guerra – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 America e popoli indigeni: le culture native erano pacifiche? https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/ https://www.vitantica.net/2020/11/23/america-e-popoli-indigeni-le-culture-native-erano-pacifiche/#respond Mon, 23 Nov 2020 00:15:28 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5029 Sotto le carneficine, le epidemie e il saccheggio dei territori dei nativi, l’esplorazione e la conquista delle Americhe hanno innumerevoli aspetti interessanti che un appassionato di storia non può non apprezzare. Si tratta di un’epoca di grandi viaggi oceanici, giochi tra poteri politici, economici e religiosi, scontri e guerre brutali, senza contare le innumerevoli scoperte, e invenzioni ideate per rendere possibile l’incredibile densità di eventi storici avvenuti tra la metà del XV secolo e il XVIII secolo.

Scontri armati, carestie e pestilenze provocarono milioni di vittime quando Vecchio Mondo e Nuovo Mondo vennero a contatto. Milioni di esseri umani indigeni furono sterminati in nome di qualche re, regina o compagnia commerciale; alcune specie animali, come il bisonte, sparirono dal continente nordamericano per la caccia intensiva condotta dalle spedizioni occidentali.

Lo sterminio di interi popoli nativi, violento o provocato da malattie, e i forti cambiamenti ecologici che gli europei apportarono agli ecosistemi americani non devono tuttavia far pensare che le Americhe fossero continenti abitati da popoli pacifici, in armonia con la natura e con i popoli limitrofi.

Prima dell’arrivo dei primi esploratori europei, le Americhe erano un territorio solo parzialmente selvaggio. I nativi erano in grado di modificare profondamente il territorio con incendi controllati e un attento controllo della vegetazione locale; cacciavano animali in grandi numeri, spesso uccidendo molto più di quanto potessero utilizzare e mangiare; la violenza tribale, infine, era relativamente comune, contrariamente all’immagine comune del “buon selvaggio” associata spesso e volentieri alle culture native americane precolombiane.

Un nuovo mondo non violento?

Aztechi, Maya, Inca e popoli dell’ America Centro-meridionale non erano di certo popoli pacifici. La Guerra dei Fiori era un rituale che provocava relativamente poche morti e serviva a scongiurare guerre di portata più grande tra le città-stato azteche, ma si trattava comunque di un rituale estremamente cruento mirato a indebolire militarmente i rivali di Tenochtitlan.

Il regno di Cusco, invece, iniziò ad espandersi a partire dal 1438 sotto la guida di Pachacuti-Cusi Yupanqui, nome dal significato molto poco pacifico di “colui che fa tremare la terra”. Pachacuti creò quello che sarebbe diventato l’impero Inca conquistando col sangue i Chancas, una tribù di guerrieri formidabili ed estremamente abili nel combattimento. Nel 1463 iniziò un’altra campagna di conquista per sconfiggere il vero rivale degli Inca, il regno di Chimor.

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Le tre civiltà americane più famose e potenti degli ultimi 1.000-1.500 anni di storia non erano quindi per nulla pacifiche, avevano aspirazioni imperialistiche e regolavano col sangue molte delle questioni aperte con i rivali locali.

Cosa succedeva invece nelle regioni settentrionali e meridionali delle Americhe, prima che iniziasse l’esplorazione metodica dei continenti americani? Nulla di molto diverso, anche se la maggior parte delle comunità poteva contare su un numero di individui più ridotto.

Nell’estremità settentrionale delle Americhe, gli Inuit canadesi conducevano abitualmente schermaglie contro gruppi locali concorrenti, anche se della stessa cultura: i Nunatamiut del Fiume Mackenzie, ad esempio, si davano battaglia tra loro per il controllo delle risorse ittiche.

La foresta pluviale amazzonica, invece, era popolata da decine di milioni di individui appartenenti a culture molto diverse tra loro, come i Valdivia, i Quimbaya, i Calima e i Tairona, che sicuramente ebbero molte occasioni per entrare in contrasto per questioni di territorialità o risorse.

Tra gli Inuit e le culture amazzoniche, guerre e rivolte spinte da ragioni politiche, economiche o religiose imperversavano, la brutalità era all’ordine del giorno e la vita trascorreva ben diversamente dal quadro idilliaco talvolta dipinto da alcune ricostruzioni poco fedeli alla realtà storica.

Scontri intertribali frequenti

Secondo la storica Diana Muir, la Lega Irochese pre-contatto europeo era caratterizzata da uno spirito espansionistico e imperialista che mirava al possesso dei territori degli Algonchini e di ogni potenziale preda vicina. La confederazione irochese era così assetata di potere da cannibalizzare se stessa, abbattendo anche le comunità della propria cultura che conducevano stili di vita meno belligeranti.

Nel 1649 gli Irochesi distrussero il villaggio di Wendake, facendo sciogliere la nazione degli Uroni e rimuovendo l’ultimo reale avversario alla conquista dei territori delle Nazioni Neutrali, dei Mohicani e di altre tribù irochesi non appartenenti alla Lega, principalmente per una questione di prestigio territoriale e per prendere il controllo del commercio delle pelli.

Facendo un salto indietro nella storia, i resti umani rinvenuti nelle Grandi Pianure e risalenti ad un periodo compreso tra il 250 a.C. e il 900 d.C. mostrano segni occasionali di violenza dovuta a scontri intertribali. A partire dal XIII secolo, tuttavia, scorrerie e guerre iniziarono a diventare sempre più frequenti, e i resti archeologici mostrano segni di incendi, di violenze brutali e di mutilazioni.

La ragione di queste sempre più frequenti aggressioni non è chiara, ma si ipotizza che possa essere stata la fame a scatenare gli scontri tra tribù. Gli scavi nel sito di Crow Creek, un’antica città Arikara sorta nel 1325, ha rivelato i corpi di 486 persone, incluse donne e bambini, massacrate, scalpate e smembrate. I resti ossei mostrano evidenti segni di malnutrizione, suggerendo che il massacro sia stato motivato dalla competizione per le scarse risorse alimentari disponibili.

Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata
Nativi americani, ambientalismo e proprietà privata

Gli scontri intertribali terminati in massacri sono molti e ben documentati; talvolta si parla di migliaia di vittime in una singola battaglia (molti leghe tribali non superavano le 10-20.000 unità). Il 90% dei resti umani appartenenti al XIII secolo mostrano segni di traumi, spesso alla testa o agli arti.

Nel 1800 Alexander Henry, commerciante per la Northwest Company, esclamò osservando una le Grandi Pianure ricoperte di mandrie di bisonti: “Questo è un paese meraviglioso, e se non fosse per le guerre perpetue, i nativi potrebbero essere le persone più felici della Terra”. Detto da una delle pedine dei poteri che sfruttavano i nativi americani, l’affermazione non sembra avere alcun valore, ma la realtà è che i nativi si dilettavano nell’arte della guerra ben prima dell’arrivo degli Europei.

Cherokee e schiavi

Sui Cherokee esiste parecchia documentazione storica rispetto ad altre culture, documentazione risalente non soltanto agli scontri tra Europei e nativi, ma anche ai primi contatti indiretti con la confederazione.

In cima alla piramide sociale dei clan Cherokee c’erano due figure politiche: “bianco”, amministratore in periodi di pace, e “rosso”, il comandante in caso di guerra. Le decisioni militari venivano prese dal capo “rosso” e dai delegati dei sette clan Cherokee (che includevano le ghigau, donne guerriere).

I Cherokee erano una cultura schiavista, come molte altre nordamericane dalla California al Canada. Gli schiavi potevano essere catturati in guerra, ma esistevano anche schiavi divenuti tali a causa di debiti di gioco. La tribù aveva diritto di vita e di morte sui suoi schiavi, e solo il consiglio tribale poteva concedere loro la libertà.

Generalmente, la cattura di ostaggi durante una razzia o una battaglia poteva finire in due modi: essere risparmiato (nel caso di donne e bambini) e diventare schiavo, o essere ucciso. Alcuni schiavi potevano diventare “parenti” di membri della comunità, entrando a far parte del tessuto sociale tribale, o continuare a rimanere all’esterno di ogni interazione con la comunità.

Per i Cherokee gli schiavi non erano un vero e proprio elemento funzionale per l’economia tribale, ed erano una proprietà collettiva. Le attività di raccolta e quelle di caccia potevano tranquillamente soddisfare i bisogni della comunità (gli schiavi potevano aiutare nei campi o trasportare carichi) senza l’aiuto di altre braccia, per cui il possesso di prigionieri era sostanzialmente una questione di prestigio.

Dopo l’incontro-scontro con gli Europei e la schiavitù di migliaia di Cherokee, la cultura schiavista dei nativi iniziò a cambiare in peggio: lo schiavo divenne una proprietà individuale che poteva essere scambiata con gli stranieri per ottenere oggetti che i nativi non erano in grado di produrre.

Scontri per la terra

Come citato in questo post, la maggior parte delle comunità native americane conosceva il concetto di proprietà privata, che veniva tutelata da una serie di leggi tribali tramandate oralmente.

Nelle culture dedite all’agricoltura, esistevano diritti di sfruttamento per le risorse naturali e i terreni diventavano parte del patrimonio di famiglia. Ma un diritto di sfruttamento può essere messo in discussione alla morte del capofamiglia, o con lo sconfinamento continuo da parte di membri della tribù o provenienti da altre culture; le diatribe sui diritti di sfruttamento dei terreni agricoli o di caccia causavano scontri spesso violenti, che potevano sfociare in vere e proprie battaglie.

Nelle regioni degli Stati Uniti Sud-occidentali, gli archeologi hanno ritrovato numerosi scheletri, risalenti al periodo che precede l’arrivo degli Europei, che riportano svariati segni lasciati da armi da lancio e corpi contundenti. In queste regioni le carestie innescavano probabilmente scontri locali tra clan in competizione per le risorse, o per sconfinamenti non autorizzati in territori di caccia e raccolta controllati da altre culture.

