catrame – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il catrame di pino dei Vichinghi https://www.vitantica.net/2018/11/02/catrame-pino-vichinghi/ https://www.vitantica.net/2018/11/02/catrame-pino-vichinghi/#respond Fri, 02 Nov 2018 00:10:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2548 Oggi sappiamo che i popoli norreni erano abili navigatori, conoscevano i segreti delle pietre del sole, disponevano di abili fabbri ed erano esperti lavoratori del legno. Tutto questo consentì loro di spingersi verso il cuore d’Europa, in Islanda, in Groenlandia, fino a raggiungere le coste dell’ America settentrionale.

Le imbarcazioni vichinghe, come qualunque altra nave dell’epoca, possedevano uno scafo ligneo e dovevano essere impermeabilizzate in qualche modo per poter resistere ad anni di navigazione in mare. Con l’umidità o a contatto diretto con l’acqua, il legno si gonfia e le sue fibre tendono a sfaldarsi, compromettendo l’integrità strutturale del legname.

Il catrame di legno
Ancora oggi in Scandinavia si produce catrame di legna seguendo metodi tradizionali, probabilmente identici a quelli utilizzati dagli antichi popoli norreni.
Ancora oggi in Scandinavia si produce catrame di legna seguendo metodi tradizionali, probabilmente identici a quelli utilizzati dagli antichi popoli norreni.

Come si poteva rendere impermeabile un’imbarcazione del primo millennio d.C.? Utilizzando catrame di legno, una sostanza ottenibile dalla combustione di legna in condizioni di scarsa ossigenazione. Il procedimento per la produzione di catrame (leggi questo post per il catrame di betulla) è noto fin dal Neolitico e sono molti gli alberi che si prestano a questa operazione; due in particolare sembrano fornire il miglior catrame e in quantità abbondanti: betulle e conifere.

Il catrame ottenuto dagli alberi delle foreste nordeuropee era essenziale per lo stile di vita dei popoli norreni: era un ottimo collante, un impermeabilizzante di prima qualità per la chiglia delle barche, per le vele e per qualunque cosa stesse a contatto con l’acqua per lungo tempo. Veniva utilizzato come medicinale, come spezia, come lubrificante, come sostanza idrorepellente per i tetti delle case o cosparso sul cuoio per proteggerlo dal gelo e dall’acqua.

Un’imbarcazione vichinga di medie dimensioni richiedeva quasi 500 litri di catrame per essere sufficientemente impermeabile da poter essere messa in mare. Dopo l’esposizione alle intemperie, era inoltre necessario ripetere la procedura ogni anno per evitare che il legno marcisse.

Per produrre i 500 litri di catrame necessario a impermeabilizzare una nave vichinga occorrevano 18 metri cubi di legna e circa 1600 ore lavoro totali. Grandi quantità di catrame erano inoltre utilizzate per impermeabilizzare le vele di lana, molto comuni nelle imbarcazioni norrene e che potevano raggiungere i 100 metri quadrati di superficie.

Produrre tali quantità di catrame non è affatto semplice: se per ottenere qualche litro è sufficiente un forno di dimensioni “casalinghe”, migliaia di litri di catrame necessitano di un’operazione su larga scala la cui organizzazione ed esecuzione, fino ad ora, hanno eluso gli archeologi.

“Penso che la produzione di catrame nella Svezia orientale si sia sviluppata da un’attività casalinga su piccola scala durante l’ Età del Ferro ad una produzione su vasta scala ricollocata nei pressi delle foreste durante il periodo dei Vichinghi” sostiene Andreas Hennius, archeologo della Uppsala University e autore di una ricerca che analizza la produzione di catrame dei popoli norreni.

Forni per il catrame
Forno per la produzione di catrame di legno utilizzato durante l' Età del Ferro
Forno per la produzione di catrame di legno utilizzato durante l’ Età del Ferro

Intorno ai primi anni del 2000 sono stati trovati in Svezia diversi forni di piccole dimensioni per la produzione di catrame, tutti databili tra il 100 e il 400 d.C.. In questo periodo, il catrame veniva prodotto in quantità tali da soddisfare i bisogni di una fattoria; i forni avevano un diametro di circa 1 metro e riuscivano a produrre 10-15 litri di catrame da una singola accensione.

