Cibo dei nostri antenati – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Anno nuovo, VitAntica nuova https://www.vitantica.net/2020/12/31/anno-nuovo-vitantica-nuova/ https://www.vitantica.net/2020/12/31/anno-nuovo-vitantica-nuova/#comments Thu, 31 Dec 2020 00:10:35 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5104 Quest’anno è stato particolare per tutti noi. Abbiamo vissuto, e attraversiamo ancora oggi, momenti difficili e complicati, lontani dai nostri cari e rinchiusi tra le mura domestiche nella speranza che nulla accada nelle poche ore che ci separano dal 2021.

Per quanto mi riguarda, posso classificare l’annata appena trascorsa come “sfortunata”. Un lutto in famiglia e l’impossibilità di vedere i famigliari hanno complicato il quadro generale dell’anno appena finito, un 2020 reso ancora più infame dalla quarantena che ci costringe tutti a casa.

La quarantena ha forzato tutti noi a limitare le uscite, specialmente le camminate nei boschi che sfrutto come “terapia” per il rilassamento e come spunto per alcuni contenuti del blog; anche se in casa sono circondato da persone che amo, lo spazio limitato e l’impossibilità di muoversi possono mettere alla prova la pazienza, l’iniziativa e la costanza di chiunque.

Nel corso del 2020 non ho scritto quanto avrei voluto. Potrei dare la colpa agli impegni di lavoro (uno dei pochi aspetti positivi del mio personale 2020), ma la realtà è che fuori dall’orario lavorativo c’era una fondamentale pigrizia nei confronti della scrittura, e interesse verso cose per nulla connesse all’attività del blog.

Il 2021 sarà di certo un anno intenso per tutti. Da parte mia, come autore di VitAntica.net, cercherò di tornare in pista con una frequenza più costante di contenuti, e una nuova veste grafica che devo ancora immaginare.

Ringrazio tutti i lettori, dai supporter più fedeli ai critici più accaniti, per mantenere in vita questo piccolo blog nato e cresciuto grazie a passione, curiosità e impegno extra-lavorativo. Ogni commento, per quanto strambo o aggressivo, è stato d’ispirazione per migliorare sempre più i contenuti del blog e fornirvi la miglior esperienza possibile.

Auguro a tutti un 2021 ricco di aria fresca e di piacevoli sorprese, ne abbiamo tutti bisogno!

]]>
https://www.vitantica.net/2020/12/31/anno-nuovo-vitantica-nuova/feed/ 1
Gotlandsdricka, la bevanda vichinga dell’isola di Gotland https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/ https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/#respond Mon, 16 Nov 2020 00:10:52 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5026 Gotlandsdricka, chiamata anche drikke, drikko o drikku in lingua Gutnish, è una bevanda alcolica prodotta da secoli sull’isola svedese di Gotland, un drink realizzato domesticamente del tutto simile a ciò che consumavano quotidianamente i popoli norreni durante i loro pasti.

Dal colore ambrato o bruno, il drikke (chiamato spesso “birra indigena” o “birra delle Gotland”) è una bevanda torbida consumata “giovane”, all’inizio del processo di fermentazione, aspetto che contribuirà a mutarne il sapore nel corso del tempo.

Storia del drikke

Il termine gotlandsdricka significa “bevanda di Gotland” ed è comunemente utilizzato dagli abitanti dell’isola per distinguere la loro bevanda da quelle provenienti dal continente europeo o da altre regioni scandinave. Essendo una bevanda prodotta tra le mura di casa, ogni regione dell’isola ha la sua personale ricetta, ma la base di ingredienti e il metodo di fermentazione è essenzialmente lo stesso.

Il drikke nasce come bevanda per d’uso comune. Produrre bevande a base di luppolo, considerate le migliori e le più saporite, richiedeva tempo e materie prime relativamente costose per l’abitante di Gotland di circa un millennio fa, prima che il luppolo potesse diventare una delle colture stabili scandinave.

Per non rimanere a bocca asciutta, i primi coloni dell’isola di Gotland escogitarono un metodo di produzione di bevande alcoliche basato sulle materie prime più facilmente reperibili sul posto: malto di cereali locali, ginepro, linfa di betulla e miele.

Non bisogna dimenticare che l’isola di Gotland è relativamente lontana dalla terraferma, posizione che di certo non favorisce i contatti con il continente. Nonostante questo, l’isola era un centro commerciale ben sviluppato già un millennio fa, e i residenti si abituarono a sopravvivere coltivando segale, bruciando kelp e producendo la loro bevanda personale alcolica.

Ricetta di base immutata per secoli

La cultura norrena dell’ epoca vichinga considerava il drikke una bevanda non alcolica, al contrario di birra e idromele, anche se può contenere una percentuale di alcol che varia dal 3 al 12%.

Il drikke veniva tradizionalmente preparato dalle donne tra i confini della propria abitazione, e veniva servito a bambini e adulti durante i pasti. Gli uomini potevano aiutare nel trasporto di acqua, legno e dei materiali necessari alla fermentazione, ma la preparazione della bevanda era affidata alla manualità femminile delle isolane.

La preparazione domestica del drikke nel corso degli ultimi 1.000 anni si è evoluta, ma gli ingredienti e il sapore sono rimasti sostanzialmente del tutto simili: malto, mazzetti di ginepro, acqua, miele e il “mirto di palude” (Myrica gale), una pianta da torbiera che cresce spontanea in Europa settentrionale, mescolati e fatti fermentare per ottenere una bevanda dal sapore unico.

Durante il XIII secolo il sapore del drikke fu arricchito dall’aggiunta delle infiorescenze femminili del luppolo, senza tuttavia sovrastare il sapore tipico del ginepro.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Pare che, prima della metà del XIII secolo, le bevande a base di luppolo fossero poco diffuse in Scandinavia, probabilmente per un blocco commerciale tra le regioni europee settentrionali e l’Europa centrale. Nel 1283 Re Erik VI di Danimarca proibì a Copenhagen l’importazione e la vendita di birra a base di luppolo proveniente dalla regioni dell’attuale Germania; l’isola di Gotland e la Scandinavia si trovarono tagliate fuori dal traffico di birra a base di luppolo, ritardando di qualche decade l’introduzione e l’impiego su larga scala di questa pianta.

Tra il XIII e il XIV secolo, in Danimarca iniziano a spuntare piccole cittadine dai nomi associati al luppolo, come Humlebaek, Humlebakke e Humledal, segnale che il divieto di Erik VI trovava difficile applicazione nella realtà dei fatti. Nel 1268, infatti, il consiglio della città di Roskilde, a circa 30 km da Copenhagen, aveva già consentito la vendita di birra al luppolo agli agricoltori locali, suggerendo l’ipotesi che il luppolo stava ormai entrando nei gusti danesi da diverso tempo.

Tra il XIX e il XX secolo, il miele fu sostituito dallo zucchero, abbassando i costi di produzione e aumentando allo stesso tempo la resa della fermentazione domestica. Ancora oggi tuttavia molti produttori continuano a seguire la ricetta tradizionale usando il miele.

Produzione del drikke

La produzione del gotlandsdricka inizia dal malto prodotto da orzo (il cereale preferito per questo impiego), frumento, segale o avena, in base alla disponibilità locale. Dopo aver fatto germinare i cereali, il malto veniva essiccato all’aria, oppure in un piccolo capanno chiamato kölna, costruito sulla cima dell’edificio adibito alla fermentazione oppure separato dall’abitazione, grazie al fumo prodotto da un focolare alimentato da legna di ontano, betulla, pino o ginepro.

Il kölna era un capanno multiuso: non veniva impiegato esclusivamente per la produzione di malto, ma poteva essere utilizzato per affumicare carne e pesce o per conservare alcuni tipi di scorte alimentari.

Il malto veniva quindi macinato e mescolato ad un composto ottenuto dalla bollitura in acqua di mazzi di ginepro. La miscela, ispessita dall’aggiunta di malto, veniva lasciata riposare per circa due ore per poi essere trasferita nel rostbunn, la vasca in cui viene innescata la fermentazione.

