane settentrionali e meridionali.

Caratteristiche della zucca calabash

La vite della zucca bottiglia preferisce suoli ricchi di nutrienti, umidi e ben drenati. Necessita di molta umidità per crescere a dovere, oltre ad una lunga esposizione alla luce solare al riparo dal vento.

Le zucche calabash crescono molto velocemente: i viticci possono raggiungere la lunghezza di nove metri durante una singola estate. Se fatte crescere sotto un albero, le viti di calabash possono scalarlo completamente fino a raggiungere la vetta.

Per ottenere più zucche, tradizionalmente si tagliava la punta dei viticci una volta raggiunta la lunghezza di 2-3 metri, forzando la pianta a creare ramificazioni in grado di produrre più frutti.

La zucca calabash contiene cucurbitacine che possono risultare tossiche per alcune persone, specialmente se il frutto viene fatto maturare troppo o conservato male. Il sapore amaro della polpa è un buon indicatore della presenza di un’elevata dose di cucurbitacine.

Zucche calabash trasformate in contenitori
Zucche calabash essiccate e decorate. Foto: MelindaChan

Ci sono casi di fatalità causata dall’ingestione dei succhi delle calabash, ma sono pochi e spesso legati alla cattiva conservazione delle zucche, o allo stato di salute del singolo individuo (è sconsigliato il consumo per i diabetici).

Diverse cucine tradizionali asiatiche, africane e americane prevedono ancora oggi l’uso di svariate specie di calabash come ingrediente per piatti gustosi e nutrienti.

Le calabash contengono potassio, magnesio, acido folico, vitamina A e C, ma hanno uno scarso valore calorico e forniscono una discreta dota di carboidrati.

Un frutto dai molteplici utilizzi

Le zucche calabash svuotate della loro polpa costituiscono contenitori per liquidi molto comuni in Africa. Le più piccole vengono generalmente usate per sorseggiare vino di palma, le più grandi invece per conservare acqua e alimenti liquidi o macinati.

I Sepedi e IsiZuku sudafricani usano quotidianamente le zucche-bottiglia per trasportare l’acqua sufficiente a dissetare intere tribù e per fabbricare utensili come coppe, ciotole, cappelli parasole e come zainetti.

In Cina le zucche a fiasco sono chiamate hulu e hanno assunto da molto tempo il valore simbolico di portatrici di buona salute. Fino a tempi relativamente recenti, i praticanti di medicina tradizionale utilizzavano le zucche bottiglia per conservare medicinali e liquidi.

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Tra le credenze popolari cinesi c’è quella che vede le hulu come trappole per gli spiriti maligni: queste zucche avrebbero il potere di catturare il qi negativo, in grado di alterare in negativo lo stato di salute.

In India le calabash sono utilizzati come risonatori per alcuni strumenti musicali, come il sitar, il surbahar e il tanpure. Gli asceti hindu usano tradizionalmente le zucche a fiasco (chiamate kamandalu) per consumare succhi considerati medicinali; in alcune regioni rurali, invece, questi frutti sono utilizzati come galleggianti per insegnare a nuotare.

In Sudamerica le zucche calabash vengono fatte essiccare per produrre contenitori di mate, una bevanda popolare tra le comunità tradizionali di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay e Paraguay.
In Brasile inoltre le calabash vengono impiegate per realizzare i berimbau, tipici strumenti musicali che accompagnano i movimenti della capoeira.

Fonti per “Calabash, la zucca bottiglia”

Transoceanic drift and the domestication of African bottle gourds in the Americas
Discovery and genetic assessment of wild bottle Gourd [Lagenaria siceraria (Mol.) Standley; Cucurbitaceae] from Zimbabwe
Calabash

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Documentario: come intagliare un kuksa https://www.vitantica.net/2019/09/13/documentario-intagliare-kuksa/ https://www.vitantica.net/2019/09/13/documentario-intagliare-kuksa/#respond Fri, 13 Sep 2019 00:10:44 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4514 Il guksi (in finlandese, kuksa) è una coppa tradizionale del popolo Sami ottenuta da legno di betulla, generalmente utilizzando come materia prima un grosso nodo presente sul tronco dell’albero.

L’utente YouTube Zed Outdoors spiega in questo video il procedimento per la creazione di un kuksa, dalla selezione del legno all’impermeabilizzazione del prodotto finito.

La selezione del nodo è fondamentale per ottenere un kuksa di lugna durata. Se è troppo umida, occorre farla seccare per 2-3 estati; se è troppo secca e presenta crepe, non produrrà un buon guksi; se è troppo irregolare, troppo piccola o troppo grande, sarà scartata.

Traditional Sami Kuksa
Traditional Sami Kuksa

Il nodo dell’albero viene plasmato in modo grezzo e lasciato ad essiccare per evitare che si manifestino fratture durante la lavorazione. I kuksa realizzati con nodi di betulla durano più a lungo di quelli ottenuti a partire dal semplice legno del tronco.

Se lasciato seccare all’aria dopo l’utilizzo, e con una breve pulizia regolare con acqua, il kuksa può durare una vita intera. L’utilizzo di detergenti potrebbe danneggiarlo irreparabilmente, creando fratture o rovinando la venatura del legno.