I diritti di sfruttamento o il possesso di un terreno potevano quindi subire cambiamenti continui. Un campo di mais posseduto da più generazioni dalla stessa famiglia o clan poteva improvvisamente diventare proprietà di un’altra tribù dopo uno scontro violento o uno sconfinamento in massa, spesso senza lasciare tracce permanenti dei proprietari precedenti.

E’ per questa ragione che il mantra moderno che recita “restituiamo la terra ai nativi” non ha molta logica. “Nativi americani” è un termine ombrello che racchiude un’incredibile varietà di culture, di approcci al potere e di eventi storici locali difficili da ricostruire, specialmente se si scava nella storia precedente all’arrivo degli Europei sul continente.

A chi dovremmo restituire la regione canadese attorno al villaggio di Wendake? Agli Irochesi, che dalla metà del 1600 se ne appropriarono con la forza, o agli Uroni, i precedenti “proprietari” dell’area? O forse ai Petun, il “Popolo del Tabacco”, in competizione per le risorse con gli Uroni da prima che gli Irochesi iniziassero a conquistare i clan minori?

Fonti:

Thanksgiving guilt trip: How warlike were Native Americans before Europeans showed up?
Slaveholding Indians: the Case of the Cherokee Nation  (PDF)
INTERTRIBAL WARFARE
Intertribal Warfare as the Precursor of Indian-White Warfare on the Northern Great Plains (PDF)
The Indians’ Old World: Native Americans and the Coming of Europeans
The Most Violent Era In America Was Before Europeans Arrived

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Video: Combattimento dei Trenta https://www.vitantica.net/2020/03/11/video-combattimento-dei-trenta/ https://www.vitantica.net/2020/03/11/video-combattimento-dei-trenta/#respond Wed, 11 Mar 2020 00:05:08 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4820 Il Combattimento dei Trenta fu una battaglia-torneo organizzata dalle due grandi potenze europee coinvolte nella guerra di successione bretone, Francia e Inghilterra, svoltasi il 26 marzo 1351.

Lo scontro concordato fu organizzato sotto forma di grande torneo nei pressi di una grande quercia, a metà strada tra Ploërmel e Josselin, con tanto di spettatori e nobiltà locale chiamati ad assistere allo scontro e a godere del grande rinfresco preparato per l’occasione.

Lo schieramento dei Blois, che contava 31 uomini, era capeggiato da Beaumanoir; quello dei Montfort, composto dallo stesso numero di combattenti, aveva come capitano Bemborough. Beaumanoir aveva a disposizione trenta guerrieri bretoni, mentre il suo rivale poteva contare su 20 inglesi, sei mercenari tedeschi e quattro bretoni.

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Il filmato qui sotto mostra una messa in scena del Combattimento dei Trenta.

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Il Combattimento dei Trenta https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/ https://www.vitantica.net/2020/03/09/combattimento-dei-trenta/#respond Mon, 09 Mar 2020 00:30:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4806 La concezione romantica dei cavalieri medievali europei sta ormai decadendo sotto i colpi della realtà storica. Ben lontani dall’essere tutti ligi ai codici d’onore e rispettosi del proprio avversario, le circostanze spesso violente e spietate del Medioevo richiedevano di fare il necessario per sopravvivere: tradimenti, omicidi e massacri di innocenti costituivano una buona parte delle gesta del tipico cavaliere medievale.

Ci sono episodi, tuttavia, che hanno contribuito a diffondere e gonfiare il romanticismo del cavalierato: uno di questi è ciò che viene chiamato Combattimento dei Trenta, una battaglia organizzata dalle due grandi potenze europee coinvolte nella guerra di successione bretone, Francia e Inghilterra, svoltasi il 26 marzo 1351.

La guerra per la successione bretone

Francia e Inghilterra non sono mai state molto amichevoli l’una con l’altra. Durante ciò che viene comunemente definita “Guerra dei cent’anni” le battaglie furono molte, e le casate di Montfort e di Blois furono tra le grandi protagoniste degli scontri.

I Montfort, sostenuti dagli Inglesi, non perdevano occasione per decimare i Blois, spalleggiati dalla Francia, e i loro avversari facevano lo stesso alla prima circostanza utile. Ma durante la conquista del Ducato di Bretagna si raggiunse una posizione di stallo tra le due fazioni: nessuna delle parti coinvolte riusciva ad avere la meglio, motivo per cui fu deciso di comune accordo di organizzare una sorta di torneo, una vera e propria battaglia tra pochi combattenti selezionati che avrebbero lottato per la supremazia del territorio conteso.

Sembra che l’iniziativa del torneo fu presa a seguito di una sfida personale tra due cavalieri: Robert Bemborough, soldato dei Montfort e dislocato a Ploërmel, fu ufficialmente sfidato a duello da Jean de Beaumanoir, che occupava il villaggio di Josselin per conto dei Blois.

Pare che fu lo sfidato, Bemborough, a proporre di allargare la sfida a qualche decina di cavalieri per ciascuna fazione, trasformandola in una sorta di mini-battaglia; la proposta fu accettata con entusiasmo dai Blois.

L’estensione del duello ad altri combattenti, secondo alcuni cronisti dell’epoca, non era motivata dalla convinzione che uno scontro circoscritto avrebbe potuto mettere fine al conflitto. La risposta di Bemborough alla sfida rivoltagli da Jean de Beaumanoir fu che un semplice duello non avrebbe intrattenuto le dame inglesi e francesi quanto una vera battaglia tra 20-30 uomini scelti.

Le Combat des Trente (entre Ploërmel et Josselin), Pierre Le Baud (1480)
Le Combat des Trente (entre Ploërmel et Josselin), Pierre Le Baud (1480)

Secondo i due cronisti Jean Le Bel e Jean Froissart, il torneo era animato da ragioni d’onore, escludendo ogni sorta di conflitto personale tra i combattenti coinvolti. Il problema della proprietà del Ducato di Bretagna viene esposto come una semplice questione di principio, più che un tassello strategico per la supremazia di Francia o Inghilterra.

Non mancano tuttavia storie popolari e documenti che raccontano versioni differenti: quelli francesi sostengono che Bemborough facesse scorrerie tra la popolazione locale uccidendo chiunque senza ragione; in questo caso, Jean de Beaumanoir viene presentato come il liberatore del popolo dalla tirannia inglese.

La battaglia

Lo scontro concordato fu organizzato sotto forma di grande torneo nei pressi di una grande quercia, a metà strada tra Ploërmel e Josselin, con tanto di spettatori e nobiltà locale chiamati ad assistere allo scontro e a godere del grande rinfresco preparato per l’occasione.

Lo schieramento dei Blois, che contava 31 uomini, era capeggiato da Beaumanoir; quello dei Montfort, composto dallo stesso numero di combattenti, aveva come capitano Bemborough. Beaumanoir aveva a disposizione trenta guerrieri bretoni, mentre il suo rivale poteva contare su 20 inglesi, sei mercenari tedeschi e quattro bretoni.

La documentazione storica ci consente di sapere anche i nomi dei guerrieri coinvolti nel torneo, un elenco consultabile a questo link: Combat of the 30: Jean de Beaumanoir v. Robert Bramborough.

La battaglia fu combattuta da cavalieri e fanti armati di spade, daghe, lance e asce. Secondo Froissart, il torneo fu impregnato di gesti di galanteria e azioni eroiche, ma non mancarono i morti e i feriti: dopo diverse ore di combattimento, un totale di sei corpi giacevano senza vita sul campo di battaglia, 4 dello schieramento francese e due appartenenti alle fila inglesi.

Le Combat des Trente (1857)
Le Combat des Trente (1857)

La fatica e i caduti portarono di comune accordo ad un’interruzione, per consentire ai guerrieri di mangiare, abbeverarsi ed essere curati dalle ferite subite. Alla ripresa delle ostilità, il leader inglese Bemborough fu ferito mortalmente da un soldato francese, costringendo i suoi uomini a formare un solido schieramento difensivo attorno al corpo del capitano.

Dopo diversi tentativi, i Francesi riuscirono a sfondare le difese inglesi grazie allo scudiero Guillaume de Montauban, che ruppe le linee difensive effettuando una carica in sella al suo cavallo e mettendo fuori gioco sette cavalieri inglesi, costringendo i rimanenti alla resa.

Il risultato della battaglia fu la vittoria dello schieramento francese. Gli Inglesi contarono nove morti e oltre venti feriti; alcuni di loro furono presi come ostaggi e rilasciati dopo il pagamento di un piccolo riscatto.

Le conseguenze dello scontro

Anche se il torneo non ebbe alcun effetto sul risultato della guerra bretone di successione, fu cantato per molto tempo dai trovieri e preso ad esempio come ideale di scontro cavalleresco. Una pietra commemorativa fu collocata sul luogo dello scontro, a metà strada tra Josselin e Ploermel.

Anche in questo caso non mancarono versioni della vicenda diametralmente opposte: nella versione francese, i Montfort erano i “cattivi”, dipinti come una masnada di mercenari e briganti che tormentavano la povera gente francese.

L’obelisco commemorativo voluto da Napoleone nel 1811 e posizionato sul sito dello scontro afferma che “trenta bretoni i cui nomi sono riportati qui sotto, lottarono per difendere i poveri, i braccianti e gli artigiani e scacciare gli stranieri attratti dal suolo della Contea. Posteri dei Bretoni, imitate i vostri antenati!“.

Gli Inglesi, invece, non esaltarono particolarmente la vicenda, forse per nascondere la sconfitta. La versione inglese sostiene che i Francesi avessero in qualche modo imbrogliato. Edward Smedley (1788–1836), nella sua “Storia di Francia“, afferma che la manovra dello scudiero che sfondò lo schieramento difensivo inglese aveva “le sembianze di un tradimento”.