Qualche anno dopo sono emersi alcuni forni di dimensioni più grandi, costruiti tra il 680 e il 900 d.C., l’epoca che corrisponde alla comparsa dei Vichinghi nelle cronache europee. Questi forni, dal diametro 10-15 volte superiore a quelli casalinghi, potevano produrre da 150 a 300 litri di catrame in una sola accensione, una quantità immensamente superiore a qualunque necessità familiare.

Questi forni si trovavano nei pressi di foreste di pino, albero che fornisce materiale di prima qualità per la produzione di catrame grazie al suo alto contenuto di resine. Attorno a questi forni non erano presenti cimiteri o villaggi, suggerendo che si trattasse di siti puramente industriali incentrati sulla produzione di catrame; a confermare questa ipotesi c’è il fatto che i grossi forni di estrazione del catrame scoperti finora si trovano a circa 8-10 km da insediamenti norreni accertati.

Versione evoluta del forno per la produzione di catrame di legno nel VII - X secolo
Versione evoluta del forno per la produzione di catrame di legno nel VII – X secolo

I forni norreni per la produzione di catrame consistevano in pozzi conici scavati nella terra lungo pendii naturali. Il calore della combustione alimentata dal carbone faceva “trasudare” l’olio di conifera o di betulla dal legname; per gravità, l’olio scendeva verso il basso e veniva convogliato in barili di raccolta.

L’analisi del contenuto dei forni ha mostrato che il legname utilizzato proveniva generalmente da tronchi di pini di 30-40 anni d’età. I tronchi non hanno evidenti segni di attività da parte di insetti, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da alberi caduti o morti.

Gli alberi selezionati per la produzione di catrame venivano probabilmente preparati qualche anno prima incidendo la corteccia per promuovere la creazione di resina e massimizzare l’estrazione di catrame.

L’estrazione di catrame di pino su larga scala richiese necessariamente un’organizzazione puntuale e una forza lavoro composta da centinaia di uomini. Occorreva preparare i pini con anni di anticipo, abbatterli in grandi quantità, accatastarli correttamente per evitare che il legno si deteriorasse, monitorare costantemente il processo di combustione dei forni e, non per ultimo, trasportare barili in abbondanza da e verso i siti di produzione del catrame.

Questa produzione massiccia e ben organizzata generò anche un surplus di catrame: le eccedenze venivano spedite da Svezia e Finlandia in altre regioni d’Europa, come dimostrerebbero numerosi barili scoperti in Danimarca o in Germania e oltre un centinaio di spazzole per l’applicazione di catrame di pino, abete o larice, in aree in cui non c’è abbondanza di conifere.

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Viking Age tar production and outland exploitation

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Ricostruite punte di frecce e propulsori del Pleistocene https://www.vitantica.net/2018/02/07/ricostruite-punte-frecce-propulsori-pleistocene/ https://www.vitantica.net/2018/02/07/ricostruite-punte-frecce-propulsori-pleistocene/#respond Wed, 07 Feb 2018 02:00:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1341 Il lavoro dell’archeologo è costituito in buona parte dall’interpretazione logica e sensata dei reperti in nostro possesso: ossa, utensili e opere artistiche possono fornire numerosissime informazioni sulle società del passato e aprire una finestra sullo stile di vita dei nostri antenati.

Spesso tuttavia mancano informazioni su come venissero realizzati alcuni oggetti e sulla loro reale efficacia nello svolgere il compito per il quale furono prodotti. Un esempio sono le armi preistoriche: quali sono state le tecniche più comuni per realizzare punte e lame di pietra? Quanto erano efficaci gli utensili litici prodotti per svariate migliaia di anni dai nostri predecessori?

Per ottenere qualche risposta a questi quesiti gli archeologi della University of Washington, capitanati dalla ricercatrice Janice Wood, hanno recentemente pubblicato un articolo su Journal of Archaeological Science in cui descrivono come sono stati in grado di ricreare e testare alcune punte di pietra del tutto simili a quelle rinvenute in siti archeologici nordamericani risalenti all’ Età della Pietra.

Non è la prima ricerca di questo tipo ad essere condotta negli ultimi anni: l’archeologia sperimentale, se fatta con criterio, si sta rivelando uno strumento utilissimo per formulare ipotesi e teorie sulla tecnologia impiegata dai nostri antenati preistorici, come nel caso dei test effettuati sulla ricostruzione della clava del Tamigi.