Il tipico kuksa ha un manico allo stesso livello del bordo della coppa, una forma caratteristica dei guksi finlandesi. Il manico consente una presa comoda e salda della mano; talvola, in base alle dimensioni della coppa, è dotato di più fori per l’inserimento delle dita.
La coppa del kuksa può resistere senza problemi all’acqua bollente e non risente degli sbalzi di temperatura.

Per evitare che il legno si secchi eccessivamente, il guski viene modellato nell’arco delle prime 24 ore dal taglio del nodo o del tronco. Prima di rifinirlo, viene immerso in acqua salata per circa 1 ora o avvolto in fogli di carta o tessuto per due settimane; in questo modo si evita che il legno perda umidità troppo velocemente, causando fratture.

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Dopo la rifinitura e l’eventuale decorazione, il kuksa viene levigato e oliato per impregnare il legno e renderlo impermeabile. Anche se inizialmente ciò che si beve potrebbe avere un sapore “legnoso”, con il passare del tempo e l’utilizzo costante ogni resto vegetale scomparirà, lasciando inalterato l’aroma della bevanda.

Kuksa
KUKSA – CRAFTING THE TRADITIONAL WOODEN CUP
Guksi

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Lo zaino Roycroft https://www.vitantica.net/2019/04/09/zaino-roycroft-sopravvivenza/ https://www.vitantica.net/2019/04/09/zaino-roycroft-sopravvivenza/#respond Tue, 09 Apr 2019 00:07:42 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4033 Lo zaino è spesso considerato come un pilastro fondamentale dell’autosufficienza in natura. E’ fondamentale per il trasporto di oggetti d’utilità e può essere riutilizzato per altri scopi, ma ha limiti che risultano evidenti in alcune circostanze.

Provate, ad esempio, a trasportare legna verso il vostro accampamento utilizzando uno zaino da campeggiatore: potrebbe risultare un’esperienza per nulla piacevole e ben poco pratica, oltre a costringervi a svuotare lo zaino del suo prezioso contenuto per far spazio a pochi ceppi di legna.

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In queste circostanze è utile sapere come costruire uno zaino rudimentale ma estremamente efficace se si considera la sua capacità di trasporto, la versatilità e i tempi di realizzazione: lo zaino Roycroft, o Roycroft pack.

Lo zaino Roycroft prende il nome da Tom Roycroft, un istruttore di sopravvivenza nell’esercito canadese durante gli anni ’60 del secolo passato.

Tom Roycroft istruiva i piloti militari su come usare tre bastoncini e cordame per realizzare un telaio in grado di fungere da zaino secondo uno schema noto da millenni e rivelatosi efficace in numerosissime occasioni.

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Il vetro nell’ Antico Egitto https://www.vitantica.net/2018/05/29/vetro-antico-egitto/ https://www.vitantica.net/2018/05/29/vetro-antico-egitto/#respond Tue, 29 May 2018 02:00:05 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1715 La lavorazione del vetro ebbe origine molto probabilmente in Egitto oltre 5.500 anni fa: le prime creazioni di vetro furono piccole perle decorative modellate a partire dalle scorie vetrificate che si generano come sottoprodotto dalla fusione di metalli come rame e argento.

Ma l’utilizzo di materiali vetrificati per realizzare oggetti semi-preziosi risale a tempi ancora più antichi: durante l’ Età della Pietra, vetri naturali come l’ ossidiana (roccia vetrificata per azione vulcanica) o il vetro del deserto libico (sabbia vetrificata a causa di un impatto meteoritico) erano materiali rari considerati particolarmente preziosi, importati da altre regioni del mondo conosciuto per essere impiegati come pietre decorative in monili o oggetti rituali.

Vetro: prezioso e segreto

Gli egizi furono i primi a produrre artificialmente il vetro. Durante la tarda Età del Bronzo la produzione del vetro subì un rapido progresso tecnologico testimoniato da artefatti come lingotti colorati o vasi di vetro decorati considerati particolarmente preziosi in tutto il Medio Oriente.

La richiesta sempre crescente di artefatti di vetro costrinse molti dei maggiori centri di produzione del Mediterraneo a rendere segrete le procedure di fusione necessarie alla creazione di vetro di qualità: mescolando gli ingredienti di base e determinati pigmenti seguendo formule custodite gelosamente dai vetrai, era possibile ottenere vetro di particolare lucentezza o dalla trasparenza straordinaria.

Per tutta l’ Età del Bronzo il vetro rimase una merce rara e preziosa, un materiale di lusso che potevano permettersi solo poche famiglie ricche che vivevano sul Mediterraneo.

Con l’inizio dell’ Età del Ferro, tuttavia, la produzione di vetro egizia subì una violenta battuta d’arresto, con una ripresa delle tecniche di produzione avvenuta soltanto durante la dinastia tolemaica (305 a.C. – 30 a.C.).

