giochi – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Il Turco, l’automa che giocava a scacchi https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/ https://www.vitantica.net/2020/11/09/turco-meccanico-automa-giocava-scacchi/#respond Mon, 09 Nov 2020 00:14:46 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4994 Nel 1770, l’inventore ungherese Wolfgang von Kempelen svelò al mondo un prodigio della meccanica: Il Turco, un automa in grado di giocare a scacchi. La macchina di von Kempelen non solo poteva accorgersi delle eventuali irregolarità messe in atto dal giocatore avversario, ma anche competere con i più abili scacchisti della corte di Maria Teresa d’Austria.

Il Turco girò l’Europa e le Americhe per oltre 80 anni, incontrando Napoleone e Franklin, e battendo avversari umani con strategie basate su versatilità e creatività. Per quasi un secolo, il mondo si convinse che un automa e il suo creatore fossero riusciti a riprodurre una sorta di intelligenza evoluta, impensabile per la scienza del XVIII e XIX secolo.

Breve riepilogo degli automi meccanici nella storia

Il concetto di automa meccanico, una realizzazione artificiale in grado di eseguire azioni ed elaborazioni in modo del tutto autonomo, non è recente: il termine deriva dal termine greco automatos (“che agisce di propria volontà”), e già in epoca ellenistica venivano costruiti giocattoli meccanici o attrezzature meccanico-idrauliche.

Ctesibio, Filone di Bisanzio, Archita ed Erone furono i più noti costruttori di automi nell’antica Grecia. Contemporaneamente a loro, nel III secolo a.C., il Libro del Vuoto Perfetto cinese riporta la descrizione dell’automa realizzato dall’ingegnere meccanico Yan Shi:

«Il re rimase stupito alla vista della figura. Camminava rapidamente, muovendo su e giù la testa, e chiunque avrebbe potuto scambiarlo per un essere umano vivo. L’artefice ne toccò il mento e iniziò a cantare perfettamente intonato. Toccò la sua mano e mimò delle posizioni tenendo perfettamente il tempo… Verso la fine della dimostrazione, l’automa ammiccò e fece delle avance ad alcune signore lì presenti, il che fece infuriare il re che avrebbe voluto Yen Shih giustiziato sul posto ed egli, per la paura mortale, istantaneamente ridusse in pezzi l’automa al fine di spiegarne il suo funzionamento. E, in effetti, dimostrò che l’automa era fatto con del cuoio, del legno, della colla e della lacca, bianco, nero, rosso e blu. Esaminandolo più da vicino il re vide che erano presenti tutti gli organi interni: un fegato completo, una cistifellea, un cuore, dei polmoni, una milza, dei reni, lo stomaco ed un intestino. Inoltre vide che era fatto anche di muscoli, ossa, braccia con le relative giunture, pelle, denti, capelli, ma tutto artificiale… Poi il re fece la prova di togliergli il cuore e osservò che la bocca non era più in grado di proferir parola. Gli tolse il fegato e gli occhi non furono più in grado di vedere; gli tolse infine i reni e le gambe non furono più in grado di muoversi. Il re ne fu deliziato.»

Questa macchina straordinaria (se davvero esistita) è l’espressione della costante curiosità umana nei confronti della vita artificiale. Nei secoli successivi non mancarono grandi inventori arabi, cinesi ed europei che, secondo le fonti, furono in grado di realizzare oggetti in grado di muoversi, animali artificiali e automi umanoidi apparentemente in grado di spostarsi secondo il comando del loro creatore.

Lu Ban, uno dei più celebri inventori della storia cinese, e Archita dopo di lui, pare fossero riusciti a costruire automi volanti di legno, come riportano diverse fonti autorevoli dell’epoca. Secondo Aulo Gellio, Archita fu capace di costruire un uccello meccanico in grado di volare per 200 metri (probabilmente grazie alla spinta propulsiva del vapore).

Jabir ibn Hayyan, alchimista del VIII secolo, si dichiarava in grado di costruire serpenti, scorpioni e umanoidi in grado di eseguire operazioni a comando; il Libro dei dispositivi ingegnosi (IX secolo) dei tre fratelli Banū Mūsā, tra i più grandi innovatori e inventori del loro tempo, racconta del primo automa flautista programmabile, basato sui concetti alla base dell’organo ad acqua.

La paternità del primo automa programmabile è stata comunque assegnata ad Al-Jazari, autore dell’opera “Compendio sulla teoria e sulla pratica delle arti meccaniche” e vero innovatore nel campo della meccanica. Realizzò una nave che ospitava 4 automi umanoidi che potevano eseguire diversi brani pre-programmati; ad ogni brano, i quattro musicisti meccanici eseguivano combinazioni espressive composte da oltre 50 movimenti facciali o degli arti.

Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons
Riproduzione del Turco. Foto di Marcin Wichary/Creative Commons

Nel Rinascimento il concetto di automa divenne uno dei temi centrali della meccanica del tempo: Leonardo da Vinci progettò un cavaliere in armatura capace di muoversi sul posto, e i giardini europei si riempirono di congegni semi-automatici pneumatici o idraulici. Ma fu con il meccanicismo cartesiano che gli automi divennero ancora più complessi e bizzarri, come l’ “anatra digeritrice” (1737) di Jacques de Vaucanson, un automa in bronzo che sembrava digerire e defecare il cibo che ingeriva.

Fu proprio in questo periodo, nella seconda metà del 1700, che Wolfgang von Kempelen realizzò il Schachtürke, o più semplicemente “Il Turco”, un automa capace di giocare a scacchi, e risultare abile e competitivo, contro un avversario umano.

Il Turco

L’idea di realizzare un automa complesso e stupefacente nacque da un incontro, avvenuto nel 1769, tra Kempelen e François Pelletier alla corte di Maria Teresa d’Austria. Pelletier era considerato uno dei più abili illusionisti francesi del suo tempo, ed era noto per utilizzare grandi quantità di magneti per eseguire i suoi giochi di prestigio; Kempelen era convinto tuttavia di poter fare meglio, e promise di tornare alla corte con un’invenzione in grado di superare ampiamente tutte le illusioni di Pelletier.

Il Turco fece il suo debutto di fronte a Maria Teresa l’anno successivo, circa sei mesi dopo l’esibizione di Pelletier. Prima di mostrarne il funzionamento, Kempelen mostrò a tutti i presenti che i cassetti e gli sportelli della sua macchina contenevano esclusivamente ingranaggi, lasciando che fosse l’audience stessa ad assicurarsene.

Dopo l’ispezione, Kempelen dichiarò che la sua macchina era pronta a sfidare chiunque nel gioco degli scacchi, usando i pezzi bianchi e riservandosi il “diritto” alla prima mossa sulla scacchiera. La macchina si dimostrò incredibilmente capace, non solo nel gioco ma anche nel rilevare mosse irregolari.

Se l’avversario eseguiva una mossa irregolare, il Turco scuoteva la testa in segno di disapprovazione, muovendo poi il pezzo alla sua posizione originale. Lo scrittore Louis Dutens, presente durante l’esibizione, tentò di ingannare la macchina muovendo la regina come un cavallo, ma si vide rifiutare la mossa e riposizionare il pezzo nella sua casella di partenza.

Volantino dell'esibizione del Turco. Wikimedia Commons
Volantino dell’esibizione del Turco. Wikimedia Commons

Il Turco sconfisse tutti coloro che tentarono di batterlo in un tempo massimo di 30 minuti, compresi coloro con esperienza nel gioco degli scacchi. L’automa fu anche in grado di completare il “percorso del cavallo”, un problema matematico-scacchistico in cui un cavallo deve toccare ogni casella della scacchiera senza passare due volte per lo stesso punto.