La battaglia ebbe eco anche nelle decadi successive, con conseguenze durature sullo status della nobiltà inglese e francese: a distanza di vent’anni, Jean Froissar si accorse della presenza di un reduce dello scontro, Yves Charruel, seduto al tavolo di Carlo V grazie alla posizione sociale ottenuta dalla partecipazione al Combattimento dei Trenta.

Combat of the Thirty
A Verse Account of the Combat of the Thirty
Combat of the 30 – 26 March 1351
The Combat of the Thirty: Knightly deeds in a dirty little war

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Come si allenavano i guerrieri medievali? https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/ https://www.vitantica.net/2020/02/03/allenamento-guerrieri-medievali/#respond Mon, 03 Feb 2020 00:03:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4773 Cavalieri e soldati del Basso Medioevo scendevano in battaglia indossando un equipaggiamento ingombrante e pesante. La dotazione da guerra prevedeva, oltre al peso dell’armatura, svariati chilogrammi di armi e oggetti d’utilità quotidiana; tutto questo peso richiedeva necessariamente una buona forma fisica e una discreta dose di forza e resistenza.

Combattere con armi bianche, inoltre, stanca molto velocemente, come spiegato in questo post sulle spade. Brandire una spada, una lancia o una mazza per qualche minuto contro una serie di combattenti motivati ed esperti richiede necessariamente grande resistenza, anche senza l’ingombro dell’armatura.

Per quanto i secoli passati possano essere stati turbolenti, non c’era costantemente una guerra da combattere. Soldati e cavalieri trascorrevano buona parte del loro tempo a riposo, svolgendo mansioni di routine o semplicemente lavorando nei campi o in città. Come facevano i guerrieri medievali a mantenere una robusta forma fisica anche durante i periodi di pace?

Il Castello della Salute

La risposta alla necessità di mantenersi in forma anche durante i periodi più pacifici arrivò da Sir Thomas Elyot, che nel 1537 (forse già nel 1534) pubblicò The Castell of Helth. Chiamato modernamente “The Castle of Health“, si tratta di un volume incentrato sul mantenimento della salute fisica dei guerrieri e indirizzato a chiunque non fosse familiare con il greco, la lingua solitamente impiegata per diffondere la conoscenza scientifica. Anche se tecnicamente la pubblicazione dell’opera non è collocabile nel Basso Medioevo, le fondamenta dei suoi contenuti derivano dalle esperienze e dalle conoscenze maturate durante l’ “età di mezzo”.

Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane
Ritratto di Elyot realizzato da Hans Holbein il Giovane

The Castle of Health riscosse un notevole successo, venendo pubblicato in ben 17 edizioni, ma fu inizialmente sottoposto a censura a causa della critica da parte dei medici del tempo, che temevano la diffusione di conoscenze riservate tra il grande pubblico.

In modo simile ad un moderno personal trainer, Elyot consiglia una serie di esercizi ed attività capaci di mantenere forte e in salute un guerriero, basandosi sul livello di partenza del combattente e collocando gli esercizi in quattro categorie distinte.

Secondo la teoria degli umori in voga al tempo di Elyot, le personalità “flemmatiche” o “sanguigne” tendono ad essere rispettivamente lente e grasse, o grasse e appassionate; per queste personalità, secondo l’autore, sono più indicati esercizi orientati allo sviluppo della forza o della resistenza.

I consigli per il mantenimento di un buono stato di salute prevedevano una dieta equilibrata, riposo, purghe e aria di buona qualità. Enfatizzavano inoltre il valore dell’esercizio fisico regolare, anche se  alcuni suggerimenti potrebbero sembrare bizzarri o privi di fondamenta scientifiche ad un lettore moderno.

The Castle of Health non è l’unica opera a descrivere il regime d’allenamento di un cavaliere: la biografia di Jean II Le Maingre (1409), noto col nome di Boucicaut e celebre combattente del suo tempo, espone alcuni esercizi eseguiti dal cavaliere per mantenersi in forma. Nell’allenamento di Boucicaut sono previsti esercizi contemplati anche nel The Castle of Health, come l’arrampicata, la pratica con armi bianche, il sollevamento di carichi pesanti e la danza.

Copertina del "The Castel of Helth"
Copertina del “The Castel of Helth”
Esercizi forti o violenti

Con “forti e violenti” Elyot intendeva ciò che oggi viene comunemente definito allenamento per la forza, una selezione di esercizi mirati a irrobustire la muscolatura.

Tra questi esercizi erano inclusi:

  • Lotta, “soltanto per i giovani uomini inclini alla guerra”;
  • Scavare terreno pesante, ricco d’argilla;
  • Trasportare o sostenere carichi pesanti;
  • Arrampicarsi o camminare lungo un pendio scosceso;
  • Afferrare una corda e arrampicarsi;
  • Rimanere appeso con le mani su qualunque cosa posizionata sufficientemente in alto da lasciare il corpo in sospensione;
  • Alzare le mani in posizione verticale, stringendo i pugni e mantenendo questa posa per qualche tempo;
  • Tenere salde le braccia sui fianchi mentre un compagno cerca di allontanarle dal corpo.
Esercizi veloci

Questi esercizi non hanno uno scopo ben preciso, ma sono probabilmente poco indicati per le personalità “flemmatiche” o “sanguigne”. Elyot suggerisce che siano più adatti a persone propense alla collera, malinconiche o neurotiche, spesso dalla corporatura esile e dominate da umori come bile gialla e bile nera.

  • Corsa;
  • Esercizi con le armi;
  • Lancio della palla;
  • Camminare sulle punte dei piedi tenendo le mani in alto;
  • Muovere le mani in alto e in basso senza utilizzare pesi.

Prefazione del The Castel of Helth

Esercizi veementi

Gli “esercizi veementi” sono una combinazione di esercizi veloci ed esercizi violenti. Elyot suggerisce che questo tipo di esercizi sia adatto a persone di corporatura normale già abituate a movimenti intensivi e veloci.

  • Ballare danze che prevedano il sollevamento della partner;
  • Lanciare una palla e rincorrerla;
  • Lanciare un giavellotto;
  • Corsa con finimenti, una sorta di allenamento di resistenza dove un compagno d’armi tenta di frenare il movimento tramite un’imbragatura.
Esercizi moderati

Tra gli esercizi moderati rientrano le attività di resistenza, come lunghe camminate o l’allenamento per il combattimento a cavallo. Questi esercizi sono adatti a chiunque, specialmente a chi è ancora stremato da esercizi violenti o veloci e ha bisogno di un training più moderato, o agli anziani.

Isolamento muscolare

Elyot introduce anche un concetto alla base del moderno bodybuilding, l’isolamento di un gruppo muscolare. Questo tipo di allenamento può appianare gli squilibri muscolari presenti in un individuo concentrando lo sforzo su alcune aree specifiche del corpo.

Per le gambe, le braccia e le spalle, Elyot raccomanda stretching e l’uso di pesi, insieme alla pratica con armi bianche come lance o picche. Per il petto e i polmoni, invece, l’autore prescrive una respirazione ritmica come quella praticata durante il canto, allo scopo di espellere l’eccesso di umori.

“Elyot aveva capito chiaramente le differenti necessità d’esercizio per i differenti tipi di corporatura. Anche se i nostri antenati si sbagliavano nel credere che l’esercizio dovrebbe essere contestualizzato nel modello umorale di come corpo e mente funzionano, avevano sicuramente ragione sul fatto che l’esercizio contribuisce alla salute fisica e mentale” afferma Joan Fitzpatrick, autrice di un’ analisi del The Castle of Health.

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How to have a good workout: lessons from the 16th century
10 Workout Tips From a 14th Century Knight
Sir Thomas Elyot
The Castel of helth

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Maiali da guerra contro elefanti https://www.vitantica.net/2019/07/24/maiali-da-guerra-contro-elefanti/ https://www.vitantica.net/2019/07/24/maiali-da-guerra-contro-elefanti/#respond Wed, 24 Jul 2019 14:00:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4435 Con l’espansione di Greci e Romani verso Oriente, le armate del Mediterraneo iniziarono ad affrontare schieramenti militari talvolta molto differenti da quelli europei. Tra le “macchine da guerra” più temute c’erano gli elefanti, difficili da contrastare seguendo le tattiche belliche tradizionalmente adottate nel Vecchio Continente.

Gli elefanti, inizialmente considerati invincibili, rivelarono ben presto i loro punti deboli sul campo di battaglia; uno di questi era il timore nei confronti di un animale comune e relativamente innocuo come il maiale.

Elefanti da guerra

I primi elefanti da guerra furono addestrati in India almeno dal VI secolo a.C., anche se alcuni indizi lascerebbero supporre un’origine ancora più antica. Intorno al IV-V secolo a.C. gli elefanti già costituivano una parte fondamentale delle armate indiane, composte generalmente da quattro unità distinte: fanteria, cavalleria, carri ed elefanti.

Alcuni sovrani indiani giudicavano gli elefanti da guerra così fondamentali per i loro eserciti da affermare che “un esercito senza elefanti è deplorevole quanto una foresta senza leone, un regno senza un re o il valore senza l’aiuto delle armi“.

Successivamente, l’impiego degli elefanti da guerra raggiunse la Persia. Alessandro il Grande si scontrò con loro per la prima volta nella battaglia di Gaugamela (331 a.C.), e dopo aver ottenuto una delle sue vittorie più celebri decise di incorporare i 15 elefanti nemici all’interno del suo schieramento.

Nella battaglia dell’Idaspe contro il re indiano Poro, Alessandro si trovò ad affrontare da 85 a 100 elefanti da guerra; fu in questa circostanza che i pachidermi iniziarono a mostrare i loro punti deboli. Nonostante gli elefanti di Poro riuscissero a mietere vittime macedoni con relativa semplicità grazie anche agli spuntoni di ferro montati sulle loro zanne, Alessandro cambiò approccio alla battaglia e riuscì a sconfiggere il sovrano indiano.