Il team ha deciso di concentrarsi sulle armi da caccia prodotte circa 10-14.000 anni fa, un periodo che vide la nascita di svariati modelli di punte di proiettili, probabilmente per far fronte a tecniche di caccia diverse in base alla preda.
“I cacciatori-raccoglitori di 12.000 anni fa erano molto più sofisticati di quanto gli riconosciamo” sostiene Ben Fitzhugh, professore di antropologia della University of Washington. “Non abbiamo mai considerato che i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene possedessero quel livello di sofisticazione, ma è chiaro che producessero questi strumenti per ciò che dovevano affrontare quotidianamente, come per le attività di caccia. Avevano una vasta comprensione dei diversi strumenti che producevano e dello strumento migliore per una determinata preda o determinate condizioni di caccia”.

Punte di freccia create da Wood e dai suoi colleghi
Punte di freccia create da Wood e dai suoi colleghi

I gruppi nomadi che vivevano in Alaska e in Siberia si nutrivano principalmente di piante spontanee e di animali ottenuti dalla caccia, come caribù e renne (che appartengono in realtà alla stessa specie, Rangifer tarandus). Le armi più comuni per la caccia di questi animali erano quasi certamente le lance e i propulsori, ma si tratta di strumenti che hanno la spiacevole tendenza di conservarsi solo parzialmente con il passare del tempo: tutte le parti costituite da materia organica, come il legno o il tendine usato per fissare le lame, vengono facilmente decomposte, mentre le punte in pietra e osso si conservano molto più facilmente anche dopo svariati millenni.

E’ quindi difficile capire la balistica di questi oggetti, ancor di più la loro reale efficacia nella caccia di grossi quadrupedi. Fino ad ora sono stati rinvenuti tre tipologie di punte utilizzate in Alaska e Siberia:

Wood e il suo team hanno deciso di ricreare 30 di queste punte, 10 per ogni tipo, cercando di utilizzare quando possibile gli stessi materiali impiegati nel Pleistocene e usando come aste legno di pioppo assicurato alle punte con colla di catrame di betulla. Questi oggetti sono quindi stati messi alla prova con un blocco di gelatina balistica e una carcassa fresca di renna acquistata in una fattoria.

Le punte composite si sono rivelate le più efficaci rispetto a quelle di sola pietra o osso contro prede di piccola taglia, causando ferite incapacitanti indipendentemente dal punto d’impatto. Le punte d’osso tendevano a penetrare più profondamente nei corpi di animali di grossa taglia generando cavità sottili e riuscendo a raggiungere gli organi interni; quelle di pietra invece causavano ferite di maggiori dimensioni e probabilmente portavano ad uccisioni più veloci a causa della vasta lacerazione dei tessuti.

“Abbiamo mostrato che ogni lama ha i suoi punti di forza” spiega Wood. “E’ tutto legato alla preda stessa; gli animali reagiscono in modo diverso in base alle ferite che subiscono. Per questi cacciatori nomadi era importante uccidere l’animale con efficienza, cacciavano per ottenere cibo”.

Reconstructing an ancient lethal weapon

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Canoe a scafo monossilo https://www.vitantica.net/2017/10/19/canoe-a-scafo-monossilo/ https://www.vitantica.net/2017/10/19/canoe-a-scafo-monossilo/#respond Thu, 19 Oct 2017 02:00:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=641 Una canoa monossila (chiamata anche “a scafo monossilo”, “dugout” o semplicemente “monossilo”) è un’imbarcazione realizzata da un singolo tronco d’albero scavato in modo tale da ottenere uno scafo lungo, sottile e affusolato. Si tratta probabilmente della più antica imbarcazione mai realizzata dall’essere umano, dato che non richiede abilità complesse se non un’abbondante dose di pazienza e una dotazione minima di strumenti necessari a scavare e lavorare il legno.

Il più antico esemplare di canoa a scafo monossilo è la piroga di Pesse, scoperta in Olanda nel 1955 e datata a circa 8000 prima di Cristo. L’imbarcazione è lunga quasi 3 metri, larga 44 centimetri ed è stata realizzata a partire da un singolo tronco di pino silvestre (Pinus sylvestris).