Perle blu cobalto probabilmente create in Antico Egitto scoperte in tombe danesi risalenti a 3.400 anni fa. A. MIKKELSEN, NATIONAL MUSEUM OF DENMARK
Perle blu cobalto probabilmente create in Antico Egitto scoperte in tombe danesi risalenti a 3.400 anni fa. A. MIKKELSEN, NATIONAL MUSEUM OF DENMARK
L’evoluzione della produzione del vetro

Il vetro inizialmente prodotto nell’ Antico Egitto era molto diverso da quello che conosciamo oggi: mancava della lucentezza del vetro moderno, aveva una scarsa trasparenza, ma poteva essere modellato facilmente e colorato in modo permanente, rendendolo un materiale dalla vita virtualmente illimitata al contrario di contenitori fabbricati con materiali più poveri e comuni come legno, zucche o sacche di pelle animale.

Con il trascorrere dei secoli e l’avanzamento delle tecniche di fusione e lavorazione, il vetro egizio divenne un materiale sempre più pregiato: dopo le innovazioni tecnologiche introdotte durante la XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). il vetro prodotto dai vetrai egizi raggiunse un grado di trasparenza quasi moderno.

Il problema più grande che i vetrai antichi dovevano affrontare era quello di plasmare una massa incandescente di vetro in modo veloce ed efficiente: la silice pura (più comunemente veniva utilizzata sabbia del deserto) ha un punto di fusione di circa 1.700°C, temperatura che può essere abbassata a circa 1.100°C in presenza di materiali come cenere di fibre vegetali o natron, un sale naturale estratto principalmente dai laghi salati della valle di Wadi El Natrun.

Per stabilizzare la massa di vetro ottenuta dalla fusione e renderla più resistente e facilmente modellabile, gli Egizi aggiungevano polvere di calcare o piombo.

La trasparenza del lingotto e del prodotto finale dipendevano dalla quantità di bolle d’aria incluse nel vetro, bolle che potevano essere contenute tritando ripetutamente la mistura di vetro o attraverso l’aggiunta di additivi.

Ma i vetrai dell’ Antico Egitto sembravano più interessati al colore che alla trasparenza del vetro: il pigmento più comunemente impiegato per colorare il vetro era il “blu egiziano“, una mistura di silice, calcare e ossido di rame creata durante il III millennio a.C. e il primo pigmento sintetico prodotto nella regione.

Bottiglia in vetro raffigurante una tilapia, un pesce molto comune lungo il Nilo, risalente alla XVIII dinastia (British Museum)
Bottiglia in vetro raffigurante una tilapia, un pesce molto comune lungo il Nilo, risalente alla XVIII dinastia (British Museum)
Gli ingredienti per il vetro

La fusione degli ingredienti prevedeva diversi passaggi:

  • Tritatura degli ingredienti: la sabbia, la polvere di calcare e il natron venivano mescolati insieme e tritati fino ad ottenere una polvere sottile;
  • La mistura veniva quindi cotta per almeno 24 ore ad una temperatura di circa 800-900°C per amalgamare gli ingredienti e far emergere le impurità più grossolane che danneggerebbero il risultato finale;
  • Le impurità venivano rimosse e il materiale restante nuovamente tritato;
  • La polvere di vetro veniva nuovamente fusa a 1.100°C, versata in stampi per creare lingotti e, dopo essersi raffreddata, ulteriormente tritata e fusa per eliminare la maggior parte delle impurità rimanenti e ridurre la presenza di bolle d’aria.

Il lingotto di vetro ottenuto alla fine del procedimento poteva essere lavorato su una fiamma e plasmato a piacimento. Il vetro poteva tuttavia essere lavorato anche a freddo trattando il materiale come una pietra dura e fragile.

Dopo aver ottenuto un frammento delle dimensioni desiderate, questo poteva essere tagliato, molato o perforato in base alle necessità, ma il prodotto finale risultava estremamente fragile e soggetto a facili rotture.

La lavorazione a caldo del vetro

I metodi di lavorazione più comuni erano quelli a caldo:

  • Il primo metodo, il più comune per almeno 3.000 anni, prevedeva l’applicazione di una copertura sottile di vetro fuso attorno ad un nucleo cilindrico d’argilla innestato su un palo di legno. Riscaldando il vetro per renderlo più morbido, si faceva rotolare la forma su una superficie piana (come una pietra piatta) fino a rendere uniforme la superficie esterna. La superficie interna, invece, restava poco uniforme e rendeva spesso visibili anche dall’esterno eventuali malformazioni dello stampo a cilindro;
  • Il secondo metodo prevedeva invece una colata di vetro fuso all’interno di uno stampo. Questo metodo non venne utilizzato spesso per via delle problematiche che presenta: impossibilità di creare oggetti cavi (la soffiatura del vetro fu introdotta in Egitto solo intorno al I secolo d.C.) e gamma limitata di oggetti realizzabili tramite questa tecnica.

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Gli Egizi avevano a disposizione tutti i materiali necessari per la soffiatura del vetro: ingredienti di partenza, forni in grado di raggiungere adeguate temperature di fusione e tubi di ceramica adatti alla soffiatura.

Nonostante le disponibilità tecnologiche, la soffiatura del vetro fu introdotta in Egitto dai territori romani (molto probabilmente dalla Siria) soltanto nel I secolo a.C. e la produzione di massa di oggetti di vetro soffiato ebbe inizio in Egitto solo dopo l’anno zero.