La caratteristica più strabiliante del Turco era la sua capacità di conversare in inglese, francese e tedesco con gli spettatori e l’avversario usando una tavoletta. Inutile dire che ogni matematico e ingegnere del tempo furono estremamente colpiti dall’invenzione di Kempelen, alcuni a tal punto da tenere un diario delle conversazioni avute con il Turco, come fece il matematico Carl Friedrich Hindenburg.

Il Turco ebbe meno successo scacchistico in Europa, non per scarso interesse (in molti volevano sfidarlo) ma perché Kempelen, ad ogni occasione utile per esibirlo, escogitava una scusa per non farlo. Tra il 1770 e il 1780 il Turco giocò solo una partita con Sir Robert Murray Keith, e il suo inventore ripeteva in continuazione che la macchina fosse soltanto una sorta di passatempo, niente di così rilevante.

Dopo il match con Murray Keith, Kempelen smontò completamente la sua macchina, ma per ordine imperiale fu costretto a ricostruirla per esibirla durante la visita del Granduca di Russia. La macchina suscitò così tanto interesse da costringere Kempelen ad iniziare un tour europeo nel 1783.

A Versailles il Turco perse la sua prima partita contro Charles Godefroy de La Tour d’Auvergne, e le sconfitte continuarono ad accumularsi una volta giunto a Parigi, dove fu sconfitto da diversi scacchisti locali e da François-André Danican Philidor, considerato il miglior scacchista del suo tempo.

A Londra, il Turco e Kempelen incontrarono Philip Thicknesse, il primo ad avanzare pubblicamente sospetti sul funzionamento della macchina. Thicknesse descrisse il turco come una truffa molto elaborata che sfruttava una macchina complicata per nascondere un bambino capace di giocare a scacchi.

Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons
Joseph Racknitz, nel 1789, realizzò questa illustrazione per tentare di spiegare il funzionamento non meccanico del Turco di von Kempelen. Wikimedia Commons

Anche Edgard Allan Poe nutrì diversi dubbi sul reale funzionamento automatico della macchina. Se il Turco fosse una macchina pura, obiettò Poe, vincerebbe ogni partita; dopo averci riflettuto, anche lo scrittore giunse alla conclusione che ci fosse un operatore umano all’interno dell’automa.

La scoperta dell’inganno

Dopo la morte di Kempelen, il Turco fu acquistato nel 1805 dal musicista bavarese Johann Nepomuk Mälzel, che proseguì con i tour per l’Europa dopo aver appreso il segreto del funzionamento della macchina ed effettuato alcune riparazioni. Il tour europeo ebbe così successo da spingere Mälzel a preparare un viaggio negli Stati Uniti, viaggio che si rivelò un vero successo.

Gli scettici sul reale funzionamento autonomo del Turco non mancarono, ma le descrizioni che fornirono sul presunto funzionamento della macchina erano incorrette e basate solo su una semplice osservazione esterna del congegno. Fu solo nella seconda metà del 1800 che il segreto del turco fu rivelato in un articolo pubblicato sulla rivista “The Chess Monthly“.

Nel 1854 il Turco bruciò in un incendio scoppiato nel Chinese Museum di Charles Willson Peale, dove era ospitato, e il figlio del suo precedente possessore, Silas Mitchell, ritenne che fosse il momento adatto per svelare il segreto dell’automa.

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L’interno del Turco era composto da meccanismi molto complessi studiati per attirare l’attenzione dell’osservatore e distrarre dal vero funzionamento della macchina. La sezione a sinistra era studiata in modo tale da mostrare l’interno della macchina tenendo segreta la parte destra, in cui risiedeva il giocatore umano che manovrava l’automa.

L’abitacolo era provvisto di un cuscino e consentiva una visuale completa della scacchiera e dell’avversario. Il manichino di un turco ottomano, con tanto di tunica, turbante e pipa nella mano sinistra, nascondeva due porte che ospitavano altri ingranaggi; la macchina era pensata per illudere gli spettatori che non ci fosse alcun trucco, e che la sua capacità di gioco fosse totalmente attribuibile alla meccanica interna.

La scacchiera era sufficientemente sottile da consentire il movimento dei pezzi tramite magneti. Ogni pezzo era dotato di un piccolo magnete alla base che si attaccava ad un magnete sotto la scacchiera corrispondente alla casella in cui era posizionato, in modo tale da dare un quadro completo della partita al giocatore nascosto nella macchina.

Nel vano nascosto era presente anche una sorta di pantografo che consentiva di manovrare il braccio sinistro del Turco. Muovendo il pantografo sul una scacchiera interna, il braccio si spostava nella posizione corrispondente della scacchiera esterna. Il braccio poteva muoversi in alto e in basso, e afferrare pezzi sulla scacchiera; durante questi movimenti, alcuni ingranaggi facevano rumore per dare l’impressione che l’automa si stesse muovendo solo grazie alla sua meccanica interna.

Ma chi era lo scacchista nascosto all’interno del Turco? Nessuno lo sa. L’ipotesi ritenuta più credibile è che Kempelen reclutasse giovani scacchisti ad ogni tappa del suo viaggio, istruendoli velocemente sul funzionamento della macchina e lasciando che la meccanica interna li nascondesse da un’attenta ispezione.

The Mechanical Chess Player That Unsettled the World
The Turk
The Turk (Automaton)
Debunking the Mechanical Turk Helped Set Edgar Allan Poe on the Path to Mystery Writing

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Beargarden, la fossa dell’orso elisabettiana https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/ https://www.vitantica.net/2020/08/31/beargarden-fossa-orso/#respond Mon, 31 Aug 2020 00:10:22 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4963 Durante il regno di Elisabetta I (1558–1603), nella città di Londra venivano celebrati spettacoli cruenti i cui protagonisti erano animali selvatici e domestici. La “Fossa dell’Orso”, o Beargarden, recentemente apparsa in alcune serie televisive d’ispirazione medievale-fantasy, fu una realtà storica per diversi secoli in svariate regioni del mondo, uno spettacolo in grado di attrarre sostenitori e oppositori di ogni tipo, dal comune cittadino alle personalità più note tra nobiltà e menti illustri del tempo.

Bear-baiting

Traducibile come il “tormento dell’orso”, si trattava fondamentalmente di legare un orso ad un palo tormentandolo con cani addestrati, in attesa che l’orso si liberasse e facesse a pezzi i suoi assalitori.

Il bear-baiting era lo show-simbolo del Beargarden. Attività popolare fin dal XII secolo, intorno al XVI secolo molti orsi furono catturati e mantenuti con il specifico scopo di farli combattere nella fossa. In epoca medievale questi orsi viaggiavano di villaggio in villaggio per dare spettacolo, accompagnati da un “bear-leader”, un addestratore di orsi spesso italiano o francese.

Il combattimento nella fossa poteva assumere diverse forme: in alcuni casi l’orso veniva privato della vista, e frustato per alimentare la sua rabbia mentre cani addestrati venivano aizzati contro di lui. Per evitare di perdere l’orso durante lo scontro (mantenere un orso adatto al combattimento era costoso), e per limitare la perdita di preziosi cani addestrati, il combattimento terminava quando l’orso veniva totalmente sottomesso dall’attacco dei cani, o quando un numero sufficiente di cani veniva ucciso dal plantigrado.

Sebbene il bear-baiting fosse stato ufficialmente proibito dai puritani verso la fine del 1600, la pratica continuò per altri due secoli fino a svanire quasi completamente. In altre regioni del mondo, tuttavia, l’ “animal-baiting” continuò ad essere praticato fino a qualche decade fa.