Le canoe a scafo monossilo sono state realizzate in ogni parte del mondo nel corso della storia antica e l’Europa ha fornito numerosissimi esemplari-modello rinvenuti nel corso dell’ultimo secolo.

Questo tipo di canoe erano generalmente impiegate in acque calme come quelle di stagni, laghi e fiumi a lento scorrimento; il loro scafo attraversava agevolmente le paludi che occupavano buona parte del territorio dell’epoca ed era trasportabile sulla terraferma da un piccolo gruppo di persone. Se dotate di bilancieri montati ai lati dello scafo, inoltre, queste canoe potevano percorrere brevi tragitti in mare o in acque fluviali turbolente.

Canoa monossile slava del X° secolo
Canoa monossila slava del X secolo
Scelta del legno per la canoa

Per costruire una canoa a partire da un tronco d’albero, il primo passo è selezionare la pianta adatta. I nostri antenati preferivano sfruttare alberi morenti, già morti o addirittura caduti se il legno era sufficientemente ben conservato. Il legno non deve essere troppo denso da avere una scarsa galleggiabilità, e sufficientemente resistente da non rompersi se sottoposto a stress o a carichi.

Gli alberi adatti ad una canoa monossila cambiavano in base alla località geografica: in Nord Europa, ad esempio, quercia, tiglio, pino e faggio erano considerati i legni migliori, mentre in altre località del mondo veniva comunemente utilizzato il tronco di cedro (Nord America) o il teak (Africa).

La corteccia che ricopre il tronco deve essere completamente rimossa prima di lavorare la pianta per evitare che insetti e muffe attacchino il legno sottostante durante i giorni (o le settimane) necessari a terminare la canoa.

Le dimensioni del tronco sono ovviamente legate alla capacità di carico dell’imbarcazione: una canoa lunga 3-4 metri e larga circa 50 centimetri è sufficiente a trasportare due persone senza comprometterne il galleggiamento in acque calme.

Le canoe di cedro costruite in Nord America, utilizzate per il trasferimento dell’accampamento o per le spedizioni di guerra, superavano i 15 metri di lunghezza e i 2 di larghezza e potevano trasportare fino a 20 persone o un peso equivalente; le canoe slave del X secolo, invece, trasportavano agevolmente 40-60 guerrieri in tenuta da battaglia.

canoa monossile fuoco
Scavo di canoa monossila usando il fuoco
Costruzione della canoa

Esistono principalmente due metodi per ottenere una canoa monossila:

  • Fuoco: dato che uno strumento di pietra intacca il legno molto più difficilmente di quanto possa fare il metallo, il metodo più comune durante l’ Età della Pietra quello di usare il fuoco per svolgere la maggior parte del lavoro. Dopo aver delimitato l’area del tronco in cui dovrà essere effettuato lo scavo, sulla superficie vengono deposte braci ardenti che, con il passare del tempo, consumeranno lentamente il legno sotto di loro. Questo processo dura svariati giorni dipendentemente dalle dimensioni del tronco e richiede un controllo costante delle braci per evitare che producano crepe o fori sullo scafo. Dopo aver raggiunto la profondità desiderata, lo scavo veniva rifinito usando strumenti di pietra e osso.
  • Ascia e olio di gomito: con l’arrivo delle prime asce di rame e bronzo, la lavorazione del legno fu immensamente più facile: un’ ascia simile a quella di Ötzi è più efficiente e veloce di qualunque strumento di pietra quando si tratta di scavare il legno, specialmente se l’operazione viene effettuata in team. E’ possibile che i nostri antenati abbiano utilizzato una combinazione di fuoco e metallo per ottenere molto più velocemente ciò che producevano in passato con fuoco e pietra.

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Il semplice scavo dello scafo non basta. E’ possibile (anzi, molto probabile) che le imperfezioni del tronco costringano ad optare per un design non propriamente simmetrico, o che durante lo scavo si generino piccole crepe o vengano messi in risalto fori del tronco in precedenza invisibili.

E’ anche possibile che la canoa abbia dimensioni ridotte rispetto alle aspettative iniziali: la rimozione eccessiva di legno interno ed esterno ha reso la parte interna dello scafo troppo stretta, o le pareti troppo sottili.