Rostbunn. Wikimedia Commons
Rostbunn. Wikimedia Commons

La composizione e la stratificazione del rostbunn sono elementi fondamentali per una buona fermentazione del drikke. Gli strati devono essere sufficientemente compatti da lasciar passare un lento ma costante flusso di liquido senza ostruirlo.

Questo genere di stratificazione, tramandata oralmente da secoli, è soggetto a numerosi errori che possono vanificare svariate ore di lavoro e giorni di attesa. Per questa ragione sono nati anche molti tabù legati alle varie fasi di produzione della bevanda: alcuni produttori credono che sia necessario il silenzio più completo durante la stratificazione del rostbunn, altri invece che nella vasta occorra posizionare un pezzo d’acciaio o un’antica ascia di pietra per ottenere una buona fermentazione.

La vasca viene rivestita internamente di paglia prima di stratificarla. Il primo strato del rostbunn è composto da un reticolo di rametti di ginepro privati della loro corteccia, mentre lo strato superiore, il secondo, è composto da paglia pressata; gli strati vengono deposti in modo tale da lasciare uno spazio concavo al centro della vasca, spazio in cui verrà versata la miscela calda a base di malto e ginepro.

Dopo che la miscela versata nel rostbunn ha perso la sua parte liquida, il rubinetto sul fondo della vasca viene aperto per far uscire il wort (o lännu), un liquido zuccherino pronto per la fermentazione, che viene raccolto in un secchio. Il wort ottenuto dalla prima apertura del rubinetto viene talvolta lavorato separatamente per creare bevande più forti e saporite.

Il wort viene quindi bollito aumentarne il livello di dolcezza e arricchito da luppolo, bacche locali, zucchero o miele. Quando viene raggiunto il livello di dolcezza stabilito, il liquido viene fatto raffreddare, viene filtrato e addizionato di lieviti (kveik, il lievito domestico tradizionale scandinavo) per innescare la fermentazione, che durerà fino 14 giorni all’interno di barili di legno (e 5-7 giorni se si utilizza il lievito commerciale moderno).

Gotlandsdricke – an overview
Gotlandsdricka
To hop or not to hop: Early medieval beer brewing in Scandinavia and continental Europe
The Goodland island and its ancient beers
Kveik

]]>
https://www.vitantica.net/2020/11/16/gotlandsdricka-bevanda-vichinga-gotland/feed/ 0
Corso di cucina medievale: “Eat Medieval: A Taste of the Past” https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/ https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/#respond Mon, 26 Oct 2020 00:15:38 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5013 A partire dal 2 novembre 2020 la Blackfriars’ Cookery School, in collaborazione con il Durham University’s Institute of Medieval and Early Modern Studies, trasmetterà una serie di corsi culinari a tema medievale, mostrando la preparazione di alcune antiche ricette europee risalenti al XII secolo.

Durante il corso interattivo, della durata di 5 giorni, verranno mostrate 15 ricette medievali raccolte dai monaci del Durham Cathedral Priory, un priorato benedettino fondato nel 1083 come monastero cattolico. Chef professionisti spiegheranno passo passo le tecniche di cucina medievale, accompagnati dalla storia di queste tecniche e da alcune informazioni poco note sulla cucina del XII secolo.

“Sono eccitato ed estasiato da questa nuova partnership” afferma Giles Gasper, professore di Storia Medievale alla Durham University e co-presentatore del corso. “Il cibo medievale apparteneva ad una delle più grandi cucine del mondo: era sofisticato e rappresentava una stupenda miscela di ingredienti locali e spezie provenienti dalle carovane che avevano attraversato le steppe, l’Oceano Indiano e il Mediterraneo.

“Abbiamo lavorato con Giles ed il suo team della Durham University per oltre una decade” dice Andy Hook, proprietario del Blackfriars Restaurant, “esplorando il cibo medievale e riportandolo in vita all’interno di un ristorante moderno attraverso corsi di cucina, banchetti e lezioni”.

EAT MEDIEVAL: A TASTE OF THE PAST | 2-6 NOVEMBER 2020

]]>
https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/feed/ 0
Zuppa tascabile degli esploratori del XVIII secolo https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/ https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/#comments Tue, 13 Oct 2020 00:10:26 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4981 L’hardtack non era l’unico cibo a disposizione dei marinai che solcavano il mare nei secoli passati: carne e pesce salati, farina, avena, olio, formaggio e alcolici erano comuni nelle stive di mercantili, navi da guerra o vascelli dediti all’esplorazione di mari sconosciuti.

Tra il XVIII e il XIX secolo le navi francesi e britanniche iniziarono ad includere nelle loro stive quella che veniva definita “zuppa portatile”, “zuppa di vitello” o “zuppa tascabile”, un alimento disidratato utile ad insaporire ed arricchire di nutrienti le razioni di cibo disponibili a bordo. La zuppa tascabile era del tutto simile, per impiego culinario, ai dadi da brodo moderni.

L’origine della zuppa portatile

L’esistenza della zuppa portatile viene documentata ben prima del XVIII secolo. Un resoconto del XIV secolo descrive come i cavalieri ungheresi utilizzassero una sorta di zuppa istantanea che veniva prodotta facendo bollire grandi quantità di carne salata per lungo tempo, fino a quando le fibre si staccavano da sole dall’osso, per poi lasciar asciugare e rapprendere questo brodo allo scopo di ottenere un composto rigido da tagliare o sbriciolare quando necessario.

Tra il 1500 e il 1600 Sir Hugh Plat, agricoltore e inventore inglese autore di svariati libri sulle materie più disparate, cita il potenziale militare della zuppa tascabile per l’esercito e la marina inglesi.

Plat suggerisce che l’uso di tavolette di zuppa portatile renderebbe molto più digeribili i pasti dei soldati in marcia, o dei marinai diretti verso lidi lontani; questo alimento disidratato era inoltre ideale per il trasporto: consumava poco spazio rispetto a quello occupato dagli ingredienti necessari per produrlo, un vantaggio per nulla trascurabile specialmente se si considerano gli spazi limitati di una stiva.

L’ideatrice della produzione di massa della zuppa portatile fu Mrs Dubois, che operava da una locanda in Fleet Street, Londra, chiamata “Golden Head“. Nel 1756, insieme all’inventore William Cookworthy e al marito Edward Bennet, ottenne un contratto con la Royal Navy per rifornire ogni equipaggio delle navi militari inglesi con razioni di zuppa tascabile.

Le alte cariche militari dell’epoca ritenevano che la zuppa portatile potesse prevenire lo scorbuto, una malattia tragicamente comune per i marinai durante i lunghi viaggi oceanici: il contratto di fornitura con Mrs Dubois consentì di inserire la zuppa tascabile nelle razioni di ogni marinaio a partire dalla fine degli anni ’50 del 1700.

La zuppa portatile non era esclusivamente un alimento destinato alla vita sul mare: Lewis e Clark, durante la loro spedizione attraverso il continente nordamericano, acquistarono a Philadelphia un carico di quasi 90 kg di zuppa, carico che si rivelò provvidenziale secondo il diario di Patrick Grass, il carpentiere della spedizione:

“Nessuno dei cacciatori ha avuto successo ad eccezione di 2 o 3 fagiani; senza un miracolo era impossibile sfamare 30 uomini affamati. Quindi il capitano Lewis distribuì parte della zuppa tascabile che aveva acquistato in caso di necessità”.

Nel 1815, tuttavia, il medico britannico Gilbert Blane analizzò lo stato di salute dei membri della Royal Navy tra il 1779 e il 1814, scoprendo che la zuppa portatile non era per nulla efficace nella lotta contro lo scorbuto, e non portava evidenti miglioramenti nella salute dei marinai che trascorrevano molto tempo in mare; la marina britannica iniziò a rimuovere la zuppa tascabile dalle razioni standard in favore della carne in scatola, più nutriente e protetta da involucri metallici.