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Verso la fine del XIX secolo, il Maharaja Gaekwad Sayajirao III organizzò un combattimento tra una tigre del Bengala e un leone per stabilire una volta per tutte se il secondo meritasse il titolo di “Re dei Felini”. Il vincitore tra i due contendenti (non sono riuscito a capire chi ne uscì vittorioso) affrontò poco dopo un orso grizzly di oltre 600 kg, perché qualcuno suggerì al Maharaja che, in realtà, in vincitore del primo combattimento non fosse davvero il “Re dei Carnivori”.

Il bear-baiting è rimasta una pratica relativamente comune nelle province pakistane del Punjab e di Sindh fino al 2004. Gli eventi, organizzati dalla criminalità locale, prevedevano di legare un orso ad una corda di 2-5 metri dopo avergli rimosso i canini e aver limato i suoi artigli, per poi scagliare contro il povero animale un branco di cani da combattimento.

In South Carolina il bear-baiting è sopravvissuto fino al 2013, anno in cui è stato proibito ufficialmente questo genere di spettacolo. Fino al XIX secolo si organizzavano combattimenti tra orsi e tori, specialmente in California e Messico, il cui risultato era tutt’altro che scontato e arricchiva le tasche dei bookmakers.

Beargarden

Intorno agli anni 60 del 1500 fecero la loro apparizione a Londra i Beargarden, strutture non molto differenti dai teatri del tempo, nelle quali si conducevano combattimenti tra animali, prevalentemente orsi e tori.

L’esatta posizione di tutti i beargarden londinesi è incerta per svariate ragioni. In primo luogo, i combattimenti tra animali non erano affatto rari in città e venivano condotti in diverse località, alcune solo temporaneamente utilizzate come teatro per scontri tra animali. Secondo il poeta inglese John Taylor, tra il 1620 e il 1621 i combattimenti con tori e orsi si svolgevano in almeno quattro località diverse lungo la riva meridionale del Tamigi, nei dintorni del distretto di Southwark.

Un particolare Beargarden rimase impresso nelle menti delle personalità dell’epoca. La mappa Speculum Britanniae del 1593, e la Civitas Londini del 1600, indicano che questo Beargarden si trovava vicino al teatro The Rose. Lo storico inglese John Stow affermò nel 1583 che questo beargarden veniva comunemente chiamato “Giardino di Parigi”.

Bear baiting a Londra negli anni '20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)
Bear baiting a Londra negli anni ’20 del 1800 (Hulton-Deutsch Collection / Getty Images)

Alcuni spettatori degli show del Beargarden definirono lo spettacolo come “un passatempo rude e sgradevole”, come Samuel Pepys nel 1666; altri ancora, come i puritani, si spinsero oltre definendolo uno spettacolo demoniaco, affermando addirittura che il crollo dei Beargarden del 1583 in cui rimasero uccise otto persone fu un atto divino per punire i peccatori che assistevano allo spettacolo.

Il combattimento tra animali aveva tuttavia molti sostenitori, tra i quali la regina Elisabetta I e buona parte della nobiltà di corte. Nel 1573, Elisabetta nominò Ralph Bowes come “Master of Her Majesty’s Game at Paris Garden“, allo scopo di facilitare la realizzazione di spettacoli di suo gradimento; la regina arrivò addirittura a non firmare una decisione parlamentare volta a proibire il bear-baiting durante la domenica.

Considerato il vasto pubblico e la presenza quasi costante di grandi personalità inglesi o straniere dell’epoca, il Giardino di Parigi non era soltanto un luogo in cui assistere a spettacoli cruenti, ma il posto ideale per condurre affari di stato, atti di spionaggio, o accogliere gli ambasciatori provenienti dalle più remote regioni del mondo conosciuto. Nel 1578 William Fleetwood, ufficiale giuridico di alto grado della città di Londra, definì il Beargarden come un posto in cui gli ambasciatori stranieri incontravano le proprie spie sfruttando l’oscurità del “giardino”.

Lo spettacolo

Come accennato in precedenza, nel Beargarden avvenivano spettacoli di ogni tipo: orsi contro cani, tori contro cani, pony con scimmie legate sul dorso contro cani (spettacolo realmente accaduto, come testimonia il Duca di Najera nel 1544).

Immagine dall' Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection
Immagine dall’ Antibossicon di William Lily (1521). Folger Digital Image Collection

Ma gli orsi erano i veri protagonisti, e probabilmente subivano le torture più crudeli. Gli orsi più resistenti si guadagnavano un nome, come “George Stone”, “Ned Whiting”, “Sackerson” o “Harry Hunks”, un orso cieco, anziano e particolarmente tenace che veniva ripetutamente frustato fino al sanguinamento profuso.

Gli orsi venivano addestrati come gladiatori: venivano incoraggiati a reagire su comando dell’addestratore, a fingersi morti per terminare un match. Le ferite che accumulavano durante gli scontri con i mastini inglesi li rendevano sempre più deboli, ciechi e incapaci di difendersi, ma questo non impediva ai loro proprietari di sfruttarli fino all’ultimo: frustandoli ripetutamente e legandoli ad un palo si tentava in ogni modo di renderli furiosi.

Lo spettacolo mandava la folla in delirio. Il bearbaiting, per quanto violento e insensato per un osservatore moderno, veniva pubblicizzato come una festa: lo show era spesso preceduto e accompagnato da musica e fuochi d’artificio, balli e veri e propri cori da tifoseria.

Nella sua versione moderna, come quella osservata in Pakistan fino a qualche anno fa, lo scontro poteva essere di piccola portata (un solo orso e qualche cane), oppure includere numerosi partecipanti, come 10 orsi e oltre una quarantina di cani.

L’ultimo spettacolo noto del Beargarden londinese si svolse nel 1682 in onore di un ambasciatore marocchino. Un cavallo particolarmente ostile (responsabile, pare, della morte di diversi uomini e cavalli) fu costretto a combattere nella fossa con un branco di cani; dopo averli uccisi tutti, su incitazione della folla l’animale fu giustiziato a colpi di spada dai guardiani del Beargarden.

The Bankside Playhouses and Bear Gardens
The Gruesome Blood Sports of Shakespearean England
Beargarden
Bear-baiting
Elizabethan Bear & Bull Baiting

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Milone di Crotone https://www.vitantica.net/2019/12/02/milone-di-crotone/ https://www.vitantica.net/2019/12/02/milone-di-crotone/#respond Mon, 02 Dec 2019 00:10:55 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4702 Le mirabolanti imprese dei nostri antenati e le loro straordinarie doti fisiche sono spesso frutto di un mix tra eventi reali e informazioni di carattere semi-leggendario. E’ vero che l’uomo del passato cresceva in una società molto più dura di quella moderna, dovendosi adattare ad uno stile di vita ricco di pericoli e di stenti; è altrettanto vero però che l’essere umano è soggetto alle leggi della fisica e ai limiti fisiologici imposti dalla sua specie, come ogni essere vivente conosciuto.

Alcuni personaggi storici hanno contribuito a restituire un’immagine del passato fatta da individui estremamente forti, veloci o resistenti, ben oltre le capacità umane, esemplari della nostra specie che sembrano sfidare ogni logica e superare di gran lunga le prestazioni di un Sapiens moderno. Uno dei questi personaggi fu Milone di Crotone.

Un atleta straordinario

Milone di Crotone fu un lottatore del VI secolo a.C. originario della Magna Grecia che si guadagnò la fama di essere uno dei combattenti più formidabili della storia antica. Durante l’arco della sua carriera riuscì a vincere le Olimpiadi per ben 7 volte, conquistando la sua prima vittoria nella categoria giovanile di lotta nel 540 a.C., all’età di 15 anni.