I nostri antenati avevano elaborato alcune soluzioni a questo genere di problemi:

  • Fori e crepe: qualunque imperfezione dello scafo, se non considerata strutturalmente rilevante, poteva essere riempita e sigillata utilizzando resina di pino, o meglio ancora catrame di pino o betulla. Una volta scaldato e usato per sigillare, questo collante riempiva buchi e crepe alle perfezione e impermeabilizzava la parte che copriva;
  • Impermeabilizzazione: il legno rimane comunque un materiale capace di assorbire acqua, proprietà non ideale se si vuole utilizzare frequentemente un’imbarcazione. L’ impermeabilizzazione dello scafo poteva essere effettuata con catrame di betulla o pino, oppure utilizzando grasso animale, cera d’api o oli vegetali dalle proprietà idrorepellenti;
  • Scafo troppo piccolo: era possibile modificare leggermente l’ampiezza dello scafo prima di procedere all’impermeabilizzazione. La canoa veniva immersa in acqua per uno o due giorni per impregnare il legno; dopo averla estratta dall’acqua, venivano inseriti all’interno dello scafo dei rami robusti e leggermente flessibili in modo tale da forzare le pareti verso l’esterno. Una volta ottenuta la larghezza desiderata, si lasciava la canoa esposta al sole per qualche giorno con lo scopo di farle perdere la maggior parte dell’acqua accumulata e rendere permanente la distanza tra le pareti.
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Contenitori di corteccia https://www.vitantica.net/2017/09/23/contenitori-di-corteccia/ https://www.vitantica.net/2017/09/23/contenitori-di-corteccia/#respond Sat, 23 Sep 2017 06:00:27 +0000 https://www.vitantica.net/?p=317 I contenitori di corteccia sono stati probabilmente il primo tipo di recipiente utilizzato dai nostri progenitori: per produrre un contenitore di corteccia non è nemmeno necessario saper manipolare il fuoco, solo una buona dose di pazienza, ingegno e manualità.

Le comunità di cacciatori-raccoglitori erano note per sfruttare ogni risorsa disponibile nell’ambiente che li circondava, in primo luogo gli alberi. Seguendo con occhio attento lo scorrere delle stagioni, i nostri antenati si accorsero che durante la primavera, specialmente con l’approssimarsi dell’estate, la corteccia degli alberi, un materiale flessibile e spesso impermeabile, poteva essere facilmente separata dal tronco in grosse sezioni.

Questi fogli di corteccia, impiegati anche per la costruzione di canoe dai nativi nordamericani, si prestavano particolarmente alla realizzazione di contenitori per liquidi come acqua o linfa.

Gli alberi migliori per ottenere corteccia

Nella nostra fascia temperata, gli alberi che forniscono ottimi fogli di corteccia sono la betulla e il pioppo, anche se la betulla, nell’arco di millenni, si è fatta un nome come miglior materiale per contenitori.

In realtà, sono molti gli alberi che possono offrire corteccia adatta alla fabbricazione di recipienti, ma spesso tende ad essere più difficile da distaccare dal tronco o da lavorare rispetto a quella della betulla.

corteccia di betulla
Estrazione della corteccia di betulla
corteccia olmo
Corteccia di olmo, più rigida di quella di betulla

Occorre selezionare un albero relativamente giovane tra maggio e luglio, dotato di corteccia flessibile e sottile e dal diametro di 10-20 centimetri. I nostri antenati non solo selezionavano alberi con queste caratteristiche perché risultava più facile abbatterli a colpi di asce di pietra o di strumenti litici ancora più primitivi, ma anche perché è più semplice estrarre un intero foglio di corteccia da un albero dal diametro contenuto. Spesso inoltre si servivano di alberi caduti la cui corteccia si poteva ottenere con poco sforzo ed evitando di danneggiare alberi vivi.

Separazione della corteccia

Dopo aver praticato due incisioni circolari distanti quanto la larghezza del foglio di corteccia che volete ottenere, fermandosi prima di raggiungere lo strato fibroso, si procede ad incidere il tronco lungo una linea verticale da cui si inizierà a separare la corteccia dall’albero.