Anche se la soffiatura del vetro fu un’invenzione siriana, l’Egitto contribuì a migliorare la qualità del vetro soffiato: intorno all’anno 100 d.C. i vetrai di Alessandria scoprirono che l’aggiunta di diossido di manganese, un composto generalmente utilizzato come pigmento nero, poteva creare una trasparenza tale da consentire la produzione di finestre traslucide.

Glass
History of glass

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Lampade a olio e grasso animale https://www.vitantica.net/2018/02/02/lampade-a-olio-grasso/ https://www.vitantica.net/2018/02/02/lampade-a-olio-grasso/#comments Fri, 02 Feb 2018 02:00:28 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1317 Le lampade ad olio sono state per millenni la fonte di luce più economica e pratica per un uso quotidiano: erano semplici da produrre (anche se molte hanno forme e decorazioni complesse) e utilizzavano combustibili facilmente ottenibili in grandi quantità dalla lavorazione di svariati specie di animali o piante.

Le candele fecero la loro comparsa circa 5.000 anni fa ma, contrariamente a quelle create in epoche più recenti, venivano realizzate con grasso animale, perché la cera d’api era relativamente rara e incapace di soddisfare il fabbisogno di illuminazione dei nostri antenati.

Nell’ Europa preromana la principale fonte di luce erano lampade alimentate da olio d’oliva o sego e le candele di grasso animale o cera d’api erano considerate soltanto oggetti votivi da utilizzare nei Saturnali.

Anche dopo lo sviluppo di metodologie per la produzione candele di sego in grandi quantità, la lampada ad olio continuò a rappresentare la fonte di luce più economica per la maggior parte della popolazione e fu solo con le interruzioni cicliche del commercio dell’olio d’oliva, avvenute dopo il collasso dell’Impero Romano, che le candele iniziarono lentamente a sostituire le lampade ad olio.

Conchiglia trasformata in lampada ad olio alimentata da grasso animale
Conchiglia trasformata in lampada ad olio alimentata da grasso animale
Lampade ad olio preistoriche

Le prime lampade ad olio fecero la loro apparizione prima del Mesolitico: si trattava probabilmente di contenitori facilmente reperibili in natura come noci di cocco, conchiglie, gusci di uova o pietre di fiume dotate di concavità naturali; come stoppino veniva utilizzata qualunque fibra vegetale capace di assorbire una quantità sufficiente d’olio da mantenere una fiamma per lunghi periodi.

Le lampade ad olio ricavate dalla lavorazione di blocchi di pietra sembrano invece fare la loro apparizione intorno a 12.000 anni fa, ma occorre aspettare ancora qualche millennio per le prime lampade dall’aspetto molto simile a quelle che verranno utilizzate in Europa e in altre regioni del mondo ben oltre l’epoca medievale.

Lampade a olio della preistoria

Le lampade ad olio preistoriche possono essere racchiuse in tre categorie:

  • Circuito aperto: le lampade ad olio a circuito aperto sono semplicemente pezzi di roccia dotate di cavità naturali per il combustibile e fratture naturali capaci di canalizzare ed espellere il grasso fuso;
  • Circuito chiuso: la lampada a circuito chiuso è composta da una semplice concavità nella roccia, naturale o ricavata dall’uomo, utilizzata per accogliere l’olio combustibile;
  • Con manico: le lampade con manico sono forme evolute e rifinite di lampade a circuito chiuso create per facilitare il trasporto dell’utensile.

La lampada di Lascaux, rinvenuta negli anni 40 del 1900, è un tipico esempio di lampada ad olio con manico del periodo Magdaleniano (18-17.000 – 11-10.000 anni fa): si tratta di una lampada a forma di cucchiaio che, al momento della sua scoperta, conteneva ancora residui di combustione e ciò che restava dello stoppino, un filamento ottenuto da fibre di ginepro.

La lampada di Lascaux era probabilmente alimentata da grasso di animali ottenuti tramite la caccia. E’ stata ricavata da un pezzo di arenaria rossa lavorato e levigato fino ad ottenere una superficie liscia e uniforme su cui sono stati successivamente incisi alcuni simboli geometrici decorativi.

Lampada a olio di Lascaux
Lampada a olio di Lascaux
Le lampade grehe e romane

Con la scoperta e l’impiego di nuovi materiali come l’argilla o il bronzo le lampade ad olio diventano oggetti sempre più elaborati e radicati nella vita quotidiana di moltissimi popoli antichi.

I Greci e i Romani furono probabilmente i primi ad introdurre lampade d’argilla “a ruota” prima del III secolo a.C.: queste lampade erano generalmente semplici contenitori a scodella dotati di una piccola protuberanza a becco su cui poggiava un segmento di corda di lino, tessuto o altre fibre vegetali che fungevano da stoppino.

L’argilla si dimostrò ben presto un materiale ideale per la produzione di lampade ad olio: è possibile plasmarla secondo la forma desiderata, è facilmente estraibile da letti fluviali e disponibile in abbondanza.