Tra il 536 e il 520 a.C. Milone ottenne altri sei titoli, ma la sua carriera non si limitò alle sole vittorie olimpiche: salì sul gradino più alto del podio per sette volte ai Giochi di Delfi, uscì vittorioso da ben 10 edizioni dei Giochi Istmici e vinse nove finali di lotta ai Giochi Nemei.

Milone ottenne infine per cinque volte il titolo di Periodonikēs, titolo che prevedeva la vittoria in serie di tutti i Giochi Panellenici nello stesso ciclo.

Milone proveniva da Crotone, una città nota per produrre atleti eccellenti che periodicamente si presentavano alle Olimpiadi facendo man bassa di medaglie. Nelle Olimpiadi del 576 a.C., ad esempio, i primi sette atleti classificati allo sprint di 180 metri (stadio) erano tutti originari di Crotone.

Alla sua settima e ultima partecipazione alle Olimpiadi, Milone affrontò nella lotta il giovane Timasiteo, un ammiratore crotonese che considerava il leggendario atleta concittadino come un idolo. Timasiteo, prima di iniziare l’incontro, si inchinò di fronte al Milone in segno di rispetto, divenendo il primo e unico individuo ad essere ricordato nella storia dei Giochi Olimpici antichi per essere arrivato secondo in una competizione.

Chi fu Milone?

Secondo Pausania, Milone era il figlio di Diotimo; alcuni documenti antichi invece lo associano al filosofo Pitagora, che visse per diversi anni nelle vicinanze di Crotone, ma secondo gli storici questa associazione potrebbe essere stata confusa con una possibile parentela con un altro Pitagora, un celebre allenatore di atleti.

Chi sostiene che Milone fosse imparentato con il filosofo afferma che l’atleta salvò la vita a Pitagora durante un banchetto, sostenendo sulle spalle il tetto in fase di collasso a causa di un sisma per consentire ai presenti di mettersi in salvo.

A seguito del gesto che salvò la vita a Pitagora, Milone potrebbe aver sposato Myia, un’adepta della filosofia pitagorica e probabilmente la figlia dello stesso filosofo. Diogene Laerzio afferma inoltre che Pitagora morì in un incendio scatenatosi a casa di Milone, ma Dicearco lo contraddice sostenendo che il filosofo morì nel tempio delle Muse di Metaponto dopo un lungo digiuno.

Erodoto sostiene che Milone accettò una grande somma di denaro per concedere in sposa la propria figlia al medico crotonese Democede. Se le parole di Erodoto hanno un fondo di verità, probabilmente Milone non apparteneva alla nobiltà crotonese, dato che un accordo matrimoniale con un semplice medico non sarebbe stato visto di buon occhio per un nobile greco.

Appetito insaziabile e forza straordinaria

Come accadde per molti atleti olimpici del passato, anche Milone era circondato da leggende riguardanti il suo estenuante allenamento e la sua forza sovrumana. Aristotele inizia la costruzione del mito di Milone associando il suo appetito insaziabile a quello di Eracle; Ateneo continua e rafforza la leggenda esaltando la forza dell’atleta con storie ai limiti del verosimile.

Gli aneddoti su Milone affermano che l’atleta consumasse ogni giorno 9 kg di carne, 9 kg di pane e 10 litri di vino. Sostengono inoltre che la forza dell’atleta fosse tale da consentirgli di trasportare la sua statua bronzea a dimensioni reali fino al piedistallo collocato nello stadio di Olimpia; ma la dimostrazione di forza più celebre è legata alla sua particolare tecnica di allenamento, una sorta di grezzo “progressive overload” (sovraccarico progressivo) della moderna pesistica.

La morte di Milone
La morte di Milone. NICCOLO BOLDRINI

La leggenda su Milone afferma che, fin da ragazzo, l’atleta si fosse abituato a trasportare sulle spalle un vitello ogni singolo giorno allo scopo di coltivare la sua forza fisica. Dopo qualche anno, il vitello divenne un bue adulto, un animale dalla stazza imponente, ma la perseveranza di Milone nel suo allenamento lo aveva ormai reso incredibilmente vigoroso: ogni giorno, senza alcuna apparente difficoltà, il lottatore continuava a trasportare sulle spalle il bovino ormai adulto per mantenere la sua forza.

Un altro toro (o forse lo stesso) fu la vittima di una delle straordinarie espressioni di forza di Milone: dopo essere entrato nello stadio portando sulle spalle un bovino dell’età di 4 anni, Milone riuscì ad eseguire un intero giro di campo tenendo sollevato l’animale, per poi ucciderlo a mani nude con un solo colpo della mano. Il toro fu consegnato alle cucine di Olimpia per essere incluso come ingrediente nelle svariate pietanze che l’atleta crotonese consumò nelle successive 24 ore.

Alcune storie sostengono che Milone fosse in grado di tenere un melograno in mano senza danneggiarlo mentre alcuni sfidanti tentavano invano di allentare la presa delle dita; altri ancora affermano che potesse rompere una fascia stretta attorno alla fronte semplicemente inalando con forza per aumentare la dimensione delle vene della tempia.

La morte di Milone

Come tipicamente accadeva a molte personalità famose, anche la morte di Milone assunse toni leggendari nel corso del tempo. La data del decesso è sconosciuta, ma secondo Strabone e Pausania l’atleta si imbatté, durante una passeggiata nella foresta, in un albero mezzo spaccato da cunei.

L’albero, un ulivo secolare caro alla dea Hera, era attraversato da una profonda fenditura che correva lungo il tronco; per mettere alla prova la sua forza, Milone inserì le mani nella fessura del tronco con l’intenzione di spaccarlo in due.

I cunei tuttavia uscirono dalla loro sede e il tronco si chiuse sulle sue mani, intrappolandolo. Incapace di liberarsi, Milone finì per essere divorato dai lupi. Una seconda versione della leggenda racconta che fu la dea Hera, infuriata con Milone per aver osato tentare di distruggere il suo albero sacro, a togliere ogni forza dal corpo dell’atleta intrappolandolo e lasciandolo esposto all’attacco dei lupi.

Fonti per “Milone di Crotone”:

Milo of Croton
On Herakles as a model for the athlete Milo of Croton
Milone. Il mitico atleta

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Hnefatafl, il gioco di strategia dei popoli norreni https://www.vitantica.net/2019/05/08/hnefatafl-gioco-strategia-popoli-norreni/ https://www.vitantica.net/2019/05/08/hnefatafl-gioco-strategia-popoli-norreni/#respond Wed, 08 May 2019 00:10:52 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4096 Con il termine tafl (“tavolo”, “tavoletta”) i popoli norreni identificavano una serie di giochi di strategia praticati su una tavola di legno suddivisa in quadranti. Derivati probabilmente dai ludus latrunculorum romani, questi giochi di strategia assunsero nel tempo diverse forme, soppiantando il tradizionale gioco degli scacchi in diverse culture nordiche.

Giochi da tavolo per i gusti vichinghi

Verso la fine dell’età vichinga, i giochi da tavolo iniziarono ad essere genericamente definiti con il termine hnefatafl per distinguerli da altri giochi di strategia, come gli scacchi (skáktafl) e il “gioco della volpe e dell’oca” (halatafl).

Non è chiara l’etimologia del termine hnefatafl, ma inizialmente fu chiamato “gioco da tavolo del primo pezzo”, indicando come “primo pezzo” il pezzo che rappresenta il re. Il termine hnefi si riferisce alla pedina del re, da qui la traduzione di hnefatafl in “Gioco del Re Norreno”.