Considerati i precedenti successi degli elefanti nei conflitti asiatici, anche i regni dell’ Africa settentrionale iniziarono ad acquistare e addestrare elefanti da guerra: la Numidia, i Cartaginesi e il Regno di Kush incorporarono l’elefante nordafricano (Loxodonta africana pharaohensis) nei loro eserciti fino a far estinguere questa specie a causa dell’eccessivo sfruttamento.

Armatura per elefante prodotta in India e custodita alla Oriental Gallery del Royal Armouries National Museum of Arms and Armour di Leeds.
Armatura per elefante prodotta in India e custodita alla Oriental Gallery del Royal Armouries National Museum of Arms and Armour di Leeds.

Diversamente dagli elefanti indiani, quelli nordafricani erano più piccoli, meno propensi all’addestramento e incapaci di attraversare fiumi profondi. Si tentò anche di addestrare gli elefanti africani delle savane (Loxodonta africana oxyotis), ma si dimostrarono ancora più difficili da domare rispetto ai loro cugini nordafricani.

L’introduzione in Europa degli elefanti avvenne principalmente con Pirro, re dell’Epiro tra il 306 e il 300 a.C.. Pirro importò 20 elefanti per attaccare i Romani nella battaglia di Eraclea (280 a.C.). I Romani, impreparati ad affrontare i pachidermi da guerra, furono sconfitti e respinti, ma l’anno successivo si presentarono preparati nella battaglia di Ascoli, armati di carri con punte acuminate e armi incendiarie: per quanto un’ultima carica di elefanti fu in grado di ottenere la vittoria, Pirro subì gravissime perdite.

Colpiti dall’efficacia degli elefanti nel diffondere terrore tra gli schieramenti nemici, e forti dell’esperienza maturata contro di essi durante le Guerre pirriche e quelle con Cartagine, i Romani adottarono in alcune circostanze questi pachidermi.

Nell’invasione della Gran Bretagna, pare che Cesare si servì di un solo elefante, corazzato e predisposti per il trasporto sul dorso di arcieri e frombolieri. La quinta legione di Cesare riuscì inoltre a resistere alla carica di 60 elefanti durante la battaglia di Tapso: i legionari, armati di asce, riuscirono a sconfiggere i pachidermi colpendoli alle gambe e adottando in seguito l’elefante come simbolo della loro unità militare.

Punti di forza e di debolezza degli elefanti da guerra

I punti di forza di un elefante da guerra sono facilmente intuibili: la sua sola massa unita alla velocità di corsa costituisce una forza difficilmente contrastabile dalla fanteria o dalla cavalleria dell’antichità.

La carica di un elefante può raggiungere i 30 km/h ed è pressoché inarrestabile da una linea di lance tradizionalmente impiegata per fermare le cariche di cavalleria. L’impatto con le prime linee non produceva il solo effetto di uccidere o ferire gravemente i soldati nell’avanguardia: il resto dell’esercito, dopo aver osservato gli effetti di una carica di elefanti, spesso si lasciava prendere dal panico e rompeva i ranghi, facilitando il compito di sfondamento.

In alcune regioni del mondo, come nel Sud-Est asiatico, l’elefante risultò così utile in battaglia da rimanere in uso fino alla fine del XIX secolo. Gli elefanti sono in grado di attraversare terreni difficili meglio della cavalleria, anche se sono decisamente più lenti di un uomo a cavallo.

L’utilità degli elefanti non era limitata alla sola forza d’urto: qesti animali venivano sfruttati per trasportare carichi pesanti e provviste. Alcuni regni orientali, come l’impero di Pala o il regno di Akbar il Grande, potevano contare sull’impiego militare o logistico di decine di migliaia di elefanti; il Gran Mogol Jahangir pare avesse a disposizione un totale di 113.000 elefanti, dei quali 12.000 impiegati a scopo militare.

Ma gli elefanti da guerra avevano anche debolezze tali da renderli poco utili o del tutto inutilizzabili in determinate circostanze. Gli elefanti hanno la tendenza a cedere al panico in un campo di battaglia, specialmente dopo aver subito ferite dolorose o in seguito alla morte del loro conducente (mahout).

Maiali contro elefanti. Le Livre et le vraye hystoire du bon roy Alixandre, Francia, 1420.
Maiali contro elefanti. Le Livre et le vraye hystoire du bon roy Alixandre, Francia, 1420.

Un elefante in preda al terrore non ragiona più lucidamente ed è in grado di infliggere pesanti perdite anche al suo stesso schieramento. I Romani compresero molto presto l’indole degli elefanti e la sfruttarono a loro vantaggio: una delle tattiche per contrastarli era quella di recidere la proboscide per terrorizzare l’animale e costringerlo ad una ritirata devastante per il suo stesso esercito.

Gli elefanti sono suscettibili a colpi sui fianchi, altra caratteristica che i Romani impararono a sfruttare impiegando fanti armati di giavellotti, picche e armi incendiarie.

Ma una delle tattiche più efficaci e bizzarre impiegate per contrastare l’avanzata degli elefanti fu l’uso dei “maiali da guerra”.

Il maiale da guerra

Il primo europeo a venire a conoscenza della debolezza degli elefanti per i maiali fu Alessandro Magno: dopo aver sconfitto Poro nella battaglia dell’Idaspe, fu lo stesso sovrano indiano a svelare al condottiero macedone il terrore che i versi di maiale istigavano negli elefanti.

Plinio il Vecchio riporta che “gli elefanti sono spaventati dal più piccolo strillo di maiale”. Secondo Claudio Eliano, che conferma le parole di Plinio, i Romani che affrontarono Pirro nel 275 a.C. utilizzarono maiali e montoni per fermare l’avanzata degli elefanti.

Eliano non solo menziona maiali urlanti nel suo “Sulla natura degli animali“, ma anche l’uso di maiali dati alle fiamme: durante l’assedio di Megara (266 a.C.) gli assediati utilizzarono suini ricoperti di resina di pino e petrolio come “arieti incendiari”, lanciandoli contro lo schieramento di elefanti.

I pachidermi, alla vista dei maiali urlanti e in fiamme che si dirigevano verso di loro, si fecero prendere dal panico e iniziarono a fuggire in modo disordinato calpestando i soldati del loro schieramento.

Il retore e stratega militare macedone Polieno racconta nel suo Stratagemmi che “i maiali grugnirono e strillarono sotto la tortura del fuoco e si lanciarono in avanti verso gli elefanti, che ruppero i loro ranghi in preda alla confusione e alla paura e fuggirono in diverse direzioni”.

L’uso dei maiali da guerra per contrastare l’avanzata degli elefanti e vanificarne l’efficacia in battaglia costrinse gli addestratori ad abituare i pachidermi, fin dalla tenera età, alla presenza di suini.

In tempi recenti Adrienne Mayor, ricercatrice della Stanford University e autrice del libro “Greek Fire, Poison Arrows & Scorpion Bombs: Biological and Chemical Warfare in the Ancient World“, ha suggerito che i maiali incendiari siano stati una prima forma rudimentale di arma chimico-biologica.

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Could a war pig really defeat a war elephant? – Amazing history
Pigs: Ancient Weapons of Biological Warfare?

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Ninja: gli shinobi tra verità storica e mito https://www.vitantica.net/2019/03/18/ninja-shinobi-verita-storica-e-mito/ https://www.vitantica.net/2019/03/18/ninja-shinobi-verita-storica-e-mito/#respond Mon, 18 Mar 2019 00:10:01 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3778 La popolarizzazione dei combattenti antichi avvenuta durante il XX secolo grazie al cinema e alla letteratura ha contribuito a creare figure leggendarie, spesso circondate da misteri mai esistiti, dotate di abilità mai possedute o relegate a ruoli mai assunti.

Una di queste figure è quella dello shinobi, conosciuto più comunemente come ninja. I ninja si prestano particolarmente alla spettacolarizzazione cinematografica: spie combattenti dotate di poteri soprannaturali ed equipaggiate con armi non tradizionali. Li abbiamo visti in tutte le salse, in una quantità incalcolabile di film d’azione e in panni per nulla attribuibili a spie giapponesi d’epoca medievale. Cosa c’è di vero, quindi, sui ninja?

Ninja: un termine poco utilizzato

Il termine “ninja” è stato storicamente poco utilizzato. Il ben più diffuso “shinobi”, una forma contratta di “shinobi-no-mono“, si trova nella letteratura giapponese fin dall’ VIII secolo (ad esempio, nell’opera poetica Man’yoshu) e significa “sottrarre; nascondersi”.

Shinobi è un termine generalmente destinato ad un utilizzo al maschile; per le spie di sesso femminile si utilizzava più comunemente la parola kunoichi. Questa distinzione tuttavia non fu utilizzata all’inizio della storia delle spie giapponesi: fino al XV secolo gli shinobi non erano formalmente raggruppati in clan, e qualunque spia poteva essere considerata shinobi.

Altri termini sono stati impiegati per identificare chi praticava attività di spionaggio: monomi (“colui che vede”), nokizaru (“macaco sul tetto”), rappa (“bandito”) e Iga-mono (“uomo di Iga”, una regione storicamente legata agli shinobi).

Esiste anche un’intero ventaglio di nomi regionali impiegati per definire uno shinobi: a Kyoto si usavano le parole “suppa, “ukami” o “dakkou“, mebntre nella prefettura di Miyagi la parola “kurohabaki“; a Niigata erano comuni invece “nokizaru“, “kanshi” e “kikimonoyaku“.

Shinobi e fonti storiche

Per quanto siano nate innumerevoli leggende sulle origini degli shinobi giapponesi, le fonti storiche degne di tale nome e in grado di descriverne l’origine e le attività in cui erano coinvolti sono scarse.