Intorno al I secolo a.C. inizia la creazione di lampade d’argilla su scala relativamente vasta grazie all’invenzione di stampi su cui l’argilla, sotto forma di foglio dallo spessore più o meno uniforme, veniva modellata a pressione. La cottura dell’argilla permetteva di stabilizzare la forma e rendere l’oggetto resistente e indeformabile dal calore della combustione.

Lampada ad olio greca in terracotta risalente al III-II secolo a.C.
Lampada ad olio greca in terracotta risalente al III-II secolo a.C.. Fonte: Ancient Resources

L’uso della terracotta (o del bronzo, metallo facilmente lavorabile) rese possibile la realizzazione di lampade ad olio sempre più sofisticate e decorate: iniziarono ad apparire lampade a scodella chiusa dotate di una o più uscite tubolari per gli stoppini e di un’ apertura superiore tramite la quale riempire l’oggetto di combustibile.

Questo design limitava la possibilità di fuoriuscita dell’olio o del sego durante il trasporto della lampada e consentiva di regolare e fissare la lunghezza dello stoppino per variare l’efficacia della combustione.

Lampada ad olio romana in bronzo del I-II secolo d.C.
Lampada ad olio romana in bronzo del I-II secolo d.C.. Fonte: Hixenbaugh.net
Il combustibile delle lampade

Il combustibile delle lampade ad olio fu probabilmente l’elemento che garantì il successo di questa sorgente di luce almeno fino al 1600. Qualunque sostanza grassa in grado di sostenere una fiamma era considerata un valido combustibile: olio vegetale o grasso animale (oppure olio di balena) lavorato erano combustibili di prima scelta, mentre la cera d’api era di solito impiegata per alimentare lampade ad uso cerimoniale o per illuminare le case delle famiglie più benestanti.

Per ottenere il sego, il materiale di partenza è il grasso animale, specialmente quello che ricopre cuore e reni dei bovini. Dopo la bollitura a bassa temperatura e l’eliminazione delle scorie solide in sospensione, si ottiene un liquido biancastro che tenderà ad assumere una forma solida con l’abbassarsi della temperatura.

Il sego si mantiene allo stato solido a temperatura ambiente e può essere conservato a lungo a patto di immagazzinarlo in contenitori a tenuta stagna, per evitare che l’aria dia origine a processi di ossidazione capaci di compromettere la composizione del grasso.

Uno degli inconvenienti tipici della combustione del sego è l’odore: il sego di bassa qualità contiene impurità che possono produrre odori sgradevoli; il sego non particolarmente raffinato produce inoltre molto fumo e si scioglie molto rapidamente in prossimità di una fiamma o durante l’esposizione al sole estivo.

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Nave romana con vasca per pesci https://www.vitantica.net/2017/10/27/nave-romana-con-vasca-per-pesci/ https://www.vitantica.net/2017/10/27/nave-romana-con-vasca-per-pesci/#comments Fri, 27 Oct 2017 02:00:54 +0000 https://www.vitantica.net/?p=707 Un’ ipotesi molto interessante è stata formulata nel 2011 dagli archeologi dell’ Università Ca’ Foscari di Venezia e pubblicata sulla rivista on-line International Journal of Nautical Archaeology: un tubo di piombo ritrovato nel relitto di un’ antica nave romana apparterrebbe ad un sistema di pompaggio utilizzato sulle navi di 2.000 anni fa per mantenere il pesce fresco e vivo fino al porto più vicino.

Si è sempre ritenuto che il consumo di pesce nell’antichità dovesse avvenire a poca distanza dai porti per ovvie ragioni logistiche: è difficile trasportare il pesce su lunghe distanze (e con carri trainati da buoi) mantenendolo fresco: senza alcun refrigeratore, il pesce ha poche ore di vita prima di iniziare a marcire. Nel corso della storia umana sono nati molti metodi per preservare il cibo, come la salatura, ma niente può sostituire il sapore del pesce fresco di giornata.

Ma la teoria elaborata dall’ archeologo marino Carlo Beltrame sostiene che i Romani potessero servirsi di vasche d’ acqua salata a bordo della navi da pesca per conservare vivo il pesce durante il trasporto lungo il Mediterraneo.

Il relitto in cui è stato scoperto il tubo di piombo appartiene ad una nave romana affondata attorno al II secolo d.C. a 10 chilometri dalla costa di Grado, nel Golfo di Trieste. E’ stata scoperta nel 1986, recuperata tra il 1999 e il 2000 ed è ora custodita al Museo di Archeologia Subacquea di Grado. Le nave è lunga 16,5 metri e trasportava contenitori simili a vasi pieni di pesce sotto sale, come sardine e sgombri sotto sale.

Al momento della scoperta del tubo, che penetrava all’interno dello scafo per una lunghezza di circa 1,3 metri e con un diametro di 7-10 centimetri, gli archeologi sono rimasti spiazzati dal trovare un oggetto così insolito a bordo di una nave. A cosa serviva un tubo di piombo a bordo di un peschereccio?

Tubo di piombo ritrovato nel relitto
Tubo di piombo ritrovato nel relitto

Il team di Beltrame sostiene che il tubo fosse collegato ad una pompa a pistone azionata da una leva, anche se la pompa non è ancora stata rinvenuta nei pressi del relitto. I Romani avevano accesso a questo genere di tecnologia, ma non risulta che questo particolare tipo di pompe venisse montato anche sulle navi da pesca del tempo.