La produzione di zuppa tascabile

La ricetta di base esposta da Plat prevedeva la bollitura di zampe bovine per lungo tempo e a bassa temperatura, fino ad ottenere un brodo saporito e denso. Hannah Glasse e William Gelleroy suggeriscono di bollire le proteine animali fino a quando “la carne ha perso tutte le sue proprietà”, suggerimento che non contribuisce a fornire delle tempistiche esatte; dalla produzione ottocentesca e dalle moderne riproduzioni di zuppa tascabile sappiamo tuttavia che i tempi di bollitura erano compresi tra le 8 e le 12 ore.

La ricetta di Hannah Glasse, riportata nel libro “The Art of Cookery Made Plain and Easy” (1747), elenca tra gli ingredienti: due zampe di vitello, acciughe, chiodi di garofano, pepe bianco e nero, cipolle, maggiorana e timo.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il brodo veniva quindi filtrato e ridotto, tramite ulteriore bollitura, ad una gelatina (se già le 12 ore di cottura non avevano ottenuto lo stesso risultato), successivamente esposta a luce solare e vento invernali per perdere la maggior parte dell’acqua che conteneva; il prodotto così ottenuto veniva tagliato in pezzi, e ogni frammento veniva coperto di farina per evitare che si appiccicasse agli altri.

Secondo Plat era necessario non aggiungere sale o zucchero durante la preparazione del brodo, perché durante il procedimento di riduzione i sapori si sarebbero concentrati. Era inoltre fondamentale sgrassare il brodo rimuovendo il più possibile il grasso, per evitare che diventasse rancido e ottenere una consistenza più rigida.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il brodo tascabile veniva prodotto durante i primi mesi dell’anno, sfruttando il gelo invernale per far solidificare più agevolmente la gelatina in un unico blocco dalla consistenza uniforme. I frammenti di zuppa tascabile potevano conservarsi per almeno un anno, e venivano generalmente disciolti in acqua per creare in poco tempo un brodo saporito in cui cuocere le razioni di cibo.

Cibo d’emergenza

La zuppa tascabile fu per molto tempo utilizzata per insaporire zuppe, o consumata come alimento d’emergenza. Ingerire frammenti di brodo solidificato era un’eventualità che ogni soldato o marinaio voleva scongiurare a causa del sapore poco appetibile.

Bisogna considerare che le condizioni igieniche dell’epoca non sempre consentivano la produzione di brodo tascabile partendo da ingredienti di prima qualità: la carne impiegata era spesso di seconda o terza scelta, e in buona parte non propriamente conservata.

James Cook, prima del suo viaggio verso l’Australia nel 1772, caricò a bordo circa mezza tonnellata di zuppa portatile nella speranza di poter prevenire eventuali emergenze alimentari e fornire nutrienti ai suoi marinai malati. Dopo aver servito all’equipaggio zuppa tascabile sciolta nell’acqua e mescolata a farina di piselli, alcuni marinai rifiutarono il pasto per via del suo sapore disgustoso, accettando di buon grado la fustigazione pur di non ingerire la brodaglia.

Patrick Grass, subito dopo aver descritto l’impiego di zuppa portatile come cibo d’emergenza durante la spedizione di Lewis e Clark, continua dicendo che “alcuni uomini non apprezzarono questa zuppa e decisero di uccidere un puledro”.

Portable Soup – Wikipedia
Portable Soup
Who Put the Paprika in Goulash…and Other Hungarian Soup Tales
The Luke-Warm, Gluey, History of Portable Soup

]]>
https://www.vitantica.net/2020/10/13/zuppa-tascabile-degli-esploratori-del-xviii-secolo/feed/ 1
Hardtack, la galletta navale a lunga conservazione https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/ https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/#respond Mon, 07 Sep 2020 00:18:50 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4965 I lunghi viaggi per mare degli antichi esploratori e gli estenuanti spostamenti via terra degli eserciti del passato erano legati a doppio filo alla capacità umana di creare cibo a lunga conservazione. Pur non avendo frigoriferi moderni o e possedendo scarse nozioni di igiene alimentare, i nostri antenati furono in grado di conservare alimenti per lunghi periodi di tempo utilizzando l’ingegno e i materiali a loro disposizione.

Nel corso della storia gli espedienti utilizzati per conservare gli alimenti furono molti: celle frigorifere come lo yakhchal, salamoie e salagioni, affumicatura e fermentazione potevano garantire mesi o anni di conservazione se si rispettavano poche ma necessarie regole su temperatura o esposizione all’aria. Alcuni prodotti alimentari erano invece pensati per mantenersi pressoché intatti anche anche in condizioni sfavorevoli.

L’ hardtack, ad esempio, era una semplice galletta di farina e acqua in grado di mantenersi commestibile per molto tempo, poco costosa da produrre, resistente a condizioni ambientali avverse e facile da immagazzinare e trasportare.

La storia dell’ hardtack

Dall’introduzione dei cereali nei regimi alimentari di molti popoli antichi, la farina iniziò a ricoprire un ruolo sempre più fondamentale nella cucine di tutto il mondo. Farina e pane, tuttavia, possono essere attaccati da muffe, insetti, o semplicemente accumulare l’umidità atmosferica favorendo i processi di decomposizione.

La necessità di avere alimenti nutrienti e facilmente conservabili portò gli Egizi alla creazione della dhourra, una galletta di miglio in grado di mantenersi intatta per lunghi periodi di tempo. Col tempo la dhourra si trasformò nel “biscotto musulmano”, come lo descrive Re Riccardo I dopo la Terza Crociata (1189-1192): un mix di farina d’orzo, farina di fagioli e farina di segale.

Nell’antica Roma, invece, il Codex Theodosianus prevedeva che ogni soldato coinvolto in una spedizione militare dovesse essere fornito di “bucellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam.”, traducibile come “gallette e pane, anche vino (o posca) e aceto, ma anche lardo e montone”.

Il bucellatum romano era un mix di farina, sale e acqua, cotto a lungo per due volte a bassa temperatura. Veniva consumato dai soldati accompagnandolo con la posca, per due giorni consecutivi; al terzo giorno, la truppa poteva finalmente consumare vino e pane di buona qualità.

L’hardtack è una delle innumerevoli versioni della galletta a lunga conservazione. Il nome  di questo biscotto, entrato nel lessico comune tra il 1700 e il 1800, deriva da “tack”, il termine slang che i marinai britannici usavano per riferirsi al cibo; col tempo iniziò ad assumere altri nomi, come “biscotto di mare”, “pane per cani”, “spaccamolari” o “castello per vermi”.

La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)
La più antica galletta navale esistente (1852), esposta nel museo del castello di Kronborg, Danimarca. (Paul A. Cziko)

La Royal Navy britannica del XVI secolo forniva ai suoi marinai una razione giornaliera di mezza libbra di hardtack, qualche pezzo di maiale salato e un gallone di birra a bassa gradazione alcolica. Nel tardo XVIII secolo, l’hardtack entrò a far parte anche della dieta dei pescatori del New England: veniva utilizzato come addensante per le zuppe di mare, sbriciolandolo e mescolandolo agli altri ingredienti.

Grazie a John Billingas, soldato della guerra di secessione americana e autore di un libro di memorie intitolato “Hardtack and Coffee” (1887), abbiamo una descrizione dell’hardtack dal punto di vista di un soldato:

Cos’era la galletta? Era un semplice biscotto di farina e acqua. Due di esse, che ho in mio possesso come ricordo, misurano 3 pollici e 1/8 per 2 pollici e 7/8, e sono spesse quasi mezzo pollice. Sebbene questi biscotti venissero venduti a peso, venivano distribuiti agli uomini in numero, nove gallette costituivano una razione in alcuni reggimenti, dieci in altri reggimenti; ma di solito ce n’erano abbastanza per chi ne voleva di più, poiché alcuni non li utilizzavano. Per quanto l’ hardtack fosse nutriente, un uomo affamato poteva mangiare i suoi dieci in breve tempo ed essere ancora affamato.