Le ragioni dell’assenza di fonti storiche sembrano essere legate sia alla segretezza delle loro vite, sia allo scarso interesse che suscitavano nelle corti del tempo, più interessate alle nobili gesta dei samurai che ai sotterfugi e alle meschinità delle spie.

La ripugnanza che suscitavano le attività si spionaggio ha origini antiche: l’episodio di Koharumaru, incaricato nel X secolo di spiare Taira no Masakado camuffato da trasportatore di carbone, è indicativo del disprezzo provato nei confronti le spie da parte della società nipponica del tempo.

Allo stesso tempo, tuttavia, le attività degli shinobi erano ritenute indispensabili per raccogliere informazioni o effettuare sabotaggi: nella cronaca Taiheiki (XIV secolo) si riporta l’episodio di uno shinobi particolarmente abile che riuscì a dare alle fiamme un intero castello.

Nei casi sopra citati gli shinobi non erano altro che soldati e samurai a cui venivano affidate missioni di spionaggio. Le prime, vere tracce storiche di individui esclusivamente dediti allo spionaggio risalgono al XV secolo: in questo periodo la parola shinobi identifica con chiarezza gruppi di agenti segreti volti a sabotare e infiltrarsi oltre le linee nemiche.

A partire dal XV secolo i ninja furono reclutati in svariate occasioni come spie, briganti, sabotatori, agitatori e terroristi; potevano compiere atti totalmente indecorosi per un samurai (anche se i samurai, di fatto, non perdevano occasione per compiere atti indegni e poco nobili) in un periodo, l’epoca Sengoku, in cui molti potentati locali erano impegnati in faide con i feudi confinanti.

Bansenshukai
Bansenshukai

Tutto ciò che sappiamo sulle abilità e sull’addestramento dei ninja proviene principalmente da manuali e rotoli realizzati meno di 4 secoli fa. A partire dal XVII secolo furono redatti diversi manuali di ninjutsu dai discendenti di Hattori Hanzo e del clan Fujibayashi, legato al clan Hattori: tra questi si contano il Ninpiden (1655), il Bansenshukai (1675) e lo Shoninki (1681).

Le scuole moderne di ninjutsu sono emerse tutte a partire dagli anni ’70 del 1900: benché basate sulle tecniche di alcuni manuali storici, l’autenticità delle scuole moderne è materia controversa per via dell’assenza di informazioni precise sulla discendenza dei maestri di ninjutsu.

Iga e Koga

Gli shinobi iniziarono ad organizzarsi in gilde composte da diverse famiglie di shinobi e a sviluppare un sistema di gradi: i jonin erano i ninja di rango più elevato, seguiti dai chunin e dai genin. Per quanto di basso rango, i genin svolgevano attività fondamentali come la raccolta di informazioni sensibili, il sabotaggio e l’infiltrazione.

E’ in questo periodo che le province di Iga e Koga iniziano a delinearsi come produttrici di shinobi di professione. I villaggi Iga e Koga addestravano uomini specificamente per le attività di spionaggio, nascosti tra montagne remote e inaccessibili in grado di custodire i segreti più preziosi dei ninja.

Tra il 1485 e il 1581 gli shinobi Iga e Koga furono utilizzati più volte dai daimyo giapponesi per raccogliere informazioni e sabotare il nemico, fino a quando Oda Nobunaga decise di radere al suolo i villaggi della provincia di Iga, costringendo i sopravvissuti a trovare rifugio tra le montagni di Kii o ad affidarsi a Tokugawa Ieyasu (come fece Hattori Hanzo, che divenne una delle guardie dello shogun).

Dopo l’insediamento dei Tokugawa, gli Iga assunsero il ruolo di guardie dello shogun a Edo, mentre i Koga quello di forza di polizia. Gli shinobi continuarono comunque a partecipare ad attività di spionaggio e infiltrazione: nel 1614, Miura Yoemon reclutò 10 shinobi per infiltrarli nel castello di Osaka e fomentare l’antagonismo nei nemici dei Tokugawa.

Con la caduta dei clan Iga e Koga, i daimyo iniziarono ad addestrare i loro shinobi: una legge del 1649 stabilì che solo i daimyo che guadagnavano più di 10.000 koku potevano possedere e addestrare ninja.

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Il ruoli dei ninja

Per quanto tendessero a svolgere ruoli contrari all’etichetta dei samurai, come spionaggio, sabotaggio e assassinio, molti shinobi erano loro stessi samurai o membri dell’esercito (come gli ashigaru). Non si trattava di truppe “anti-samurai” come spesso vengono dipinti: erano soldati specializzati in missioni segrete e spionaggio.

Samurai e Bushido

Spesso svolsero ruoli di fondamentale importanza in battaglie campali e furono impiegati dagli organi di governo dello shogunato per eseguire operazioni estremamente pericolose. Escludendo i villaggi delle regioni di Iga e Koga, gli shinobi erano spesso soldati scelti particolarmente versati nello spionaggio che partecipavano tuttavia anche ad assedi e scontri armati.

Il compito principale degli shinobi era quello di raccogliere informazioni sfruttando ogni mezzo possibile. Il sabotaggio (spesso portato a termine appiccando il fuoco a risorse strategicamente importanti del nemico) era un ruolo secondario ma altrettanto importante.

Il diario dell’abate Eishun, vissuto nel XVI secolo, descrive un attacco incendiario condotto da shinobi Iga:

Questa mattina, il sesto giorno dell’undicesimo mese del decimo anno di Tenbun, gli Iga sono entrati nel castello di Kasagi in segreto e hanno dato alle fiamme alcuni dei quartieri dei sacerdoti. Hanno incendiato anche i fabbricati all’interno del San-no-maru. Hanno catturato l’ Ichi-no-maru e il Ni-no-Maru.

Attribuire agli shinobi, in modo storicamente accurato, l’assassinio di personalità celebri è difficile: operazioni di questo tipo lasciano raramente tracce evidenti. Alcuni omicidi sono stati attribuiti ai ninja posteriormente al fatto, senza alcuna prova sostanziale di un loro coinvolgimento nel delitto.

Sappiamo tuttavia che Oda Nobunaga subì diversi tentativi d’omicidio da parte di alcuni shinobi, come un tiratore scelto Koga nel 1571 (Sugitani Zenjubo) e nel 1573 (Manabe Rokuro). Lo shinobi Hachisuka Tenzo fu invece inviato da Nobunaga per assassinare il daimyo Takeda Shingen.

Ninjutsu, le arti dello spionaggio

Con il termine ninjutsu si identifica in tempi moderni l’ampio bagaglio di abilità che uno shinobi doveva possedere per far fronte ad ogni circostanza avversa.

Il primo addestramento allo spionaggio specializzato sembra essere emerso verso la metà del XV secolo: gli shinobi iniziavano l’addestramento da giovanissimi e imparavano tecniche di sopravvivenza e di sorveglianza, l’uso di veleni ed esplosivi e abilità fisiche come l’arrampicata, la corsa su lunghe distanze e il nuoto.

Sappiamo inoltre che alcuni ninja, come lo shinobi Iga riportato in un resoconto storico relativo a Ii Naomasa, disponevano di conoscenze mediche utili in battaglia; per ridurre al minimo il loro odore corporeo, tendevano ad avere una dieta vegetariana in preparazione di una missione.

Monaco komuso
Monaco komuso

Gli shinobi dovevano necessariamente possedere anche la conoscenza di svariati mestieri per poter infiltrarsi tra il nemico sotto mentite spoglie. Si travestivano spesso da sacerdoti, monaci, mendicanti, mercanti, ronin e intrattenitori: travestirsi da sarugaku (menestrello) consentiva di infiltrarsi all’ìinterno degli edifici nemici, mentre l’abito dei monaci komuso permetteva di mascherare completamente il volto tramite il tipico cappello a canestro.

Le tecniche di spionaggio, d’infiltrazione e “stealth” venivano vagamente raggruppate in quattro gruppi: tecniche di fuoco (katon-no-jutsu), d’acqua (suiton-no-jutsu), di legno (mokuton-no-jutsu) e di terra (doton-no-jutsu).

Grazie ad alcuni manuali e rotoli custoditi per generazioni dai clan di shinobi, siamo in grado ci conoscere alcune delle strategie utilizzate per lo spionaggio:

  • Hitsuke: distrarre le guardie appiccando fuochi lontano dal punto d’ingresso dello shinobi;
  • Tanuki-gakure: arrampicata sugli alberi e camuffamento tra il fogliame. Rientra tra le “tecniche di legno”;
  • Ukigusa-gakure: uso delle piante acquatiche per nascondere i movimenti subacquei;
  • Uzura-gakure: rannicchiarsi come una palla e rimanere immobili per apparire come una roccia.
Miti e leggende metropolitane sui ninja
Abiti neri

Indossare un distintivo abito nero per raccogliere informazioni non è molto pratico: è estremamente riconoscibile tra una folla vestita in abiti tradizionali o contadini. Come accennato in precedenza, gli shinobi preferivano di gran lunga mimetizzarsi nel tessuto sociale indossando gli abiti di figure comuni di “basso profilo”.

Abiti blu

Circola una sorta di “correzione” del mito legato alle uniformi nere dei ninja: erano blu, il miglior colore per nascondersi durante la notte. L’uso del colore blu appare in uno dei manuali scritti durante il XVII secolo, ma viene semplicemente consigliato perché era un pigmento comune nella moda del tempo e utile a non distinguersi.

Spade dritte

In molte film il ninja impugna spade dal filo dritto. Non esiste alcuna prova che gli shinobi utilizzassero questo tipo di spade, che richiedevano una lavorazione differente dalle lame da combattimento normalmente prodotte dai fabbri giapponesi.