Il passo successivo è stato quello di formulare ipotesi sulla possibile funzione di questa pompa: serviva per liberarsi dell’acqua di sentina sul fondo della nave, o per altri scopi?

Beltrame sostiene che le pompe di sentina erano più sicure e comuni del tipo di pompa che si ipotizza possa essere stato utilizzato a bordo della nave. “Nessun marinaio avrebbe bucato la chiglia creando un’altra strada di accesso allo scafo per l’acqua di mare” dice Beltrame.

La seconda alternativa è che questa pompa, invece, servisse a portare acqua sulla nave per combattere incendi e per la pulizia dei ponti, un sistema relativamente comune sulle imbarcazioni che hanno solcato il Mediterraneo. Ma per Beltrame le dimensioni ipotetiche della pompa non erano tali da servire allo scopo.

Quello che rimane, quindi, è una terza possibile funzione: immettere acqua in vasche per i pesci. I ricercatori hanno calcolato che per una nave delle dimensioni del relitto di Grado la cisterna per i pesci avrebbe potuto contenere circa 4 metri cubi d’acqua, sufficienti a mantenere in vita 200 chilogrammi di pesce.

Schema che mostra il possibile funzionamento della pompa
Schema che mostra il possibile funzionamento della pompa

Per rifornire il pesce di ossigeno, l’acqua della vasca doveva subire un ricambio completo ogni 30 minuti. La pompa avrebbe fornito un flusso quasi costante di 252 litri al minuto, rimpiazzando l’intero contenuto di liquido nella vasca in soli 16 minuti.

Per quanto affascinante come idea, siamo sempre nel campo delle ipotesi. Ad oggi non c’è nessuna traccia dell’esistenza di una pompa simile collegata ad una vasca per pesci, come sottolinea Tracey Ruhll, storica della Swansea University. Anche se, a suo parere, i ricercatori hanno scartato l’ipotesi della pompa-idrante troppo frettolosamente, il tubo potrebbe essere effettivamente servito per mantenere vivo del pesce. “Prove letterarie e archeologiche suggeriscono che il pesce venisse effettivamente trasportato vivo e fresco sia dai Greci che dai Romani, su una scala ridotta ma significativa” dice Rihll.

Se l’ ipotesi della vasca per pesci a bordo della nave di Grado fosse vera, questo cambierebbe il modo in cui abbiamo dipinto le abitudini alimentari e commerciali degli antichi. Una vasca di questo tipo presupporrebbe l’esistenza di un commercio di pesce fresco e vivo sul Mediterraneo. “Cambierebbe completamente la nostra idea del mercato del pesce dell’antichità” dice Beltrame. “Pensavamo che il pesce dovesse essere mangiato vicino ai porti in cui approdavano le navi. Con questo sistema, potevano trasportare pesce fresco quasi ovunque”.

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La gomma dei popoli precolombiani https://www.vitantica.net/2017/09/24/la-gomma-dei-popoli-precolombiani/ https://www.vitantica.net/2017/09/24/la-gomma-dei-popoli-precolombiani/#respond Sun, 24 Sep 2017 07:00:14 +0000 https://www.vitantica.net/?p=341 I popoli mesoamericani sono noti per essere stati i primi a lavorare la linfa dell’ albero della gomma locale (Castilla elastica) quasi 2.000 anni prima di Cristo. La linfa di quest’albero è un mix di acqua, impurità organiche e polimeri di isoprene, ed è un colloide dal colore biancastro, appiccicoso, che sgorga naturalmente da incisioni praticate sulla corteccia dell’albero.

Il lattice dell’ albero della gomma, una volta rappreso, crea un materiale elastico e impermeabile, dall’aspetto simile alla gomma dei nostri tempi. Le sue proprietà, tuttavia, non sono paragonabili alla gomma moderna: è appiccicoso e difficile da lavorare agevolmente, si deforma con facilità se esposto al calore e tende a diventare fragile al freddo; un mix di caratteristiche che rende la gomma naturale un buon sigillante, ma nulla di più.

Per applicazioni pratiche e frequenti, tuttavia, i popoli precolombiani avevano bisogno di gomma resistente, elastica e che non perdesse le sue proprietà distintive con il cambio della temperatura: come fare senza la conoscenza del processo di vulcanizzazione, inventato a millenni di distanza?

Trattamento chimico della gomma precolombiana

Una ricerca condotta dal MIT sembra indicare che non solo le civiltà precolombiane fossero a conoscenza di metodi per lavorare la linfa estratta dagli alberi della gomma locali, ma che avessero addirittura perfezionato un trattamento chimico in grado di amplificare le proprietà della gomma naturale in base al suo impiego finale.

Per esempio, per fabbricare suole per sandali gli abili artigiani maya realizzavano una gomma resistente e tenace, priva di una grande elasticità. Per costruire palle di gomma utilizzate nei giochi tradizionali e religiosi, invece, trattavano la gomma in modo tale da ottenere una sostanza estremamente elastica e massimizzare il rimbalzo delle palle. Per la fabbricazione di elastici e adesivi utilizzati negli ornamenti e per la fabbricazione di armi, producevano gomma ottimizzata per la resistenza e l’aderenza.