La separazione della corteccia dal resto della pianta è la fase più delicata perché il foglio potrebbe spezzarsi durante l’operazione e si corre il rischio di danneggiare irreparabilmente l’albero. La procedura di base è la seguente:

  • Colpire gentilmente la corteccia con una pietra o un bastone per facilitare la separazione delle fibre del legno;
  • Fare leva sull’incisione verticale con un bastone appuntito o uno strumento d’osso, iniziando a sollevare un lembo del foglio di corteccia;
  • Prestare attenzione a non danneggiare eccessivamente lo strato fibroso: un albero generalmente ha discrete possibilità di sopravvivenza se si rimuove soltanto lo strato superficiale, ma danneggiando il livello più interno si interrompe il flusso di linfa dalle radici alla cima, condannando la pianta a morte certa;
  • Tirare gentilmente la corteccia per “sfogliarla” dal tronco, aiutandosi con il bastone quando il foglio diventa difficile da separare.

Una volta ottenuto il foglio di corteccia, si può dare spazio alla fantasia realizzando ogni tipo di contenitore facendo “origami” e cucendo i punti di giuntura con fibre vegetali ricavate da piante spontanee o radici.

piegare corteccia di betulla

La corteccia di betulla

La corteccia di betulla fornisce un materiale inizialmente soggetto a fratture, ma scaldandolo brevemente vicino ad una fiamma o esponendola a vapore diventa molto più flessibile e lavorabile.

Questa corteccia è impermeabile, dura come il cartone ed è stata impiegata fin dalla preistoria anche per scopi artistici; può essere facilmente lavorata con strumenti da taglio in pietra e piegata ad angolo retto senza comprometterne la resistenza.

I contenitori di corteccia di betulla erano chiamati “wiigwaasi-makak” (“scatola di betulla”) dai Chippewa e costituivano un oggetto fondamentale per la loro vita quotidiana, usato anche per la raccolta della linfa d’ acero e di betulla; alcuni recipienti di corteccia erano addirittura adatti alla cottura di zuppe.

La realizzazione di questi contenitori non era molto differente dalla tecnica impiegata anche per la costruzione di canoe: un foglio di corteccia veniva piegato secondo la forma desiderata e cucito con cordame ottenuto da radici di conifere. Eventuali fori o fratture potevano essere facilmente riparati applicando catrame o colla di betulla o pino.

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Per saperne di più: In Praise of the Birch

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Catrame di betulla https://www.vitantica.net/2017/09/07/catrame-di-betulla/ https://www.vitantica.net/2017/09/07/catrame-di-betulla/#respond Thu, 07 Sep 2017 17:43:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=158 L’utilizzo nell’Europa settentrionale del catrame di betulla come mastice di qualità superiore risale ad almeno 200.000 anni fa. Ne sono state trovate tracce (con tanto di impronta di un pollice impressa sul catrame) su una punta di lancia neanderthal, ominidi già noti per la loro capacità di distillare la corteccia di betulla per molteplici finalità.

Pezzi di catrame di betulla utilizzato come gomma da masticare risalgono ad almeno 11.000 anni fa;l’ ascia di rame di Otzi, vecchia di 5.300 anni, fu saldata al manico con catrame di betulla. Gli esempi appena riportati sono indicativi degli svariati utilizzi di questo materiale adesivo e dell’importanza che ha rivestito nel corso della storia antica.

Catrame di betulla

Il catrame di betulla di betulla è un materiale plastico termicamente sensibile che si presenta allo stato solido a temperatura ambiente, ma non appena si superano i 30°C inizia ad ammorbidirsi fino a prendere fuoco una volta raggiunta la temperatura di ignizione pari a 180°C, facilmente ottenibile con qualunque fiamma viva.

La sensibilità termica e la capacità di modellarlo a piacimento sono caratteristiche che rendono il catrame di betulla un ottimo collante e impermeabilizzante, facile da trasportare allo stato solido e semplice da utilizzare dopo una breve esposizione al calore.

L’ olio di betulla

Il catrame di betulla non viene estratto direttamente dal tronco dell’albero, come lo sciroppo di betulla, ma viene prodotto a partire dall’ olio resinoso ottenibile da alcune parti della pianta.

Riscaldando la corteccia o le radici di betulla in una camera di combustione dallo scarso afflusso d’aria (sigillato da un coperchio forato, ad esempio), con un procedimento di carbonizzazione simile a quello usato per creare il carbone di legna, l’ olio di corteccia di betulla trasuderà dal materiale vegetale per raccogliersi sul fondo del contenitore.