La prima apparizione di queste spade dritte (ninjato) è del 1956 nel libro “Ninjutsu” di Heishichiro Okuse; la forma delle “spade ninja” fu poi popolarizzata dal Ninja Museum di Igaryu nel 1964.

Ninjutsu e combattimento

Nessuno dei tre manuali storici del ninjutsu (Ninpiden, Bansenshukai e Shoninki) riporta tecniche di combattimento. Il Bansenshukai dice soltanto che uno shinobi dovrebbe allenarsi nel combattimento con la spada, ma non fornisce alcuna istruzione sul combattimento.

Questo non significa che i ninja non fossero combattenti, ma che molto probabilmente provenivano da classi guerriere. Si dava per scontato che conoscessero i fondamentali del combattimento: il ninjutsu non era un’arte marziale, ma una collezione di tecniche di sopravvivenza, spionaggio e sabotaggio.

NINJAS IN JAPAN AND THEIR HISTORY
25 Fascinating Facts About The Real Ninja Of History
THE SHOCKING TRUTH ABOUT NINJA MARTIAL ARTS (FROM HISTORICAL DOCUMENTS)

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Ostaggi volontari nella storia https://www.vitantica.net/2019/03/15/ostaggi-volontari-storia/ https://www.vitantica.net/2019/03/15/ostaggi-volontari-storia/#respond Fri, 15 Mar 2019 00:10:39 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3775 Il concetto di “ostaggio” aveva in origine una specifica interpretazione. L’ostaggio era essenzialmente concepito come una garanzia offerta a un nemico vittorioso – o addirittura un alleato – per il mantenimento di un patto o di un trattato, o come simbolo di sottomissione da parte dei vinti.

Paese che vai, ostaggio che trovi

Questa pratica era già divenuta consuetudine nell’antico Egitto, dove gli ostaggi di alto rango servivano garanzia di lealtà dei regni vassalli. La procedura fu po adottata e sviluppata dai Greci, per i quali il ricorso agli ostaggi servì anche a imporre determinate opinioni politiche su coloro che avevano difficoltà a condividerle: uno dei casi più noti è quello di Filippo II di Macedonia, la cui presenza come ostaggio a Tebe ebbe lo scopo di impedire ai Macedoni di assumere posizioni ostili contro la città.

Anche i Romani si servirono spesso di ostaggi: il caso del generale romano Ezio, che fu dato in ostaggio in gioventù prima ai Visigoti e poi agli Unni, mostra come questa pratica fosse una consuetudine sia di culture “civilizzate” che di quelle considerate “barbare”.

Il Medioevo non è privo di esempi famosi di ostaggi, a cominciare dai sei cittadini borghesi di Calais che, nel 1347, si offrirono come ostaggi a Edoardo III per garantire il salvataggio della loro città.

Il conte Jean d’Angoulême, figlio del Duca d’Orléans e nipote di Carlo V di Francia, fu consegnato nelle mani degli inglesi nel 1412 a seguito del trattato di Buzançais; trascorse 32 anni come ostaggio degli Inglesi in compagnia, fin dal 1415, del fratello Charles e fu costretto a vendere parte dei suoi possedimenti per ottenere la libertà.

Anche in Europa orientale la consegna degli ostaggi faceva parte della tradizione, come dimostra la vita di Giorgio Castriota (Gjergj Kastrioti, noto come “Skanderbeg“).

Di sangue reale, Skanderbeg fu consegnato in giovane età ai Turchi per dimostrare la lealtà del suo popolo nei confronti del governo della Turchia ottomana. Cresciuto nella tradizione islamica, Skanderbeg mise il suo valore militare al servizio del sultano Murad II, arrivando a ricoprire il rango di governatore (sanjakbey) fino al momento della sua diserzione durante la battaglia di Niš, momento in cui iniziò a delinearsi come eroe della lotta per l’indipendenza albanese.

Statua di Skandeberg
Statua di Skanderbeg

La pratica degli ostaggi volontari persistette fino al XVIII secolo. Alla fine della guerra della successione austriaca e ai sensi del trattato di Aix-la-Chapelle del 1748, gli ostaggi della nobiltà inglese rimasero a Parigi in attesa della restituzione alla Francia di alcuni dei possedimenti nordamericani britannici.

Hospes, ostaggi volontari

La posizione dell’ostaggio volontario era spesso abbastanza simile a quella di un ospite, fedele al significato della parola “hospes“. Come dei comuni ospiti, gli ostaggi volontari generalmente godevano di uno stile di vita abbastanza tranquillo, non molto differente da quello che conducevano nella loro terra natale e in linea con il loro rango sociale; talvolta godevano anche di una considerevole libertà di movimento.

Il fatto che la maggior parte degli ostaggi provenisse dalla nobiltà spiega il loro trattamento spesso privilegiato. Nella maggior parte dei casi gli ostaggi non temevano per la loro vita: il fatto stesso di essere stati consegnati volontariamente e il loro stato di salute garantivano il rispetto del patto tra le parti coinvolte.

Molti ostaggi ebbero modo di riceve un’educazione superiore, cambiare fede religiosa, confrontarsi con i dotti e i filosofi del regno che li ospitava; altri ricoprirono incarichi di notevole rilevanza per i loro ospiti sotto forma di ambasciatori, comandanti militari o consiglieri politici.

Skanderbeg, durante la sua permanenza come ostaggio presso Murad II, imparò il turco e il latino, fu addestrato al combattimento e alla strategia militare e si guadagnò la fiducia del sultano tanto da meritarsi il nome di Iskender (Alessandro), nazionalizzato dagli albanesi in Skënderbeg dopo la defezione dall’impero ottomano.

Jean d’Angoulême, durante i suoi oltre 30 anni di “prigionia”, collezionò una quantità notevole di libri; il fratello Charles, catturato durante la battaglia di Azincourt nel 1415, divenne uno dei poeti più prolifici della sua epoca durante i 25 anni trascorsi come ostaggio degli Inglesi.

La Battaglia di Azincourt (miniatura XV secolo, Lambeth Palace Library).
La Battaglia di Azincourt (miniatura XV secolo, Lambeth Palace Library).

Non deve quindi sorprendere che si potessero instaurare legami di reciproco rispetto tra gli ostaggi e i loro rapitori, legami che potevano anche assumere la forma di relazioni amichevoli nonostante le differenze culturali e politiche.

Dalla fine dell’ Ancien Régime, l’abitudine di fornire ostaggi volontari per consolidare un patto iniziò a declinare: i pochi casi noti si sono verificati durante la storia coloniale, come la circostanza che vide coinvolto il leader di Haute-Casamance che consegnò quattro dei suoi figli a garanzia del trattato di pace concluso con la Francia nel 1861.

A partire dal XVIII secolo, le garanzie offerte da uno Stato sconfitto per il rispetto di un trattato hanno generalmente assunto la forma di cedimento di possedimenti territoriali piuttosto che l’offerta di ostaggi volontari di alto rango: ad esempio, il trattato di Francoforte del 10 maggio 1871 prevedeva l’occupazione temporanea da parte delle truppe prussiane di diverse regioni nel nord della Francia in attesa dell’indennizzo per i costi della guerra.

Un’azione simile era stata precedentemente presa sia dall’esercito federale svizzero dopo la guerra del Sonderbund del 1847, sia dalle truppe nordiste dopo la guerra civile americana del 1861-1865, che occuparono il territorio sudista per assicurare il rispetto dei termini di pace imposti ai vinti. In questi casi, le popolazioni residenti si sentivano e venivano considerate come ostaggi alla mercé delle forze di occupazione.

Da hospes a obses

L’emergere di territori sempre più definiti e l’uso di intere popolazioni come potenziali ostaggi segnò un cambiamento fondamentale nella pratica dello scambio di ostaggi.

Dall’inizio del XVIII secolo, una nozione frammentata di sovranità attribuita a singoli individui è stata sostituita da un concetto più collettivo e unificato. Con l’avvento dello stato-nazione, la sovranità non era più incarnata da pochi individui isolati ma dai cittadini nel loro insieme.

In quelle condizioni, la consegna di ostaggi basata sul reciproco riconoscimento – sia del donatore che del beneficiario – del valore intrinseco e particolare dell’ostaggio scelto iniziò a perdere rilevanza, poiché in uno Stato nazionale tutti gli individui sono (almeno teoricamente) uguali e come tali hanno un valore identico e intercambiabile.

Nel corso di scontri sempre più feroci, in cui l’ostilità è l’unica relazione possibile tra gli avversari, l’offerta volontaria di ostaggi illustri come garanzia di rispetto reciproco non era più appropriata.

Allo stesso tempo, la presa di ostaggi tra la popolazione comune iniziò ad essere pienamente giustificata in circostanze prive di precedenti storici sulla base del fatto che chiunque, dal cittadino meno abbiente al ricco proprietario terriero, poteva essere considerato un ostaggio valido.

In questo contesto, non è difficile capire perché in epoca moderna l’ostaggio non sia generalmente offerto, ma venga invece preso con la forza e contro la sua volontà: questa evoluzione corrisponde allo sviluppo della legge di guerra e all’affermazione degli ideali derivanti dai diritti umani. Lo status di ostaggio non dipende più dalle conseguenze delle ostilità, ma dal conflitto stesso.

Non si parla più di hospes, ma di obses, di persone sotto sorveglianza le cui posizioni sono spesso il risultato di decisioni unilaterali o perentorie, una condizione che differisce fondamentalmente poco, in termini puramente materiali, dalla prigionia.

Dal punto di vista psicologico, il cambiamento è stato brutale: mentre lo stato degli hospes è caratterizzato da un’assenza di pericolo, quello degli obses è, al contrario, segnato dalla minaccia molto reale che incombe sull’esistenza della persona tenuta prigioniera.