Gli “scacchi vichinghi” divennero un gioco molto popolare in Scandinavia tra l’ VIII e l’ XI secolo e furono citati in numerose saghe norrene. Alcune saghe menzionano versioni di hnefatafl giocate con l’uso di dadi, ma non citano le regole del gioco. Se il gioco prevedeva l’uso di dadi, non esiste alcun riferimento documentale su come venissero usati.

La scacchiera veniva generalmente realizzata con legno o pelle, mentre per le pedine si utilizzavano materiali di ogni genere: legno, vetro, osso, corno, ambra o terracotta.

Anche se sono state rinvenute circa un centinaio di pedine attribuibili a giochi da tavolo, è difficile distinguere quelle destinate al gioco del hnefatafl da quelle impiegate per altri giochi di strategia contemporanei.

 

Hnefatafl nelle saghe e nella cultura nordica

Hnefatafl nelle saghe e nella cultura nordica

Il hnefatafl viene menzionato in diverse saghe, come la Saga di Orkneyinga e la Saga di Hervör and Heidrek, offrendo importanti indizi su come si svolgesse il gioco. Sappiamo che fu tra i più popolari dell’ età vichinga e la sua citazione nelle documentazione storica indicherebbe una certa importanza nella vita quotidiana dei popoli norreni.

Nella Saga di Frithiof, una conversazione tra Frithiof e il suo amico Bjorn rivela che i pezzi difensivi fossero rossi, mentre gli attaccanti colorati di bianco. Nella Saga di Hervör and Heidrek, Odino pone una serie di indovinelli legati al hnefatafl, suggerendo che una colorazione consistente con quella indicata nella Saga di Frithiof.

Il hnefatafl aveva certamente un ruolo importante nella formazione di un guerriero, quasi quanto l’abilità marziale. Nella Saga di Orkneyinga, Kali Kolsson scrive un poema in cui si vanta di poter battere chiunque in nove discipline: gioco del tafl, conoscenza delle rune, lettura e scrittura, sciare, tirare con l’arco, remare, suonare strumenti musicali e parlare in versi.

L’importanza del hnefatafl è testimoniata anche dai ritrovamenti di scacchiere e pedine all’interno di sepolture di guerrieri norreni, come una tavoletta di legno corredata di pedina in corno scoperta all’interno di un’imbarcazione a Gokstad, Norvegia. A Orkneys, invece, sono stati rinvenuti ben 22 pezzi da gioco in ossa di balena.

E’ possibile che ci fosse un collegamento tra l’abilità di un guerriero nel gioco e il suo status sociale; è altrettanto plausibile che fosse una sorta di allenamento alla strategia e che la bravura dimostrata sulla scacchiera fosse un elemento preferenziale nella scelta di un capo militare.

La giocabilità del hnefatafl

La giocabilità delle varie versioni di hnefatafl è stata messa in dubbio durante il passato perché, apparentemente, il gioco sembrava favorire chi giocava in difesa.

Riproduzione moderna del tafl
Riproduzione moderna del tafl

I dubbi sulla giocabilità derivano da un’errata traduzione delle regole della versione lappone trascritta da Linneo; traduzioni più recenti dei suoi scritti evidenziano invece un quadro differente: è l’attaccante ad avere un leggero vantaggio sul difensore, con un margine di vittoria superiore del 9%.

Nel corso del tempo sembra siano state introdotte molte modifiche alle regole di gioco per creare bilanciamenti, o situazioni di svantaggio per i difensori o per gli attaccanti in grado di rendere il gioco più interessante.

In una variante del hnefatafl, il re non poteva contribuire a catturare una pedina (“re disarmato”), mentre in un’altra il re non aveva possibilità di mettersi in salvo in uno dei rifugi previsti dalla versione lappone: il gioco si concludeva dopo un numero massimo di movimenti da parte dei due giocatori.

Nel hnefatafl, tutti i pezzi si muovono solo in linea retta, come la torre degli scacchi, senza alcun limite nel numero di caselle che possono coprire con i loro spostamenti. Se lungo il percorso si incontra un pezzo avversario, si è costretti ad interrompere il movimento.

I quattro angoli della scacchiera sono chiamati rifugi o santuari, mentre la casella centrale può essere occupata solo dal re; gli altri pezzi potranno soltanto attraversarla. Se il re riesce a raggiungere uno dei quattro santuari, il giocatore che lo manovra vincerà la partita.

Ogni pezzo può essere mangiato chiudendolo tra due pedine avversarie posizionate su due lati opposti, o se viene bloccato da due pezzi nemici in corrispondenza di un rifugio. Il re viene invece catturato se gli viene preclusa ogni via di fuga da 4 pedine avversarie.

Se il re si trova in una casella adiacente al castello, potrà essere catturato utilizzando solo tre pedine; all’interno del castello o in qualunque altra posizione (ad esclusione dei santuari), dovrà essere catturato sfruttando 4 pedine.

Le varianti di hnefatafl

L’unica variante di tafl con un set di regole ben definite sopravvissuta fino ad oggi è quella giocata dai Sami. Le regole del loro gioco da tavolo furono messe per iscritto da Linneo durante la sua spedizione in Lapponia del 1732.

Per quanto riguarda le altre varianti, non esiste un regolamento preciso su come i pezzi possano muoversi o su quali interazioni possano avere con gli altri elementi della scacchiera; l’unica costante è che il re deve tentare di sopravvivere all’assalto dell’avversario, fuggendo dalla cattura o usando i pezzi a sua disposizione per tentare di eliminare le pedine dell’attaccante.

Tablut, la versione Sami del tafl
Tablut, la versione Sami del tafl
Tablut

Il tablut è la versione di hnefatafl nata in Lapponia e trascritta da Linneo. Era molto popolare tra i Sami fino alla fine del 1700, ma è possibile che sia sopravvissuta fino al tardo XIX secolo sotto forma del gioco da tavolo Sami chiamato “Svedesi e Russi”, un gioco che segue la stessa terminologia del tablut.

Il vero nome del gioco lappone non è tablut: Linneo assegnò questo nome alla versione Sami del hnefatafl senza comprendere che la traduzione del termine tablut sia essenzialmente “giocare a giochi da tavolo”.

Il tablut veniva giocato su una scacchiera di 9×9 quadranti disegnata su pelle di renna. Nel suo Lachesis Lapponica, Linneo sostiene che i giocatori chiamassero “svedesi” i pezzi di difesa e “moscoviti” quelli di attacco.

Linneo non fa alcun riferimento a pezzi differenziati per colore, ma dai suoi disegni si deduce che un lato delle pedine veniva inciso in modo distintivo in base al loro ruolo sulla scacchiera.

Lo scopo del gioco era quello di condurre in salvo il re aprendogli la strada verso uno dei lati della scacchiera, un santuario. Se il re riusciva a fuggire, gli “svedesi” vincevano la partita; se il re veniva catturato bloccandolo tra quattro pezzi, i “moscoviti” vincevano la partita.

Tawlbwrdd

La variante tawlbwrdd ha origine gallese e veniva giocata con 8 pezzi in difesa del re e 16 pedine d’attacco. Un manoscritto del 1587 (Manoscritto 158 di Robert ap Ifan) menziona la scacchiera 11×11 su cui veniva praticato il tawlbwrdd, ma sostiene che le pedine difensive fossero 12, mentre quelle d’attacco 24.

Ard Rí

Ard Rí è la versione scozzese dell’ hnefatafl. Veniva giocata su una scacchiera di 7×7 quadranti, con un re difeso da 8 pedine contro 16 pezzi d’attacco. E’ la variante di hnefatafl meno documentata tra tutte quelle esistenti e si sa molto poco su come veniva praticato.