Estrazione del lattice dall'albero della gomma
http://hankeringforhistory.com/wp-content/uploads/rubber-tree.jpg

Tutto ciò era possibile intervenendo sui due ingredienti principali impiegati nella fabbricazione della gomma: il lattice estratto dall’ albero della gomma e il succo dei viticci di Ipomea locali, come sostengono Dorothy Hosler e Michael Tarkanian del Dipartimento di Scienze ed Ingegneria dei Materiali del MIT. Grazie all’analisi di diversi artefatti in gomma vecchi di secoli, è stato possibile stabilire che le civiltà precolombiane potessero intervenire sulle proprietà chimiche della gomma.

Gli Aztechi, gli Olmechi e i Maya, ben prima che Charles Goodyear inventasse la vulcanizzazione, si rivelarono abili fabbricatori di gomma, materiale che utilizzavano per realizzare una vasta gamma di utensili e ornamenti, oltre che le palle impiegate durante i giochi cerimoniali.

Alcune di queste palle sono state ritrovate durante scavi archeologici in Centro-America e in Messico, le più antiche risalenti a circa 1600 anni prima di Cristo. “Erano davvero spettacolari, davvero enormi” dice Hosler riferendosi alle palle di gomma mesoamericane, che andavano dal diametro di pochi centimetri fino alle dimensioni di una palla da calcio.

Raffigurazione maya del gioco della palla
Raffigurazione maya del gioco della palla
Come si alteravano le proprietà della gomma naturale

Fino ad oggi, nessuno era riuscito a dimostrare che fosse possibile manipolare le proprietà della gomma precolombiana intervenendo sugli elementi fondamentali della ricetta per fabbricarla. Al contrario delle palle di gomma, l’esistenza di sandali con suole di gomma (e della gomma dalle caratteristiche necessarie per fabbricarli) non è mai stata dimostrata prima d’ora, anche se queste calzature vengono descritte nei diari dei conquistadores spagnoli e dei missionari.

La gomma mesoamericana sopravvissuta fino ad oggi è così degradata e secca che è estremamente difficile stabilire quali siano state le sue proprietà meccaniche. Per poter capire di più sulla gomma precolombiana, Tarkanian e Hosler hanno messo in piedi un laboratorio di fabbricazione della gomma secondo gli antichi metodi precolombiani: utilizzando diverse proporzioni di lattice e di succo di Ipomea, sono stati in grado di creare campioni con differenti proprietà meccaniche, e di misurare la loro elasticità, resistenza e forza.

Una combinazione di 50% di lattice e 50% di succo di Ipomea, ad esempio, produce la massima elasticità, perfetta per le palle di gomma. Per fabbricare adesivi o per congiungere materiali di diversa natura, come ceramiche o legno, le proporzioni devono essere differenti, con una maggiore quantità di lattice rispetto al succo di Ipomea. Per le suole dei sandali, applicazione in cui la resistenza è la proprietà primaria, il rapporto Ipomea-lattice si fa di 3 a 1.

I mesoamericani ebbero molto tempo, più di 2.000 anni, per perfezionare queste tecniche attraverso prove ed errori. Quando arrivarono gli Spagnoli, “c’era una grossa industria della gomma” spiega Tarkanian, industria che produceva 16.000 palle ogni anno ed un grande numero di statue di gomma, sandali, elastici e altri prodotti di uso comune.

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Maestri nei polimeri della gomma

Come se non bastasse, pare che il trattamento chimico non si limitasse alla sola gomma: Hosler ha studiato altri artefatti mesoamericani, giungendo alla conclusione che, molto probabilmente, il trattamento chimico fosse utilizzato anche nella metallurgia per intervenire sulle proprietà meccaniche dei metalli.

“Ci sono altre aree di produzione in cui le culture preispaniche combinavano diversi materiali per ottenere prodotti perfezionati.” afferma Frances Berdan, professore di antropologia della California State University. “La ricerca di Tarkanian e Hosler sull’antica gomma precolombiana dovrebbe avere l’effetto di rivolgere la nostra attenzione sulle metodologie utilizzate da queste culture, e riconoscere che svilupparono risposte sofisticate ai loro problemi quotidiani”.

John McCloy, ricercatore del Pacific Northwest National Laboratory, sostiene che “Tarkanian e Hosler hanno portato le prove che gli antichi mesoamericani furono i primi scienziati dei polimeri, avendo un controllo sostanziale sulle proprietà meccaniche della gomma per diverse applicazioni”.

“Quello che rimane da fare” continua McCloy, “è trovare prove archeologiche di sandali nell’antica America Centrale, e studiare i metodi di produzione della gomma mesoamericana utilizzata come adesivo e come calzatura. Sarebbe inoltre interessante fare analisi chimiche sulle palle di gomma, sugli adesivi e sui sandali (se dovessero essere trovati) per vedere se la quantità di additivi a base di Ipomea confermano lo studio in laboratorio sulle proprietà meccaniche”.) quasi 2000 anni prima di Cristo.