Le proprietà dell’hardtack

Per quanto poco appetibile, l’hardtack fornisce un discreto quantitativo di calorie in poco spazio e senza la preoccupazione della conservazione. Una galletta da 24 grammi fornisce circa 100 kilocalorie, circa 5-6 grammi di grassi, due grammi di proteine e quasi nessuna fibra; il resto del peso è costituito da carboidrati.

Come tutti i prodotti realizzati con farine di cereali, biscotti e gallette tendono ad assorbire l’umidità ambientale. Per rallentare questo processo, i fornai tentavano di creare biscotti e gallette estremamente duri, cuocendoli da due a quattro volte e preparandoli in anticipo di 6 mesi dal loro effettivo consumo.

Se non viene inumidito, l’hardtack è così solido da risultare sostanzialmente immangiabile; viene descritto da coloro che lo consumarono come “denso a tal punto da essere quasi in grado di fermare una pallottola di moschetto”. Se addentato a secco, prosciuga completamente la bocca di ogni goccia di saliva, rendendo ancora più difficile la masticazione.

Per renderlo più masticabile, il biscotto veniva immerso in salamoia, caffè, alcolici o zuppe; non veniva solo consumato come semplice biscotto da inzuppare in qualche liquido, ma anche sbriciolato e impiegato come addensante per le zuppe.

Un altro modo per consumare l’hardtack era quello di sbriciolarlo il più possibile con il calcio di un fucile, o tramite un oggetto duro e pesante, aggiungendo quindi acqua, zucchero e whiskey per creare una pudding denso e grumoso da cuocere in pentola.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

La secchezza dell’hardtack è una proprietà indispensabile alla  lunga conservazione: se mantenuta intatta e all’asciutto, una galletta di hardtack può rimanere commestibile per anni, sopravvivere a sbalzi di temperatura estremi e resistere ad una manipolazione violenta.

Sulle navi del XVI-XVII secolo, tuttavia, non era semplice mantenere il cibo in condizioni ottimali. L’infestazione delle riserve alimentari da parte di insetti, batteri e muffe erano relativamente comuni durante i lunghi viaggi per mare, ma i marinai britannici escogitarono un semplice espediente per rimuovere i parassiti dal loro hardtack.

Immergendo l’hardtack nel caffè mattutino non solo si rendeva masticabile la galletta, ma si costringeva la maggior parte degli insetti infestanti, come il tonchio, a risalire in superficie per tentare di sopravvivere; dopo essersi liberati di tutti gli insetti galleggianti, i marinai erano finalmente pronti a consumare il loro biscotto accompagnato da caffè caldo.

Preparazione dell’hardtack

Non esiste un’unica ricetta per l’hardtack: ogni regione del pianeta lo chiamava in modo diverso, ma la base comune  era una miscela di farina e acqua, in proporzioni che variano da 3:1 a 5:1.

Per ottenere un hardtack durevole è necessario utilizzare poca acqua, e cercare di eliminarne il più possibile durante la cottura. La pasta, in fase di preparazione, non deve essere troppo dura, ma nemmeno attaccarsi alle mani; prima di cuocerla, occorre modellarla per ottenere gallette o crackers.

Dopo aver steso la pasta fino ad uno spessore di circa 1 centimetro, occorre tagliarla creando pezzi più o meno regolari. I soldati della guerra di secessione americana ricevevano gallette di 3 x 3 pollici (7,5 x 7,5 centimetri), dimensioni che facilitavano la cottura e il trasporto.

Creare dei piccoli fori sulle due superfici del cracker impedisce che la farina possa subire una piccola lievitazione, e aiuta cuocere uniformemente l’hardtack. La cottura delle gallette deve essere lunga e a bassa temperatura, cercando di evitare che imbruniscano troppo o si brucino.

La cottura, come suggerisce questa ricetta, dura circa 25-35 minuti a 190°C, e si cerca di ottenere una leggera brunitura della superficie delle gallette. A questo punto occorre rimuovere i biscotti dal forno per farli raffreddare completamente prima di procedere con una seconda cottura o con l’essiccazione all’aria per qualche giorno.

L’hardtack viene prodotto ancora oggi, anche se con un occhio orientato al mercato moderno: pur rispettando la ricetta di base, vengono spesso aggiunti aromi, spezie o altri ingredienti per renderlo più piacevole al palato.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

FOODS OF WAR: HARDTACK
Bucellatum – Roman Army Hardtack
Hardtack – The Ultimate Survival Food
#Hardtack: A Food to Break a Tooth On
Hardtack Described
Bucellatum (Roman hardtack)

]]>
https://www.vitantica.net/2020/09/07/hardtack-la-galletta-navale-a-lunga-conservazione/feed/ 0
Sovrappeso e obesità nel Medioevo https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/ https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/#comments Mon, 24 Aug 2020 00:15:54 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4928 Sovrappeso e obesità sono oggi considerati una piaga tipica dell’epoca moderna. L’abbondanza di cibo nel mondo industrializzato, inizialmente interpretata come un aumento della ricchezza di classi sociali che, in precedenza, avevano un accesso limitato alle risorse alimentari, si è infine rivelata un’arma a doppio taglio: più aumenta il cibo a disposizione, sia in quantità che in varietà, più ne consumiamo.

La concezione di un passato popolato da “persone sottili” a causa di uno scarso accesso alle risorse alimentari più ricche di calorie, in realtà, non è del tutto esatta. Anche se l’Europa affrontò diverse carestie durante il Medioevo, ricchi e privilegiati trovarono spesso il modo di permettersi tavole imbandite o semplicemente pasti regolari.

Nel Medioevo obesità e sovrappeso erano presenti, e l’eccesso di grasso corporeo suscitava opinioni diverse: se la magrezza veniva considerata generalmente un’espressione di frugalità e santità, sovrappeso e obesità erano spesso interpretate come espressione di ricchezza, status sociale, buona salute o scarso controllo delle proprie pulsioni.

Un corpo da guerra

L’Europa medievale ereditò l’immagine del soldato perfetto dall’antica Roma: peso eccessivo e abilità marziale non erano considerati molto compatibili. Secondo Ramon Llull, autore del XIII-XIV secolo, ogni combattente in sovrappeso dimostrava coi fatti di non essere in grado di esercitare sufficiente autocontrollo da poter ottenere il titolo di cavaliere.

Qualunque cavaliere in grado di permettersi una cavalcatura e un intero set di armi e armature disponeva di sufficienti risorse economiche da poter acquistare grandi quantità di cibo; allo stesso tempo, tuttavia, doveva essere in grado di trattenersi dal consumarlo in abbondanza, per mantenersi sano e abile al combattimento.

Durante il XIV secolo l’idea di un corpo atletico e potente si cementò ulteriormente: il corpo perfetto aveva spalle larghe e vita sottile, come mostrano alcuni tipici capi d’abbigliamento dell’epoca, che cercano di dare l’impressione di un petto ampio e di fianchi sottili.

Ritratto di Enrico VIII, di Hans Holbein
Ritratto di Enrico VIII, di Hans Holbein

Geoffroi de Charny, nel suo Libro della Cavalleria (1350 circa), si lamenta dei combattenti che non rispecchiano il canone estetico del guerriero e che cercavano di apparire più sottili di quanto no siano nella realtà, usando fasciature e altri stratagemmi:

Non è sufficiente per loro apparire come Dio li ha creati; non sono contenti di come sono, ma si fasciano a a tal punto da negare l’esistenza delle interiora che Dio ha dato loro: vogliono pretendere di non averle mai avute, ma tutti sanno che in realtà è proprio l’opposto. […] Molti di questi [cavalieri] sono stati catturati velocemente perché non potevano fare ciò che dovevano a causa delle limitazioni imposte da queste fasciature; e molti sono morti all’interno delle loro armature per lo stesso motivo, dato che non potevano minimamente difendersi. Anche senza le loro armature sono così fasciati e immobili da non poter fare nulla, non possono piegarsi o praticare sport che richiedono forza o agilità; possono a malapena sedersi…

I cavalieri erano tenuti a mostrare moderazione in ogni cosa, inclusa l’alimentazione. Alcuni autori medievali forniscono consigli su come determinare fin dalla fanciullezza quale potenziale cavaliere è destinato a diventare grasso in età adulta, per poterlo tenere lontano dalla vita marziale o indirizzarlo verso una serie di esercizi fisici in grado di mantenerlo in forma.