Per raccogliere l’olio occorre praticare una piccola apertura in fondo del contenitore e posizionare un altro recipiente sotto di esso all’interno di una buca nel terreno o di un bagno d’acqua, per consentire all’olio colato di raffreddarsi.

La corteccia e le radici di betulla vengono inserite nella camera di combustione in posizione verticale per aiutare l’olio a scivolare per gravità verso la parte inferiore del contenitore.

La camera di combustione può essere una struttura di terra, roccia o argilla, oppure un recipiente improvvisato come una lattina. Se si utilizza un forno naturale di argilla e roccia, è possibile scavare un buco nel terreno in cui inserire il recipiente di cattura dell’ olio.

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Il fuoco deve ardere dalle 4 alle 8 ore ininterrottamente per poter estrarre ogni residuo d’olio contenuto nella corteccia. Dopo che il fuoco si sarà spento sarà possibile estrarre il recipiente di raccolta.

L’olio di corteccia di betulla ha l’aspetto dell’ olio per motori e un odore molto pungente, simile a quello dell’acquaragia: contiene infatti trementina, una sostanza composta da terpeni e utilizzata ancora oggi come solvente.

Produrre catrame
Catrame di betulla ottenuto con un solo contenitore, un mix di cenere di legno e olio rappreso
Catrame di betulla ottenuto con un solo contenitore, un mix di cenere di legno e olio rappreso

Per ottenere il catrame dall’olio di betulla è necessario far bollire lentamente l’olio per eliminare l’acqua in eccesso e far addensare il composto. I vapori sprigionati dall’olio in ebollizione sono molto infiammabili (oltre che irritanti per le mucose) ed è consigliabile svolgere questa attività all’aperto prestando molta attenzione quando si manipola il recipiente dell’olio.

Ad intervalli regolari sarà indispensabile verificare se si è raggiunta la giusta densità lasciando raffreddare il contenitore per qualche minuto e immergendolo in acqua fredda. Se in breve tempo l’olio non raggiunge lo stato solido, occorre rimetterlo sul fuoco per eliminare altra acqua.

Questo procedimento di verifica della densità deve essere costante e frequente, dato che l’olio può facilmente bruciarsi facendo fallire il vostro tentativo di ottenere catrame di betulla di qualità.

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Il catrame di betulla così ottenuto è assolutamente a prova d’acqua e può essere utilizzato per sigillare cuciture in cuoio su mocassini, stivali o qualunque oggetti necessiti di una copertura impermeabile.

E’ stato utilizzato nell’antichità su vasta scala per impermeabilizzare la chiglia di barche e navi di legno (come le canoe a scafo monossilo) e come repellente per i molluschi che si attaccano allo scafo.

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Introduzione alla colla naturale https://www.vitantica.net/2017/09/04/introduzione-alla-colla/ https://www.vitantica.net/2017/09/04/introduzione-alla-colla/#respond Mon, 04 Sep 2017 20:19:23 +0000 https://www.vitantica.net/?p=114 La colla è uno strumento entrato nell’uso quotidiano dell’essere umano da molto, moltissimo tempo, ma spesso  trascuriamo l’importanza che ha avuto nello sviluppo della nostra civiltà.

Se oggi è sufficiente recarsi al supermercato e comprare un qualsiasi tubetto di mastice o di colla epossidica, un tempo fabbricare un adesivo efficace e resistente non era così semplice. Ma anche centinaia di migliaia di anni fa, una vasta gamma di adesivi di origine naturale svolgevano più che egregiamente il loro lavoro e non avevano nulla da invidiare a molte colle moderne d’uso comune.

La colla nella preistoria

Le prime tracce di colla naturale risalgono a circa 200.000 anni fa e sono state scoperte su un reperto rinvenuto in Italia. Si tratta di una colla composta da un singolo elemento, una pasta di resina di betulla che fu utilizzata per unire una punta di pietra ad un’asta di legno con lo scopo di ottenere una lancia.

Siamo stati abituati ad immaginare lance con punte legate all’asta tramite cordame di varia natura, ma abbiamo molti reperti che ci dicono che usare la colla per unire pietra e legno era una pratica relativamente comune e svolta tramite composti adesivi spesso molto complessi, che miscelavano elementi di origine vegetale a sostanze di provenienza animale.