Brandub

Versione irlandese di hnefatafl chiamata originariamente bran dubh (“corvo nero”). Sappiamo da due poemi che veniva giocata con 5 pedine contro 9, e che una delle cinque pedine veniva chiamata “Branán” (capo). la tavola da gioco era composta da una scacchiera 7×7, generalmente realizzata in legno e dotata di fori per l’inserimento di pezzi dotati di piolo, probabilmente per favorire la portabilità del gioco.

Tafl games
Hnefatafl – the Strategic Board Game of the Vikings

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Knattleikr, lo sport di squadra dei vichinghi https://www.vitantica.net/2019/04/24/knattleikr-gioco-vichinghi/ https://www.vitantica.net/2019/04/24/knattleikr-gioco-vichinghi/#respond Wed, 24 Apr 2019 00:08:19 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4003 Quando i vichinghi islandesi non si dedicavano all’agricoltura, al saccheggio, alla guerra o ai rituali sacri agli dei, impiegavano il loro tempo libero praticando la glima, l’arte marziale vichinga, o partecipando al knattleikr, un gioco di squadra talvolta citato nelle saghe.

Un gioco misterioso

Gli storici moderni hanno tentato di ricostruire le regole e la pratica del knattleikr, ma non ogni tentativo è basato su pure congetture elaborate da alcuni indizi presenti nelle saghe: ad oggi non abbiamo alcuna testimonianza storica certa o reperto archeologico riconducibili a questo gioco di squadra.

Tutto ciò che sappiamo è che i vichinghi lo praticavano con una certa regolarità, che era uno sport che prevedeva una forte fisicità e che spesso nascevano dispute che potevano sfociare nel sangue.

Le descrizioni più complete del gioco vengono dalle Saghe degli Islandesi (Íslendingasögur), in particolare la Saga di Grettir, la Saga di Gisla, la Saga di Egill e la Saga di Eyrbyggia; i riferimenti al knattleikr non citano tuttavia alcuna regola e nemmeno come venisse praticato questo sport.

Oggi il knattleikr viene rappresentato in alcune fiere medievali e da entusiasti della cultura norrena; viene anche giocato in alcuni campus universitari americani come alla Clark University, al Providence College e alla Yale University.

Ma le regole sono sostanzialmente inventate e le dinamiche di gioco sono frutto di ipotesi e congetture. Le informazioni che seguono sono state estrapolate dalle saghe dai rievocatori del sito Hurstwic.

Cosa sappiamo sul knattleikr?

knattleikr

Il gioco sembra essere stato simile all’ hurling della cultura gaelica, un gioco che ha le sue origini oltre 4.000 anni fa e che prevede l’uso di un bastone di frassino chiamato “hurl” e ha dinamiche simili a quelle del football gaelico.

Il knattleikr veniva praticato con una mazza che spesso subiva rotture durante i numerosi momenti di sfogo della rabbia sul campo, ma poteva essere rapidamente riparata sul posto.

La mazza veniva chiamata genericamente tré (un termine usato per molti oggetti di legno), ma in un verso della Saga di Grettir viene usata la parola knattgildra, traducibile con “trappola per la palla”.

Secondo le ricostruzioni moderne, la mazza era probabilmente realizzata con legno duro, larga da 2,5 a 4 centimetri e lunga oltre un metro. Veniva usata non solo per colpire la palla, a anche per fare sgambetti agli avversari.

La palla era sufficientemente dura da poter causare ferite e contusioni se scagliata contro un giocatore, situazione che secondo le saghe si verificava con una certa regolarità. Se lanciata con sufficiente forza poteva rendere incosciente un partecipante.

Le saghe suggerirebbero l’impiego di una sfera di legno duro, di cuoio o di feltro. L’archeologia sperimentale ha dimostrato che una palla di legno, sufficiente a causare gravi ferite ad un giocatore, poteva essere scagliata anche a lunghe distanze utilizzando la mazza, ma secondo le ricostruzioni moderne la giocabilità maggiore si ottiene con una palla di feltro.

Il gioco prevedeva di colpire la palla con la mazza, afferrarla e correre tenendola in mano mentre i giocatori della squadra avversaria rincorrevano il portatore di palla per prenderlo.

La palla veniva colpita per farle eseguire una traiettoria aerea e non sul terreno. Pare che fosse possibile placcare un avversario che non possedeva la palla, e che la sfera potesse uscire temporaneamente dal campo di gioco come una sorta di “fallo laterale” del calcio.

Il campo da gioco

knattleikr

Il campo da gioco si trovava solitamente nei pressi di un piccolo laghetto. Alcuni studiosi moderni hanno suggerito che venisse praticato sulla superficie di uno stagno ghiacciato: in una saga viene menzionato un campo da gioco sul ghiaccio in prossimità dell’estuario di un fiume.

Ma è solo nella Saga di Gisla e in quella di Egill che si cita il knattleikr giocato durante l’inverno: nelle altre saghe veniva praticato durante l’estate, periodo in cui i fiumi non vengono coperti da strati di ghiaccio di spessore sufficiente a reggere il peso di diversi uomini.

Nella Saga di Egill, il knattleikr veniva giocato all’inizio dell’inverno, quando le temperature erano generalmente appena sopra lo zero, sulla piana di Hvítárvellir; la saga inoltre non parla di ghiaccio sul campo da gioco.

Sembra improbabile che il gioco venisse praticato sul ghiaccio anche a causa delle tipiche calzature medievali: giocare sul ghiaccio con calzature di cuoio è estremamente difficile per via della scarsa trazione sulla superficie liscia.

I partecipanti e le dinamiche di gioco

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Il gioco era un evento regionale e vedeva probabilmente la partecipazione di diverse dozzine di giocatori contemporaneamente. L’evento era seguito da molti spettatori e poteva durate per diversi giorni, anche se poteva concludersi in meno di 24 ore.

I giocatori venivano divisi in due schieramenti capeggiati da altrettanti capitani. Il contatto fisico era consentito in molte forme, e il gioco prevedeva anche insulti e intimidazione verso gli avversari.

Il giocatore che si impossessava della palla poteva passarla ai suoi compagni di squadra o portarla verso il lato opposto del campo, sfidando l’opposizione violenta degli avversari. Data la fisicità del gioco, ogni partecipante poteva abbandonare il campo in qualunque momento.

Secondo lo storico islandese Björn Bjarnason, invece, il knattleikr prevedeva di accoppiare due giocatori avversari all’inizio della partita: ogni partecipante doveva marcare il bersaglio a lui assegnato dal capitano valutando forza e agilità dimostrate nelle partite precedenti e in base alla sua abilità nella glima.

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La palla rimaneva in gioco anche se cadeva sul terreno, se veniva sottratta da un avversario o intercettata durante il lancio; se un team catturava la sfera, il gioco proseguiva regolarmente.

Il gioco si interrompeva solo quando una squadra segnava un punto riuscendo ad arrivare al lato opposto del campo di gioco, quando usciva dal perimetro del campo oppure se il portatore di palla veniva totalmente bloccato dagli avversari e rimaneva senza nessuna possibilità d’azione.

Perché durava tanto una partita? Perché non esisteva un tempo limite o un numero massimo di punti. Il gioco si interrompeva definitivamente quando sul campo rimaneva solo un giocatore.

Knattleikr, the Viking Ball Game

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Glima, l’arte marziale dei vichinghi https://www.vitantica.net/2019/01/25/glima-arte-marziale-vichinghi/ https://www.vitantica.net/2019/01/25/glima-arte-marziale-vichinghi/#comments Fri, 25 Jan 2019 00:10:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3537 I Vichinghi sono divenuti celebri per le loro asce da battaglia, i loro scramasax e la ferocia nel combattimento. Meno rinomata è invece la loro arte del combattimento a mani nude, chiamata Glima.