Grasso e privilegio

L’eccesso di peso era tuttavia soggetto a interpretazioni diverse che mutavano in base a posizione sociale, lavoro e sesso. Secondo alcuni autori, il sovrappeso non era incompatibile con la virtù: la nobiltà carolingia era nota per le enormi quantità di cibo consumate durante i banchetti, ma non per questo veniva considerata meno virtuosa.

Al duca Guido di Spoleto fu rifiutato il trono di Francia perché mangiava troppo poco, mentre numerosi manuali redatti per la nobiltà consigliavano di moderare il proprio appetito non per questioni morali, ma per non compromettere la capacità di regnare o amministrare.

In epoca medievale non mancano monarchi in sovrappeso o obesi. Carlomagno ad esempio viene descritto dal suo stesso biografo come una buona forchetta; la salma di Guglielmo il Conquistatore, invece, non fu in grado di entrare nel sarcofago per problemi di dimensioni eccessive, mentre Enrico VIII continuò a mangiare come l’atleta che fu in gioventù anche dopo un torneo in cui subì un grave infortunio, incidente che lo costrinse ad adottare uno stile di vita del tutto sedentario.

Il famoso ritratto di Enrico VIII dipinto da Hans Holbein suggerirebbe che il sovrano avesse raggiunto in tarda età un peso di quasi 200 kg, motivo per cui fu costretto ad essere trasportato su una lettiga anche per i piccoli spostamenti quotidiani.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Secondo la tradizione di Galeno, sovrappeso e obesità erano associati alla decadenza dei valori morali. Il Secretum Secretorum, composto in lingua araba intorno al X secolo e tradotto in latino durante il XII secolo, contiene opinioni negative nei confronti dell’eccesso di peso.

Re Sancho I di Leon fu deposto dalla carica di regnante a causa della sua obesità, un fattore che limitava la sua vita quotidiana: non poteva cavalcare, maneggiare abilmente una spada, fare sesso con la moglie e nemmeno camminare senza l’aiuto della servitù. Secondo alcuni resoconti, pesava 240 kg e consumava sette pasti al giorno composti da abbondanti pietanze a base di carne.

Sancho fu costretto a fuggire dalla nonna Toda, la quale si affidò al celebre medico arabo Hasdai ibn Shaprut per poter far tornare il nipote in discreta forma fisica. Hasdai sottopose Sancho ad un severo regime alimentare basato su erbe medicinali e oppio, sottoponendolo a massaggi vigorosi e ad esercizio fisico fino a riportarlo sufficientemente in forma da consentirgli di tornare dalla nonna a dorso di cavallo e di ottenere nuovamente il trono nell’anno 960.

Monaci paffuti

Contadini e artigiani non avevano lo stesso accesso alle risorse alimentari che aveva la nobiltà, motivo per cui il grasso corporeo era da loro interpretato come espressione di ricchezza ed elevato status sociale. Le frequenti critiche ai membri più “rotondi” del clero derivavano dal fatto che la loro immagine corporea era un sintomo della decadenza della Chiesa e del peso che esercitava questa istituzione sulle spalle dei meno abbienti.

In una ricerca pubblicata nel 2014 dal titolo “The ‘Obese Medieval Monk’: A multidisciplinary study of a stereotype“, l’autrice Pip Patrick sostiene che l’obesità era relativamente comune tra i monaci medievali inglesi.

Esaminando i resti ossei di 274 monaci e confrontandoli con quelli di persone comuni per determinare l’incidenza di malattie e disturbi legati all’obesità, Patrick ha scoperto che i monaci sviluppavano osteoartriti ad una frequenza 6 volte maggiore rispetto al tipico contadino o artigiano; una frequenza molto simile è stata osservata anche nei disturbi alle articolazioni connessi all’eccesso di peso.

Sancho I di Leon
Sancho I di Leon

I corpi dei monaci inglesi erano sensibilmente più alti e robusti rispetto alla media a causa del regime alimentare che seguivano: pasti ricchi di grassi e proteine da consumare nel più breve tempo possibile, aspetto che potrebbe aver compromesso il loro sistema digestivo rendendolo efficiente.

Il tipico monaco inglese del XII secolo consumava durante la giornata almeno 6 uova, bollite o fritte nel lardo; un ricco porridge vegetale o uno stufato di carne e verdure; carne di maiale, di montone, d’anatra, oppure pesce di fiume o di mare; quasi mezzo chilogrammo di pane e frutta fresca o secca a volontà, il tutto accompagnato da birra.

Il corpo della donna

La rotondità non era un tratto fisico dalla connotazione negativa nella donna medievale. Lo storico francese Georges Vigarello afferma che il sovrappeso femminile era una condizione essenziale per la bellezza delle donne medievali.

Nel “Le Ménagier de Paris“, un manuale del 1393 che contiene informazioni sul corretto comportamento di una donna di casa, si cita il fatto che la donna, come il cavallo, deve possedere quattro qualità fondamentali: una splendida chioma, un bel petto, vita sottile e un grande fondoschiena.

La situazione era invece differente per le donne che conducevano una vita religiosa: il controllo dell’alimentazione e i lunghi digiuni erano parte integrante della strada verso la santità, per gli uomini come per le donne. L’aspetto sottile di una donna rappresentava il suo allontanamento dai piaceri della carne e non la rendeva appetibile come partner riproduttivo per la sua presunta incapacità di essere una buona moglie e madre.

Alcuni trattati medievali analizzarono i corpi femminili e le loro rotondità mettendoli in relazione con la salute e la capacità riproduttiva. Nel Trotula, testo medico del XII secolo, il grasso corporeo viene messo in relazione alla menopausa (che inizierebbe intorno ai 35 anni per i corpi femminili dal moderato contenuto di grasso) e consiglia alcuni trattamenti per la perdita di peso: bagni caldi e sepoltura nella sabbia, per indurre una forte sudorazione (oggi sappiamo che questi trattamenti causano solo una perdita temporanea di liquidi, senza intaccare le riserve di grasso).

Fatness and Thinness in the Middle Ages
Were medieval monks obese?
Bones reveal chubby monks aplenty
Stigmatization of obesity in medieval times: Asia and Europe
The Final Humiliation of William the Conqueror’s Body During his Funeral
Medieval Monks & Their Meals

]]>
https://www.vitantica.net/2020/08/24/sovrappeso-obesita-medioevo/feed/ 1
Birra di betulla e Medovukha https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/ https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/#respond Mon, 17 Aug 2020 00:09:32 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4955 La linfa di betulla, una bevanda zuccherina apprezzata da millenni come preziosa fonte di vitamine e zuccheri, si presta anche alla produzione di liquidi fermentati se correttamente lavorata.

La birra di betulla è un prodotto dal sapore fresco, sostanzialmente privo di alcol o a bassissima gradazione alcolica (2-4%). La fermentazione non è esclusivamente funzionale all’aumento del contenuto alcolico, ma è un procedimento innescato naturalmente o artificialmente allo scopo di rendere la bevanda leggermente frizzante.

Oggi esistono numerose varietà di birra di betulla, differenti sia per colore che per sapore. Il colore dipende dalla specie di betulla da cui è stata estratta la linfa o dalla presenza di coloranti naturali o artificiali, mentre il sapore è determinato dalla miscela di erbe impiegata per aromatizzare la bevanda.

Birra di betulla e bevande affini

La birra di betulla iniziò ad essere prodotta dai primi esploratori e coloni occidentali in Nord America, spesso come sostituto a liquori dalla più alta gradazione alcolica e più costosi. John Mortimer, nel suo libro “The Whole Art of Husbandry” del 1707, afferma che la birra di betulla veniva prodotta in casa dalla fascia più povera della popolazione, dato che necessitava di ingredienti poco costosi e disponibili in quasi ogni cucina.

Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvania
Distillatore per birra di betulla al festival tradizionale di Kutztown, Pennsylvaniacicib

Una delle più antiche ricette della birra di betulla risale al 1676 e si trova nell’opera Vinetum Britannicum, di John Worlidge:

Ad ogni gallone, aggiungi una libbra di zucchero raffinato e fai bollire per circa un quarto d’ora o mezz’ora; fai raffreddare e aggiungi un po’ di lievito per far fermentare la bevanda e liberarla dalle scorie che il liquore e lo zucchero possono produrre: poi metti la bevanda in un barile e aggiungi un pizzico di cannella e noce moscata, circa una mezza oncia per entrambi ogni dieci galloni; circa un mese dopo il composto va imbottigliato; e in pochi giorni si avrà un vino frizzante molto delicato, dal sapore simile a quello del Reno. […] Questo liquore non è di lunga durata, a meno che non venga conservato al fresco.

Fino alla fine del 1800 in Russia, Ucraina e Bielorussia, fu molto popolare la medovukha, una bevanda simile all’idromele ma più economica e veloce da produrre. I due ingredienti principali sono la linfa di betulla e il miele fermentato. Il miele fermenta naturalmente nell’arco di 15-50 anni, ma oltre 700 anni fa le popolazioni slave escogitarono un metodo per velocizzare la fermentazione del miele sfruttando il calore.

Preparazione della birra di betulla

Il primo passo è quello di ottenere grandi quantità di linfa di betulla, estratta generalmente da metà inverno fino a metà primavera. Ogni albero, dipendentemente dalla specie, può arrivare a produrre oltre 4 litri di linfa ogni giorno, buona parte della quale può essere estratta dal tronco senza rischiare di uccidere la pianta. Per produrre una quantità minima di birra di betulla occorre partire da almeno 4-5 litri di linfa.

L’albero preferito per produrre birra è la “betulla nera” (Betula lenta), chiamata anche “betulla dolce”, una pianta tipicamente nordamericana che può raggiungere i 30 metri di altezza e che produce grandi quantità di linfa molto zuccherina. Sono tuttavia adatte anche altre specie, come la comune betulla bianca (Betula alba o pendula).

La finestra temporale per la raccolta della linfa corrisponde al periodo in cui il liquido zuccherino percorre in grandi quantità i capillari dell’albero. Se raccolta prima della comparsa delle prime foglie verdi, o in tarda primavera, la linfa di betulla può risultare amara.

La linfa deve essere versata in un contenitore capiente, addizionata di zucchero (o miele) e scaldata a fuoco basso. La quantità di zuccheri da aggiungere alla linfa varia in base alla tipologia: occorrono circa 5 litri di miele o 4 kg di zucchero ogni 20 litri di linfa per ottenere una corretta fermentazione.

Portare a ebollizione continuando a mescolare per sciogliere completamente lo zucchero: una volta dissolto tutto lo zucchero, rimuovere dalla fiamma e lasciar raffreddare il composto prima di travasarlo nel contenitore destinato alla fermentazione. A questo punto occorre aggiungere il lievito di birra (17-25 grammi), per poi coprire il recipiente con un panno per proteggerlo da insetti, batteri e muffe.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il composto deve riposare e fermentare per una o due settimane, fino a quando si schiarisce; a questo punto è pronto per l’imbottigliamento. Se mantenuta chiusa in un luogo fresco, asciutto e buio, la birra di betulla può conservarsi per circa 3 mesi.

In alternativa alla linfa di betulla è possibile utilizzare rametti e corteccia prelevati dallo stesso albero, immergendoli in acqua e portando il tutto a ebollizione prima di rimuovere la materia vegetale e aggiungere zucchero. La bollitura della corteccia richiede più tempo rispetto alla linfa: lo scopo è quello di ammorbidire il materiale e forzare il rilascio degli olii essenziali che contiene.

Medovukha

La medovukha viene tradizionalmente preparata all’inizio della primavera partendo da contenitori da 20 litri pieni di linfa di betulla mescolata a 3 litri di miele. I contenitori vengono quindi chiusi da panni di cotone e lasciati al buio e al caldo per diverse settimane.

Una volta iniziata la fermentazione la superficie della miscela di linfa e miele inizierà a produrre schiuma, che pian piano diminuirà di volume fino a sparire; a quel punto viene aggiunto un altro litro di miele per innescare nuovamente la fermentazione.

La seconda fermentazione dura 1-2 settimane. Una volta pronta, la medovukha viene versata in piccole bottiglie che verranno sigillate dopo aver aggiunto polline fresco.

La quantità di alcol e il sapore della medovukha variano col tempo: una bevanda “giovane” avrà uno scarso contenuto alcolico e un sapore di limonata; dopo averla lasciata invecchiare per diversi mesi e aggiungendo altro miele, la medovukha può arrivare ad avere un contenuto alcolico pari al 16%.

Birch beer
Vinetum Britannicum
Birch Beer Recipe
Birch Mead Medovukha

]]>
https://www.vitantica.net/2020/08/17/birra-di-betulla-e-medovukha/feed/ 0
Palma e noce di cocco: il coltellino svizzero del regno vegetale https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/ https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/#comments Mon, 27 Jul 2020 00:10:08 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4939 E’ una delle piante più utili del pianeta, spesso chiamata l’ “albero della vita”. Il suo tronco fornisce ottimo materiale ligneo, i suoi frutti sono avvolti da fibre resistenti, hanno ottime proprietà alimentari e rappresentano l’essenza stessa della sopravvivenza in mare: la palma da cocco (Cocos nucifera) può contendere il titolo di “coltellino svizzero del regno delle piante” ad una pianta straordinaria come il bambù grazie ai suoi innumerevoli utilizzi.

La noce indiana

Nel Ramayana della tradizione sanscrita, e in altre fonti letterarie di origine indiana, ci sono le prime testimonianze della presenza della palma da cocco nel subcontinente indiano già nel I secolo a.C., ma per la prima descrizione dettagliata occorre aspettare circa 6 secoli: la Topographia Christiana di Cosmas Indicopleuste di Alessandria chiama la noce di cocco “la grande noce dell’India”.

Marco Polo, durante la sua visita a Sumatra nel 1280, incontra la sua prima noce di cocco, che chiama nux indica (dal termine arabo “jawz hindī“, traducibile con “noce indiana”), un nome che troverà larga diffusione in Occidente prima dell’utilizzo di “thenga“, termine usato in Malesia e citato da Ludovico di Varthema nel 1510, e “coco“.

Un’altra osservazione diretta della noce di cocco da parte di un occidentale viene trascritta nel 1521 sul diario di Antonio Pigafetta, membro dell’equipaggio di Magellano, una volta giunto a Guam. Secondo Pigafetta, gli abitanti di Guam “mangiano cocchi e ungono il corpo e i capelli con olio di cocco e di sesamo”.

Durante il XVI secolo la noce di cocco assunse il suo nome dalla parola spagnola e portoghese “coco”, che significa “testa” o “cranio”. Ogni noce è infatti dotata di 3 pori, detti anche occhi, che somigliano vagamente ad un viso umano stilizzato.

Non sappiamo con esattezza la regione d’origine della palma da cocco, ma le analisi genetiche sembrano puntare verso il sud-est asiatico, regione in cui le palme mostrano più varietà genetica rispetto ad altre località del mondo. Grazie ai viaggi per mare le palme iniziarono a diffondersi millenni fa verso altri continenti, dall’ Africa al Sud America.

La palma da cocco

La palma da cocco è considerata unanimamente una delle 10 piante più utili del mondo, tanto da meritarsi il termine sanscrito “kalpa vriksha“, traducibile con “l’albero che fornisce tutto ciò che serve nella vita”. In Indonesia, un detto popolare recita che “ci sono tanti impieghi per la palma da cocco quanti sono i giorni dell’anno”. Attualmente sono documentati oltre 80 possibili utilizzi dell’albero del cocco: dalle radici alle noci, dalle foglie ai fiori, ogni parte della pianta è sfruttabile.