A haunting figure: The hostage through the ages

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Crittografia e cifrari più comuni della storia antica e moderna https://www.vitantica.net/2019/03/11/crittografia-cifrari-storia-antica-moderna/ https://www.vitantica.net/2019/03/11/crittografia-cifrari-storia-antica-moderna/#respond Mon, 11 Mar 2019 00:10:07 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3754 Gli scontri tra civiltà hanno sempre richiesto uno scambio di informazioni di primaria importanza: risorse del nemico, configurazione del campo di battaglia e capacità belliche dell’avversario. Anche quando un conflitto non terminava in una battaglia campale ma si sviluppava all’interno dei palazzi del potere, le informazioni più rilevanti hanno sempre rappresentato una risorsa da salvaguardare con ogni mezzo a disposizione.

E’ da questa necessità di proteggere dati di importanza strategica che emersero i primi sistemi di crittografia. Benché rudimentali per i canoni della crittografia moderna, i messaggi cifrati del passato basavano la loro forza sia sull’assenza di una vera scienza dell’analisi crittografica, sia sull’incapacità di leggere e scrivere della maggior parte della popolazione.

Cifrario Atbash
Cifrario Atbash
Cifrario Atbash

Il cifrario di Atbash è uno dei primi cifrari a sostituzione monalfabetica: la prima lettera dell’alfabeto viene sostituita con l’ultima, la seconda con la penultima, e così per tutte le altre lettere. Si tratta essenzialmente dell’inversione dell’alfabeto.

Il nome deriva dalla prima, ultima, seconda e penultima lettera dell’alfabeto ebraico: Aleph, Taw, Bet e Shin). Secondo gli studiosi della Bibbia, molti versi del testo sacro sono esempi di Atbash, come Geremia 25:25 “Il re di Sheshach berrà dopo di loro”, dove Sheshach significa “Babilonia” secondo il cifrario Atbash.

Mlecchita vikalpa

Mlecchita vikalpa

Il Mlecchita vikalpa è l’arte della scrittura e della lettura di parole in codice, elencata tra le 64 arti del Kamasutra di Vatsyayana, filosofo indiano vissuto probabilmente tra il I e il VI secolo d.C.

Il Kamasutra non riporta dettagli sul metodo di cifratura, ma secondo alcuni ricercatori esistevano almeno due sistemi chiamati Kautilya e Muladeviya, forse due cifrari a sostituzione basati su relazioni fonetiche.

Cifrario scitala

Cifrario scitala

Messaggio cifrato inviato dagli efori di Sparta ai loro generali impegnati in campagne militari. E’ uno dei più antichi sistemi di crittografia per trasposizione: era reso possibile grazie ad un cilindro sul quale veniva arrotolata una striscia di pergamena.

Secondo molti ricercatori, lo scitala consentiva di mantenere segreto il messaggio anche nel caso di intercettazione della pergamena da parte del nemico: solo chi possedeva un cilindro identico a quello utilizzato per scrivere il messaggio poteva decodificare il contenuto della striscia di carta.

Scacchiera di Polibio

Nota anche come quadrato di Polibio, era un sistema crittografico inventato nel II secolo a.C. dallo storico greco Polibio e basato sul frazionamento delle lettere di un messaggio. Non è nato come sistema crittografico, ma come metodo di comunicazione a distanza: con solo 5 torce si poteva trasmettere un messaggio complesso.

La scacchiera era composta da 5 righe e 5 colonne popolate da lettere dell’alfabeto e numerate. La cifratura avviene sostituendo ogni lettera dell’alfabeto con le sue coordinate corrispondenti: ad esempio, se la lettera Beta, che si trova nella 1° riga e 2° colonna, veniva trasposta in “12”.

Cifrario di Cesare

Cifrario di Cesare

Si tratta di uno dei più antichi sistemi di crittografia a sostituzione monoalfabetica: ogni lettera del testo veniva sostituita dalla lettera che si trova ad un numero arbitrario di posizioni dopo nell’alfabeto.

Giulio Cesare lo utilizzava per scrivere messaggi segreti alle sue truppe e ai suoi alleati politici, utilizzando una chiave di 3 per il cifrario. Anche se sembra un metodo di cifratura molto semplice, occorre considerare che al tempo ben poche persone sapevano leggere, ancora meno persone erano in grado di decifrare un messaggio cifrato.

Secondo Svetonio, Augusto utilizzava lo stesso cifrario di Cesare con chiave 1, senza ripartire da sinistra in caso di fine dell’alfabeto.

Risalah fi Istikhraj al-Mu’amma di Al-Kindi

Al-Kindi fu un vero e proprio pioniere della crittologia: sviluppò diversi metodi per decifrare messaggi in codice (crittoanalisi) ed elaborò svariati metodi di cifratura nel suo trattato Risalah fi Istikhraj al-Mu’amma (“Trattato sulla Decodifica di Messaggi Crittografici”).

Al-Kindi analizzo diversi sistemi di cifratura riuscendo a delineare metodi di decodifica basati sull’analisi delle frequenze di lettere, numeri e simboli contenuti in un messaggio cifrato.

Cifrario di Alberti

Cifrario di Alberti

Nel 1467 Leon Battista Alberti scrisse il De Cifris (“Trattato della cifra”), opera in cui descrive il primo sistemadi cifratura polialfabetica tramite un disco cifrante, un dispositivo composto da due dischi concentrici rotanti recanti lettere dell’alfabeto.

Se con il cifrario di Cesare era sufficiente scoprire il valore di una sola lettera per svelare tutte le altre, nel cifrario di Alberti gli alfabeti sono mischiati e la chiave di cifratura varia durante la composizione del messaggio.

In questo modo, scoprire la corrispondenza di una sola lettera non consente di decifrare il messaggio, e l’analisi delle frequenze delle lettere non ottiene alcun risultato utile.

Un esempio di testo cifrato con il cifrario di Alberti viene riportato su Crittologia.eu:

volendo cifrare il messaggio “INVIARE RINFORZI DOMANI” con il disco interattivo qui a destra, si inseriscono a casaccio alcune nulle, poi si cifra cambiando lista, sempre a caso, 3 volte:

 

chiaro: INVIARERINFORZIDOMANI
con nulle: INV1IA R2ERI4NF1O RZID 3OMANI
cifrato: BeghyeoLeiqeolpcafPpmylZfhrsla

Cifrario pigpen

Cifrario pigpen

Il cifrario pigpen, utilizzato dalla massoneria fin dal Settecento, è un sistema di crittografia a sostituzione dove ogni lettera viene sostituita da simboli in base ad una chiave grafica.

Questo schema di crittografia è semplice e viene definito “debole” per la facilità con cui si può decifrare un messaggio cifrato. Ad ogni simbolo grafico, infatti, corrisponde una lettera: una volta individuate le corrispondenze, ogni messaggio in codice può essere decifrato con facilità.

Tabula recta – cifrario di Trithemius

Tabula recta - cifrario di Trithemius

La tabula recta è un sistema di crittografia che si basa sulla disposizione delle lettere dell’alfabeto all’interno di un quadrato. Detto anche cifrario di Trithemius o tavola di Vigenère, la tabula recta è un cifrario polialfabetico simile al disco cifrante di Alberti.

Nel quadrato di Trithemius tuttavia le lettere dell’alfabeto non sono mescolate, bensì in sequenza, partendo dalla prima riga che inizia con la lettera A e facendo “saltare” di una posizione le lettere delle righe successive (la seconda riga inizierà con B e terminerà con A, la terza con C terminando con B, e così via).

Cifrario dei Rossignol

Cifrario dei Rossignol

Chiamato anche Grand Chiffre, aveva la reputazione di essere indecifrabile al momento della sua creazione per mano di Antoine Rossignol e suo figlio Bonaventure.

La cifratura dei Rossignol era così valida da rimanere in uso per secoli fino al momento della sua “rottura” nel 1893 da parte di Etienne Bazaries, che impiegò tre anni per capire che ogni numero del cifrario corrispondeva ad una sillaba della lingua francese.

History of cryptography

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Gli Immortali dell’esercito persiano https://www.vitantica.net/2019/01/09/gli-immortali-dellesercito-persiano/ https://www.vitantica.net/2019/01/09/gli-immortali-dellesercito-persiano/#respond Wed, 09 Jan 2019 00:10:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3482 Sotto l’impero degli Achemenidi, uno dei più estesi della storia antica, esisteva una divisione militare di 10.000 unità che ricopriva sia il ruolo di guardia imperiale sia quello di gruppo scelto dell’esercito regolare.

Gli Immortali (Athanatoi) persiani appartenevano ad un reparto di fanteria pesante composto principalmente da soldati scelti persiani, medi ed elamiti, ma molte delle loro tattiche e del loro equipaggiamento rimangono ancora avvolti nel mistero.

La forza dell’impero achemenide

Il primo impero persiano ebbe origine sotto la guida di Ciro il Grande, sovrano che seppe unificare le tribù persiane sotto il controllo di un solo Gran Re (Shahanshah). Dopo aver conquistato e assimilato i Medi, Cambise II, figlio di Ciro, iniziò una campagna di conquista che raggiunse il culmine con Dario I.

Cambise e Dario riuscirono a conquistare l’Egitto, la Tracia, il Caucaso e buona parte della valle dell’Indo, ma due popoli misero a dura prova la potenza militare persiana: i Cartaginesi e i Greci. I primi, sfruttando un’antica alleanza con i Fenici, sfuggirono alla conquista persiana; i secondi, invece, si opposero con le armi formando un’alleanza di città-stato che ottenne la vittoria decisiva a Maratona nel 490 a.C.

Dario non digerì mai completamente la sconfitta: dopo due spedizioni fallimentari in Grecia stava già preparando la terza quando scoppiò una rivolta in Egitto che lo costrinse a dirottare le risorse militari alla foce del Nilo; affaticato e ammalato, Dario morì nel 486 a.C..