Per saperne di più: Mesoamerican people perfected details of rubber processing more than 3,000 years ago: study

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Contenitori di corteccia https://www.vitantica.net/2017/09/23/contenitori-di-corteccia/ https://www.vitantica.net/2017/09/23/contenitori-di-corteccia/#respond Sat, 23 Sep 2017 06:00:27 +0000 https://www.vitantica.net/?p=317 I contenitori di corteccia sono stati probabilmente il primo tipo di recipiente utilizzato dai nostri progenitori: per produrre un contenitore di corteccia non è nemmeno necessario saper manipolare il fuoco, solo una buona dose di pazienza, ingegno e manualità.

Le comunità di cacciatori-raccoglitori erano note per sfruttare ogni risorsa disponibile nell’ambiente che li circondava, in primo luogo gli alberi. Seguendo con occhio attento lo scorrere delle stagioni, i nostri antenati si accorsero che durante la primavera, specialmente con l’approssimarsi dell’estate, la corteccia degli alberi, un materiale flessibile e spesso impermeabile, poteva essere facilmente separata dal tronco in grosse sezioni.

Questi fogli di corteccia, impiegati anche per la costruzione di canoe dai nativi nordamericani, si prestavano particolarmente alla realizzazione di contenitori per liquidi come acqua o linfa.

Gli alberi migliori per ottenere corteccia

Nella nostra fascia temperata, gli alberi che forniscono ottimi fogli di corteccia sono la betulla e il pioppo, anche se la betulla, nell’arco di millenni, si è fatta un nome come miglior materiale per contenitori.

In realtà, sono molti gli alberi che possono offrire corteccia adatta alla fabbricazione di recipienti, ma spesso tende ad essere più difficile da distaccare dal tronco o da lavorare rispetto a quella della betulla.

corteccia di betulla
Estrazione della corteccia di betulla
corteccia olmo
Corteccia di olmo, più rigida di quella di betulla

Occorre selezionare un albero relativamente giovane tra maggio e luglio, dotato di corteccia flessibile e sottile e dal diametro di 10-20 centimetri. I nostri antenati non solo selezionavano alberi con queste caratteristiche perché risultava più facile abbatterli a colpi di asce di pietra o di strumenti litici ancora più primitivi, ma anche perché è più semplice estrarre un intero foglio di corteccia da un albero dal diametro contenuto. Spesso inoltre si servivano di alberi caduti la cui corteccia si poteva ottenere con poco sforzo ed evitando di danneggiare alberi vivi.

Separazione della corteccia

Dopo aver praticato due incisioni circolari distanti quanto la larghezza del foglio di corteccia che volete ottenere, fermandosi prima di raggiungere lo strato fibroso, si procede ad incidere il tronco lungo una linea verticale da cui si inizierà a separare la corteccia dall’albero.

La separazione della corteccia dal resto della pianta è la fase più delicata perché il foglio potrebbe spezzarsi durante l’operazione e si corre il rischio di danneggiare irreparabilmente l’albero. La procedura di base è la seguente:

  • Colpire gentilmente la corteccia con una pietra o un bastone per facilitare la separazione delle fibre del legno;
  • Fare leva sull’incisione verticale con un bastone appuntito o uno strumento d’osso, iniziando a sollevare un lembo del foglio di corteccia;
  • Prestare attenzione a non danneggiare eccessivamente lo strato fibroso: un albero generalmente ha discrete possibilità di sopravvivenza se si rimuove soltanto lo strato superficiale, ma danneggiando il livello più interno si interrompe il flusso di linfa dalle radici alla cima, condannando la pianta a morte certa;
  • Tirare gentilmente la corteccia per “sfogliarla” dal tronco, aiutandosi con il bastone quando il foglio diventa difficile da separare.

Una volta ottenuto il foglio di corteccia, si può dare spazio alla fantasia realizzando ogni tipo di contenitore facendo “origami” e cucendo i punti di giuntura con fibre vegetali ricavate da piante spontanee o radici.

piegare corteccia di betulla

La corteccia di betulla

La corteccia di betulla fornisce un materiale inizialmente soggetto a fratture, ma scaldandolo brevemente vicino ad una fiamma o esponendola a vapore diventa molto più flessibile e lavorabile.

Questa corteccia è impermeabile, dura come il cartone ed è stata impiegata fin dalla preistoria anche per scopi artistici; può essere facilmente lavorata con strumenti da taglio in pietra e piegata ad angolo retto senza comprometterne la resistenza.

I contenitori di corteccia di betulla erano chiamati “wiigwaasi-makak” (“scatola di betulla”) dai Chippewa e costituivano un oggetto fondamentale per la loro vita quotidiana, usato anche per la raccolta della linfa d’ acero e di betulla; alcuni recipienti di corteccia erano addirittura adatti alla cottura di zuppe.

La realizzazione di questi contenitori non era molto differente dalla tecnica impiegata anche per la costruzione di canoe: un foglio di corteccia veniva piegato secondo la forma desiderata e cucito con cordame ottenuto da radici di conifere. Eventuali fori o fratture potevano essere facilmente riparati applicando catrame o colla di betulla o pino.

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Per saperne di più: In Praise of the Birch

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