L’albero del cocco può raggiungere i 30 metri di altezza e possedere foglie paripennate lunghe fino a 6 metri. Su suolo molto fertile un albero maturo (la maturità viene raggiunta tra i 15 e i 20 anni di vita) può produrre oltre 70 noci in un anno, ma la media si attesta a meno di 30 nell’arco di 12 mesi.

Noce di cocco

La palma da cocco predilige suoli sabbiosi e tollera molto bene alti livelli di salinità. Ha bisogno di precipitazioni costanti e sole abbondante, e un livello di umidità pari al 70-90%. Le palme sono molto sensibili alle temperature: hanno bisogno di temperature superiori ai 20 °C ogni giorno dell’anno per crescere in salute, anche se possono sopravvivere per brevi periodi al freddo non inferiore ai 4 gradi.

Tecnicamente, la noce di cocco non è una noce, ma una drupa, un frutto carnoso con endocarpo legnoso come la ciliegia, la mandorla, l’albicocca, l’oliva e la prugna. Il frutto inizia a formarsi circa 2 settimane dopo la fioritura della pianta e cresce per i successivi 12-13 mesi. Col passare del tempo la noce inizia a stratificarsi, formando un mesocarpo fibroso (fibra di cocco) che può essere utilizzato per creare cordame resistente e garantisce la galleggiabilità del frutto.

Cocco in cucina

Nell’immaginario collettivo, un naufrago sarebbe in grado di sopravvivere su un’ isola deserta nutrendosi prevalentemente di cocco. Anche se un’alimentazione composta per la maggior parte da noci di cocco può avere spiacevoli effetti lassativi nel medio-lungo periodo, la noce ha notevoli proprietà nutrizionali.

Cento grammi di polpa contengono circa 350 calorie, delle quali il 33% è costituito da grassi, con 15 grammi di carboidrati e circa 3 di proteine. Il resto del peso è dato dall’acqua tra le fibre della polpa, fibre ricche di micronutrienti come manganese, rame, ferro, fosforo, selenio e zinco.

L’acqua di cocco contiene invece solo 19 calorie ogni 100 grammi, con uno scarso contenuto di micronutrienti. I frutti maturi contengono meno acqua rispetto alle noci giovani; l’acqua di cocco può essere bevuta fresca (è sterile fino a quando la noce non viene aperta), o fatta fermentare per ottenere aceto di cocco.

Il consumo smodato di acqua o polpa di cocco può portare all’eccesso di potassio nel sangue, che può indurre problemi renali, aritmia e perdita di conoscenza, nei casi più gravi anche la morte. Circa un litro di acqua di cocco può fornire oltre il 50% del fabbisogno giornaliero di potassio, percentuale che varia in base alle dimensioni della noce.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Ma l’impiego in cucina della palma da cocco non si limita alla sola noce: il cuore di palma è considerato un boccone prelibato, da mangiare fresco o da inserire come ingrediente in insalate ricche di sapore e di nutrienti. Per estrarre il cuore di palma è necessario rimuovere gli strati esterni che ricoprono il tronco di una giovane palma, fino ad incontrare un cilindro fibroso bianco al centro.

La linfa estratta dai fiori della palma da cocco si chiama neera (“nettare di palma”) in India, Sri Lanka, Africa, Indonesia e Malesia. L’estrazione della linfa avviene generalmente prima dell’alba, e si ottiene un liquido chiaro e dolce, propenso a fermentare naturalmente entro poche ore dall’esposizione all’aria.

Se il neera viene lasciato fermentare diventa toddy, una bevanda con il 4% di gradazione alcolica chiamata anche “vino di palma”. Ancora oggi il vino di palma viene prodotto in moltissime abitazioni rurali, dato che la sua vendita è più economicamente vantaggiosa della vendita di legname.

La copra, infine, è la polpa essiccata della noce di cocco. L’essiccazione aumenta il contenuto di grasso dal 33% al 65%, proprietà utile per la creazione di burro e olio di cocco, margarine, detergenti e cosmetici. Occorrono circa 6.000 noci di cocco mature per produrre una tonnellata di copra.

I materiali del cocco

La noce di cocco fornisce fibre forti, sottili e resistenti, chiamate coir. Le fibre coir si possono trovare tra la buccia e il guscio della noce: quelle bianche, più giovani, sono ottime per la fabbricazione di corde; quelle scure, invece, sono resistenti all’abrasione ma meno flessibili di quelle bianche.

Il coir è uno dei materiali naturali più resistenti all’acqua, specialmente quella salata, proprietà che rende queste fibre ideali per la fabbricazione di cordame, contenitori e rivestimenti destinati all’uso in mare; il coir trova impiego anche nell’orticoltura e nella fabbricazione di materassini e sacchi.

Il guscio della noce di cocco è un recipiente naturale estremamente resistente e utile: può essere forato e mantenuto integro per ottenere una sorta di borraccia, o essere spaccato in due metà per ricavare due recipienti più piccoli ma ugualmente utili.

cocco e coir

Il legno della noce di cocco può essere trasformato in carbone attivo: si tratta di uno dei materiali naturali più efficaci nella rimozione delle impurità presenti nell’acqua. Nella medicina tradizionale cambogiana, l’olio emesso dal guscio di noce quando esposto al calore delle braci di un fuoco da campo viene utilizzato per lenire il mal di denti.

Le foglie dell’albero di cocco hanno molteplici usi: in India, Indonesia e nelle Filippine vengono trasformate in scope, in cesti a prova d’acqua o in tetti per le case; possono essere intessute per produrre materassi o piccole sacche utilizzate per cucinare piatti tradizionali come il ketupat.

Il legname dell’albero del cocco è dritto, forte e resistente all’attacco del clima salmastro. Viene spesso impiegato per la costruzione di piccoli ponti o casette. Nelle Hawaii i tronchi svuotati venivano trasformati in contenitori, tamburi o piccole canoe dall’ottima galleggiabilità.

Le radici della palma da cocco vengono sfruttate da secoli per produrre coloranti, collutori e medicamenti tradizionali per la diarrea. I segmenti più sottili delle radici possono essere trasformati in spazzolini da denti.

Tradizioni e curiosità legate alla palma da cocco

La noce di cocco è un elemento essenziale in molti rituali hindu, dalle cerimonie alle offerte agli dei. Indipendentemente dal culto, in India i pescatori spesso gettano noci di cocco in mare, nei fiumi o nei laghi all’inizio della stagione di pesca, per ingraziarsi gli dei e favorire un pescato abbondante.

La divinità hindu Lakshmi, che presiede la buona salute, viene spesso raffigurata con una noce di cocco in mano; nel tempio del dio della guerra Murugan, ogni giorno vendono rotte migliaia di noci di cocco durante le preghiere rituali dei devoti.

Secondo il mito delle origini delle Isole Maluku, il genere umano avrebbe avuto origine da una ragazza emersa da una noce di cocco. Nel folklore delle isole Samoa, l’origine della palma da cocco è legata alla bellissime fanciulla Sina, che un giorno seppellì un’anguilla nel terreno per vederla trasformarsi nel primo albero del cocco.

La tradizione di senilicidio chiamata Thalaikoothal, illegale in India da diverso tempo ma ancora praticata in alcuni distretti, prevede la somministrazione di litri e litri di acqua di cocco nel corso di uno o due giorni, portando al fallimento dell’attività renale o cardiaca.

Coconut – Wikipedia
Deep history of coconuts decoded
Coconut – History, uses, and folklore
Coconut – New World Encyclopedia

]]>
https://www.vitantica.net/2020/07/27/palma-noce-cocco/feed/ 1
I cristalli di zucchero della dinastia Tang https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/ https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/#respond Tue, 14 Jul 2020 00:14:43 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4919 Lo zucchero cristallizzato (chiamato comunemente “rock candy” o “rock sugar” in inglese) è un composto cristallizzato di zucchero usato comunemente per dolcificare cibi e bevande. I cristalli di zucchero divennero un ingrediente particolarmente comune nella cucina cinese almeno mille anni fa: veniva impiegato per dolcificare zuppe e tisane, o per marinare la carne.