Quando i primi coloni scandinavi, specialmente norvegesi, si insediarono in Islanda, non portarono con loro soltanto cavalli e tecniche di lavorazione del ferro, ma anche un’ antica arte marziale nordeuropea utilizzata comunemente tra i popoli norreni per il combattimento in battaglia o per risolvere dispute in modo più amichevole del duello giudiziario.

L’arte marziale di divinità e guerrieri vichinghi

La Glima è un metodo di combattimento simile al wrestling che ha radici molto antiche: la prima citazione ufficiale islandese di questa arte marziale risale al 1325 e si trova nel Jónsbók, il libro delle leggi redatto dal parlamento dell’isola a partire dall’anno 930 e che subì diverse modifiche nell’arco dei secoli successivi.

Nel libro della legge islandese la Glima viene definito “Leikfang“, una denominazione più antica di “Glima” che viene utilizzata anche in alcune saghe per descrivere un sistema di combattimento simile al wrestling che prevedeva prese, sgambetti e proiezioni.

Lars Magnar Enoksen, maestro di Glima, illustra una tecnica della variante Hryggspenna

La saga Snorra Edda (“Edda in prosa”), scritta dal celebre poeta Snorri Sturluson nel XIII secolo e sopravvissuta grazie a sette copie redatte tra il XIV e il XVII secolo, cita la Glima in un episodio che vede coinvolti nientemeno che Thor e Utgarda-Loki, un gigante (jötnar).

Una volta giunto al castello di Utgard, Thor e i suoi compagni furono sfidati dai giganti al servizio di Loki in diverse competizioni atletiche e non, come la corsa e la lotta libera. Thor fallisce in una gara di bevute e in una di forza, ma soltanto per un trucco escogitato da Loki: la bevanda del dio del tuono era il mare intero e il gatto che doveva sollevare era in realtà Jormungand, l’enorme serpente di Midgard.

Infuriato, Thor sfidò tutti i giganti presenti nella sala ad una competizione di glima, ma Loki lo fece combattere con Elli, la sua nutrice, esperta nell’arte del wrestling; Thor viene sconfitto, nonostante tutti i suoi sforzi e la sua immensa forza, grazie alla tecnica perfetta di Elli e al fatto che questo personaggio era la personificazione della vecchiaia, che sconfigge ogni guerriero.

Stile di lotta della Glima

La Glima viene tradizionalmente praticata all’esterno; in Islanda non era affatto raro combattere in qualche incontro amichevole con il solo scopo di scaldarsi durante una notte fredda trascorsa all’aperto.

Lo scopo della Glima è quello di atterrare l’avversario in modo che ginocchia, gomiti o schiena tocchino il terreno. Nella versione sportiva, la vittoria di 2 incontri su 3 determina il vincitore dello scontro; se entrambi i combattenti cadono a terra, nessuno dei due viene considerato il vincitore del round, si rialzano e riprendono a lottare.

Rispetto ad altri stili di wrestling, ci sono regole che differenziano la Glima sportiva dalle altre forme di wrestling:

  • I due combattenti devono stare in piedi ad ogni costo (regola Upprétt staða);
  • I combattenti eseguono un movimento in senso orario, simile ad un “walzer”, creando opportunità di difesa e attacco ad ogni passo (regola Stígandinn);
  • Non è consentito cadere sull’avversario o spingerlo verso il terreno con forza, atteggiamento considerato antisportivo (regola Níð). Il combattente di Glima deve vincere sull’avversario usando prese e proiezioni in modo sufficientemente tecnico da causare un “bylta“, una caduta dell’avversario senza troppe forzature.

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Tipologie di Glima

Sotto la denominazione Glima rientrano diversi stili di combattimento, alcuni più diffusi di altri.

Brokartök Glima

La versione Brokartök è la più diffusa in Islanda e in Svezia ed è uno degli sport nazionali islandesi. Predilige la tecnica sulla forza e prevede che entrambi i combattenti indossino speciali cinture di cuoio attorno alla vita e alle cosce, cinture che consentono all’avversario di avere una presa salda sull’opponente.

Il Brokartök si basa su otto tecniche principali, chiamate brögð o bragd, che formano la base per gli oltre 50 modi di atterrare l’avversario. Il Brokartök si basa su un codice d’onore chiamato drengskapur, codice che richiede sportività, rispetto per l’avversario e attenzione a non causare lesioni.

Hryggspenna Glima

Più simile ad altre forme di wrestling etnico non scandinave, il Hryggspenna è considerato più una prova di forza che di tecnica. Lo scopo è quello di afferrare la parte superiore del corpo e far cadere l’avversario usando le braccia e le gambe: se qualunque parte del corpo, ad eccezione dei piedi, tocca il terreno, l’avversario perde il round.

Lausatök
Lars Magnar Enoksen, maestro di Glima e presidente della Viking Glima Federation, illustra una tecnica di Lausatök
Lars Magnar Enoksen, maestro di Glima e presidente della Viking Glima Federation, illustra una tecnica di Lausatök

Il Lausatök è la forma più libera di wrestling norreno ed è stato proibito in Islanda per almeno un secolo a causa del suo stile aggressivo e la sua potenziale pericolosità.

Il Lausatök ha due forme principali: una è stata ideata per la difesa personale, l’altra per la competizione. I combattenti possono utilizzare qualunque tecnica conosciuta e la vittoria va al wrestler che rimane in piedi: nel caso i due contendenti cadessero insieme a terra, il combattimento può proseguire per impedire all’avversario di rialzarsi.

Il Lausatök per autodifesa, la forma di Glima più popolare in Norvegia, prevede almeno 27 tecniche proibite nel Glima islandese; le tecniche più pericolose vengono praticate cercando di limitare i danni al proprio partner d’allenamento.

The Gripping History of Glima
What does a mythological text in Snorra Edda tell us about the ritual ceremonies that surrounded glíma fights in ancient times?

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Il gioco del cane e dello sciacallo scoperto in una caverna in Azerbaijan https://www.vitantica.net/2018/12/15/gioco-cane-sciacallo-egitto-azerbaijan/ https://www.vitantica.net/2018/12/15/gioco-cane-sciacallo-egitto-azerbaijan/#respond Sat, 15 Dec 2018 08:00:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3302 Come trascorrevano il tempo libero gli antichi Egizi? Giocando a “il cane e lo sciacallo”, un gioco da tavolo chiamato anche “58 buchi” rinvenuto in diverse tombe datate al XIX secolo a.C. e che si diffuse rapidamente fino al Mar Caspio.

Il gioco del cane e dello sciacallo

Il nome “gioco del cane e dello sciacallo”, coniato da Howard Carter, identifica un gioco da tavolo composto da una tavola che ospita due serie di 29 buchi nei quali vengono inseriti 10 pezzi, 5 dotati di testa di sciacallo e 5 decorati con una testa di cane.

Anche se le regole di “58 buchi” non sono giunte fino a noi, lo scopo era probabilmente quello di arrivare all’estremità del piano di gioco con tutti i 5 pezzi prima che l’avversario potesse fare lo stesso.

Per compiere la loro mossa, i giocatori usavano probabilmente dadi o bastoncini da lancio, ma fino ad ora non è stato rinvenuto alcun oggetto di questo tipo in prossimità di tutte le versioni di “58 buchi” scoperte finora.