Le resine naturali sono sostanze dalle proprietà straordinarie, ma fissare una punta di lancia ad un pezzo di legno tramite resina di betulla potrebbe non garantire il massimo della tenuta. Considerando che, 200.000 anni fa, una lancia rotta equivaleva spesso a morte certa è molto probabile che le punte venissero assicurate anche tramite cordame, un materiale che purtroppo non si conserva facilmente nell’arco di millenni.

Ma l’efficacia delle colle naturali è nota da millenni, come lo sono le loro differenti proprietà e potenziali utilizzi: alcune creano punti di giuntura rigidi e fragili, altre meno duraturi e più elastici.

La colla multi-ingrediente

Le prime tracce di colla naturale multi-ingrediente risalgono all’ultimo periodo interglaciale: circa 70.000 anni fa, nella Caverna di Sibidu in Sud Africa, gli abitanti della regione utilizzavano quotidianamente un composto adesivo ottenuto da una mistura di resina di acacia e ocra rossa.

Il livello di tecnologia degli abitanti della caverna suggerirebbe inoltre che l’utilizzo di questo tipo di colla abbia avuto origine diversi millenni prima rispetto alla data del reperto. L’aggiunta di ocra alla resina di acacia non agisce soltanto come pigmento, ma contribuisce a rendere l’adesivo più robusto e meno soggetto a rotture.

Tra le prime sostanze che garantivano un’aderenza forte e duratura tra materiali di diversa natura ci furono le colle di origine animale. Grazie a queste colle fu possibile riparare oggetti in ceramica, assemblare mobili e oggetti relativamente complessi, realizzare incredibili armi da guerra o addirittura riparare statue del peso di tonnellate.

Vesciche natatorie essiccate pronte per la produzione di colla di pesce
Vesciche natatorie essiccate pronte per la produzione di colla di pesce
La colla animale e di pesce

La colla di pesce (ichtyokolla) è un esempio del livello tecnologico raggiunto dagli antichi nel campo degli adesivi. Questo genere di colla è di facile realizzazione: dopo aver fatto bollire in acqua i tessuti connettivi dell’animale, quello che si ottiene è una gelatina di proteine colloidi in grado di agire da adesivo.

Il procedimento è sostanzialmente lo stesso per altri tipi di formule adesive derivate dagli animali: pelle, ossa di animali, zoccoli, denti di cavallo sono solo alcuni esempi degli ingredienti utilizzati in passato per la produzione di colle.

Dai pesci è possibile estrarre anche un altro tipo di adesivo: l’ Isinglass, una sostanza ottenuta in passato dalla vescica natatoria degli storioni beluga (un tempo era un pesce relativamente comune nelle acque europee). In tempi moderni l’ Isinglass, che rappresenta la forma più pura della colla di pesce, viene utilizzato nel processo di lavorazione della birra.

La super-colla

Cosa si ottiene creando una colla che contiene elementi di origine vegetale e animale? La “super-colla” utilizzata oltre 2.000 anni fa per abbellire l’elmo di un soldato romano. Nonostante i millenni, le battaglie e il clima, questo composto di corteccia di betulla, grasso animale e bitume non ha perso tenuta e non sembra dare segnali di cedimento. Lo stesso tipo di composto fu utilizzato per riparare oggetti in ceramica e probabilmente per molti altri scopi, dato che se ne poteva aumentare il potere adesivo mescolandolo con sabbia e quarzo.

La colla di resina

Uno degli adesivi più semplici da realizzare è la colla di resina di pino, una sostanza appiccicosa e densa le cui proprietà adesive possono essere notevolmente incrementate con un semplice procedimento.
Il primo passo è quello di raccogliere blocchi di resina secca presenti sempre in abbondanza sul tronco e sui rami di un pino.

La resina viene quindi scaldata a fiamma bassa o vicino alla fiamma viva fino ad ottenere un composto viscoso e quanto più possibile privo di impurità (che si possono rimuovere con un bastoncino). Quando la resina è sufficientemente liquida, occorre mescolare cenere di legno o fibre vegetali secche polverizzate (3 parti di resina e 1 di cenere/fibre) fino ad ottenere un composto omogeneo di colore nero. Man mano che si raffredda, il composto diventerà sempre più rigido fino ad indurirsi del tutto: sarà sufficiente avvicinarlo ad una fiamma per renderlo nuovamente morbido e lavorabile.

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