Nella Cina di circa un millennio fa lo zucchero cristallizzato (chiamato “ghiaccio di zucchero”) era considerato un bene di lusso, nonostante la predisposizione climatica di alcune regioni asiatiche meridionali, più che adatte alla coltivazione di canna da zucchero. Solo alcuni distretti cinesi erano in grado di produrre zucchero cristallizzato di qualità, come racconta lo Tangshuang pu (“Manuale dello zucchero cristallizzato”), l’opera di uno dei più prolifici scrittori e poeti del medioevo cinese.

Costoso regalo

La lavorazione della canna da zucchero, nata in India circa 2.000 anni fa, prevedeva un procedimento relativamente semplice ma che richiedeva pazienza e forza lavoro: dopo aver raccolto e spremuto le canne da zucchero, il liquido zuccherino veniva mescolato ad acqua bollente creando una soluzione zuccherina supersatura, lasciando poi ridurre la soluzione tramite il calore fino ad ottenere cristalli di zucchero.

Le tecniche di lavorazione dei cristalli di zucchero giunsero in Cina intorno al VII secolo d.C. dall’India: prima di allora lo “zucchero sabbioso” (sharkara), composto da minuscoli cristalli, veniva importato dal subcontinente indiano dopo lunghe e costose spedizioni commerciali.  La letteratura sanscrita risalente al periodo compreso tra il 1500 e il 500 a.C. fornisce le prime prove documentali sulla coltivazione della canna da zucchero e sulla lavorazione dei cristalli.

Wang Zhuo, morto intorno all’anno 1160, non si limita a mettere su carta istruzioni pratiche per la produzione dello zucchero, dalla coltivazione della canna alla procedura di cristallizzazione, ma fornisce anche un quadro storico dei cristalli di zucchero cinesi.

E’ un fatto universale che un prodotto raro e difficile da ottenere sia visto come un tesoro” sostiene Wang Zhuo nel Tangshuang pu. “Per questo motivo le castagne, le pere, le arance, i litchi e le prugne, prodotti che il mondo non produrrà mai a sufficienza, sono considerati molto preziosi“.

Lo zucchero veniva quindi prodotto in quantità sufficientemente limitate da essere considerato un bene di lusso. La cristallizzazione dello zucchero forniva diversi vantaggi commerciali: i cristalli di zucchero erano facili da trasportare e da immagazzinare, e potevano sopravvivere a lunghi viaggi.

Lo zucchero cristallizzato era anche considerato un regalo appropriato da inviare ad amici e parenti distanti: numerose lettere di ringraziamento citano i cristalli di zucchero come dono da parte di congiunti distanti, come si può leggere tra le righe scritte da Huang Tingjian durante il suo esilio:

Il tuo ghiaccio di zucchero inviato da lontano
supera il cristallo di sale del maestro Cui
nella sua bontà.

Eccellenze dello zucchero

Come capita per numerose attività artigianali o industriali, anche nel caso dello zucchero nacquero diversi centri d’eccellenza. I migliori di questi centri produttivi erano obbligati per legge ad inviare ogni anno un tributo in zucchero di alta qualità alla corte centrale.

Ma la produzione di zucchero cristallizzato aveva un limite: richieste eccessive potevano mettere in ginocchio intere economie locali. Wang Zhuo cita un caso verificatosi nella regione oggi chiamata Sichuan, la cui produzione di zucchero andò in crisi quando il governo centrale ordinò la produzione di diverse tonnellate di zucchero cristallizzato; non riuscendo a competere con le imprese più grandi, i produttori di ghiaccio di zucchero più piccoli finirono sul lastrico.

Al tempo di Wang Zhuo, il Suining (Sichuan) era la regione più rinomata per la produzione di ghiaccio di zucchero. Anche altre regioni producevano cristalli zuccherini, ma di qualità apparentemente molto inferiore, nonostante l’abbondante disponibilità di canne da zucchero di eccellente qualità.

“Lo zucchero cristallizzato del Suining è il migliore” afferma Zhuo. “Quello prodotto dalle altre quattro regioni che distribuiscono il ghiaccio di zucchero è molto sottile e fragile. E’ chiaro nel colore e senza profondità di sapore, e può essere paragonato al peggior zucchero di Suining. Le canne da zucchero che circondano queste regioni sono di alta qualità, ma il loro zucchero non è rinomato”.

Dalle parole dell’autore dello Tangshuang pu, si deduce che la tradizione di ghiaccio di zucchero del Sichuan poteva vantare un processo di caramellizzazione particolare che rendeva i cristalli incredibilmente saporiti e apprezzati dai palati cinesi. La limitata disponibilità di cristalli di zucchero di ottima fattura non era quindi un problema legato alla qualità della materia prima, ma alle tecniche di lavorazione delle canne da zucchero.

Come si producevano i cristalli di zucchero?

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

La canna da zucchero fu inizialmente impiegata in Cina per produrre uno sciroppo zuccherino da mescolare a bevande calde o fredde. Dopo l’introduzione delle prime tecniche di lavorazione dello zucchero, fu possibile trasformare lo sciroppo di canna in blocchi solidi (shi mi) o piccoli cristalli (sha tang).

La produzione di ghiaccio di zucchero richiedeva numerose fasi che Wang Zhuo affronta nel dettaglio. Tra le quattro varietà di canna da zucchero presenti in Cina, solo due erano adatte alla produzione di cristalli. Le canne venivano piantate durante il secondo mese del calendario lunare, e raccolte durante il decimo mese; i terreni adibiti alla coltura di canne subivano una rotazione biennale per dare modo al suolo di arricchirsi nuovamente di nutrienti.

Dopo aver raccolto e tagliato le canne (procedimento fatto interamente a mano), queste venivano schiacciate e spremute per estrarne il succo: impiegando una macina e un bue si potevano processare svariati quintali di canne da zucchero ogni giorno. I residui della spremitura delle canne da zucchero venivano impiegati per la produzione di aceto.

In tempi moderni, da una singola canna da zucchero si possono estrarre 100-150 grammi di succo zuccherino, ma probabilmente nella Cina medievale la capacità di estrazione era inferiore. Il succo estratto dalle canne veniva quindi mescolato ad acqua e lasciato a bollire per svariate ore, fino ad ottenere grossi cristalli di zucchero.

L’umidità tendeva a rovinare facilmente lo zucchero cristallizzato, specialmente nel trasporto su lunghe distanze. Per evitare di rovinare un carico di cristalli di zucchero, sul fondo delle urne che lo contenevano veniva depositato uno strato di cereali coperto da un disco di bambù.

Il disco veniva quindi rivestito di corteccia di bambù, dura e impermeabile, prima di riversare lo zucchero nel contenitore. Una volta riempita, l’urna veniva sigillata con uno strato di cotone prima di applicare un coperchio.

A Tang dynasty monk and his secret candy recipe
Sugarcane and Sugar

]]>
https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/feed/ 0
Video: epidemie nella storia dell’ umanità https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/ https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/#respond Thu, 09 Jul 2020 00:07:54 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4930 Le società moderne stanno gradualmente realizzando la fragilità dei loro sistemi, edificati nell’arco di millenni, di fronte alle nuove incertezze epidemiologiche. L’archeologia, la storia e la biologia possono fornire preziose informazioni sulle epidemie del passato, informazioni che possono aiutare i biologi moderni nell’elaborazione di strategie adatte ad affrontare le emergenze epidemiche moderne.

Olivier Dutour, professore alla Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, analizza in questo video le epidemie del passato, esaminando diversi aspetti che le hanno alimentate o hanno contribuiro a fermarle: antropologia epidemiologica, ecologia, medicina antica ed evoluzione degli agenti patogeni più temuti della storia, come la peste, la tubercolosi, la lebbra, il vaiolo e la sifilide.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

]]>
https://www.vitantica.net/2020/07/09/video-epidemie-nella-storia-dell-umanita/feed/ 0