Caverne del Gobusta National Park
Caverne del Gobustan National Park

Il gioco sembra essere nato circa 4.000 anni fa in Egitto e ottenne grande popolarità anche in Mesopotamia e nel Caucaso. Di recente Walter Crist, un archeologo dell’ American Museum of Natural History di New York, è convinto di aver trovato una delle più antiche versioni di questo gioco sulla pavimentazione rocciosa di un antico rifugio in Azerbaijan.

La diffusione di “58 buchi”

La versione de “il cane e lo sciacallo” trovata in Azerbaijan potrebbe essere ancora più antica di quelle scoperte all’interno delle tombe di Tebe. Circa 4.000 anni fa, alcuni pastori azeri scolpirono nella roccia due serie di 29 buchi poco prima che in Egitto il gioco iniziasse a godere di grande popolarità.

“I pastori dell’ Età del Bronzo devono aver avuto contatti con il mondo mediorientale. Improvvisamente il gioco appare ovunque nello stesso momento” spiega Crist. “Ad oggi, il più antico viene dall’Egitto, ma non è molto più antico di quello azero. Sembra essersi diffuso molto rapidamente. I giochi dell’antichità spesso venivano trasmessi tra culture diverse e agivano da lubrificante sociale”.

Gioco del cane e dello sciacallo, o 58 buchi, nelle caverne del Gobusta National Park
Gioco del cane e dello sciacallo, o 58 buchi, nelle caverne del Gobustan National Park

Il gioco del cane e dello sciacallo scolpito nella roccia è stato scoperto nel Gobustan National Park, un sito UNESCO nelle regioni meridionali dell’Azerbaijan. I buchi sono stati scavati seguendo lo schema del gioco da tavolo: “Non ho dubbi che si tratti del cane e dello sciacallo. E’ stato giocato per circa 1500 anni e molto regolarmente”.

“Ci sono due file al centro e buchi che formano un arco ai fianchi, e sono segnati in modo particolare il 5°, il 10°, il 15° e il 20° buco” afferma Crist. “E il buco in cima è sempre più grande rispetto agli altri, si pensa che fosse il punto d’arrivo del gioco”.

Gioco per faraoni e gente comune
piano di gioco del cane e dello sciacallo
Piano di gioco del cane e dello sciacallo

Il gioco del cane e dello sciacallo ottenne grande popolarità in Egitto, come testimonia il ritrovamento effettuato da Carter nella tomba dell’ufficiale Reniseneb a Tebe: un tavolo di gioco lungo 15 centimetri e largo circa 10, risale al regno del faraone Amenemhat IV, vissuto tra il 1814 e 1805 a.C.

Secondo le ricostruzioni degli archeologi, i giocatori partivano dal centro e si muovevano per raggiungere il foro più grande. Ad ogni mossa, i loro cani o sciacalli venivano influenzati dai collegamenti presenti tra i vari buchi e i geroglifici incisi sulla tavola di gioco.

gioco del cane e dello sciacallo, o 58 buchi

I collegamenti rappresentavano scorciatoie o penalità in grado di far avanzare o arretrare i pezzi di un giocatore. I buchi marcati con il geroglifico nefer (buono) erano probabilmente bonus; il buco finale era invece segnato con il simbolo chiamato shen, il geroglifico che rappresentava il concetto di eternità e di protezione.

A Bronze Age game called 58 holes was found chiseled into stone in Azerbaijan

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Le misteriose regole del gioco da tavolo romano di 1.600 anni fa https://www.vitantica.net/2018/01/19/le-misteriose-regole-gioco-da-tavolo-romano-1-600-anni-fa/ https://www.vitantica.net/2018/01/19/le-misteriose-regole-gioco-da-tavolo-romano-1-600-anni-fa/#comments Fri, 19 Jan 2018 02:00:51 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1276 Nel 2006 un team di archeologi ha scoperto in Slovacchia un antico gioco da tavolo risalente ad oltre 1.600 anni fa. In circa 12 anni di studi, nessuno è ancora riuscito a capire con certezza quali fossero le regole di questo antico passatempo, anche se è ormai assodato che si tratta di un gioco di strategia.

La storia (moderna) di questo gioco da tavolo inizia 18 anni fa: durante alcuni lavori di costruzione a Poprad, ai piedi dei Monti Tatra al confine tra Polonia e Slovacchia, gli operai scoprirono una tomba occupata da un letto di legno di tasso con decorazioni d’argento e un’infinità di oggetti preziosi o solitamente associabili ad uno status sociale elevato.

La tomba è stata datata al 375 d.C., qualche anno prima che Roma si ritirasse dalla regione nordoccidentale del Danubio a causa dei sempre più frequenti scontri con le popolazioni germaniche che vivevano in Slovacchia. L’ individuo all’interno della sepoltura sembra essere stato un adulto sulla trentina nato nella regione: è possibile che abbia avuto a che fare con l’apparato militare romano, ricoprendo probabilmente un rango di prestigio dato che sembra essere stato un membro della nobiltà locale.

Una delle ipotesi è che questa persona fosse il capo di un gruppo di foederati, popoli non romani legati all’Impero da un trattato d’alleanza (foedus). I popoli foederati avevano l’obbligo di inviare a Roma quando necessario soldi, truppe o merce di varia natura.

La presenza di artefatti preziosi e di un gioco da tavolo (con pedine in vetro) nella tomba rafforzerebbero l’ipotesi di un individuo di nobili origini. La tavola sembra essere stata realizzata con cura artistica, ma non è ancora stato determinato per quale gioco fosse impiegata: è divisa in caselle secondo uno schema simile a quello degli scacchi moderni e vicino ad essa sono stati ritrovati pezzi di vetro di origine siriana verdi e bianchi che probabilmente venivano utilizzati come pedine.

“C’erano moltissimi giochi da tavolo in antichità, con molte varianti, ma ricostruire la tecnica di gioco è un procedimento molto complicato che solo i massimi esperti possono scoprire” spiega Karol Pieta, vice direttore dell’ Istituto Archeologico di Nitra e a capo del team di archeologi che segue gli scavi a Poprad.

“In Europa non è mai stato scoperto un gioco da tavolo di questo tipo” continua Pieta riferendosi al fatto che superfici da gioco con la stessa configurazione si possono trovare nei templi greci o romani, ma fino ad ora si è sempre trattato di pavimenti di pietra scolpita e non tavolette di legno portatili.

Ricostruzione del Ludus latrunculorum al Museum Quintana of Archaeology di Künzing, Germania
Ricostruzione del Ludus latrunculorum al Museum Quintana of Archaeology di Künzing, Germania

Pieta ha quindi chiesto il parere di un esperto: Ulrich Schädler, direttore dello Swiss Museum of Games. “Il gioco da tavolo della tomba del principe germanico a Poprad è una scoperta grandiosa e un contributo alla storia dei giochi in Europa” afferma Schädler. E continua: “E’ la tavola da gioco in legno meglio conservata mai scoperta a Nord del Mediterraneo. Unita ai pezzi da gioco in vetro di origine siriana, era probabilmente un oggetto di prestigio”.

Una delle ipotesi è che questa tavola da gioco fosse utilizzata per il Ludus latrunculorum (“Il gioco dei briganti”), un gioco di strategia da tavolo le cui regole derivavano probabilmente dalla strategia militare greca e romana. La scacchiera del Ludus latrunculorum era composta da 7×8, 8×8 o 9×10 caselle, ma a causa dell’assenza di sufficienti fonti storiche è difficile stabilire quali potessero essere le regole e il movimento dei pezzi, e in epoca imperiale esistevano forse svariate versioni dello stesso gioco.

Researchers Are Trying to Figure Out How to Play This Ancient Roman Board Game

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