Il figlio Serse assunse quindi la guida dell’impero, intenzionato a portare a termine ciò che il padre aveva lasciato in sospeso: schiacciare e sottomettere la Grecia ribelle.

"Celebrazione dei 2.500 anni dell'Impero Persiano", una serie di celebrazioni avvenute tra il 12 e il 16 ottobre 1971 in Iran sotto l'ultimo Shah. I figuranti rappresenterebbero il reparto degli Immortali.
“Celebrazione dei 2.500 anni dell’Impero Persiano”, una serie di festività e parate avvenute tra il 12 e il 16 ottobre 1971 in Iran sotto l’ultimo Shah. I figuranti rappresenterebbero il reparto degli Immortali.

Secondo alcune fonti, l’esercito di Dario e del figlio Serse poteva contare su numeri imponenti, così grandi da evocare terrore in qualunque regno prescelto come bersaglio per la loro campagna di conquista: 1.700.000 unità di fanteria, 80.000 cavalieri e circa 20.000 alleati arabi e libici.

Tra questa moltitudine di uomini, una sezione dell’esercito, composta da 10.000 uomini, fu definita “Immortali” (o Diecimila) da Erodoto per via delle sue caratteristiche distintive. E’ tuttavia probabile che i componenti di questo gruppo scelto si definissero Anusiya, cioè compagni.

Gli Immortali giocarono un ruolo decisivo nella conquista d’Egitto attuata da Cambise II nel VI secolo a.C. e durante l’invasione dei regni indiani di Punjab e Sindh (nell’odierno Pakistan) operata da Dario I.

Parteciparono anche alla conquista della Scizia nel 520-513 a.C. e presero parte alla celebre battaglia delle Termopili nel 480 a.C., probabilmente seguendo l’esercito persiano anche durante la campagna di occupazione della Grecia nell’anno successivo.

Una divisione di soldati scelti

Ciò che sappiamo sugli Immortali persiani viene quasi esclusivamente dalle parole di Erodoto: guidati da Idarne durante la seconda guerra persiana, erano soldati di professione che appartenevano ad una divisione di fanteria pesante composta da 10.000 unità.

Secondo Erodoto, il nome “Athanatoi” (Immortali) gli fu attribuito per via della struttura stessa della divisione: se un combattente veniva ferito, ucciso o si ammalava era velocemente sostituito da un altro per mantenere costante il numero degli Immortali.

Sparabara e Immortali
Sparabara, arciere, portatore di vessillo e Immortale

Per poter aspirare ad un posto tra gli Immortali, un guerriero doveva necessariamente essere persiano, medo o elamita. L’addestramento iniziava in tenera età e i giovani guerrieri venivano reclutati inizialmente tra gli Sparabara (scudieri) e i Takabara (fanteria leggera); quando si liberava un posto tra gli Athanatoi, i capitani degli Immortali selezionavano il miglior guerriero dai ranghi militari inferiori per inserirlo nella divisione.

Per diventare un Immortale occorreva completare tutto l’addestramento militare previsto per un soldato: arcieria, combattimento a mani nude e armato, oltre a possedere la capacità di sopravvivere in autonomia nella natura selvaggia. Il reclutamento finale nei ranghi dell’esercito avveniva intorno ai 15 anni e il congedo scattava una volta raggiunti i 50 anni d’età.

Durante i periodi di inattività, sembra che gli ufficiali Athanatoi (hazarapatish) si dedicassero alla caccia ai grandi felini per coltivare e migliorare le loro abilità guerriere: ottenere e indossare una pelle di leone era simbolo di grande capacità e coraggio.

Dotazione bellica degli Immortali

Senofonte descrive le guardie di Ciro il Grande come fanti pesantemente armati che indossavano pettorali di bronzo ed elmi (senza tuttavia definirli Immortali); anche i cavalli degli Immortali erano corazzati da piastre di bronzo che proteggevano animale e cavaliere.

I cavalieri Immortali erano equipaggiati con uno scudo di bronzo, faretre in grado di trasportare fino a 120 frecce, una mazza ferrata e due lance di bronzo o di ferro.

Erodoto invece descrive in modo differente la dotazione degli Athanatoi: scudo intrecciato ricoperto di pelle, lancia corta, faretra, spada corta, frombola e arco; alcuni reparti erano armati di sagaris, una scure d’arcione tipica delle steppe euro-asiatiche.

Sotto le vesti, gli Immortali indossavano corazze a scaglie metalliche, e le loro lance erano munite di un peso di bilanciamento metallico all’estremità opposta alla punta: la forma o il metallo del pomo di bilanciamento serviva a distinguere il rango del guerriero.

Guerriero medo (a sinistra) e persiano (destra) in abiti cerimoniali. Secondo alcuni archeologi, si tratta di Immortali.
Guerriero medo (a sinistra) e persiano (destra) in abiti cerimoniali. Seondo alcuni archeologi, si tratta di Immortali.

La maggior parte degli Immortali disponeva di lance controbilanciate da un peso d’argento a forma di melagrana, ma circa 1.000 soldati scelti avevano pomi dorati e costituivano la guardia personale dell’imperatore. Le loro lance erano più lunghe e di qualità superiore, e gli uomini di questo reparto speciale venivano selezionati tra gli Athanatoi più coraggiosi e capaci nel combattimento.

Gli Immortali viaggiavano in compagnia di una carovana di cammelli e muli che trasportavano carri pieni di tutte le risorse necessarie alla sussistenza durante le lunghe campagne militari, oltre a cibo speciale che solo gli Athanatoi potevano consumare. Nella carovana viaggiavano anche le concubine e i servitori dei guerrieri.

I dubbi sugli Immortali

Come detto in precedenza, ciò che sappiamo sugli Immortali viene prevalentemente dalle parole di Erodoto. Secondo alcuni archeologi, le guardie reali raffigurare a Susa facevano parte di questa divisione di fanteria scelta, ma non c’è alcuna prova a sostegno di questa ipotesi.

Ad oggi, non sappiamo quale fosse la loro esatta denominazione nell’esercito persiano, il loro scopo primario e la loro origine. Per quanto riguarda il loro nome, è possibile (anche se ben lontano dall’essere dimostrato) che Erodoto abbia interpretato in modo errato il termine “anusiya” (seguace) con “anausa” (immortale).

Non sappiamo se gli Immortali parteciparono all’avanzata persiana in Grecia dopo la battaglia delle Termopili. Alcuni archeologi ritengono che siano ritornati in Asia seguendo Idarne e Serse, dato che non vengono più menzionati nella documentazione relativa all’anno 479 a.C.

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IMMORTALS

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La battaglia delle Termopili in 15 minuti https://www.vitantica.net/2019/01/05/la-battaglia-delle-termopili-in-15-minuti/ https://www.vitantica.net/2019/01/05/la-battaglia-delle-termopili-in-15-minuti/#respond Sat, 05 Jan 2019 13:10:37 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3468 Il canale YouTube The Infographic Show spiega le vicende che portarono alla battaglia delle Termopili, dove una piccola alleanza di polis greche guidata dal re spartano Leonida si oppose alle imponenti armate persiane di Serse

La democrazia occidentale affonda le sue radici nell’antica Grecia, una terra di città-stato in costante litigio. Tra queste città-stato belliche sorse Atene e un gruppo di uomini che ebbe un’idea divertente: i cittadini dovevano avere voce in capitolo su chi esattamente riusciva a dominarli.

Sebbene inizialmente imperfetta nella sua implementazione, quell’idea si è poi evoluta nelle nazioni democratiche libere in cui molti di noi vivono oggi.

Nel 499 a.C. le città greche in Asia Minore che erano state catturate dai Persiani si rivoltarono contro i brutali tiranni che li dominavano. A sostegno dei loro fratelli conquistati, Atene ed Eretria inviarono truppe. Nonostante alcuni importanti progressi, diversi errori strategici costarono ai greci dell’Asia Minore la vittoria finale e la ribellione fu sedata.

Con l’Asia Minore rientrata nell’ovile dell’Impero Persiano, il re Dario I promise di punire Atene ed Eretria per il loro coinvolgimento, e considerò il resto delle città libere della Grecia come una minaccia per il suo impero.

Nel 492 a.C. lanciò un’invasione in Tracia e Macedonia, quindi mandò araldi alle restanti città-stato greche chiedendo di accettare il dominio persiano. Cercando di salvarsi, molte accettarono la sottomissione, ad eccezione di Atene e Sparta.

Gli araldi persiani ad Atene furono gettati in una fossa, e i fratelli spartani si comportarono in modo simile gettando gli ambasciatori in un pozzo. Infuriato, Dario lanciò la sua invasione della Grecia continentale e ottenne successi in sequenza fino all’ incontro contro 10.000 ateniesi a Maratona.

Superando numericamente i Greci di 2,5 a 1, Dario prevedeva una facile vittoria; tuttavia, gli Ateniesi ottennero una vittoria schiacciante e costrinsero Dario a ritirarsi.

Dario progettò un’imminente re-invasione, con l’obiettivo di radere al suolo Atene, ma la politica interna persiana ritardò i suoi piani e Dario morì di vecchiaia. Cercando di vendicare l’orgoglio del suo defunto padre, Serse si preparò per una campagna decisiva atta a stroncare per sempre l’indipendenza greca.

Ricordando bene le lezioni di Maratona, Serse si prese il suo tempo per radunare una forza militare imponente. Anche se alcuni resoconti storici parlano di un esercito che contava  2,5 milioni di soldati, questi numeri sono quasi certamente esagerazioni ed è più probabile che Serse abbia marciato in compagnia di 200.000 – 250.000 soldati, anche se per il mondo antico questi numeri erano da capogiro .

Il piano di Serse era semplice: marciare in Grecia partendo da Nord e accerchiare i difensori greci facendo sbarcare la marina lungo la costa greca.

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